Sono parole piene di entusiasmo, come entusiasmante si rivela la sua nuova vita: partecipa agli incontri surrealisti, che lo accolgono come il padre spirituale del movimento e pubblicano le sue opere all’interno delle loro riviste, rinnova il rapporto con il suo gallerista storico, Paul Guillaume, e stipula un contratto anche con un altro grande mercante, Léonce Rosenberg, titolare de L’Effort moderne, che nel maggio 1925 gli allestisce una personale dove sono esposte le sue opere recenti, che risentono dell’entusiasmo ritrovato nella capitale francese. La pittura si fa più fluida, spesso basata sulla contrapposizione fra finito e non finito: nuovi miti si affacciano nelle sue tele, i manichini riempiono i propri ventri di oggetti trovati e giocattoli, cavalli corrono su spiagge deserte, abitate solamente dalle vestigia di un’antichità ormai in rovina; scrive a proposito di queste opere Paolo Baldacci: “Qualcosa unisce e divide questa pittura da quella metafisica. I primi che la videro notarono subito l’aspetto “solare” quasi gaio e apollineo. […] non vi è più terrore né incubo, come in certi quadri metafisici, ma semmai una serena malinconia, testimone di una complessità raggiunta e di una sfatata consapevolezza” (P. Baldacci, in Giorgio de Chirico. Parigi 1924-29, Milano, 1982, p. 73). La moglie del filosofo, probabile pendant del Filosofo, 1925 (Tel Aviv Museum), derivato nell’iconografia dal San Paolo di Masaccio, riunisce in sé molte delle suggestioni maturate da de Chirico in questi anni. La figura di donna, severa e maestosa come una Santa rinascimentale, forse eco delle figure femminili di Piero della Francesca, e specificamente della Santa Maria Maddalena del Duomo di Arezzo, si staglia su un fondo azzurro lasciato volutamente non finito, in dialogo con la tela grezza della parte superiore; dal suo ventre fuoriescono variopinti giocattoli geometrici che esplodono in un cromatismo acceso. Gli anni di meditazione e di studio passati in Italia si fondono con un’esplosiva vitalità creatrice, che escogita incessantemente nuove invenzioni e nuovi miti, sicuramente anche debitori della pittura francese contemporanea, primo su tutti il Picasso del periodo classico. E parte di questa rinnovata mitologia dechirichiana sono anche gli Argonauti, gruppo serrato di nudi maschili che ancora non sono divenuti manichini o silhouettes, come in certe opere immediatamente successive. Ancora una volta la memoria classica – che richiama certi nudi efebici del Michelangelo giovane della Battaglia dei Centauri, colti però non in combattimento, ma in atteggiamento assorto e meditativo – si unisce all’atmosfera di sogno del paesaggio marino dal cielo terso, ma minacciato dalle nubi nere all’orizzonte, e la materia pittorica filamentosa, così come il soggetto, sembra un preludio alla monumentale serie dei Gladiatori che de Chirico realizzerà poco dopo per Rosenberg. Sono opere, queste, che non potevano incontrare il favore del gruppo surrealista, che le rifiuterà relegandole alla stregua di studi d’accademia e interpretandole come una sorta di rinnegamento dell’avanguardia da parte dell’artista da loro considerato come un faro che illuminava la strada da percorrere; nascerà fra de Chirico e i Surrealisti un’aspra polemica, e Raymond Queneau arriverà a definirlo “un pittore che da dieci anni non fa che trascinarsi nei musei italiani leccando la polvere dei vecchi quadri”. In realtà Giorgio de Chirico continuava, e continuerà per tutta la sua vita, a mettere in scena i suoi sogni sulle tele, ma con un nuovo stato d’animo, ormai pacificato, lo stesso che si ritrova nelle pagine finali di Ebdomero, il romanzo, capolavoro della letteratura surrealista, che il pittore dà alle stampe nel 1929: “Ma ecco, ora anche lui si sentiva più tranquillo. Sognava ancora, sì, seguiva ancora le sue folli chimere, ma in un modo più normale, da dilettante, senza frenesie, senza crisi di pianto, senza decisioni insensate e falsamente eroiche. Egli aveva fatto qualcosa. […] Allora capì che sarebbe stato logico da parte sua chiudere alla fine di quella stessa giornata il suo ciclo metafisico. […] Egli capì che quanto aspettava non era la felicità, così come la intendono gli uomini […]. Egli sentì che questa volta si trattava meno di felicità che di sicurezza; era un sentimento di sicurezza che stava per invaderlo ed egli si preparava a riceverlo degnamente, con raccoglimento, come il credente si prepara a ricevere in sé, sotto forma di ostia o in altro modo, il Dio in cui egli crede”. Giorgio de Chirico, Gli Argonauti, pubblicato sulla rivista Il Selvaggio di Mino Maccari, febbraio 1931