Sanita e salute nel 150mo dell'Unità di'Italia

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Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive

Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive Farmafactoring partecipa alle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia con questa pubblicazione che intende ripercorrere la nascita, le vicende e lo sviluppo del sistema sanitario nel corso della recente storia unitaria nazionale.


Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive


Chi negli ultimi mesi ha percorso e ripercorso i 150 anni di Unità d’Italia è rimasto colpito in maniera significativa dal fatto che la dimensione sanitaria sia stata fra le più lente, forse la più lenta, ad assumere una dimensione nazionale e a chiamare in causa la responsabilità statuale. In fondo il Servizio Sanitario Nazionale nasce nel 1978, centoventi anni dopo l’unificazione; un ritardo enorme se si pensa che fra il 1860 ed il 1865 era stato compiuto uno sforzo significativo per garantire agli italiani l’innervatura pubblica del loro stare insieme: senza riandare agli esempi sempre citati del primato della scuola pubblica (“per fare gli italiani”) e del servizio postale (una cassetta rossa in ogni comune perché gli italiani potessero comunicare fra loro), si può e si deve ricordare che nei primi cinque anni di unità furono unificate le dogane, il servizio del demanio, la rete delle prefetture e degli enti locali, il codice penale, la struttura e il funzionamento delle case di pena, la rete delle sedi giudiziarie, la leva militare obbligatoria, il sistema dei Buoni del Tesoro (con il connesso “Gran Libro del Debito Pubblico”). In aggiunta, ma non meno significativa, ci fu la regolamentazione unitaria del giuoco del Lotto, delle privative di sale e tabacchi, del censimento della popolazione, del sistema delle Camere di Commercio. Un lavoro impressionante, fatto in meno di cinque anni, “il lavoro che ha strutturato l’Italia”, dopo la faticosa unificazione politica. Da tale lavoro strutturale la dimensione sanitaria è rimasta a lungo esclusa, come fosse un tema estraneo al lavoro di coesione sociale unificante. Dobbiamo aspettare il periodo fascista, con la sua intensa politica di welfare, per arrivare alla Cassa mutua nazionale e all’Assicurazione sanitaria nazionale, oltre che ad una serie di istituti statali e parastatali a forte dimensione sanitaria (l’Onmi e l’Enali, ad esempio). Nei 60 anni precedenti, come si vede dalla tavola 1 di questo volume, l’Italia non ha nemmeno l’ombra di una politica sanitaria nazionale: prevalgono povertà, carenze igieniche, attività caritatevoli, Opere pie soprattutto religiose. L’unica traccia, davvero indiretta, di attenzione del nuovo Stato al tema la si ritrova in un Regio Decreto del 1862, dove venivano approvati i regolamenti delle Facoltà di medicina, elencando minutamente le materie di insegnamento e di esame.

Si ringraziano Carla Collicelli, Francesco Maietta e Maria Grazia Viola del Censis per la collaborazione “La presente opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla normativa sui diritti d’autore. È pertanto vietata e sanzionata la riproduzione, anche parziale, in ogni modo e forma.” Design: www.ideogramma.it

C’è da domandarsi il perché di una tale rimozione del tema sanitario nella strutturazione del nuovo Stato. E la risposta sta probabilmente nella considerazione che i governi risorgimentali avevano l’urgenza assoluta di costituire una salda armatura statuale, come condizione essenziale per procedere nello sviluppo economico e civile del Paese: per questo era più pressante l’esigenza di fare gli apparati di giustizia, economici, di scuola, di controllo doganale e dei censimenti generali. Per quel che noi oggi chiamiamo il sociale c’era tempo. Diverso è il caso dell’economia, dove gli interventi (come hanno illustrato recentemente Sabino Cassese e Giorgio Napolitano) e l’opera legislativa furono intensi e tesi alla creazione di


un mercato paragonabile alle altre nazioni europee (sistemi monetari, zecca, imposta fondiaria e sugli immobili, ricchezza nobile, sistema degli appalti e lavori pubblici); un’opera legislativa “liberale” e che confidava nel funzionamento dei mercati. Non a caso la più grande struttura statuale, fuori del mercato, cioè la Banca d’Italia, fu istituita solo nel 1893. Il sociale quindi, e con esso il sanitario, non erano settori prioritari per i governi risorgimentali, tutti centrati sul fare lo Stato e creare il mercato. Sociale e sanitario potevano esser messi in secondo piano, lasciandoli alla benevolenza delle opere caritatevoli e di beneficienza privata, implicitamente delegate alla bisogna ma non riconosciute come soggetti importanti per la costruzione di una coesione sociale unitaria. Anzi, se si dà retta ad una legge del 1864, furono abolite le corporazioni privilegiate d’arti e mestieri, indicate espressamente come “università, unioni, associazioni, ecc.” Il nostro attuale “terzo settore” non sarebbe stato amato nella seconda metà dell’Ottocento. Sarebbe arrivato il Fascismo a rendersi parzialmente responsabile (con l’assicurazione obbligatoria) del soddisfacimento di un bisogno di base come quello sanitario, ma il grosso del passaggio ad una piena responsabilizzazione pubblica l’abbiamo avuto nel dopoguerra, specialmente dagli anni ‘60 in poi (vedi la tavola 2 del presente testo). L’esplosione, la saturazione e la fine delle Mutue hanno condotto ad una concentrazione strutturale dell’offerta sanitaria, con il relativo Servizio Nazionale, ma questo passaggio (forse perché avvenuto a più di cento anni di distanza) non è paragonabile alle tante operazioni unificanti e statalizzanti del quinquennio 1860-65, giacché esso è apparso in connessione con una realtà sanitaria molto ricca ed articolata, con un peso sempre più consistente della presenza dei privati, delle Regioni e degli enti locali, del ruolo dell’industria farmaceutica, dello stesso protagonismo dei pazienti, e della crescita esponenziale delle specializzazioni mediche. In fondo il Servizio Sanitario Nazionale non è assimilabile al servizio delle dogane o del demanio, è qualcosa di molto più complesso, in quanto non è pura emanazione di volontà statuale ma è una componente (essenziale e costosa senza dubbio, ma pur sempre una componente) di un complesso sistema (pubblico e privato, individuale e collettivo, ad alta tecnologia e ad alta soggettività) di copertura del bisogno sanitario. Forse è arrivato per ultimo ad essere “nazionale”, ma non c’è dubbio che ci è arrivato con più ricchezza di componenti. Giuseppe De Rita

Indice Sanità e salute nella storia nazionale

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Dall’Unità d’Italia all’avvento del Fascismo

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Il ventennio fascista

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Dal secondo dopoguerra alla istituzione del Servizio sanitario nazionale 1. Dall’immediato dopoguerra al miracolo economico 2. Verso la Riforma: gli anni del centro-sinistra 3. Il dibattito sulla Riforma sanitaria fino all’istituzione del Servizio sanitario nazionale

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Il Servizio sanitario nazionale fino ai giorni nostri

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Sanità e salute nella storia nazionale? Sin dalle origini del welfare italiano, la sanità si è caratterizzata come un comparto decisivo, in linea con l’importanza che la tutela della salute e la cura dalle malattie hanno acquisito nella costruzione del benessere individuale e collettivo.

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Le attività sanitarie, in Italia, sono nate nell’alveo della beneficienza in gran parte di ispirazione religiosa e si sono poi sviluppate nel mutualismo operaio e contadino organizzato dal socialismo riformista e dal cattolicesimo sociale. La sanità dell’era postunitaria era quindi fortemente intrecciata con l’azione assistenziale e assunse subito una serie di caratteri che sono rimasti nel tempo, addirittura sino alla grande riforma del 1978, quella che ha istituito il Servizio sanitario nazionale (Ssn). Già alla fine del XIX secolo, le mutue divennero i pilastri del sistema sanitario, seppure senza il carattere universalistico; con il Fascismo ne fu sancita la centralità anche normativa all’interno del sistema. Malgrado oggi sia evidente il carattere limitativo, ed anche discriminatorio, delle mutue nell’accesso alla sanità, va riconosciuto che fu sotto la loro egida che la cura divenne, per la prima volta nella storia, una opportunità di massa non più legata esclusivamente alla disponibilità di reddito e di patrimonio delle persone. Sarà a seguito dell’impetuoso sviluppo del secondo dopoguerra e del miracolo economico che si creeranno le basi materiali, economiche, ed anche politico-ideologiche, per il passaggio ad un Servizio sanitario universalistico, con la missione formale di garantire l’uguaglianza di accesso alle cure e alla tutela della salute per tutti i cittadini in modo gratuito. Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive

Alla fine del XIX secolo, le mutue divennero i pilastri del sistema sanitario, marcandone il carattere non universalistico.


Sanità e salute nella storia nazionale?

La sanità per tutti è quindi il portato di un lungo processo storico che riflette la più generale evoluzione socioeconomica e politico-istituzionale del nostro Paese, in cui la straordinaria mobilitazione imprenditoriale, nonché la corsa al benessere dei cittadini di ogni classe sociale e di ogni territorio, hanno potuto beneficiare del crescente sistema di protezione e sicurezza, di cui la tutela della salute è stata una componente fondamentale.

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Guardare a ritroso alla storia del sistema sanitario italiano, dalla primissima fase postunitaria ai giorni nostri, consente pertanto di leggere il processo inclusivo che ha accompagnato il passaggio dalla società contadina, povera, priva di igiene pubblica e privata e flagellata dalle malattie epidemiche, alla società industriale prima e postindustriale poi, del benessere diffuso e della conseguente epidemiologia da società affluente. Un sistema di protezione che ha ampliato i propri confini, come quota di persone incluse, sino a comprendere tutta la popolazione, e come tipologia di prestazioni garantite, da quelle in risposta alle minacce più gravi per la salute, a quelle della moderna cronicità. Al tempo stesso un sistema che sempre più deve confrontarsi con il difficile equilibrio tra dinamica della domanda e contenimento dell’offerta, a seguito della crescente inadeguatezza delle risorse disponibili. Dal punto di vista gestionale, l’analisi mostra come un tempo l’azione sociale, anche in ambito sanitario, fosse soprattutto una risposta dall’alto a spinte provenienti dal basso, attuata per attenuare le minacce rivolte all’ordine costituito dal movimento operaio e rivoluzionario, o semplicemente come esito dell’impulso impersonale al progressivo ampliamento dell’apparato burocratico amministrativo della macchina statuale o parastatuale. Con la moderna società dei comportamenti e con l’individualismo dispiegato anche nella dinamica sanitaria è diventata sempre più significativa la tendenza dei cittadini a cercare una copertura sempre maggiore, in parte anche integrando le risorse pubbliche con le proprie, alle patologie grandi e piccole percepite come minaccia alla salute. Un motore possente, questo, a tratti indomabile, che spinge la sanità come sistema verso una espansione potenzialmente incontrollata, che moltiplica le prestazioni e i costi e che diventa sempre più forte in parallelo con l’evoluzione demografica e la connessa transizione epidemiologica.

anche vincoli, difficili da negare, nel contemperare le aspettative di tutela e di cura della salute di cittadini consapevoli, informati e poco disposti a fare passi indietro su questo fronte, visto anche il lungo percorso fatto per arrivare agli attuali livelli di copertura. Tema questo che costituisce la trama della pagina ancora non scritta della storia della sanità in Italia. Non vi è dubbio comunque che il welfare è stato, nel tempo, una componente decisiva del modello di sviluppo italiano, che, nei suoi tratti peculiari, si è andata caratterizzando come affidabile alternativa ad altri più celebrati modelli e, soprattutto, funzionale ad uno sviluppo di massa, profondamente radicato nelle comunità e in grado di consentire il coinvolgimento di milioni di persone. Proprio alla luce della sua dinamica evolutiva di lunga durata, emerge però con evidente chiarezza che si è entrati oggi in una nuova fase della vicenda del Servizio sanitario, dove a guidare il processo è la duplice lama del dispiegamento del federalismo e del ripristino degli equilibri di budget in ogni regione e in ogni contesto del sistema. Nel presente testo le vicende della sanità sono state rilette nella loro evoluzione storica secondo una suddivisione in quattro fasi, sintetica, ma altamente indicativa: il periodo che va dall’Unità d’Italia all’avvento del Fascismo, il ventennio fascista, il secondo dopoguerra fino all’istituzione del Ssn, e l’implementazione di quest’ultimo ai giorni nostri (tav. 1). L’intera analisi è testimone della tendenza per cui, man mano che il paese si sviluppa, i bisogni sociali e sanitari si articolano e l’offerta diventa più densa, si assiste, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, ad una generale complessificazione dei fattori che contribuiscono a dare forma ai sistemi della salute ed a quello sanitario ampiamente intesi (tav. 2). È evidente che la complessità dei processi economico-sociali, politicoistituzionali, culturali e quella degli stili di vita, non consente letture unilaterali, nè una rigorosa distinzione cronologica; la sovrapposizione temporale di fenomeni per loro natura strutturali e di lunga durata è naturale e inevitabile e, tuttavia, la rilettura storica offre elementi di conoscenza utili e importanti per capire come la sanità sia stata, e continui ad essere, una componente decisiva del benessere e anche del senso di appartenenza alla comunità nazionale.

Tuttavia la corsa ad una copertura sanitaria sempre più ampia, resa più efficace dalle innovazioni mediche e farmacologiche, incontra

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Il welfare è stato, nel tempo, una componente decisiva del modello di sviluppo italiano, e nei suoi tratti peculiari si è andata caratterizzando come affidabile ed alternativa ad altri più celebrati modelli.


Sanità e salute nella storia nazionale?

Tav. 1 - Welfare e Sanità dall’Unità d’Italia ai giorni nostri Definizione

Anni di riferimento

Principali caratteristiche

1. Fase di gestazione di sanità e welfare

1860 - 1922

> Prevalgono povertà estrema, carenze igieniche, malattie infettive

Definizione

Anni di riferimento

> Si impenna la spesa sanitaria anche per l’inefficienza e gli sprechi delle mutue, che accumulano un enorme debito

> Beneficienza e attività caritatevoli sono la protezione sociale dei meno abbienti

> Si sviluppa l’offerta sanitaria, dai medici delle mutue ai posti letto ospedalieri

> Essenziale il ruolo di enti morali e opere pie, soprattutto religiose

> Cresce la critica sociale e di opinione pubblica all’accesso non universalistico alla sanità

> Nascono le mutue volontarie, pilastro dell’accesso e del finanziamento della sanità, che vengono anche risconosciute dalla legge

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> Si forma nel tempo consenso sociale, sindacale e politico verso una riforma per un Servizio sanitario gratuito e per tutti, istituito nel 1979 con la Legge 833/1978

> Comincia a strutturarsi l’offerta sanitaria con medici e ospedali 2. Istituzionalizzazione del welfare statuale categoriale, non universalistico

1923 - 1945

> Le mutue finiscono sotto il controllo dello stato fascista, nasce la casa mutua nazionale > Viene imposta l’assicurazione sanitaria obbligatoria per i lavoratori, comprensiva anche del contributo datoriale > Si moltiplicano gli istituti statali e parastatali di tutela sociale per categorie e gruppi sociali specifici > Decolla il numero di assistiti dalle mutue > Investimenti con impatti anche sulla salute pubblica (ad es. il piano di bonifiche)

3. Continuità e potenziamento del welfare categoriale, autonomia istituzionale della sanità

1946 - 1979

> Nasce il Ministero della Sanità che concentra le competenze su salute e sanità sino ad allora disperse > Le mutue dispiegano la loro azione fino a coprire dai 16,5 milioni del 1951 agli oltre 49 milioni del 1971

Principali caratteristiche

4. Le diverse fasi della sanità universalistica: alla ricerca di nuovi equilibri tra domanda di salute e risorse pubbliche disponibili

1980 - 2011

> Sono implementati gli assetti istituzionali, organizzativi e operativi sui territori della sanità universalista > Si applica la copertura sanitaria pubblica a tutti i cittadini senza discriminazione alcuna > Si evolvono modelli e comportamenti sanitari secondo una cultura della salute, attenta sempre più al benessere psico-fisico > La spesa pubblica per la sanità cresce e il suo finanziamento pone il problema del controllo dei fattori di spesa > Muta il Ssn in un assetto regionalista e con l’aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali (Usl) > Sono attivati i Piani di rientro nelle Regioni con spesa fuori controllo, diventa cruciale l’equilibrio tra aspettative di salute dei cittadini, conformazione dell’offerta e risorse disponibili

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Sanità e salute nella storia nazionale?

Tav. 2 - Domanda e offerta di sanità: le tappe evolutive più recenti, 1960-2011 Periodo

Caratteristiche della Sanità

Anni ‘60 La sanità delle mutue

> Spinta ad ampliare tutelati e tutele nel sitema mutualistico > Primo boom della spesa sanitaria delle mutue > Pochi ospedali, medici in crescita

Anni ‘70 Arriva il Ssn

> Saturazione del numero di tutelati (95% nel 1976), fine delle mutue

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> Pieno potere medico, paziente subordinato 12

> Avvento del Ssn, copertura universale, nuove regole (ticket, prontuario terapeutico nazionale, ecc.) Anni ‘80 Cresce la cultura della salute

> Mutuazione genetica della domanda: dalla cultura della malattia a quella della salute > Medico “confessore” che deve ascoltare, dialogare, a volte accettare indicazioni del paziente > Decollano autocura e automedicazione, soprattutto dei farmaci

Anni ‘90 Tra stili di vita salutari e crisi del Ssn

> Responsabilizzazione individuale nella tutela della salute: stili di vita salutari, prevenzione sanitaria e investimento privato > Crisi e mutamento del Ssn, nuove forme di sanità aziendale, scandali e mala sanità > Centralità dei costi nel contratto della sanità

Anni 2000 Cercando nuove tutele nella devolution sanitaria

> Concezione essenziale di salute: essere attivi e/o assenza di malattie > Diaspora regionale del Ssn > Problemi del finanziamento della spesa sanitaria regionalizzata > Ricerca di una composizione dell’offerta più adeguata alla nuova domanda di salute

All’indomani della proclamazione dell’Unità, l’Italia era un Paese dalle profonde diversità territoriali, accomunato però da una fondamentale predominanza del mondo agricolo e contadino, da una diffusa povertà, da elevato analfabetismo, da radicata presenza di patologie infettive alimentata dalla scarsa igiene pubblica e privata. Un Paese dagli ampi tratti premoderni, con uno Stato liberale espressione dei ceti più abbienti, ideologicamente avverso a forme di intervento nel sociale, soprattutto a sostegno delle condizioni di vita dei meno abbienti. È questo il contesto sociale e ideologico in cui si pone l’esigenza di identificare forme di organizzazione delle politiche sociali e sanitarie adeguate alle caratteristiche e ai problemi del neonato territorio unitario. Sociale e sanitario erano caratterizzati dalla presenza di una pluralità di enti e istituti, pubblici e soprattutto privati, con finalità e modalità di intervento diversificate: si andava dalle strutture sanitarie che svolgevano attività di tipo religioso-caritativo, alle Opere pie a vocazione ospedaliera o socio-sanitaria (precedentemente enti religiosi poi espropriati o laicizzati), alle strutture pubbliche statali per l’igiene pubblica e la medicina preventiva, sino agli Enti comunali di assistenza economica e sociale ai malati e agli inabili poveri (Eca). Nei fatti, la sanità era appannaggio delle persone con sufficienti risorse proprie per potersela pagare. Ai poveri, che erano la grande maggioranza dei cittadini, non restavano che le residuali opportunità legate alla beneficienza.

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È con la “Gran legge” del 1862 che si ha il primo vero intervento dello Stato liberale nelle politiche sociali e, nello specifico, in ambito sanitario. Quasi paradossalmente, tale normativa sancì il disimpegno di fatto dello Stato rispetto al sociale, riconoscendo la delega e la piena autonomia agli istituti di carità e di beneficenza cattolici controllati direttamente o indirettamente dalla Chiesa. Con la stessa legge vennero inoltre istituite in ogni comune le Congregazioni, con il compito di occuparsi dell’amministrazione dei beni destinati all’erogazione dei sussidi e altri benefici per i poveri. Questo primo intervento normativo postunitario conferisce il tono dominante al rapporto tra uno Stato, che ideologicamente voleva tenersi lontano dalle vicende sociali, ed un sociale, nel quale dominava l’impegno caritatevole e di beneficienza d’ispirazione religiosa. 14

Eppure la tutela della salute pubblica rappresentava un’urgenza in quel periodo, vista la gravità delle condizioni igieniche e le conseguenti ricorrenti epidemie. Infatti, dall’inchiesta sulle condizioni igieniche nei Comuni realizzata nel 1885 emergeva che, ad esempio, su 8.258 comuni, oltre 6.000 erano privi di fognatura e in ben 1.286 si segnalavano abitazioni prive di servizi igienici. Passaggio normativo cruciale in quest’epoca per il settore sanitario fu la Riforma del 1888 (legge n. 301), che unificava le normative sulla sanità, configurando un nuovo sistema sanitario, in cui il Ministero dell’Interno (presso il quale venne creata una Direzione Sanitaria) diventa organo decisionale centrale, che esercita, direttamente o indirettamente tramite i Prefetti, le responsabilità sulle azioni di tutela alla salute; il Ministero dell’Interno era anche il terminale delle informazioni sullo stato sanitario della popolazione provenienti dai livelli periferici tramite i medici provinciali. Era invece il Sindaco, affiancato da un Assessore, la massima autorità sanitaria locale, e svolgeva i suoi compiti coadiuvato dall’Ufficiale sanitario (un tecnico) e dal Medico Condotto, un dipendente comunale con il compito di garantire l’assistenza medica gratuita ai bisognosi iscritti alle liste degli indigenti. Sempre in relazione alle iniziative legislative significative per il sociale e il sanitario, nel 1890 il Governo della sinistra storica, presieduto da Francesco Crispi, promulga la legge sulle “Istituzioni pubbliche di beneficenza”, definendo come tali le Opere Pie e gli Enti morali che prestavano assistenza ai poveri in ambito sanitario, nell’educazione, nell’istruzione, nell’avviamento professionale e lavorativo e nelle attività di assistenza economica e morale.

Si trattava di circa 23.000 Opere (di cui 1.222 ospedali e 917 orfanotrofi), fortemente eterogenee per finalità, entità, patrimoni e distribuzione territoriale, tuttavia meno presenti nelle zone con i più alti tassi di povertà. Tra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, molti medici prestavano la loro attività nelle Opere Pie non ospedaliere, in particolare per la tutela degli oltre 130.000 fanciulli assistiti nei brefotrofi, una situazione che si aggravò al termine della Prima Guerra Mondiale per la presenza di centinaia di migliaia di orfani dei caduti. Le Opere Pie svolgevano un’intensa attività anche a favore degli adulti, supportando centinaia di migliaia di reduci invalidi. Fu poi il Governo presieduto da Giolitti a promulgare il R.D. 30 dicembre 1923, n. 2841, che riconobbe le Opere come “Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza”, formalizzandone la funzione di pubblica utilità. Furono fissati anche una serie di obblighi per gli ospedali facendo in modo di tutelarne la sopravvivenza finanziaria. Infatti, oltre alle persone coperte dalle mutue e ai poveri iscritti nelle liste degli indigenti, la cui assistenza e cura era a carico del comune di residenza, negli altri casi era fatto obbligo di cura dei poveri esclusivamente a secondo della disponibilità. Si imponeva così una concezione limitata della copertura sanitaria in linea con i principi di un sistema di welfare non universalistico, che tuttavia in questa fase comincia già a trovare nella logica della mutualità volontaria la sua filosofia prevalente. Era questo il cuore del primo welfare, in linea con la socialità molto cauta del liberalismo delle classi dirigenti. Più in generale, il periodo postunitario fu anche segnato dal progresso delle specializzazioni mediche e dall’espansione delle tecnologie diagnostiche, ed anche gli anni successivi alla riforma e gli inizi del ‘900 (l’epoca giolittiana) sono caratterizzati da profondi cambiamenti quali, ad esempio: > il netto aumento del numero dei medici, passati da 18.947 nel 1861 a 23.361 nel 1911; > la contrazione, tra gli anni “post unità” e i primi anni del ‘900 della mortalità, dal 30% al 20%; > l’incremento della speranza di vita da 35 anni nel 1882 a 43 anni nel 1901.

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prestazioni minime rivolte, quasi esclusivamente ai più poveri, e che allora costituì un notevole salto in avanti sul piano sociale.

Mutava quindi il contesto sociale ed epidemiologico, e nel contempo si andava modificando la struttura fisica e organizzativa degli ospedali. Le strutture sanitarie, da ospizi per i poveri e i malati cronici, luoghi di isolamento e di emarginazione del malato, divennero strutture di ricovero dove ricevere cure secondo le nuove tecniche terapeutiche.

Nasce così un welfare con un’impronta di tipo “particolaristico-assistenziale”, con venature di iniquità e maglie di disfunzione, e un’interna disomogeneità. Tuttavia, come rilevato, malgrado questi vizi iniziali di cui sarà molto difficile liberarsi in seguito, non si può non vedere il valore per il nostro Paese del suo primo, lento, decollo. Un altro fondamentale criterio generale sul quale il sistema si andava strutturando era la centralità del lavoro dipendente come canale per l’accesso alla protezione sociale e sanitaria.

Tra il 1885 e il 1914 vennero costruiti, soprattutto nelle zone più interessate allo sviluppo industriale, nuovi ospedali; crebbe il numero dei posti letto, che passarono da quasi 54 mila a quasi 86 mila, mentre il numero di malati curati all’anno negli ospedali a livello nazionale tra il 1885 e il 1907 passò da 345.516 a 503.350 (+50%).

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Il periodo giolittiano, che marca il primo Novecento fino quasi alla Prima guerra mondiale, finisce per non andare oltre la filosofia e i criteri che connotano la fase iniziale dello stato postunitario: infatti, gran parte degli interventi di tale periodo hanno come finalità primaria non tanto la tutela della cittadinanza, quanto quella del territorio e della nazione.

Questi rilevanti mutamenti vanno inquadrati in una più generale evoluzione dello Stato liberale e del suo rapporto con la società, nella quale andavano organizzandosi le componenti operaie e del lavoro salariato, con la formazione di organismi sindacali e politici di rappresentanza, nonché con organismi cooperativi e mutualistici. Infatti, lo Stato liberale, per sua intima natura votato alla tutela degli interessi di quote ridotte di popolazione definite tramite, ad esempio, i criteri censuari di accesso ai diritti politici, venne costretto ad ampliare la propria azione sociale proprio dalla pressione del movimento operaio e delle sue forme organizzate. In concreto lo Stato favorì, con una apposita normativa del 1898 (la Legge n. 80), la mutualità volontaria, e istituì la Cassa Nazionale di Previdenza, con il ruolo di gestire l’assicurazione generale obbligatoria, con uno schema pubblico a favore della vecchiaia e dell’invalidità (quest’ultimo reso obbligatorio per i lavoratori dipendenti e per i salariati dell’industria nel 1919). Si trattava di scelte legislative che, ovviamente, non scardinavano l’assetto ideologico e sociale liberale, che non concepiva un sistema di politiche sociali, espressione del diritto-dovere dello Stato di farsi carico dei bisogni della popolazione, e tuttavia si ispiravano di fatto al modello bismarchiano di riformismo dall’alto, che voleva prevenire gli impatti della crescente forza organizzativa del movimento operaio, alleviando la povertà e i suoi correlati nella popolazione. È proprio ispirandosi a questa filosofia sociopolitica che i provvedimenti presi giungono a delineare i contorni di un modello di welfare, che con gli occhi di oggi definiremmo residuale, ristretto cioè a

Lo Stato liberale, per sua intima natura votato alla tutela degli interessi di quote ridotte di popolazione, venne costretto ad ampliare la propria azione sociale proprio dalla pressione del movimento operaio e delle sue forme organizzate.

Ne sono esempio quel vasto corpus di interventi che avrebbe potuto costituire il nucleo hard della politica sociale dell’epoca, e che include la legislazione sulla malaria del 1907, l’istituzione dell’Ordine dei medici nel 1910, le norme che regolano l’occupazione delle donne e dei fanciulli, la nascita della Cassa Nazionale della Maternità e i regolamenti sulla prostituzione; tutte misure normative e regolatorie che, invece di contribuire ad un sistema definito e moderno di protezione sociale, finirono per essere inquadrati come tasselli del più generico e aleatorio contesto dell’ordine pubblico. In estrema sintesi, l’arco di tempo che va dall’Unità d’Italia al primo dopoguerra, fino all’avvento del Fascismo, è caratterizzato da una lenta evoluzione delle relazioni con il sociale dello Stato liberale postunitario; si va, infatti, da una evidente ritrosia all’intervento, ad una progressiva egemonia di forme di riformismo dall’alto, in risposta alla crescente pressione delle tante forme di organizzazione del movimento operaio, con la creazione dei primi istituti di tutela e copertura, rigorosamente non universalistici. Pertanto, l’Italia postunitaria: > si incammina, come altri Stati europei, verso un sistema di welfare centrato sull’azione statuale, per effetto della lenta evoluzione rispetto alla visione liberale classica di uno Stato minimo, garante della proprietà e dell’ordine; > non riesce ad andare oltre il semplice stato nascente del sistema di welfare, e tuttavia già in quello stadio compaiono quasi prematuramente una serie di ambiguità strutturali che rimarranno nel tempo;

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Dall’Unità d’Italia all’avvento del Fascismo

> il riformismo dall’alto, che ispira questa fase iniziale del welfare, non riesce comunque a reggere l’urto della crescente conflittualità sociale legata all’emergere di un movimento operaio ampio e organizzato e alla conseguente reazione del Fascismo.

L’evoluzione del sistema di welfare in Italia, inclusa la sanità, mostra come le fasi segnate dai vari regimi politici siano state costantemente connotate da sovrapposizioni e doppie velocità, a riprova dell’assenza di un progetto unico, organico e coordinato.

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Tab. 1 - Lo sviluppo delle strutture ospedaliere e dei posti letto dal 1885 al 1914 (v.a.)

Letti (numero)

Ospedali (numero)

Nord ovest Nord est Centro Sud Totale

Il ventennio fascista

Letti/ospedali (numero letti per ospedale)

1885

1914

1885

1914

1885

1914

368 170 345 309

474 200 364 338

20.378 10.550 15.935 7.074

31.442 20.214 22.450 11.642

55 62 46 23

66 101 62 34

1.192

1.376

53.937

85.748

45

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Fonte: Direzione generale della Statistica, Risultati dell’inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie dei comuni del regno, Roma, 1886, vol. III, pp. 136-8 e tav. 55, pp. 178 ss., Levanti E., La spedalità italiana nel 1914, Milano, 1914

Ciò è vero non soltanto per i regimi pluralisti per interessi sociali e rappresentanze politiche (come lo Stato liberale o quello democratico), ma anche per quello fascista, la cui struttura totalitaria farebbe pensare ad una maggiore compattezza normativa e ad un’organicità di fini. In realtà, l’epoca fascista, dal punto di vista del welfare e del sociale, è segnata proprio da una evidente cesura tra l’iniziale rifiuto degli interventi legislativi liberali, che prendevano in carico, sia pure timidamente, alcuni grandi rischi per i lavoratori, ed una successiva scelta di espansione, sia pure rigidamente controllata, della tutela assistenzialistica. Il Fascismo, infatti, non potrà che adeguarsi a criteri di organizzazione sociale orientati ad un massiccio intervento dello Stato in economia e anche nel sociale, soprattutto dopo la crisi del 1929. È allora che matura una fase nuova della storia sociale del capitalismo che, sia pure con modalità diverse, marcherà tutti i regimi politici, Fascismo incluso. I principi privatistici e liberisti, che erano stati i cardini dell’originario programma economico del governo fascista, devono necessariamente lasciare spazio ad una nuova fase espansiva delle prestazioni sociali, in cui la guida del processo è interamente in mano allo Stato. In sostanza, la politica sociale diventa, per il Fascismo, una delle espressioni più significative del nascente corporativismo, puntello del patto tra capitale e lavoro, essenziale all’integrazione delle masse nella struttura di tipo postclassista della società nazionale.

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Il ventennio fascista

Se alcune delle scelte dello Stato liberale nella fase di prima gestazione del welfare italiano ne hanno segnato in modo indelebile gli aspetti strutturali, è con il Fascismo che si consolidano ulteriori aspetti che caratterizzeranno a lungo le patologie del sistema di welfare nostrano.

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Il primo aspetto è quello della moltiplicazione di provvedimenti e leggi ad hoc e di istituti previdenziali ed assistenziali per componenti specifiche di lavoratori o gruppi sociali, da un lato, e del lento modellarsi di una perversa spirale fatta di sovrapposizione di norme spesso incoerenti fra loro e differenziazione categoriale e corporativa delle spettanze, dall’altro. Tutti processi non pianificati, che sedimentano una giustapposizione di benefici che, di fatto, risulta funzionale alla disaggregazione delle forme di organizzazione dei lavoratori e, quindi, al governo del conflitto sociale, dando vita ad una estrema diversificazione del rapporto tra individui e strutture della protezione sociale, dentro una logica perversa, e tipica del regime totalitario e statolatrico, in cui le prestazioni sono una concessione dall’alto e non un diritto da esigere. Inoltre, la gestione del complesso sistema di prestazioni obbliga alla creazione di un’ampia e articolata macchina amministrativa addetta alla regolazione accentrata e burocratica dei trasferimenti da parte dello Stato. Pertanto, prestazioni come elargizioni dall’alto e non come diritti e crescente ipertrofia della macchina burocratico-amministrativa gestionale dello Stato si connotano come aspetti costitutivi del periodo fascista, che però finiranno per sopravvivergli nel secondo dopoguerra e oltre. I due aspetti citati sono infatti particolarmente funzionali al controllo sociale e alla creazione del consenso, e in questo senso continueranno ad esercitare funzioni analoghe anche oltre il regime totalitario, attraverso l’assistenzialismo clientelare tipico anche della fase democratica. È nel 1928 che viene introdotta l’Assicurazione sanitaria obbligatoria per i lavoratori, mentre le Casse mutue sono trasformate da strumento autonomo dei lavoratori a strumento parastatale sotto il controllo dell’amministrazione centrale, e dunque del regime fascista. L’esito di questi processi contraddittori, ma uniti dal filo rosso della costruzione del consenso al regime totalitario, è lo sviluppo progressivo di meccanismi clientelari, innescati dalla proliferazione di enti mutualistici di categoria, con i relativi apparati di gestione e di controllo, particolarmente adatti a strategie di subordinazione sociale e di costruzione del consenso.

Individui e famiglie non sono pertanto soggetti, ma piuttosto oggetti delle politiche sociali del welfare dell’epoca, pedine di una cultura particolastico-assistenziale, nella quale è l’autorità che tutto può concedere al cittadino-suddito. Malgrado le evidenti patologie del sistema, non si può comunque non ricordare che in epoca fascista si registra un ampliamento della sicurezza sociale, con l’estensione della copertura dai rischi ad una platea più ampia di lavoratori, ed anche alle loro famiglie. Nel Fascismo quindi il potenziamento del welfare state, in termini di persone e famiglie coperte, e lo sviluppo di alcuni dei vizi capitali del nostro sistema, vanno di pari passo. Esemplare, in quest’ottica, è il caso dei dipendenti pubblici, i quali, tramite una molteplicità di forme specifiche di assistenza e tutela, si ritrovano con una serie di piccoli e grandi privilegi che ne migliorano il benessere, ma che li rendono di fatto dipendenti dal potere statuale. In ambito sanitario sono da ricordare anche significativi interventi di contesto, relativi all’igiene pubblica e alla prevenzione e al contenimento delle patologie infettive di massa. Si pensi, ad esempio, alla legge n. 3131 di bonifica integrale, da cui prende corpo il progetto di bonifica di ampie aree del Paese, che porterà ad una forte riduzione della mortalità per malaria. Avviato nel 1923, avrebbe dovuto portare alla riutilizzazione della gran parte delle terre, favorendo i processi di ruralizzazione. Dati i lunghi tempi richiesti dalle attività di bonifica e la conseguente necessità di assorbire la disoccupazione e di aumentare la produzione agricola, venne privilegiata la bonifica delle pianure fertili della Val Padana rispetto a quelle del Meridione, contribuendo così al consolidamento di una diversità territoriale strutturale, che trova espressione anche nei dati epidemiologici. In ogni caso, con il Testo Unico del 1933 (n. 215) e il Testo Unico delle leggi sanitarie del 1934 (n. 1265) venne sancita l’obbligatorietà dei Comitati antimalarici istituiti nel 1929, e già nel 1935 iniziò la fase discendente della malattia, a testimonianza dell’efficacia degli interventi praticati. Nel 1927 venne adottato il provvedimento per combattere la tubercolosi. Mussolini soppresse il Comitato centrale antitubercolare e i comitati provinciali, prevedendo la formazione di Consorzi fra Comuni e Province, ossia i Consorzi Provinciali Antitubercolari, destinati da un lato ad occuparsi della lotta contro la malattia, garantendo l’assistenza ai malati, e dall’altro a tutelare le persone sane. Successivamente Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive

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Alcune delle scelte dello Stato liberale nella fase di prima gestazione del welfare italiano ne hanno segnato in modo indelebile gli aspetti strutturali. È con il Fascismo che si consolidano ulteriori aspetti che caratterizzeranno a lungo le patologie del sistema di welfare nostrano.


Il ventennio fascista

furono elargiti particolari contributi a favore dei tubercolosi da parte della Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali (Cnas). La sifilide era l’altra malattia infettiva maggiormente diffusa all’inizio del Novecento, che potè essere combattuta grazie alla scoperta di farmaci sempre più efficaci. L’azione più significativa in campo sanitario fu la già citata introduzione dell’obbligatorietà dell’assicurazione sanitaria nel 1928, attraverso un vincolo su tutti i contratti di lavoro all’interno delle corporazioni fasciste, alle quali partecipavano datori di lavoro e lavoratori.

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Quanto alle Casse mutue, che già all’inizio del Fascismo erano numerose, ebbero un’ulteriore espansione con l’emanazione della Carta del Lavoro. A tale proposito va detto che la scelta delle Casse mutue come formula organizzativa permetteva allo Stato di non assumersi responsabilità finanziarie dirette, rendendo ineludibile un’offerta sanitaria compatibile con le disponibiltià finanziarie rappresentate dai contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Nel 1929 si contavano 119 Casse nell’industria, 7 nell’agricoltura e 34 nel commercio; le Casse mutue comprendevano quelle di malattia, che garantivano prestazioni mediche anche ai familiari del lavoratore, e quelle previdenziali, che provvedevano con prestazioni economiche e assistenziali. Da strumento autonomo, le Casse vennero trasformate dal Fascismo in strumento parastatale sotto il controllo dell’amministrazione centrale e, nel 1934, venne anche istituita la Federazione Nazionale delle Casse mutue. Vennero poi istituiti i Consultori materni e l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (Onmi). L’Onmi si occupava delle donne bisognose durante la gravidanza e dopo il parto. Vi erano collegati una serie di servizi di assistenza destinati ai bambini, con particolare interesse per la maternità illegittima ed i figli abbandonati o nati fuori dalla famiglia. L’Onmi era articolata in Federazioni provinciali e in Comitati di patronato comunali, questi ultimi con il compito di realizzare gli interventi previsti, anche attraverso l’organizzazione di appositi ambulatori. La gestione della previdenza, in epoca fascista, era fondata su tre istituti: l’Inps per la tubercolosi, la vecchiaia, l’invalidità, la disoccupazione e gli assegni familiari; l’Inail per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; l’Inam per le malattie generiche e la maternità.

L’introduzione di istituti previdenziali e assistenziali autarchici avrà impatti positivi sull’espansione degli assistiti, sulle forme di tutela e sugli stessi investimenti dello Stato nelle politiche sociali. Durante il ventennio aumentò il numero degli ospedali (che vengono convertiti in Istituti Pubblici di Assistenza e beneficenza o Ipab), e nel 1936 si contano 1.474 ospedali con 153.577 posti letto in tutto il territorio nazionale, sia pure con forti differenze tra Nord e Sud (Fig. 1). Nel 1938, il regime fascista promulgò la legge sul sistema ospedaliero, Legge n. 1631, nota come Legge Petragnani, che definiva i criteri di identificazione dell’ente ospedaliero, e ne determinava la categoria di appartenenza, il funzionamento e la preparazione del personale tecnico-infermieristico. Tale legge definiva, inoltre, i ruoli dei medici, distinguendo le figure del direttore sanitario, del primario, dell’aiuto, dell’assistente e del personale di assistenza infermieristico e ausiliario; garantiva infine la stabilità di carriera ai primari e disciplinava i concorsi e i compensi. In generale, il ventennio fascista coincide con la prima diffusa affermazione nei Paesi più avanzati di forme di intervento dello Stato nell’economia e nel sociale in risposta alla crisi del 1929, e in netta discontinuità con lo Stato minimo liberale e l’economia di mercato di stampo liberista.

La protezione sociale italiana dispiega i suoi primi effetti di massa in una logica tipica dello Stato totalitario, dove la copertura sociale non è espressione dell’ampliamento dei diritti dei cittadini, oltre la sfera politica, in quella sociale, ma piuttosto uno strumento di costruzione del consenso dall’alto.

In tale contesto storico, la protezione sociale italiana dispiega i suoi primi effetti di massa in una logica tipica dello Stato totalitario, dove la copertura sociale non è espressione dell’ampliamento dei diritti dei cittadini, oltre la sfera politica, in quella sociale, ma piuttosto uno strumento di costruzione del consenso dall’alto, e per questo motivo frammentato e orientato ad una estrema diversificazione delle modalità di accesso, dell’entità e della dimensione delle prestazioni. Viene anche modellata un’offerta centrata sui grandi istituti statali e parastatali altamente burocratizzati, opachi, ipertrofici, gestori incontrollati di un welfare corporativo, settoriale, categoriale che, pur ampliando vistosamente il numero di assistiti rispetto al passato recente, taglia ancora fuori quote decisive di popolazione.

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Fig. 1 - Posti letto nelle diverse regioni italiane nel periodo fascista, per 100 abitanti 0 24

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Basilicata Calabria Abruzzo Molise Campania Sardegna Puglia Sicilia Umbria Marche Emilia Romagna Lazio Trentino Alto Adige Lombardia Friuli Venezia Giulia Piemonte Toscana Liguria

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Dal secondo dopoguerra alla istituzione del Servizio sanitario nazionale Dall’immediato dopoguerra al miracolo economico Dopo la II Guerra mondiale il quadro sociale del Paese è segnato dalle devastazioni degli eventi bellici, ma spiccano anche i molti elementi di continuità con le fasi precedenti, a cominciare dalla persistenza della povertà diffusa. Ancora nel 1953, la Commissione parlamentare di indagine sulla povertà in Italia descrisse con ampio corredo di dati e casi di studio come le condizioni di vita di fasce maggioritarie della popolazione fossero improntate ad una profonda deprivazione socioeconomica, con alimentazione inadeguata, abitazioni fatiscenti prive delle più elementari condizioni igieniche e sanitarie e, sul piano della salute dei cittadini, alta mortalità infantile e persistente diffusione di patologie infettive.

Fonte: G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Laterza, 2005

Sono queste le condizioni di vita prevalenti nelle campagne e, sia pure con forme e intensità diversa, anche nei centri urbani in cui sono presenti i nuclei industriali. Questo quadro che l’Italia si porta dietro dalla fase postunitaria e anche da prima è, nel giro di un paio di generazioni, destinato a mutare radicalmente. Tuttavia in quei primi anni postbellici è in esso che va inquadrato il contenuto della domanda e dell’offerta di salute pubblica e individuale. Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive

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Dal secondo dopoguerra alla istituzione del Servizio sanitario nazionale

Sul piano degli assetti istituzionali e organizzativi, il Sistema sanitario del secondo dopoguerra presenta elementi di profonda continuità con gli ordinamenti precedenti; infatti venne creato con il decreto 417 del 12 luglio 1945 del governo Parri, l’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità pubblica (Acisp), dipendente direttamente dalla Presidenza del Consiglio. Perno fondamentale della sanità rimase il Ministero dell’Interno, che vigilava sugli ospedali, mentre i Prefetti rimasero in ambito locale, come nell’ordinamento precedente, la principale autorità in campo sanitario.

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È molto più tardi, verso la fine degli anni Cinquanta, che, dopo un ampio ed articolato dibattito, si arrivò all’istituzione del Ministero della Sanità con la Legge 296/1958, che sanciva la concentrazione in un solo soggetto della responsabilità sulla tutela della salute. Questo rappresenta sicuramente il primo grande passo verso una più moderna organizzazione del settore, in linea con l’evoluzione epidemiologica del Paese e con il suo nuovo volto sociale. Il nuovo organismo ministeriale assunse sia i compiti dell’Alto Commissariato, che quelli del Ministero dell’Interno sui medici ed il personale sanitario, nonchè tutta la gamma di competenze sparse tra i vari ministeri. Rimasero intatte a livello locale le competenze prefettizie, con il Prefetto che operava come coordinatore degli uffici del medico e del veterinario provinciale, presiedeva il Consiglio Provinciale di Sanità, scioglieva i Consigli di amministrazione degli enti pubblici del settore sanitario nella sua provincia di competenza e poteva anche ordinare indagini. La sanità italiana conquistò una sua autonomia sul piano istituzionale ma sempre dentro quel meccanismo statuale che considerava la salute pubblica una componente delle politiche di governo della società, diretto appannaggio dello Stato, del governo e dei suoi gangli locali. La continuità della sanità, rispetto al periodo “preguerra”, riguarda anche il ruolo delle mutue, enti previsti dal Testo Unico sulla Sanità del 1934, per cui l’assistenza sanitaria, medica o ospedaliera era riservata ai lavoratori iscritti. A spese dei Comuni veniva garantita solo l’assistenza sanitaria ai poveri iscritti alle liste degli indigenti. Veniva così confermato un aspetto essenziale della sanità di allora e, più in generale, del welfare italiano: quello di un sistema assicurativo, non universalistico, con esclusione dell’accesso alle cure sanitarie per i cittadini non iscritti alle mutue stesse.

Nella società democratica, attraversata da crescenti pressioni verso l’equità sociale, gli aspetti discriminatori legati al sistema delle mutue diventano però molto evidenti ed oggetto di specifica attenzione e denuncia. Ad esempio, in una relazione della Commissione per lo studio dell’organizzazione sanitaria del 1951, emerge chiaro come il diritto alla salute sia per una parte rilevante degli italiani un miraggio, visto che le mutue, operano rigorosamente come istituti assicurativi preposti alla fornitura di un servizio in base ad una remunerazione, generando così un alto numero di episodi di discriminazione nell’accesso alle cure. Casi eclatanti di persone che, bisognose di cure, ma prive dell’iscrizione alle liste comunali degli indigenti, sono costrette a pagare le spese di ricovero, sono all’ordine del giorno, anche per patologie gravi ed infettive, come la Tbc, che pure rappresentavano ancora una minaccia rilevante per la salute pubblica. La conferma del sistema mutualistico, d’altra parte, crea i presupposti per il suo straordinario sviluppo quantitativo, tanto che nei decenni successivi si moltiplicheranno gli iscritti, facendo impennare la quota di cittadini che beneficiavano della copertura assicurativa tramite il meccanismo mutualistico-assicurativo. Tuttavia, cominciavano ad emergere anche le patologie strutturali del sistema mutualistico, che poi lo porteranno alla crisi definitiva, ed in particolare il paradosso per cui ciascun ente mutualistico si dotava della propria rete assistenziale sul territorio, cosa che determinava una inefficiente moltiplicazione di strutture sanitarie ed ambulatoriali, con un evidente forte dispendio di risorse, a fronte di un’assistenza sanitaria né universale né sempre di buona qualità. Il sistema, in pratica, produceva un set di prestazioni a costi nettamente più elevati di quelli ottimali, per effetto dei meccanismi di duplicazione sui territori, e per l’assenza di connessioni tra i vari segmenti dell’offerta sanitaria. In altre parole, il meccanismo amministrativo delle mutue riproduceva in modo patologico quella moltiplicazione dei poteri e delle competenze tipica dell’ordinamento sabaudo e fascista; la mancanza di connessioni tra assistenza ambulatoriale, domiciliare e ospedaliera generava sia una duplicazione di interventi che un dispendio di risorse umane e materiali; e mentre i benefici riguardavano solo gli iscritti alle mutue, i costi alla lunga finivano per ricadere sullo Stato e, quindi, sulla collettività intera.

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Il sistema produceva un set di prestazioni a costi nettamente più elevati di quelli ottimali, per effetto dei meccanismi di duplicazione sui territori, e per l’assenza di connessioni tra i vari segmenti dell’offerta sanitaria.


Dal secondo dopoguerra alla istituzione del Servizio sanitario nazionale

È a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta che lo scenario socioeconomico, e in parallelo quello della sanità pubblica e privata, cominciò a cambiare vorticosamente, con un’accelerazione progressiva, indotta dall’insieme dei fenomeni che va sotto il nome di “Miracolo economico”: decollo della produzione industriale e del Pil; urbanizzazione con immigrazione di grandi masse dal Meridione e dal Nord-est verso il triangolo industriale e dal mondo agricolo alle città più grandi; accesso crescente a livelli più alti di benessere, con abitazioni salubri, dotate di acqua corrente e dei principali servizi igienici, e miglioramento drastico di quantità e qualità dell’alimentazione quotidiana. In sostanza, scompare progressivamente la fisionomia del paese premoderno, e la povertà da fenomeno maggioritario diventa condizione, ancora diffusa, ma riservata a sacche specifiche di popolazione, nelle città e, più ancora ovviamente, nelle campagne. 28

In questa fase cambia velocemente l’andamento delle morbilità, con un calo sostanziale e progressivo delle tante “malattie di antico regime”, come la poliomielite, la tubercolosi, il tracoma e, nelle zone rurali, la malaria. Fondamentale è anche il contributo, al fianco del mutamento sociale e del benessere, della diffusione di antibiotici e sulfamidici particolarmente efficaci contro quelle patologie. Il Paese avvia, cioè, quel passaggio epidemiologico che renderà centrali le patologie della modernità, dal cancro alle malattie cardiovascolari sino alle patologie psichiche e neurologiche. L’accesso alla sanità, per quanto segnato da discriminazioni e ingiustizie a volte macroscopiche, vive tuttavia una lunga stagione di ampliamento della copertura da parte del sistema mutualistico, che in vent’anni, dal 1951 al 1972, vide il numero di assistiti passare da 16,5 milioni a più di 49 milioni, mentre gli iscritti alle liste di indigenti nei Comuni si dimezzarono. Verso la Riforma: gli anni del centro-sinistra Tutta la fase che va dal “Miracolo economico” sino alla Riforma del Servizio sanitario nazionale della fine degli anni Settanta è di fatto attraversata da un ampio dibattito, spesso anche molto aspro, sulle modalità attraverso cui uscire dalla logica assicurativa della copertura parziale dai rischi delle patologie e passare ad un assetto universalistico, che renda la tutela della salute un diritto che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini senza discriminazione alcuna. Questa spinta verso l’universalismo in sanità e, più in generale, nel welfare, ha riferimenti internazionali di rilievo, che arrivano in particolare

dal mondo anglosassone, dove la messa in piedi nel Regno Unito del National Health System (Nhs) offre un modello di modernità, al quale i segmenti più avanzati della classe dirigente italiana cominciano a riferirsi. D’altro canto, il sociale è l’epicentro di quell’orientamento riformista che, con i governi del centro-sinistra, prende in mano il Paese in quel periodo e che mette al centro del processo una distinzione tra gli investimenti privati e quelli che invece non possono essere espressione di una autonoma domanda individuale, ma piuttosto il portato di scelte di investimento sociale da parte dello Stato. La sanità moderna, fatta di grandi ospedali ad alta concentrazione di operatori sanitari, tecnologia e pazienti, e di apparati burocraticoamministrativi massicci orientati alla gestione di pratiche relative a milioni di assistiti, è una specie di paradigma del settore in cui l’intervento dello Stato è cruciale, perché l’unico in grado di garantire quello sviluppo in linea con le esigenze di un Paese che ogni giorno si scopre entrato in una fase nuova del suo sviluppo socioeconomico. Già a partire dalla metà degli anni Cinquanta si moltiplicavano le proposte di riforma nel settore della tutela della salute. Nel 1956 la Cgil propose un Servizio sanitario nazionale; dal 1963 il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) propose, su commissione del Governo Fanfani, le Osservazioni e proposte sulla riforma della Previdenza Sociale; nel 1963 il Rapporto del Vicepresidente della Commissione Nazionale della Programmazione Economica firmato da Pasquale Saraceno, mise in luce con estrema chiarezza le criticità del sistema delle mutue in termini di sperequazioni e frammentarietà. Saraceno propose anche una riforma graduale verso la fornitura di un servizio universale che prevedesse prevenzione, assistenza farmacologica, medico-generica e specialistica. In particolare, Saraceno sottolineò l’entità della spesa che lo Stato avrebbe dovuto assumere, visto che i posti letto in molte aree del Paese erano inferiori alla quota indicata come ottimale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Anche dai partiti di opposizione emersero in quel periodo proposte politiche relative alla necessità di attuare l’art. 32 della Costituzione mediante uno strumento fondamentale, vale a dire l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Crebbe anche il ruolo della pubblica opinione e della grande stampa, che sottolineava sempre più spesso gli aspetti della sanità più disfunzionali e meno adatti ad un Paese moderno con, ad esempio, la pubblicazione tra il 1963 ed il 1964 da parte del settimanale “Tempo” del Libro bianco sulla riforma ospedaliera, nel quale si sottolineava come Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive

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il numero dei posti letto fosse insufficiente in molte aree, così come la qualità delle prestazioni, mentre la inefficienza delle strutture e la mancanza di profilassi determinavano conseguenze molto negative. Si andò radicando la convinzione sociale che fosse sempre più urgente intervenire su una sanità che non teneva il passo con un Paese in profonda trasformazione ed in piena corsa verso il benessere. Sono di questa fase una prima riforma di settore, proposta dal Ministro Mariotti, legata all’attesa nascita degli Enti locali regionali, nonché il disegno di legge Pieraccini sulla politica del farmaco, proposte normative che possono essere considerate una sorta di primo avvio della corsa alla riforma.

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In particolare, la Legge Mariotti sulla sanità si intrecciava con la nascita delle Regioni, alle quali sarebbe andato il compito di varare i decreti per la nascita dei nuovi enti ospedalieri, il potere di sciogliere i consigli di amministrazione in caso di irregolarità di gestione e la partecipazione al nuovo Comitato nazionale per la programmazione ospedaliera. Tuttavia, il meccanismo della riforma si impantanò per effetto del tardivo varo della riforma regionale. È sempre di questa fase, e sempre per merito di Luigi Mariotti, la Legge 18 marzo 1968 n. 431 sulla modernizzazione della tutela della salute mentale. I ricoverati in questo settore erano aumentati costantemente nel corso del secolo, e se nel 1940 il numero degli assistiti era pari a 83.788, nel 1965 le persone recluse negli ospedali psichiatrici erano salite a 170.715, nel 1970 erano arrivate a 180.466. Con la nuova legge vennero introdotte le prime forme di regolamentazione degli ospedali psichiatrici, dall’organizzazione strutturale a quella funzionale, al numero di operatori per paziente, che ovviamente riuscivano solo in parte a sanare le gravi carenze di un settore che, negli anni Settanta, sarà l’epicentro di vere e proprie battaglie di civiltà che porteranno alla soppressione degli istituti psichiatrici. Protagonisti di primo piano della sanità italiana, in particolare di questa fase di grande espansione, sono i medici, tenuto anche conto del fatto che il nostro è da sempre un Paese con una presenza molto alta di medici in rapporto alla popolazione. Il medico beneficiava ancora dell’aura sociale del potere che nasce dalla competenza e tuttavia, all’interno della sanità massificata che si andava consolidando nelle mutue, la sua condizione sociale cambiava profondamente, con l’emergere delle prime forme di disoccupazione di massa dei neolaureati in medicina e anche delle prime forme di messa in discussione dell’autorità professionale da parte di cittadini a caccia di cure migliori.

Il dibattito sulla Riforma sanitaria fino all’istituzione del Servizio sanitario nazionale È solo con gli anni Settanta che giunge a maturazione la lunga riflessione sulla riforma della sanità, che pure aveva fatto tante volte capolino in proposte pubbliche e anche di legge. È ancora il Ministro Luigi Mariotti a proporre la prima vera riforma globale di riforma sanitaria nel 1970, con l’istituzione di un Fondo sanitario nazionale (Fsn) da ripartire entro le neonate Regioni in base a parametri di domanda e offerta di salute. Sempre in quella proposta di legge è contenuto il richiamo alla necessità di attivare le Unità sanitarie locali come fulcro della nuova sanità sul territorio, con il superamento degli enti mutualistici. Diventa pertanto esplicita, anche a livello governativo, la necessità di un Servizio sanitario capace di materializzare nella vita degli italiani il diritto alla salute come diritto universale e gratuito. Si tratta di un passaggio politico-culturale decisivo, anche se poi costellato di scontri e conflitti sui vari aspetti, come ad esempio quella sul ruolo di controllo, previsione di spesa, gestione della salute pubblica del Ministero della Sanità o, in alternativa, sul ruolo delle Regioni, che autonomamente avrebbero dovuto gestire le risorse a loro trasferite tramite il Fsn. Diventa progressivamente egemone una concezione universalistica della sanità e solidaristica del welfare, con esplicito riconoscimento del ruolo perequatore dello Stato centrale. Si crea un supporto socialmente trasversale all’idea di un Servizio sanitario nazionale e, tuttavia, occorreranno ancora alcuni anni prima che si arrivi al suo varo. In questa fase giungono a maturazione anche le già note problematiche legate al malfunzionamento delle mutue, alle forme di diseconomicità ed al conseguente incremento della spesa del sistema mutualistico, tanto che diventa oggetto di riflessione pubblica la sostenibilità del sistema stesso. Di fatto, nel dibattito politico l’aumento della spesa, ormai molto elevata, iniqua ed inefficiente, delle mutue diventa il fattore fondamentale che spinge verso la costituzione del Servizio sanitario nazionale. È così che, accanto alla spinta sociale molto forte verso una sanità equa e universalista, cresce, anche in soggetti un tempo avversi all’idea del Servizio sanitario nazionale, il timore che l’andamento della spesa sanitaria delle mutue, indotta dagli sprechi e dal malfunzionamento, diventi una sorta di boomerang pronto a ricadere sulle casse dello Stato. Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive

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Diventa egemone una concezione universalistica della sanità e solidaristica del welfare, con esplicito riconoscimento del ruolo perequatore dello Stato centrale.


Dal secondo dopoguerra alla istituzione del Servizio sanitario nazionale

Non a caso sono di questo periodo interventi normativi, come il Dl 8 luglio 1974, poi divenuto legge 386 del 1974, orientati a recuperare risorse, attraverso, ad esempio, gli aumenti contributivi, per rispondere al debito accumulato dagli enti previdenziali verso le strutture ospedaliere. All’istituzione del Servizio sanitario nazionale si arriva nella VII legislatura, iniziata nel 1976 e segnata da un clima di solidarietà nazionale, mediante l’accordo dei due principali partiti di massa, il Partito comunista e la Democrazia cristiana. Inizia una stagione di riforme significative, tra le quali la formazione di una sanità ad accesso universale e gratuito costituisce un tassello essenziale.

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Più in generale, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale è una di quelle “norme pilastro” che segnano un passaggio epocale nella vita collettiva di un Paese, ed i cui principi fondamentali che ne informano lo spirito sono in sintesi così riassumibili (tav. 3): > l’universalità rispetto agli utenti: l’assistenza sanitaria è garantita a tutti coloro che risiedono o dimorano nel territorio della Repubblica, siano essi cittadini, stranieri o apolidi; > l’uguaglianza: il Ssn opera a favore di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali;

L’assistenza sanitaria è garantita a tutti coloro che risiedono o dimorano nel territorio della Repubblica, siano essi cittadini, stranieri o apolidi.

> la globalità degli interventi: il Ssn assicura il collegamento ed il coordinamento con le attività e con gli interventi di tutti gli altri organi, centri, istituzioni e servizi, che svolgono attività comunque incidenti sullo stato di salute degli individui e della collettività. Ne deriva una maggiore varietà delle prestazioni erogabili, che non coincidono esclusivamente con quelle curative, preventive e riabilitative, ma includono anche le attività che indirettamente incidono sulla salute pubblica (la tutela della salute mentale, la tutela dall’inquinamento, l’igiene degli alimenti e delle bevande); > la partecipazione democratica dei cittadini: la partecipazione è intesa, nell’ottica del legislatore, come controllo sulla funzionalità delle strutture sanitarie.

Tav. 3 - I pilastri del Servizio Sanitario Nazionale Universalità di accesso

La copertura sanitaria è garantita a tutti i cittadini senza discriminazione alcuna.

Uguaglianza della opportunità di tutela e cura della salute

Deve essere garantita l’uguaglianza delle cure per tutti e ovunque.

Globalità degli interventi

Sono integrate e coordinate tutte le attività che direttamente o indirettamente incidono sulla salute dei singoli e della comunità.

Tripartizione delle competenze istituzionali

Lo Stato centrale fissa le risorse pubbliche, attua la programmazione. Le Regioni sono il responsabile primo della sanità nel territorio di propria competenza. I Comuni hanno nelle Usl le strutture operative che gestiscono la sanità nei contesti locali.

Fonte: elaborazione Censis-Fbm

La legge 833 del 1978 garantisce su tutto il territorio nazionale la copertura sanitaria, attribuisce le materie di indirizzo generale e di coordinamento allo Stato e alle Regioni il compito di legiferare negli ambiti dell’assistenza sanitaria e di quella ospedaliera. Le strutture che devono rendere operativa la tutela della salute pubblica sono le Unità sanitarie locali, vere ramificazioni locali della nuova sanità, chiamate ad organizzare l’offerta sul territorio di propria competenza. Riguardo alle modalità di finanziamento, il Servizio sanitario nazionale dispone del Fondo (Fsn), che ogni anno viene definito in sede di bilancio dello Stato e poi ripartito tra le Regioni, dopo aver ricevuto l’assenso del Ministero della Sanità e del nuovo Consiglio Sanitario Nazionale (Csn), presieduto dal ministro della Sanità, con durata quinquennale. Altro pilastro del sistema sanitario diventa la programmazione, novità assoluta rispetto alla politica della salute pubblica pregressa: viene istituito il Piano sanitario nazionale, strumento di programmazione

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Dal secondo dopoguerra alla istituzione del Servizio sanitario nazionale

di durata triennale proposto dal Governo su indicazione del Ministero della Sanità e del Csn, che deve stabilire la quantità di fondi necessari per raggiungere determinati obiettivi nell’erogazione dei servizi. I Piani sanitari regionali proiettano sui territori delle singole regioni le priorità. Si forma quindi una infrastruttura istituzionale e operativa complessa, che vuole materializzare l’universalismo sanitario, andando oltre la categorialità selettiva delle mutue e provando a orientare l’offerta sanitaria alle concrete esigenze della domanda dei cittadini. È evidente l’influsso delle componenti politico-culturali del riformismo e della programmazione sociale, come veicoli di promozione della modernità tramite la macchina statuale.

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Si forma una infrastruttura istituzionale e operativa complessa, che vuole materializzare l’universalismo sanitario, andando oltre la categorialità selettiva delle mutue e provando a orientare l’offerta sanitaria alle concrete esigenze della domanda dei cittadini.

Il periodo si chiude, quindi, con l’avvenuta modernizzazione, sancita normativamente, del Sistema sanitario, in linea con un Paese entrato ormai in una fase avanzata dalla propria traiettoria socioeconomica, pronto ad aprirsi agli stimoli ulteriori di un individualismo che lentamente erode dall’interno i grandi aggregati istituzionali, alla ricerca di nuove forme di personalizzazione anche nell’ambito della salute e del welfare.

Il Servizio sanitario nazionale fino ai giorni nostri L’istituzione del Ssn, oltre a garantire una copertura universalistica, introdusse anche strumenti e tecniche più moderni e potenzialmente più efficienti per il controllo dell’evoluzione della spesa per la sanità. Tra questi, ad esempio, la quota capitaria, in sostituzione del sistema a notula che di fatto incentivava i medici a moltiplicare le prestazioni. Per la farmaceutica venne introdotto il Prontuario terapeutico nazionale, con la distinzione tra farmaci essenziali e coadiuvanti, e farmaci da banco, importante anche per la selezione al momento della registrazione dei farmaci. Furono applicati controlli amministrativi sui prezzi dei farmaci e venne imposto il divieto di fare pubblicità ai medicinali. Venne anche introdotto il ticket moderatore sul consumo dei farmaci, che già in quella fase storica registrava dinamiche significative di incremento, dimostrando così che il controllo delle fonti di spesa non poteva essere solo il portato di tecniche efficaci, ma dipendeva sempre più dalla capacità di orientare i comportamenti sanitari diffusi dei cittadini, magari mediante opportune iniziative di educazione sanitaria. Sul piano sociopolitico, l’entusiasmo iniziale per la nuova sanità lasciò il posto alla consapevolezza che molti degli strumenti previsti non avrebbero potuto generare effetti prima di un arco di tempo piuttosto lungo e che, complessivamente, la riforma era costretta ad un decollo molto lento, anche per via dell’eredità pesante ricevuta dal sistema mutualistico, schiacciato da debiti ed inefficienze. Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive

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La riforma è costretta ad un decollo molto lento, anche per via dell’eredità pesante ricevuta dal sistema mutualistico, schiacciato da debiti e inefficienze.


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Così, con la spesa sanitaria che non accennava a rallentare, una qualità dell’offerta sanitaria non del tutto soddisfacente e diversità territoriali che rimanevano profonde e che, su molti aspetti, tendevano a peggiorare, finì per diffondersi l’idea di una riforma mancata o almeno applicata molto parzialmente. Del resto, già dal 1979, le Regioni contestavano al Governo la mancata emanazione di alcune norme essenziali, come l’approvazione dello stato giuridico del personale (art. 47), la promulgazione dei decreti sulla unificazione delle prestazioni sanitarie (art. 57), la definizione dei contingenti numerici e normativi del personale degli enti disciolti, nonché la mancata adozione di misure finanziarie che gli consentissero di realizzare i propri compiti, oltre alla mancata approvazione del Piano sanitario nazionale. 36

Tende in sostanza a prolungarsi oltremisura la fase di transizione dal vecchio al nuovo regime, e in questo contesto spicca anche il tiepido supporto al mutamento da parte dei medici, insoddisfatti del modo in cui veniva gestito il passaggio dalla figura del medico della mutua o del medico di famiglia.

Alla luce di tali mutamenti sociali e culturali, guardare alla sanità del Paese vuol dire sempre più affiancare all’analisi del sistema sanitario pubblico l’attenzione all’evoluzione dei comportamenti e dei consumi individuali e familiari in ambito sanitario, nonchè ai nuovi aspetti qualitativi che sempre più connotano la domanda nel settore. Il mutamento investe anche il cuore del rapporto tra medico e paziente, con il monopolio del sapere medico che mostra crepe evidenti tanto che, nella riflessione del Censis ad esempio, si fa largo la figura del medico confessore, disponibile ad accogliere espressioni e tensioni che spesso travalicano gli aspetti direttamente connessi alla salute, e ciò in linea con i primi sostanziali tentativi da parte dell’utenza di emanciparsi e autonomizzarsi nei confronti del medico. La salute diventa per gli italiani non solo il portato di una medicina riparativa con perno sull’ospedale e sul medico, ma anche l’esito di pratiche votate ad un’idea di benessere più complessiva, fisica e psicologica. Di fronte a queste, qualitativamente più elevate, aspettative della domanda, l’offerta, da un lato, ne subì gli impatti, e dall’altro, continuò a camminare per contro proprio. Non riuscì, soprattutto, a dominare adeguatamente i processi più deteriori relativi all’incremento di consumi e di spesa.

Pur nella complessità del passaggio verso un Sistema sanitario nazionale di stampo universalista, sarebbe un errore non sottolineare l’impatto straordinario che la sua istituzione ha avuto sulla vita dei cittadini che, nella grande maggioranza, avvertirono il cambio sostanziale rappresentato dalla sicurezza di poter accedere alle prestazioni sanitarie semplicemente recandosi presso il proprio presidio di appartenenza, fatto che generò la percezione diffusa che il sistema sanitario fosse per tutti e gratuito.

Emerse un divario crescente tra omogeneizzazione al ribasso dell’offerta e articolazione soggettiva della domanda alla ricerca di nuova personalizzazione; si accentuarono le tensioni tra gli effetti della pubblicizzazione che spinse in alto la domanda e la spesa, e le esigenze di contenerla; emerse una contraddizione tra le aspettative indotte dalla enfasi posta sulla capacità preventiva del Sistema sanitario e la sostanziale assenza di prevenzione per le difficoltà di realizzazione di una rete operativa efficace.

Fu nel decennio successivo, quello degli anni Ottanta, che si registrarono mutamenti sostanziali di contesto, soprattutto nel rapporto degli italiani con la salute, con effetti rilevanti anche sul Servizio sanitario nazionale.

Altre contraddizioni riguardano la diffusa nuova attenzione alla cultura della salute e della malattia e il mancato decollo dei progetti sociosanitari; tanto che, quasi paradossalmente, proprio mentre decolla la visione soggettivista della salute centrata quindi anche su prevenzione e territorio, l’Italia implementa un colossale investimento di modernizzazione e potenziamento del sistema ospedaliero, cristallizzando la centralità degli ospedali.

Gli anni Ottanta, infatti, furono il decennio in cui maturò il passaggio dalla cultura della malattia a quella della salute, indotto da fattori sociali, comportamentali e dal cambiamento dei modelli di consumo, dalla diffusione dell’informazione sanitaria e dal diffuso miglioramento dello stato nosologico degli italiani. Si diffuse così una crescente attenzione alle forme di autotutela soggettiva, ed il rapporto con la salute, la tutela e la cura del corpo diventarono uno dei terreni più importanti e significativi di espressione della corsa alla soggettività.

È all’inizio degli anni Novanta che emergono con maggiore evidenza quelle criticità del Servizio sanitario nazionale, indotte anche dalla nuova dinamica qualitativa della domanda, che resero urgenti interventi innovativi e incisivi sugli assetti istituzionali e sulle modalità di funzionamento del sistema. Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive

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La crescente attenzione alle forme di autotutela soggettiva, ed il rapporto con la salute, la tutela e la cura del corpo diventarono uno dei terreni più importanti e significativi di espressione della corsa alla soggettività.


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È prevista, inoltre, la regionalizzazione dei contributi sanitari e viene introdotto il sistema del finanziamento a tariffe predeterminate per prestazione. I criteri di articolazione del sistema tariffario (contenuti nel decreto ministeriale 15 aprile 1994 emanato in attuazione dell’articolo 8 del decreto 502/92) sono i seguenti:

A queste esigenze risposero le modifiche legislative rappresentate dal D.Lgs. 502/92, in seguito modificato con il D.Lgs. 517/93, che aprirono di fatto una nuova fase nella recente storia del Servizio sanitario nazionale. Il problema della economicità della gestione e quello di una programmazione in grado di trovare un equilibrio praticabile tra risorse disponibili e reali fabbisogni sanitari dei cittadini diventano parte integrante della mission del Ssn, accanto alla ricerca dell’equità nell’accesso alle cure.

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> lo Stato determina i criteri generali per la fissazione delle tariffe; > le Regioni stabiliscono le tariffe sulla base del costo standard di produzione;

Si registra nel Servizio sanitario nazionale, sistema pubblico a partecipazione obbligatoria, finanziato con denaro pubblico e soggetto ad un vincolo di bilancio predeterminato, il primo tentativo di passare ad un sistema di tipo contrattualistico, in cui l’ente pubblico svolge la sua funzione a partire dalla determinazione dei bisogni generali ed alla successiva ricerca di fornitori in grado di erogarli. Trovano prime forme di espressione anche la libertà di scelta del luogo di cura e del soggetto erogatore delle prestazioni ed il principio della competizione nell’erogazione dei servizi sanitari; cambiano soprattutto gli assetti istituzionali delle competenze, perché da una tripartizione fondata su Stato, Regioni, Comuni, si passa ad una bipartizione che vede protagonisti lo Stato centrale e le Regioni: ai Comuni, infatti, i nuovi decreti concedono funzioni generalmente secondarie, e comunque fortemente ridimensionate rispetto al passato. Allo Stato spettano la pianificazione nazionale e il compito di stabilire gli obiettivi fondamentali, i livelli di assistenza da assicurare e i conseguenti relativi finanziamenti; alle Regioni le funzioni legislative ed amministrative, nonché l’emanazione dei Piani sanitari regionali in attuazione al Piano Nazionale. Alle Usl viene riconosciuta una personalità giuridica e, pertanto, cessano di essere una struttura operativa del Comune, tanto che il Sindaco vi conserva solo un ruolo consultivo.

> le aziende Usl, che ora hanno personalità giuridica e autonomia gestionale, contrattano con i produttori le migliori condizioni di fornitura. 39

Trovare un equilibrio praticabile tra risorse disponibili e reali fabbisogni sanitari dei cittadini diventa parte integrante della mission del Ssn, accanto alla ricerca dell’equità nell’accesso alle cure.

Le prestazioni ospedaliere vengono misurate non più in giornate di degenza ma in episodi di ricovero, determinandosi a priori una tariffa forfettaria (Drg). In sostanza, se l’istituzione del Servizio sanitario era nata con forte radicamento sulla retorica dell’equità territoriale e sociale nell’accesso alle prestazioni sanitarie, entrano in gioco prepotentemente ora il problema dell’economicità della gestione delle risorse e la necessità di attivare meccanismi in grado di fare filtro rispetto alla spinta all’incremento della domanda sanitaria, indotta dai diversi aspetti demografici, epidemiologici, di sviluppo delle tecnologie mediche e anche di rapporto soggettivo con la salute. Negli anni successivi sarà soprattutto il tema della spesa a condizionare le politiche, e tuttavia il Servizio sanitario finisce per assumere alcuni dei contorni che, negli anni successivi, diverranno costitutivi della sua nuova fisionomia. In sintesi, si affermano una notevole autoresponsabilizzazione, il ricorso alla spesa privata e anche una certa critica di massa al dirigismo di alcuni modelli di fissazione dei percorsi terapeutici, tanto che cresce in molti casi la voglia dei cittadini di fissare direttamente il set di percorsi e strumenti di tutela della salute.

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Con gli anni Duemila, si entra in una ulteriore nuova fase della storia della sanità, dove a pesare sono sempre più due aspetti: > il federalismo sempre più dispiegato, che diventa devolution e dopo la lunga sperimentazione, proprio in ambito sanitario, perno dei nuovi assetti istituzionali; > il rispetto crescente del vincolo di bilancio per tutte le varie Regioni, indotto dalle difficoltà crescenti di finanziamento di una spesa pubblica che, in alcune aree, appare fuori controllo, senza peraltro alcuna reale motivazione epidemiologica. 40

Il combinato disposto dei due aspetti risulterà sempre più rilevante, sino ad arrivare alla fase attuale dominata dai Piani di rientro ai quali sono sottoposte ormai ben dieci Regioni, in gran parte meridionali, obbligate ad accettare una ristrutturazione industriale della propria offerta volto a ricondurre sotto controllo le determinanti della domanda e della spesa.

livelli di tutela sanitaria, al quale il Servizio sanitario nazionale voleva rispondere con il richiamo all’uguaglianza formale, rimane ad oggi irrisolto, in una nuova fase in cui a dare il ritmo delle dinamiche di offerta sanitaria sono piuttosto i vincoli di bilancio imposti. Ne deriva una ulteriore conseguenza, che determina il protagonismo dei Piani di rientro che esautorano di fatto le Regioni che non controllano i fattori di spesa e impongono una matrice di offerta compatibile con l’equilibrio di bilancio. Nel più lungo periodo la sostenibilità della sanità sarà tutta legata alla capacità di accompagnare, da un lato, la maturazione dei cittadini verso l’acquisizione di stili di vita salutari e di pratiche sociali in grado di prevenire l’insorgere di quelle patologie, dai tumori, alle malattie cardiovascolari, alle tante patologie invalidanti ad alto impatto assistenziale; e, d’altro lato, alla capacità di promuovere una vera sanità di territorio, con un trasferimento sostanziale di risorse, personale ed energie, dai grandi ospedali, che si caratterizzano sempre più come centri di alta tecnologia rivolti alla fase acuta, sempre più ristretta in termini di tempo, alla medicina della continuità e dell’integrazione con il sociale, capace di garantire copertura sanitaria e sociale prolungata nel tempo valorizzando le opportunità legate alle comunità e alle innovazioni tecnologiche.

Evoluzione demografica e transizione epidemiologica concorrono a porre con urgenza il problema della sostenibilità finanziaria di lungo periodo del Servizio sanitario delle singole Regioni, con la sua attuale matrice di prestazioni, e sempre più la sanità nata nell’Italia postunitaria fondata sulla centralità dei grandi ospedali si mostra asimmetrica rispetto alla composizione dei bisogni e della domanda sanitaria, generando una crescente inappropriatezza, vale a dire una erogazione di prestazioni inefficaci e costose. In questa fase, diventa anche cruciale il rapporto tra la specificità dell’offerta delle singole Regioni, legate ai tanti aspetti locali, ed il rinvio a standard di riferimento che, sempre più nel prossimo futuro, diventeranno essenziali per la fissazione dei livelli di spesa. I livelli essenziali di assistenza (Lea) ed i Costi standard sono ad oggi i più importanti tentativi di individuare riferimenti comuni all’assistenza, rendendo compatibile la regionalizzazione dell’offerta e l’uniformità dei trattamenti, ma il problema storico della diversità dei

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Cruciale il rapporto tra la specificità dell’offerta delle singole regioni, legate ai tanti aspetti locali, ed il rinvio a standard di riferimento che, sempre più nel prossimo futuro, diventeranno essenziali per la fissazione dei livelli di spesa.



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Sanità e salute nel 150° dell’Unità d’Italia: una lettura sociologica delle lunghe derive Farmafactoring partecipa alle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia con questa pubblicazione che intende ripercorrere la nascita, le vicende e lo sviluppo del sistema sanitario nel corso della recente storia unitaria nazionale.


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