62a edizione Scivac Rimini - parte1

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62° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA SCIVAC 29-31 MAGGIO 2009 Rimini - Palacongressi della Riviera di Rimini

ESTRATTI RELAZIONI • WORKSHOP SPECIALISTICI COMUNICAZIONI BREVI • POSTER


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62° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA SCIVAC 29-31 MAGGIO 2009 Rimini - Palacongressi della Riviera di Rimini ESTRATTI RELAZIONI WORKSHOP SPECIALISTICI COMUNICAZIONI BREVI POSTER

Questo volume di atti congressuali riporta fedelmente quanto fornito dagli autori che si assumono la responsabilità dei contenuti dei propri scritti. Traduzione dei testi inglesi: Dr. Maurizio Garetto e Dott.ssa Tiziana Binelli Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.

organizzato da

certificata ISO 9001:2000


La SCIVAC ringrazia le Aziende sponsor per il sostegno e il contributo prestati alla realizzazione del 62° Congresso Internazionale.

LABORATORIO PER MEDICI VETERINARI

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CONSIGLIO DIRETTIVO SCIVAC DEA BONELLO Presidente MASSIMO BARONI Presidente Senior FEDERICA ROSSI Vice Presidente GUIDO PISANI Tesoriere MARCO BERNARDINI Segretario ALBERTO CROTTI Consigliere BRUNO PEIRONE Consigliere COMMISSIONE SCIENTIFICA Massimo Baroni - Davide De Lorenzi Giorgio Romanelli - Fulvio Stanga COORDINATORE SCIENTIFICO CONGRESSUALE FULVIO STANGA - Med Vet, Cremona RESPONSABILE SEGRETERIA SCIENTIFICA MONICA VILLA Segreteria scientifica e organizzativa Tel: +39 0372 403504 E mail: commscientifica@scivac.it RESPONSABILE UFFICIO MARKETING FRANCESCA MANFREDI Tel: +39 0372 403538 E mail: marketing@evsrl.it RESPONSABILE SEGRETERIA ISCRIZIONI PAOLA GAMBAROTTI Tel: +39 0372 403508 Fax: +39 0372 403512 E mail: info@scivac.it ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE EV - Eventi Veterinari - Via Trecchi 20 26100 CREMONA (I)

COMITATO SCIENTIFICO Alimentazione e Nutrizione - PierPaolo Mussa Anestesia - Federico Corletto Animali Esotici - Giuseppe Visigalli Cardiologia - David Chiavegato Chirurgia - Luca Formaggini Citologia - Walter Bertazzolo Dermatologia - Fabia Scarampella Diagnostica per Immagini - Federica Rossi Fisioterapia - Ludovica Dragone Gastroenterologia - Paola Gianella Medicina Comportamentale - Sabrina Giussani Medicina Felina - Silvia Rossi Medicina Interna - Tommaso Furlanello Medicina Non Convenzionale - Marina Serafina Nuovo Medicina d’Urgenza - Fabio Viganò Nefrologia - Paola Scarpa Neurologia - MariaTeresa Mandara Odontostomatologia - Dea Bonello Oftalmologia - Alberto Crotti Oncologia - Laura Marconato Ortopedia - Aldo Vezzoni Practice Management - Marco Viotti Riproduzione - Manuela Farabolini CHAIRMEN Alimentazione e Nutrizione - PierPaolo Mussa, Liviana Prola Anestesia - Emilio Feltri, Adriano Lachin Animali Esotici - Paolo Selleri, Giuseppe Visigalli Cardiologia - Marco Poggi, Roberto Santilli Chirurgia - Luca Formaggini Citologia - Walter Bertazzolo, Ugo Bonfanti Dermatologia - Alessandra Fondati, Federico Leone Diagnostica per Immagini - Massimo Vignoli, Federica Rossi, Giliola Spattini Fisioterapia - Francesca Cazzola, Ludovica Dragone Gastroenterologia - Massimo Gualtieri, Ugo Lotti Medicina Comportamentale - Raimondo Colangeli, Sabrina Giussani Medicina Felina - Stefano Bo, Saverio Paltrinieri Medicina Interna - Tommaso Furlanello Medicina Non Convenzionale - Marina Serafina Nuovo, Roberto Orsi Medicina d’Urgenza - Marco Bertoli, Fabio Viganò Nefrologia - Monica Cherubini, Paola Scarpa Neurologia - Marco Bernardini, MariaTeresa Mandara Odontostomatologia - Dea Bonello, Mirko Radice Oftalmologia - Alberto Crotti, Maurizio Mazzucchelli Oncologia - Paolo Buracco, Laura Marconato Ortopedia - Filippo Maria Martini, Massimo Petazzoni, Aldo Vezzoni Practice Management - Walter Crotti, Marco Viotti Riproduzione - Manuela Farabolini


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CURRICULA VITAE DEI RELATORI KAREN ALLENSPACH DrMedVet, PhD, FVH, DipECVIM-CA (Internal Medicine), Hatfield, UK La Dr.ssa Karin Allenspach si è laureata presso l’Università di Zurigo, in Svizzera, nel 1993 e nel 1995, presso la stessa Università, ha conseguito il Dottorato in riconoscimento delle sue ricerche sul virus dell’immunodeficienza felina. Ha svolto un periodo di internato in medicina di emergenza e terapia intensiva dei piccoli animali alla Tufts University dal 1996 al 1997 ed uno di residenza in medicina interna dei piccoli animali alla University of Pennsylvania dal 1997 al 1999. Nel 2001, ha ottenuto la Board Certification of the European College of Veterinary Internal Medicine. Nel 2005 la Dr.ssa Allenspach ha conseguito un PhD presso l’Università di Berna, in Svizzera, per il suo lavoro sulle enteropatie croniche del cane. Attualmente, è Assistant Professor presso il Department of Veterinary Clinical Sciences del Royal Veterinary College, London. La Dr. Allenspach divide il proprio tempo fra la visita di casi clinici e la supervisione del servizio di medicina dei piccoli animali. l’insegnamento ai laureandi e laureati e la ricerca clinica. I suoi principali settori di indagine sono rappresentati dalla gastroenterologia canina.

me in Neurologia presso l’Istituto di Neurologia, Università di Berna. Nel 1995 ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Neurologia a Liegi (Belgio). Dal 1995 al 1999 ha lavorato a Genova, svolgendo attività di referenza in campo neurologico ed ortopedico. Attualmente svolge la propria attività specialistica presso la Clinica Veterinaria “Val di Nievole”, Monsummano Terme, Pistoia. È stato membro dell’Education Commitee del College Europeo di Neurologia (ECVN) dal 1996 al 1999 ed è attualmente Segretario della Società Europea di Neurologia Veterinaria (ESVN). È inoltre componente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVET) e direttore del Corso di Neurologia SCIVAC. È autore di pubblicazioni riguardanti l’ortopedia e la neurologia e ha presentato oltre 80 relazioni ad incontri a carattere nazionale ed internazionale, in Italia ed all’estero. Attuali aree di interesse: Neurodiagnostica per immagini, neurochirurgia intracranica. CLAUDE BEATÀ DVM, Dipl ECVBM-Ca, Toulon, F Il Dr. Beatà (DVM) è un medico veterinario specializzato in medicina comportamentale. Oltre a esercitare la professione nel settore della medicina comportamentale, che lo impegna molto, effettua numerosi seminari per studenti e veterinari ed interviene come relatore a numerosi congressi nazionali ed internazionali. Il Dr. Beatà è un membro di primo piano di molte organizzazioni del settore come “Zoopsy” (della quale è cofondatore ed, al momento attuale, presidente) e dell’European College of Veterinary Behavior Medicine. Inoltre è consulente per aziende farmacologiche che lavorano nel settore comportamentale attraverso la società Cetace.

CAROLINE BACK Bvet Med, MRCVS, Stoccolma, S Nel 1983 si è laureata in Medicina Veterinaria presso il Royal Veterinary College di Londra e da allora ha sempre lavorato in clinica, nel campo della ricerca e dell’industria nel Regno Unito, in Kenia e in Svezia. È stata titolare di un ufficio di consulenza e gestione aziendale veterinaria, la Nordic Connection Consulting e ha tenuto numerosi incontri e conferenze sulla gestione del business veterinario in tutta Europa, Stati Uniti e Australia, sia nelle cliniche veterinarie che nei maggiori congressi di medicina veterinaria. Caroline ha anche pubblicato numerosi articoli sulla gestione del business veterinario, incluso diversi libri: Managing a Veterinary Practice, 2nd Edn (2006) Elsevier Ltd; Healthcare for the well pet (Saunders, 1997) (with Tom Catanzaro); e ‘Communication, Compliance and Leadership: making healthcare work in veterinary practice’ (Elsevier Ltd). Dopo un periodo passato ancora in clinica come veterinario internista, Caroline è stata Direttrice di due dei più grandi ospedali svedesi per animali da compagnia a Stoccolma con uno staff di circa 120 persone e con un fatturato annuo che supera i 7 milioni di Euro. Attualmente ricopre l’incarico di Nordic Vet Affair Manager in Hill’s Pet Nutrition con la responsabilità di sviluppare l’insegnamento e la gestione del business veterinario in Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia.

MASSIMO BECCATI Med Vet, Capriate S.G. (BG) Laureato in medicina veterinaria presso l’Istituto di chirurgia della Facoltà di Milano nel 1994, si avvicina alla dermatologia nello stesso anno, seguendo come tirocinante la D.ssa Chiara Tieghi fino al 2004. Dal 1999 al 2001 frequenta e conclude la scuola europea di dermatologia (E.S.AV.S.). Nel 2003 consegue la Specializzazione in patologia dei piccoli animali ad indirizzo dermatologico presso la Facoltà di Veterinaria di Milano. Dal 2003 è full member dell E.S.V.D. (European Society of Veterinary Dermatology). Nel 2004 è docente a contratto presso la Facoltà di medicina veterinaria di Torino presso il Dipartimento di produzione, ecologia sez. parassitologia/micologia. Dal 2005 nella stessa Facoltà consegue un Dottorando di ricerca di tre anni con argomentazione micologica. Nel 2006 effettua un soggiorno studio all’Animal Medical Center (New York). È relatore a congressi nazionali e autore di articoli e case report in ambito nazionale ed internazionale. Lavora come libero professionista presso le proprie strutture e come consu-

MASSIMO BARONI Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme (PT) Laureato in Medicina Veterinaria con Lode nel 1987 presso l’Università di Pisa. Dal 1992 al 1995 ha compiuto un Non Conforming Residency Program5


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lente dermatologico in Lombardia. Hobby, solo Uno: F.C. Internazionale 1908.

di Reumatologia Comparata. Nel 1996, rientra all’Università di Glasgow per la cattedra e la direzione del “Small Animal Clinical Studies”. Nel 1986, ottiene il diploma RCVS in Ortopedia dei piccoli animali. Nel 1988, viene premiato con il “BSAVA Simon Award” per l’importante contributo nel settore della Chirurgia veterinaria. Nel 1994, ottiene il premio “BEVA Silver Jubilee” e, nel 1999, viene insignito del prestigioso “BSAVA Silver Jubilee Award”. Nel 2004, gli viene consegnato il “Petplan Scientific Award” per l’eccellente contributo fornito alla ricerca veterinaria. Nel 2006, come riconoscimento del suo impegno in Ortopedia veterinaria, viene nominato membro onorario a vita della BVOA. Nel 2008, riceve il premio “WSAVA Hill’s mobility”, motivato dal suo “straordinario impegno nel settore della mobilità e qualità di vita dei piccoli animali, al fine di migliorarne il benessere ed il rapporto uomo/animale”. È membro della “Higher Education Academy”. Attualmente, dirige il gruppo di ricerca di Medicina Molecolare Comparata e Terapia presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Glasgow. Oltre agli interessi clinici, è coinvolto in ricerche sul ruolo delle citochine nell’artrosi e in altre condizioni infiammatorie, sull’invecchiamento dei condrociti, sulla genetica dell’artrosi e sull’applicazione della terapia genica e delle cellule staminali al trattamento dell’artrosi. È Autore di oltre 300 pubblicazioni. Fa parte del Board editoriale di prestigiose riviste internazionali, come il V.C.O.T. (Veterinary and Comparative Orthopaedics and Traumatology) ed il Journal of Feline Medicine and Surgery.

MARCO BEDIN Med Vet, Monselice (PD) Laureato presso l’Università degli Studi di Camerino nell’ultima sessione dell’AA. 2000-2001, da subito svolge la propria professione con particolare interesse verso gli Animali Non Convenzionali e Animali Selvatici in un Ambulatorio Veterinario Associato di Fabriano (AN). Dal 2001 al 2005 è stato Veterinario Responsabile del Progetto di conservazione e riproduzione in cattività del Gufo Reale (Bubo bubo). Dal 2001 è il Responsabile Sanitario e Veterinario Ufficiale del Progetto di Reintroduzione e Restocking del Capovaccaio (Neophron percnopterus). È medico veterinario del Progetto life natura “biarmicus” per la tutela delle specie di rapaci minacciate e dal 2001 ad oggi è medico veterinario ufficiale del progetto Nibbio Reale (Milvus milvus). Ha collaborato con parchi nazionali e regionali italiani. Fino a Settembre 2005 è stato il Veterinario Ufficiale del CRASE (Centro di Recupero Animali Selvatici ed Esotici) del WWF Marche, dei cui animali era anche responsabile della gestione e della riabilitazione con tecniche di Falconeria dal 1999. È Professore a Contratto presso l’Università degli studi di Padova nel CIP “Clinica degli Animali Selvatici e Non Convenzionali” per il corso di “Traumatologia dei volatili” e per il corso di “Chirurgia dei Rettili” presso la stessa Facoltà. È stato Professore a Contratto anche per il Corso di “Ortopedia e traumatologia dei piccoli mammiferi”. Sempre a Padova, nel 2007, ha iniziato un dottorato di ricerca in Scienze Cliniche Veterinarie sulla chirurgia degli animali esotici. È autore di pubblicazioni sulla medicina e chirurgia dei rettili, piccoli mammiferi e volatili selvatici e da compagnia in riviste scientifiche italiane ed internazionali, coautore di lavori scientifici presentati a congressi italiani ed esteri sugli Animali Esotici e Selvatici. Libero professionista presso la Clinica Veterinaria Euganea di Monselice (PD) dove si occupa prevalentemente di Animali Esoticie presso l’Ospedale Veterinario “I Portoni Rossi” dove si occupa esclusivamente di Medicina e Chirurgia degli Animali Esotici. Attualmente Vice Presidente della SIVAE.

DAVID BETTIO Med Vet, Parma Laureato a Parma nell’anno ’97-’98 con una tesi in dermatologia, ha seguito vari periodi di formazione in ematologia e diagnostica per immagini. Diplomato alla Scuola di Medicina Omeopatica di Verona nel 1999, ora ne è parte del Consiglio Direttivo e Docente effettivo di medicina Omeopatica Veterinaria. È autore di vari articoli pubblicati su riviste italiane di casi clinici trattati con l’omeopatia unicista. Membro della FIAMO e dell’UMNCV, esercita la professione sugli animali da compagnia nel suo ambulatorio, occupandosi di medicina interna e anestesiologia. ANDREA BOARI Med Vet, Teramo Ha conseguito la laurea con lode in Medicina Veterinaria nel 1983 presso l’Università degli Studi di Bologna. Funzionario tecnico dal 1986 al 1998 presso il Dipartimento Clinico Veterinario della stessa Università. Dal 1998 è in servizio presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Teramo, dapprima come professore associato e poi, dal 2000, come professore ordinario di Clinica Medica Veterinaria. Dal 2002 ad oggi, riveste l’incarico di Direttore del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie. È docente di Semeiotica Medica Veterinaria e di Clinica Medica Veterinaria. Ha trascorso lunghi periodi di aggiornamento presso il Department of Veterinary Clinical Sciences della Purdue University nell’Indiana (USA) e il Department of Small Animal Medicine and Surgery della Texas A&M University (USA). È coautore di più di 120 lavori originali

DAVID BENNETT B.Sc.(Hons), B.Vet.Med.(Hons), PhD, DSAO, FHEA, MRCVS Glasgow, UK Laureato in Medicina Veterinaria al Royal Veterinary College dove compie anche il proprio internato, nel 1974 si trasferisce alla Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Glasgow in qualità di lettore in chirurgia. Nel 1980, consegue il Ph.D con una tesi sulle artriti infiammatorie del cane, dal titolo “Naturally Occurring Inflammatory Arthropathies of the Dog”. Dopo un paio di anni di pratica clinica, ricopre l’incarico di lettore senior all’Università di Liverpool, dove fonda il “Connective Tissue Research Group”, e, poco dopo, dà vita ad un ulteriore gruppo di ricerca di immunogenetica dei mammiferi, in collaborazione con il Centro di Ricerca integrata Medico-Genomica di Manchester. Nel 1990, viene nominato assistente del corso

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pubblicati su riviste o su atti di congressi nazionali e internazionali. È coautore del nuovo testo di Small Animal Gastroenterology, ed. Jorg M. Steiner, Schlutersche (2008). È socio fondatore della Società Italiana di Medicina Felina (SIMEF) e della Società Italiana di Gastroenterologia e Endoscopia Digestiva Veterinaria (SIGEDV). È socio della Società Italiana di Scienze Veterinarie, Società Italiana di Buiatria, Società Culturale Italiana Veterinari Animali da Compagnia, European Society of Comparative Gastroenterology, European Society of Veterinary Endocrinology, American Society of Camparative Gastroenterology. La principale area di studio e di ricerca è la medicina interna dei piccoli animali con particolare riferimento all’endocrinologia e alla gastroenterologia.

dontopatie nel cane. Esperienze professionali presso numerosi ambulatori e cliniche nell’ambito della clinica dei piccoli animali. Relatore dal 2003 al corso Scivac di citologia. Istruttore e relatore a corsi di endoscopia flessibile nel 2004 e nel 2005. Istruttore e relatore a corsi di gastroenterologia nel 2006. Relatore al congresso nazionale Scivac del 2006. È autore e coautore di articoli su riviste nazionali ed internazionali. Attualmente lavora come libero professionista nell’ambito dell’endoscopia flessibile presso numerosi ambulatori e cliniche in Piemonte, Liguria e Lombardia. JULIA BUCHHOLZ Med Vet, Dipl ACVR-Radiation Oncology, Colorado, USA La dottoressa Buchholz studia medicina Veterinaria a Giessen, in Germania e a Nantes, in Francia. Si laurea a Giessen nel 2002. Dopo aver praticato in una clinica privata in Germania si trasferisce a Zurigo dove lavora presso il Dipartimento di Radioterapia Oncologica e Diagnostica per Immagini (20032005), qui completa la sua tesi in Terapia fotodinamica. Su questo argomento pubblica su riviste nazionali ed internazionali e ne relaziona in diversi eventi nazionali ed internazionali. Nel 2005 inizia il Residency in Radioterapia oncologia presso l’Università di Zurigo e nel 2006 lo completa presso la Colorado State University. Si diploma all’American College of Veterinary Radiology (ACVR) nella specialità di Radioterapia Oncologica.

UGO BONFANTI Med Vet, Dipl ECVCP, Milano Laureato con lode presso l’Università di Milano nel 1992. Attualmente lavora presso l’Istituto di Ricerca “Accelera-NERVIANO MEDICAL SCIENCES” occupandosi di Patologia Clinica in ambito di sviluppo preclinico, dopo aver esercitato la libera professione occupandosi di Medicina Interna, Oncologia, Patologia Clinica. Ha effettuato stages presso università europee ed americane. Nel 2005 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Patologia Clinica Veterinaria (ECVCP). Ha presentato relazioni di citologia, oncologia, medicina interna in occasione di incontri, seminari e congressi nazionali SCIVAC. È istruttore e relatore al corso di citologia della SCIVAC ed è Past President della Società Italiana di Citologia Veterinaria (SICIV). Autore e coautore di numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e di presentazioni in occasione dei congressi annuali di ESVIM ed ESVCP.

ANTONELLO BUFALARI Med Vet, PhD, Perugia Laureato in Medicina Veterinaria (1989). Professore Associato dal 2006 presso l’Università di Perugia, con incarichi di insegnamento in Anestesiologia e Clinica Chirurgica. Visiting Fellowship e Post-doctoral Associate presso la Cornell University, per 2 anni. Titolo di PhD presso Faculty of Veterinary Medicine, Helsinki. Co-investigator di una ricerca sperimentale su analgesici presso la Cornell. Dal 1991 è membro SISVet e SCIVAC, dal 1993 è membro AVA, dal 1994 è membro SICV. Dal 2003, docente ai corsi SCIVAC di anestesiologia e dal 2004 è membro del consiglio direttivo SIARMUV. Autore/co-autore di 100 pubblicazioni di cui una decina su riviste internazionali. Relatore a numerosi congressi e seminari nazionali e internazionali. Co-autore di un capitolo su Veterinary Clinics of North America. Autore del manuale: “Concetti di base per l’artroscopia diagnostica e operativa nel cane”.

MICHELE BORGARELLI Med Vet, Dott Ric, Dipl ECVIM-CA (Cardiology), Arkansas, USA Laureato presso l’Università di Torino nel 1989 con una tesi di fisiologia. Dal 1990 si occupa di cardiologia e di medicina interna nei piccoli animali. Nel 1999 si è diplomato al College Europeo di Medicina Interna Cardiologia, (ECVIM-CA cardiology). Nel 2005 ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca, con una tesi sull’insufficienza mitralica. Dal 1996 al 2007 è professore a contratto prima e ricercatore poi presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Segretario e tesoriere della Società Europea di Cardiologia Veterinaria (ESVC) dal 1991 al 2004, ed è membro del consiglio direttivo della società stessa. Presidente della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria (SICARV) dal 2004 al 2007. Dal 2006 vicepresidente dell’ECVIM-CA. Attualmente Associate Professor in Cardiology presso la Kansas State University. È autore di circa 80 pubblicazioni e abstracts.

CLAUDIO MARIA BUSSADORI Med Vet, Dipl ECVIM-CA, Med Kir, Milano Laureato in Medicina Veterinaria, il 23/3/82 con 108/110. Diplomato in Cardiologia dell’European College of Internal Medicine ECVIM il 21/3/93. Laureato in Medicina e Chirurgia, il 29/10/2001, con 110 e Lode. Dottore di Ricerca in Fisiopatologia Cardiovascolare 14/12/2007. Direttore sanitario della Clinica Veterinaria G. Sasso a Milano, dove si occupa di cardiologia. Direttore del residency program dell’ECVIM-CA European

ENRICO BOTTERO Med Vet, Cuneo Si laurea in Medicina veterinaria presso l’università di Torino nel 1997 con una tesi sulle perio-

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college of Internal Medicine in cardiologia. Coordinatore della ricerca del centro cardiologia pediatrica & Cardiopatie Congenite dell’Adulto dell’Istituto policlinico IRCCS di San Donato Milanese. Membro onorario permanente del board dell’ESVC. Autore di 210 pubblicazioni includendo: articoli originali su riviste Veterinarie e Mediche, atti di congressi e libri. I campi di interesse attuali riguardano l’ecocardiografia, la diagnosi e il trattamento interventistico delle cardiopatie congenite nell’uomo e negli animali.

sione, occupandosi fin da subito esclusivamente di Medicina Interna e Citologia. Ha seguito periodi di formazione presso diverse strutture di valore internazionale (Animal Medical Center, NY, Utrecht University, Histovet, Barcellona). Oggi è il direttore sanitario della Clinica Napolivet a Napoli. È stata relatore a diversi corsi di Citologia e a diversi Convegni nazionali ed internazionali con argomenti di Medicina interna e Citologia. Ha collaborato con DRN per uno studio sull’efficacia di un epatoprotettore per il supporto terapeutico delle epatopatie secondarie da farmaci antiepilettici.

MARIA CHIARA CATALANI Med Vet, Senigallia (AN) Si laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia, nell’Anno Accademico 1998/99, e, nel 2001, riceve, dallo stesso Ateneo, l’Attestazione di Perfezionamento in “Educazione Sanitaria”. Attualmente svolge il “Master di medicina comportamentale degli animali d’affezione” dell’Università degli Studi di Pisa presso la quale ha conseguito l’Attestato di Perfezionamento in “Scienze Comportamentali Applicate” nel giungo del 2003. Membro della SISCA (Società Italiana Scienze Comportamentali Applicate) dall’anno 2000, dal 2002 è referee della SIUA (Scuola di Interazione Uomo-Animale) per la zooantropologia didattica. È stata autrice di alcuni articoli scientifici pubblicati su riviste italiane e di un saggio per una monografia sulla pet therapy, edita dalla SCIVAC. Svolge la sua attività professionale esclusivamente nell’ambito della medicina comportamentale e della zooantropologia applicata, sviluppando progetti di zooantropologia didattica e corsi privati di pet-ownership. Inoltre, è consulente per la prevenzione e la terapia comportamentale del cane e del gatto presso alcune strutture veterinarie.

RAIMONDO COLANGELI Med Vet, Dipl Comportamentalista ENVF, Roma Si laurea nel 1982 a Perugia in medicina veterinaria. Dal 1995 si occupa di patologia comportamentale. Presidente SISCA dal 2008. Ha seguito corsi di base ed avanzati di patologia comportamentale sia in Italia che in Francia. Diplomato Medico Veterinario Comportamentalista nelle ENV francesi nel 2002. È stato relatore a seminari e corsi di patologia comportamentale in Italia e Francia. È direttore del corso base ed avanzato di medicina comportamentale della Scivac dal 2002. È professore a contratto alla facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo. Ha pubblicato articoli di med. comportamentale su riviste veterinarie. Autore insieme alla Dr. Sabrina Giussani del libro “La medicina comportamentale del cane e del gatto” edizione Poletto. Coautore del libro “Il canile come presidio zooantropologico” di Roberto Marchesini, Ed. Medico-Scientifiche 2007. È membro di Zoopsy e ESVCE SILVIA COLOMBO Med Vet, Dipl ECVD, MRCVS, Milano Laureata all’Università di Milano nel 1992, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Medicina Interna Veterinaria presso la stessa facoltà nel 1997 ed ha percepito una borsa di studio Post-Dottorato presso la stessa sede dal 1998 al 2000. Dal 2000 al 2003 ha frequentato un periodo di specializzazione di tre anni in dermatologia veterinaria presso il Department of Clinical Veterinary Studies, The University of Edinburgh. È stata docente a contratto presso il Department of Clinical Veterinary Science, University of Bristol, tra il novembre 2003 ed il giugno 2004. Nel luglio del 2004 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (DipECVD). Dal 2004 lavora nel Nord Italia, presso diverse strutture, eseguendo esclusivamente consulenze dermatologiche. È membro della SIDEV dal 1997 e dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) dal 1994. Dal 2007 è membro del consiglio direttivo SIDEV. La Dr.ssa Colombo è autrice di numerosi articoli su riviste italiane e straniere

LOUISE CLARK DVM, Dipl ECVAA, London, UK La Dr.ssa Clark si è laureata nel 1997 alla University of Glasgow. Dopo aver esercitato per tre anni la libera professione generica, ha iniziato un periodo di residenza in anestesia alla University of Edinburgh, dove ha ottenuto sia il Certificate in Veterinary Anaesthesia che il Diploma of the European College of Veterinary Anaesthesia and Analgesia. Dal 2003 al 2007 è stata anestesista clinica all’Animal Health Trust, facendo parte di un team impegnato a garantire anestesia e terapie ai pazienti in condizioni critiche. Attualmente è Head of Anaesthesia at Davies Veterinary Specialists, il più grande ospedale specialistico privato in Europa. TIZIANA COCCA Med Vet, Napoli Tiziana Cocca è nata a Napoli, dove si è laureata in Medicina Veterinaria nel 1988. Nel 1991 ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Morfologia Comparata degli Animali Domestici, durante il quale si è occupata principalmente di studi immunoistochimici sul sistema neuroendocrino degli animali domestici, pubblicando circa 40 lavori su riviste nazionali ed internazionali. Si è poi avviata alla libera profes-

STEFANO COMAZZI Med Vet, Dott Ric, Dipl ECVCP, Milano Ricercatore confermato presso il Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e

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Sanità Pubblica Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. È stato per tre anni direttore sanitario di un laboratorio privato di analisi veterinarie di Milano, a prevalente attività in ematologia, chimica clinica e citologia. Attualmente è ricercatore confermato presso il Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, dell’Università di Milano. Nel 1999 consegue il dottorato di ricerca in Patologia Comparata degli Animali Domestici e Selvatici e dal 2002 è diplomato all’European College of Veterinary Clinical Pathology (ECVCP). La sua attività scientifica verte prevalentemente su aspetti di Patologia Clinica con particolare riferimento alle malattie linfomieloproliferative e alla funzionalità eritrocitaria dei piccoli animali. È autore di più di 40 pubblicazioni su riviste internazionali con impact factor, di più di 100 pubblicazioni su riviste nazionali o atti di congressi e di diversi capitoli di libri sia nazionali che internazionali Dall’anno accademico 2004-2005 è docente dei moduli di Neoplasie ematologiche e di Disordini emopoietici nell’ambito dei corsi di Laurea in Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. È membro dell’Editorial Board della rivista internazionale Veterinary Clinical Pathology e revisore per numerose riviste internazionali su argomenti di patologia clinica. Riveste differenti incarichi nella Società e nel College Europeo di Patologia Clinica Veterinaria (ESVCP-ECVCP).

Il Dr. DiBartola si è laureato in medicina veterinaria (DVM) presso la University of California, Davis nel 1976. Nel giugno 1977 ha portato a termine un periodo di internato in Small Animal Medicine and Surgery alla Cornell University di Ithaca, New York. Da luglio 1977 a luglio 1979 è stato resident in Small Animal Medicine all’Ohio State University College of Veterinary Medicine. Da luglio 1979 ad agosto 1981 è stato Assistant Professor of Medicine al College of Veterinary Medicine della University of Illinois. Nell’agosto del 1981, il Dr. DiBartola è tornato al Department of Veterinary Clinical Sciences della Ohio State University come Assistant Professor of Medicine. È stato promosso Associate Professor nel 1985 e Professor nel 1990. Nel 1988 ha ricevuto il Norden Distinguished Teaching Award ed ha completato la stesura di un trattato dal titolo Fluid Therapy in Small Animal Practice pubblicato per la prima volta da W.B. Saunders Co. nel 1992. Nel 2006 è uscita la terza edizione di questo libro. Attualmente, il Dr. DiBartola è co-editor-inchief del Journal of Veterinary Internal Medicine. Le sue aree di interesse clinico sono rappresentate dalle malattie renali e dagli squilibri idrici, acidobasici ed elettrolitici. Nel campo della ricerca, si occupa dall’amiloidosi sistemica reattiva e di due nefropatie famigliari del gatto: l’amiloidosi famigliare dei gatti abissini e la nefropatia policistica autosomica dominante di quelli persiani. ANTONIO DI SOMMA Med Vet, SMPA, Dubai, UAE Antonio Di Somma si è laureato all’Università di Napoli “Federico II” nel 1978. Nel 1982 ha conseguito il diploma di specializzazione in “Malattie dei piccoli animali” all’Università di Pisa. Dal 1995 al 1998 è stato presidente regionale della SCIVAC Campania. Dal 1991 al 2000 direttore sanitario della Clinica Veterinaria “Villa Felice” ad Arco Felice (Na). Sin dal periodo post laurea ha sviluppato particolare interesse per la Medicina Aviare ed ha collaborato con centri per la riabilitazione in natura di falchi feriti. Autore e coautore di diverse pubblicazioni scientifiche è stato relatore in eventi a livello nazionale e internazionale. Nel 2001 è stato chiamato a dirigere il Dubai Falcon Hospital in Dubai (Emirati Arabi Uniti) che ha una casistica di circa 1800 falchi visitati in un anno ed è il più antico ospedale per falchi del mondo. È falconiere dall’età di 16 anni e ha volato molti tipi di falchi per la pratica della falconeria, per la reintroduzione in natura e per il pest/control. Antonio Di Somma è anche maratoneta e recentemente ultramaratoneta, avendo esordito nella specialità dei 100 km dove ha ottenuto il titolo italiano di categoria. Da 7 anni vive e lavora negli Emirati Arabi con lunghi periodi di soggiorno invernale in Pakistan.

FEDERICO CORLETTO DVM, CertVA, Dipl ECVA, MRCVS, Cambridge, UK Nato a Castelfranco Veneto, ha conseguito la Laurea in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Padova nel 1997, con il massimo dei voti e la lode. Ha prestato servizio come ricercatore presso la medesima Facoltà, occupandosi di anestesiologia. Nel 2002 ha conseguito il Certificate in Veterinary Anaesthesia rilasciato dal Royal College of Veterinary Surgeons e nel 2003 il Diploma di Specializzazione in Anestesiologia Veterinaria rilasciato dal College Europeo (ECVA). Dal giugno 2003 lavora all’Animal Health Trust (Newmarket), in qualità di Anestesista Veterinario. LUISA CORNEGLIANI Med Vet, Dipl ECVD, Milano Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Milano nel 1991, lavora come libero professionista nel settore dei piccoli animali dove si occupa di dermatologia dal 1995. Ha frequentato periodi d’aggiornamento all’estero ad indirizzo dermatologico presso strutture private ed universitarie. È diplomata al College Europeo di Dermatologia Veterinaria. È inoltre autore di numerosi articoli su riviste nazionali ed internazionali, nonché traduttore di testi di dermatologia veterinaria e co-autore di un cd multimediale dedicato alla dermatologia. Attualmente lavora eseguendo visite dermatologiche di referenza a Milano, Torino, Novara.

ROBERTO ELICES Med Vet, PhD, Madrid, E Roberto Elices Mínguez, Laureato in Medicina Veterinaria e PhD in Veterinary Science alla Universidad Complutense de Madrid (UCM). Diplomato in Chirurgia Ortopedica presso la stessa Università. Ha iniziato a

STEPHEN P. DIBARTOLA DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), Ohio, USA

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lavorare nella facoltà nel 1990 ed attualmente è Professore di Nutrizione Animale alla Facoltà di Veterinaria di Madrid. Membro del Servizio di Endocrinologia ed Obesità dell’Ospedale Didattico Veterinario della stessa Facoltà. Sin dalla laurea, ha lavorato come veterinario presso cliniche private esterne. Membro del Weight Advisory Group (WAG). Nel tempo libero, fa del suo meglio per occuparsi dei sui cinque animali da compagnia ed ama le immersioni in mare.

autore di relazioni e pubblicazioni nazionali ed internazionali, riguardanti la neurologia veterinaria. Dal 2004 è membro della Società Europea di Neurologia Veterinaria (ESVN) e della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVet), della quale è consigliere dal 2007. Attualmente, svolge attività neurologica specialistica presso la Clinica Veterinaria Valdinievole con particolare interesse per la Risonanza Magnetica (RMI) applicata alla neurologia.

JONATHAN ELLIOTT MA, Vet MB, PhD, Cert SAC, Dipl ECVPT, MRCVS, London, UK Il Dr. Jonathan Elliott si è laureato alla Cambridge University Veterinary School nel 1985. Attualmente è Professor in Veterinary Clinical Pharmacology e Vice Principal for Research al Royal Veterinary College. È Diplomate of the European College of Veterinary Pharmacology and Toxicology e membro del Veterinary Products Committee, un comitato che fornisce indicazioni al Governo del Regno Unito sull’autorizzazione dei prodotti medicinali veterinari. I suoi interessi nel campo della ricerca riguardano la fisiopatologia delle malattie renali, cardiache e vascolari degli animali da compagnia.

FRANCO FASSOLA Med Vet Comportamentalista, Asti Si laurea nel 1989 a Torino. Dal 1995 si occupa di patologia comportamentale. Segretario-tesoriere SISCA dal ’99. Ha seguito corsi di base ed avanzati di medicina comportamentale in Italia e in Francia. Ha partecipato al corso per la formazione del diploma “Vetérinaire Comportementaliste des ENV Francaises”. Direttore Scientifico della rivista di medicina comportamentale Sisca Observer. Ha pubblicato articoli di patologia comportamentale su riviste veterinarie e di divulgazione. Autore di un libro sull’educazione del cane, “Educare o Ri-educare il cane”; ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “La medicina comportamentale del cane e del gatto”. È stato membro dello staff del Progetto Ex-combattenti dell’ENPA. Fa parte del comitato scientifico del Master di secondo Livello dell’Univ. di Torino. È membro dell’Ass. dei comportamentalisti francesi Zoopsy e dell’ESVCE.

GARY W. ELLISON DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA Il Dr. Ellison si è laureato in medicina veterinaria (DVM) presso la University of Illinois nel 1975. Nel 1976 ha portato a termine un periodo di internato sui piccoli animali al South Shore Veterinary Associates di Weymouth, Massachusetts. In seguito, ha esercitato la libera professione generica sui piccoli animali a San Francisco, California. Nel 1981 ha completato un periodo di residenza in Chirurgia dei Piccoli Animali ed ottenuto il titolo di MS in chirurgia sperimentale presso la Colorado State University. Ha esercitato la professione come specialista in chirurgia a San Diego, California, prima di diventare Diplomate of the American College of Veterinary Surgeons ed entrare a far parte della facoltà della University of Florida nel 1983. È autore o coautore di 70 pubblicazioni referee e PI (principal investigator, ricercatore principale) o Col (collaboratore) di 25 progetti di ricerca sovvenzionati. I suoi campi di interesse sono rappresentati dalla chirurgia gastroenterica e toracica endoscopica e dal trapianto di rene nel gatto. Attualmente è Professor and Chief of Small Animal Surgery presso la University of Florida.

GIUSEPPE FEBBRAIO Med Vet, Bari Laureato nel 1992, ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in “Parassitologia, Malattie Parassitarie negli Animali Domestici” nel 1999, presso l’università di Bari. Nel 2006 ha conseguito il Diploma di Master Internazionale di II Livello in Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva presso l’Università di Teramo. Consulente nutrizionale, ha partecipato a numerosi congressi nazionali e seminari. Svolge attività di libero professionista nella propria clinica (Centro Veterinario Einaudi) a Bari dove si occupa di medicina interna e principalmente di gastroenterologia ed endoscopia. EDWARD C. FELDMAN DVM, Dipl ACVIM (Internal medicine), California, USA RICERCA: malattie endocrine di surreni, pancreas, paratiroidi e tiroidi del cane e del gatto. DIDATTICA: Endocrinologia e riproduzione clinica dei piccoli animali. SERVIZIO ALLA PROFESSIONE: Reviewer, JAVMA. CoFounder e Past-President della Society for Comparative Endocrinology. Relatore a convegni nazionali ed internazionali di Endocrinologia. Servizio per SVM committees: Student Affairs, Executive, School Personnel.

CRISTIAN FALZONE Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme (PT) Nel 2001 consegue la laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università di Perugia. Fino al 2003 conduce attività di libero professionista nella provincia di Perugia ed Arezzo e collabora con la facoltà di medicina veterinaria di Perugia, dipartimento di chirurgia. Dal 2004 al 2007 svolge un Residency in Neurologia presso la Clinica Veterinaria Valdinievole, Monsummano Terme (PT), sotto diretta supervisione del dr. Massimo Baroni. Nel 2006 svolge brevi periodi di continuing education all’estero. Nel settembre 2007, dopo aver sostenuto l’esame tenutosi a Berna, si diploma al College Europeo di Neurologia Veterinaria. È

EMILIO FELTRI Med Vet, Tortona (AL) Laureato presso l’Università degli Studi di Parma nel 1996. Dal 1999 segue un programma di ag-

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giornamento continuo in anestesiologia presso l’Unviersità di Gent e l’Università di Berna sotto la supervisione del Prof. Yves Moens. È membro della Società Scivac di Anestesiologia, della Società europea di Anestesia Veterinaria (AVA), della Società di Anestesia a Bassi Flussi (ALFA). È, inoltre, docente e istruttore ai Corsi Professionali Scivac di anestesia e ai Seminari professionali di livello base e avanzato in collaborazione con lo staff dell’Università di Berna. Nel triennio 2003-2005 ricopre l’incarico della Siamurv (Società di Anestesia e Medicina di Urgenza Scivac). Direttore dell’itinerario in anestesia Scivac. Autore di un capitolo sui monitoraggi del testo Medicina di Urgenza e Terapia Intensiva nel cane e nel gatto. Dal 2005 segue un corso di terapia del dolore in continua educazione presso l’asl 20 sotto la supervisione del prof. Guido Orlandini (primario del centro di terapia del dolore Ospedale di Tortona). Marzo 2007 viene eletto Consigliere dell’AVA (Association Veterinary Anaesthesia) per il triennio 2007-2009. I suoi principali ambiti di interesse riguardano le tecniche avanzate di basso flusso nell’anestesia gassosa, il monitoraggio degli scambi gassosi e sopratutto il controllo del dolore.

mesi presso la Colorado State University e presso la Texas A&M University approcciandosi all’oncologia, alla medicina interna e alla gastroenterologia. Nel 2000 inizia un dottorato di ricerca sull’oncologia veterinaria e comparata presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino e frequenta il reparto di gastroenterologia dell’Azienda Ospedaliera “San Giovanni Bosco” di Torino. Nel 2004 si trasferisce all’estero e inizia un programma di Residency in Medicina Interna della durata di 3 anni presso le Università di Berna (Svizzera) e di Baton Rouge (USA), superando l’esame di specializzazione ACVIM nel giugno 2007. Collabora attualmente come internista presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino e presso la Clinica Veterinaria Malpensa di Samarate, e come gastroenterologa presso l’Ospedale Anubi di Moncalieri. STEFANIA GIANNI Med Vet, Milano Laureata nel Luglio 1991 a pieni voti all’Università di Milano. Dal 1992 lavora presso la Clinica S. Siro piccoli animali di Milano occupandosi di chirurgia d’urgenza ed ortopedia e dal 1997 con attività specialistica in neurologia clinica e neurochirurgia. Dal 1996 al 1998 ha effettuato un periodo di tirocinio presso il dott. Massimo Baroni a Genova e successivamente numerosi corsi e periodi di aggiornamento in neurologia clinica e neurochirurgia in particolare presso l’Università di Berna e quella di Madison. Dal Novembre 2004 lavora anche presso la Clinica Veterinaria Tibaldi di Milano come responsabile del settore neurologico. Collabora con diverse strutture veterinarie dell’area lombarda come referente per la neurologia e la neurochirurgia. Relatrice a diversi corsi, congressi e seminari nazionali. Dal 1997 membro della SINVet e dell’ESVN, dal Novembre 2004 membro del consiglio direttivo SINVet.

LUCA FORMAGGINI Med Vet, Dormelletto (NO) Si laurea a Milano nel Febbraio 1991. Dopo vari periodi di tirocinio in Italia e all’estero, dal 1996 lavora presso la Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” di cui è socio fondatore. È relatore in diversi corsi SCIVAC di chirurgia, ortopedia e medicina/chirurgia d’urgenza. È stato relatore a diversi congressi e seminari a livello nazionale. Membro SCIVAC, BSAVA, VECCS e EVECCS, è Resident in training per accedere all’esame dello European College of Veterinary Surgery (ECVS). Dal 2004 è vice-Presidente della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana (SCVI). I principali campi di interesse sono rivolti a tutti gli aspetti della traumatologia e alla chirurgia mini-invasiva. GIOVANNI GHIBAUDO Med Vet, Samarate (VA) Laureato presso l’Università di Milano nel 1994, dal 1996 si occupa di dermatologia veterinaria e citopatologia. Lavora come referente per la dermatologia presso diverse strutture veterinarie In Lombardia, Emilia Romagna e Marche. Full member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology). È stato istruttore al Corso base di Dermatologia della SCIVAC (Società Culturale Italiana Veterinari Animali da Compagnia) (2001-2003). È stato relatore al Congresso Nazionale della SCIVAC nel 1999, 2002, 2004, 2007 e 2008 e dell’AIVPA (Associazione Italiana Veterinari dei Piccoli Animali) nel 2004, 2007, 2008. Traduttore del libro “Dermatologia del cane e del gatto” di Medleau e Hnilica 2° Ed. 2007. Autore di oltre 50 articoli su riviste veterinarie nazionali ed estere. I suoi settori d’interesse sono la citologia cutanea, le otiti e la dermatite allergica nel cane e nel gatto.

SABRINA GIUSSANI Med Vet, Dipl Comportamentalista ENVF, Busto Arsizio (VA) Si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Milano. Dal 1998 si occupa di Medicina Comportamentale. È consigliere SISCA (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate) dal febbraio 2002. Ha partecipato a seminari, corsi di base, corsi avanzati di Medicina Comportamentale sia in Italia sia in Francia. Si è diplomato Medico Veterinario Comportamentalista presso l’Ecole Nationale Française nel novembre 2002. È stata relatore a giornate regionali, seminari, corsi di base e avanzati in Italia. Ha pubblicato articoli inerenti la Medicina Comportamentale su riviste del settore scientifico ed è autore, insieme al Dott. Colangeli, del libro”Medicina comportamentale del cane e del gatto” edito da Poletto nel 2004. Consegue nel dicembre 2004 il Master di specializzazione di 2° livello organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Padova in “Etologia applicata al benessere animale”. È professore a contratto nel 2005 nel Master inerente alla Medicina Comportamentale organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Torino. È socio di Zoopsy e di ESVCE.

PAOLA GIANELLA DVM, PhD, Torino (I) Si laurea con lode nel 1999 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria a Torino. Trascorre alcuni

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CECILIA GORREL BSc, MA, Vet MB, DDS, MRCVS, Hon FAVD, Dipl EVDC, RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry, Londra, UK La Dr.ssa Cecilia Gorrel è Doctor of Dental Surgery, Oral Pathologist e Veterinary Surgeon. È European ed RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry. È partner di una struttura specialistica del Regno Unito dedicata all’Odontoiatria Veterinaria ed alla Chirurgia Orale (Petdent Ltd). È anche Independent Research Consultant e si occupa dello studio delle malattie orali del cane e del gatto. È Diplomate dell’European Veterinary Dental College (EVDC), del quale è stata Inaugural President. La Dr.ssa Gorrel è anche Honorary Fellow of the Academy of Veterinary Dentistry ed Honorary Lifetime Member of the British Veterinary Dental Association. Opera attivamente come relatrice internazionale ed è autrice e coautrice di numerose pubblicazioni scientifiche, come i libri ‘Veterinary Dentistry for the General Practitioner’, ‘Veterinary Dentistry for the Nurse and Technician’ e ‘Solutions in Veterinary Practice: Small Animal Dentistry’.

ANN K. JEGLUM DVM, Dipl ACVIM Oncology, Pennsylvania, USA Ann Jeglum si è laureata alla Pennsylvania School of Veterinary Medicine nel 1977. Già prima di laurearsi ha lavorato nella ricerca oncologica presso la Harvard University School of Medicine. Dopo la laurea ha contribuito ad avviare il servizio di oncologia clinica presso la Pennsylvania School of Veterinary Medicine dove è rimasta per 14 anni. Durante questo periodo ha collaborato anche con il National Cancer Institute e il Fox Chase Cancer Center. Nel 2001 ha fondato il Veterinary Oncology Services’ Radiation Center. Attualmente è Adjunct Associate presso il Wistar Institute di Philadelphia dove ha sviluppato gli anticorpi monoclonali per la terapia del linfoma canino. Attualmente è impegnata in una ricerca sovvenzionata dall’American Kennel Club’s Canine Health Foundation sulla genetica dei tumori ereditari nei Golden Retrievers. JOLLE KIRPENSTEIJN DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ECVS, Utrecht (NL) Jolle Kirpensteijn si è laureato alla Utrecht University Faculty of Veterinary Medicine, in Olanda, nel 1988 ed ha portato a termine un periodo di internato in medicina dei piccoli animali e chirurgia alla University of Georgia negli Stati Uniti d’America nel 1989. Dopo il suo internato, ha completato un periodo di residenza in chirurgia dei piccoli animali e conseguito un Master presso la Kansas State University, USA. La residenza è stata seguita da un fellowship in oncologia chirurgica presso la Colorado State University Comparative Oncology Unit, USA. Nel 1993, Jolle è tornato in Europa per accettare un Associate-professorship in oncologia chirurgica e chirurgia dei tessuti molli presso la University of Utrecht. Nel febbraio del 2005 è stato nominato Professore di Chirurgia presso la University of Copenhagen. È Diplomate of the American and European College of Veterinary Surgeons ed è stato membro attivo del board of Regents di questo College. Dall’ottobre 2006 è membro dell’executive board della World Small Animal Veterinary Association, attualmente come vicepresidente. I suoi principali interessi clinici e di ricerca sono l’oncologia chirurgica e la chirurgia ricostruttiva e traumatologica. Nel 1999 ha conseguito il PhD sull’osteosarcoma ed attualmente svolge un ruolo attivo nella ricerca sulla patogenesi di questa neoplasia nel cane e nel gatto, sulla chirurgia endoscopica e sulla traumatologia. Ha pubblicato più di 50 articoli su riviste referee e tenuto più di 200 lezioni in tutto il mondo ed ha ricevuto il prestigioso BSAVA Simon Award nel 2007.

STEVE HASKINS DVM, MVS, Dipl ACVA Dipl ACVECC, California, USA Il Dr. Steve Haskins si è laureato presso la Washington State University. Ha portato a termine un periodo di internato all’Animal Medical Center di New York City ed uno di residenza in anestesia alla University of Minnesota. In seguito ha lasciato le nevi del Minnesota ed è entrato a far parte del corpo docente di anestesia della University of California, Davis e nel 1976 ha ottenuto il titolo di Diplomate of the American College of Veterinary Anaesthesiologists. In seguito è stato membro fondatore dell’American College of Veterinary Emergency and Critical Care ed ha avviato l’unità di terapia intensiva della University of California. Il Dr. Haskins continua a sviluppare e far progredire questa struttura dalla sua attuale posizione di Director of the Small Animal Intensive Care Unit e Professor in the Department of Surgery and Radiology. Ha pubblicato numerosi lavori di ricerca su argomenti come la ventilazione meccanica, la rianimazione cardiopolmonare, lo shock e la sepsi. KARIN HOLLER Med Vet, Austria Si è dedicata allo studio della medicina veterinaria a Vienna, laureandosi nel 1981. Dopo un periodo di formazione negli Stati Uniti e vari ospedali per piccoli animali, è diventata Direttore del servizio di medicina dell’ospedale per piccoli animali di Leonding / Austria. Si è specializzata in oftalmologia ed ha ottenuto la certificazione come veterinario per piccoli animali. Nel 2000 ha conseguito il diploma in agopuntura dell’IVAS e poi un master in medicina cinese all’Università di Krems/Austria. Nel 2004 ha conseguito la certificazione della International Veterinary Chiropractic Society. Dopo un periodo di formazione negli Stati Uniti ha ottenuto la certificazione in Canine Rehabilitation. Nel 2005 è diventata direttrice dell’unità di fisioterapia dell’ospedale per piccoli animali di Leonding. È relatrice a convegni locali ed internazionali. È sposata ed ha 2 figli. Il suo hobby principale è giocare a golf.

MICHAEL P. KOWALESKI DVM, Dipl ACVS, Massachusetts, USA Il Dr. Michael Kowaleski si è laureato presso la Tufts University School of Veterinary Medicine nel 1993. Dopo aver esercitato per diversi anni la libera professione generica, nel 2002 ha portato a termine un periodo di residenza in chirurgia dei piccoli animali presso la Tufts University in un programma congiunto con l’Angell Memorial Animal Hospital. Nel 2003 ha ottenuto la board certification dell’American College of Veterinary Surgeons.

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Dal 2002 al 2007 è stato Assistant Professor of Small Animal Orthopaedic Surgery alla The Ohio State University e nel 2007 è stato promosso Associate Professor di ruolo. Attualmente è Associate Professor of Small Animal Orthopaedic Surgery alla Tufts Cumming School of Veterinary Medicine. Le sue aree di interesse clinico e di ricerca sono rappresentate da artroscopia, promozione della guarigione delle fratture, fissazione scheletrica esterna, riparazione delle fratture e impianti ortopedici, sostituzione totale delle articolazioni, valutazione clinica e radiologica dell’allineamento degli arti, osteoartrite, gestione del dolore perioperatorio e di quello cronico e ruolo dell’osteotomia nel trattamento dell’artropatia.

LAURA MARCONATO Med Vet, Dipl ECVIM Oncology, Hünenberg (ZUG), CH Laureata a Milano in Medicina Veterinaria (1999). Nel 2000-2003 frequenta il Veterinary Oncology Service and Research Center (Philadelphia), centro di referenza per l’oncologia, occupandosi di oncologia. Nel 20012003 è fellow visitor a UPenn (Dip di Patologia Vet). Nel 2003-2009 lavora a Napoli, occupandosi solo di oncologia di cane e gatto. Nel 2003-2004 è professore a contratto presso la scuola di specializzazione di fisiopatologia della riproduzione, Uni NA Federico II. Nel 2007-2009 è docente al Master di Oncologia (Facoltà di Med Vet, Uni PI). Nel 20072009 è professore a contratto presso la facoltà di Med Vet, Uni BO. Nel 2008 consegue il diploma del College Europeo di Medicina Interna-Oncologia (DECVIM-CA [Oncology]). È autrice del testo di oncologia clinica del cane e del gatto per Poletto editore e di articoli su riviste nazionali ed internazionali. È vice-presidente SIONCOV.

LAURA HELEN KRAMER DVM, Phd, Dipl EVPC, Parma La Dott.ssa Laura Kramer nasce a New York dove consegue “Bachelor of Science”. Nell’84 si iscrive alla Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma dove consegue la laurea. Dal ’90 al ’93 esercitata la libera professione presso il Centro Diagnostico Veterinario di Reggio Emilia. Viene ammessa a frequentare il dottorato di ricerca in “Discipline Anatomoistopatologiche Veterinarie presso l’Università degli Studi di Bologna espletando la sua attività di ricerca scientifica presso l’Istituto di Anatomia Patologica Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma. Durante il periodo di dottorato ha trascorso un lungo stage di studio e di ricerca in Inghilterra presso il Laboratorio di Istopatologia della Dott.ssa Joan Rest, Professore presso l’Università di Cambridge, allo scopo di approfondire lo studio della dermopatologia, soprattutto infettiva ed infestiva, negli animali domestici. Nel 97 diventa “Dottore di Ricerca”. Quale vincitore di concorso pubblico per posti di Ricercatore per il S.S.D. V36B - Parassitologia e Malattie Parassitarie degli Animali, il 16 Dicembre 1998 la dott.ssa Laura Helen Kramer è stata nominata a ricoprire un posto di ricercatrice messo a concorso presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma. Con Decreto Rettorale n. 952 del 29/03/2001 è stata successivamente reinquadrata nel Settore Scientifico Disciplinare VET/06 Parassitologia e malattie parassitarie degli animali e nel 2002 la Commissione Giudicatrice ha espresso parere favorevole per la conferma in Ruolo dei Ricercatori Universitari per il S.S.D. VET/06. Nel 2003 si è diplomata all’European Veterinary Parasitology College.

ROSANNA MARSELLA DVM, Dipl ACVD, Florida, USA La Dr.ssa Rosanna Marsella è Diplomate of the American College of Veterinary Dermatology e laureata all’Università di Milano, Italia (1991). Negli ultimi 10 anni è stata Service Chief of the Dermatology Service at the University of Florida ed attualmente è Associate Professor. La sua area di ricerca è rappresentata dalla patogenesi della dermatite atopica del cane e dall’identificazione di nuovi trattamenti. La Dr.ssa Marsella è membro dell’International Task Force on canine atopic dermatitis e co-editor di Veterinary Dermatology. È autrice di oltre 60 articoli su riviste referee, la maggior parte dei quali focalizzati sulle malattie allergiche della cute e sulla dermatite atopica. La Dr.ssa Marsella vive in una fattoria dove, nel tempo libero, si dedica alla sua passione per l’equitazione. ANDREA MARTINOLI Med Vet, Milano Dal 1983 al 1990 trascorre un periodo di internato presso l’Istituto di Clinica Chirurgica Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. Durante tale periodo partecipa a numerosi progetti di ricerca, alla stesura di numerosi articoli e tesi di laurea tra le quali in particolare “Osservazioni generali sull’applicazione della Fisioterapia nella riabilitazione al movimento del cane e nel gatto”. Si Laurea nel 1990 presso il medesimo Istituto. Dal 1991 è Direttore Sanitario di una struttura Veterinaria nell’ambito della quale si occupa prevalentemente del settore chirurgico ed ortopedico. Dal 1992 al 1995 riveste il ruolo di Direttore Sanitario dell’Ambulatorio Veterinario del “Centro di Recupero Fauna Selvatica” del Parco Lombardo della Valle del Ticino. Dal 1993 si occupa attivamente della gestione di animali d’affezione affetti da disabilità motorie. Dal 1995 si occupa della gestione sanitaria del Centro Cinofilo, Addestramento, Pensione ed Allevamento, nell’ambito del quale nel 1998 viene attivato un centro che si occupa esclusivamente di fisioterapia e riabilitazione dei piccoli animali. Nel 1997 partecipa in qualità di relatore al Congresso S.I.N.Vet con una relazione riguardante

GIAN LUIGI MANARA Med Vet, Torino Laureato a Bologna discutendo una tesi in patologia chirurgica dal titolo “ Urolitiasi nel cane”. Soggiorno all’estero presso numerosi Centri specialistici, quali Animal Medical Center di New York, Facoltà di Medicina Veterinaria Università di Berna. Svolge libera professione a Trento occupandosi principalmente di ortopedia. Autore di numerosi articoli inerenti l’ortopedia dei piccoli animali, membro del Board Nazionale sullo studio dell’obesità nel cane e le sue conseguenze. Ricopre attualmente la carica di pastpresident della SITOV.

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l’uso dei carrelli ortopedici. Nell’anno 2004 - 2005 frequenta la prima edizione della Scuola Italiana di Fisioterapia Veterinaria per Piccoli Animali presso il Centro Allevamento e Addestramento della Guardia di Finanza di Castiglione del Lago (PG). Nel 2007 ha partecipato in qualità di relatore al Congresso annuale Scivac e ad incontri del Gruppo di Studio di Fisioterapia Veterinaria presentando alcune relazioni riguardanti la fisioterapia e l’uso dei carrelli ortopedici nei piccoli animali. Collabora tuttora con numerose strutture veterinarie offrendo la propria consulenza in campo chirurgico, ortopedico e fisioterapico.

Diplomato presso l’European College of Veterinary and comparative nutrition, è autore di oltre 180 pubblicazioni scientifiche che riguardano prevalentemente l’alimentazione animale, in particolare quella dei carnivori domestici e di 13 libri di tipo scientifico e scientifico-divulgativo. CHIARA NOLI Med vet, Dipl ECVD, Milano Laureata all’Università di Milano nel 1990, è specialista in Malattie dei Piccoli Animali dal 1995. Ha frequentato un periodo di specializzazione di tre anni in dermatologia veterinaria presso l’Università di Utrecht, Paesi Bassi, e nel 1996 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip ECVD). Dal 1996 lavora in Italia eseguendo esclusivamente consulenze dermatologiche e letture dermatopatologiche. È stata Presidente della Società Italiana di Dermatologia Veterinaria (SIDEV), membro del Consiglio Direttivo della Società Internazionale di Dermatopatologia Veterinaria (ISVD) e Presidente della ESVD (Società Europea di Dermatologia Veterinaria). La Dr.ssa Noli è relatrice in congressi italiani ed internazionali, autrice di numerosi (quasi 100) articoli su riviste italiane e straniere e di otto capitoli di libri. Con la Dr.ssa Fabia Scarampella è co-autrice del volume “Dermatologia del Cane e del Gatto”, Poletto Editore, 2002, tradotto anche in tedesco.

CARLO MASSERDOTTI Med Vet, Dipl ECVCP, Brescia Si è laureato col massimo dei voti presso l’Università di Milano nel 1990. Dal 1993 si occupa di patologia clinica con particolare riferimento alla citopatologia diagnostica, curando l’aggiornamento permanente in Italia ed all’estero. È autore di pubblicazioni inerenti la citopatologia e l’ematologia ed è relatore a meeting nazionali ed internazionali. Dal 1998 è istruttore e relatore al corso di Citologia organizzato dalla SCIVAC. Dal 2001 al 2004 ha ricoperto la carica di presidente della SICIV (Società Italiana di Citologia Veterinaria). Nel 2005 ha conseguito il diploma presso l’European College of Veterinary Clinical Pathology. Dal 2003 al 2006 ha ricoperto la carica di vice-presidente dell’ESVCP (European Society of Veterinary Clinical Pathology). Nel 2008 ha conseguito il diploma di specializzazione in Biochimica Clinica, presso l’Università degli Studi di Brescia.

MARIA SERAFINA NUOVO Med Vet, Torino Si laurea in Medicina Veterinaria a Torino nel 1985 con una tesi sperimentale sull’impiego dell’Omeopatia nella clinica degli animali d’affezione (prima tesi in Italia) e in questo stesso periodo frequenta e conclude il corso base del CISDO (Centro Italiano Studi e Documentazione Omeopatica -Boiron-) Allieva del Dr. Franco Del Francia dal 1986 al 1989 (Corso Aivo-Roma-), è stata poi membro del Consiglio Direttivo dell’AIVO (Associazione Italiana di Veterinaria Omeopatica) dal 1989 al 1991 e docente presso la Scuola Superiore Internazionale di Veterinaria di Cortona (Arezzo) negli anni 1990 e 1991. Dal ’94 è a tutt’oggi docente nella Scuola Medica Omeopatica Hahnemanniana di Torino, affiliata alla FIAMO (Federazione Italiana delle Associazioni e dei Medici Omeopatici). Ha fatto parte del corpo docenti del primo corso di perfezionamento in Medicine Energetiche istituito nell’anno 2000/2001 presso l’ASSL di Tolmezzo (Udine) e patrocinato dall’Università di Medicina Veterinaria di Udine. Membro, fin dalla sua costituzione, del Gruppo di studio di medicina non convenzionale nato in seno alla SCIVAC, successivamente convertito in SIMVeNCo (Società di Medicina Veterinaria Non Convenzionale). Ha conseguito nel gennaio 2007 il diploma del Master di II livello in clinica delle malattie comportamentali del cane e del gatto istituito dalla Facoltà di Veterinaria di Torino.

DAVID MORGAN BSc, MA, VetMB, CertVR, MRCVS, Ginevra, CH La prima laurea, in Biochimica, conseguita da David Morgan presso l’Università di Cardiff, è stata seguita nel 1986 da quella rilasciata dalla Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Cambridge. Dopo brevi esperienze di lavoro con diversi ruoli, ha operato per sette anni nel settore degli animali da compagnia, indirizzando i propri interessi principalmente sulla chirurgia e sulla radiologia. Nel 1990 ha ottenuto il Certificato in Radiologia Veterinaria. Nel 1993 ha iniziato a lavorare in una società privata, fornendo consulenze tecniche nel Regno Unito, nei Paesi Scandinavi ed in Sud Africa. È frequentemente coinvolto in attività di informazione ed aggiornamento rivolta alla classe medico veterinaria, docenti universitari e studenti. Ha tenuto conferenze in tutta l’Europa ed in Sud Africa, in occasione di congressi sia nazionali che internazionali. PIER PAOLO MUSSA Med Vet, Dipl ECVCN, Torino Nasce a Camerano Casasco (AT) nel 1946 e si laurea in Medicina Veterinaria nel 1970. Dal 1994 è Professore ordinario di “Nutrizione ed Alimentazione Animale” ed è Vice-preside della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino.

NATASHA OLBY Vet MB, PhD, Dipl ACVIM, North Carolina, USA La Dr.ssa Natasha Olby si è laureata in medicina veterinaria presso la Cambridge University nel

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1991 e, dopo un breve periodo trascorso esercitando la libera professione su grandi e piccoli animali, è tornata a Cambridge per portare a termine un PhD sulle lesioni del midollo spinale e completare la sua formazione chirurgica. Dopo aver conseguito il PhD e completato la ricerca post-dottorato, si è trasferita alla North Carolina State University per effettuare un periodo di residenza in neurologia/neurochirurgia e vi è rimasta come membro del corpo docente. Attualmente è associate professor di neurologia/neurochirurgia e Presidente dell’American College of Veterinary Internal Medicine, Neurology specialty. I settori di ricerca che la interessano sono le lesioni del midollo spinale e le malattie neurodegenerative.

Membro del SACcVet dell AO International dal 2007. Membro del CD SCIVAC dal 2008. Membro dell’ESVOT Board dal 2008. Coordinatore del percorso di Ortopedia in collaborazione con Scivac. Direttore del corso Scivac “Vie d’accesso allo scheletro appendicolare e tecniche di riduzione”. Direttore del Corso Italiano AO-VET di base. GRAZIANO LORENZO PENGO Med Vet, Cremona Si laurea nel 1989 in Medicina Veterinaria presso l’Università degli studi di Milano. Consulente presso diversi Studi Veterinari e Cliniche Veterinarie come Endoscopista Gastroenterologo. Titolare di ambulatorio veterinario per piccoli animali (Clinica e chirurgia dei piccoli animali). Investigatore di molteplici trial clinici sia orientati alla conferma delle dosi sia alla valutazione sugli animali con proprietari. I campi di lavoro dei trial sono stati: - Parassitologia: (zecche, pulci, vermi intestinali, filaria, acari della rogna) sia nel cane che nel gatto - Medicina interna: antinfiammatori, otalgici, antimicotici, antiacidi - Attività di ricerca - Ricerca sulla presenza e tipizzazione di Helicobacter a livello gastrico nel cane e nel gatto in accordo con l’Universita di Medicina Veterinaria di Pisa. Sviluppo della tecnica per dilatazioni esofagee nel cane e nel gatto con l’impiego dei palloni. Autore di diverse pubblicazioni e relatore a numerosi congressi Nazionali ed Internazionali.

FRANCESCO ORIGGI DVM, PhD, dipl ACVM, Florida, USA Si laurea in Medicina Veterinaria a Milano nel 1994. Dopo aver cominciato la libera professione, nella primavera del 1996 viene invitato a passare 3 mesi come visiting veterinarian presso il Wildlife and Zoological medicine service della University of Florida. Nel 1998, dopo aver vinto la borsa di studio Fullbright, viene ammesso alla graduate school della University of Florida, dove completa (2001) un PhD in malattie infettive e patologia sperimentale sotto la guida del professor Elliott Jacobson (Titolo: Development of serological and molecular diagnostic tests for the detection of tortoise herpesvirus exposure in Mediterranean tortoises). A fine 2001 rientra in Italia per cominciare un post-doctoral training presso la Human virology unit dell’Ospedale S. Raffaele di Milano dove lavora sotto la guida del professor Paolo Lusso allo sviluppo di vettori virali da utilizzare come potenziali vaccini per HIV. Durante il post doc, completa la scuola di specialità in scienza e medicina degli animali da laboratorio presso la facoltà di Medicina veterinaria di Milano. Nel 2006 viene ammesso al programma di residency in Anatomic Pathology presso la facoltà di medicina veterinaria della University of Florida che completa nel luglio 2008. Da fine luglio 2008 è Clinical instructor presso l’Università della Florida e patologo per il Disney’s Animal Kingdom, ad Orlando, Florida. Dal 2007 e diplomato presso l’American College of Veterinary Microbiologists. Francesco Origgi è stato invited speaker ad innumerevoli conferenze nazionali ed internazionali; è autore di molteplici articoli pubblicati su riviste nazionali ed internazionali, capitoli di libri, ed è reviewer per il Journal of zoo and wildlife medicine, Journal or reptile medicine and surgery e per il Journal of the American Veterinary Medical Association.

MASSIMO PETAZZONI Med Vet, Milano Massimo Petazzoni si è laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano nel 1997. Dal 1998 al 2004 è stato responsabile del Reparto di Ortopedia e Traumatologia della Clinica Veterinaria Nord Milano e della Clinica Veterinaria Papiniano di Milano. Da ottobre 2004 a marzo 2006 è stato responsabile del reparto di Ortopedia e Traumatologia della Clinica Veterinaria Città di Monza. Da marzo 2006 è responsabile del reparto di Ortopedia e Traumatologia della Clinica Veterinaria Milano Sud di cui è Direttore Sanitario. È membro di AO-Vet International, SCIVAC, ESVOT, IEWG, VIN e AVORE. È relatore ai seguenti corsi SCIVAC di Ortopedia: “Vie d’accesso”, “Estremità distali” e “Fissazione esterna”. Dal 1998 è consulente Hill’s per le patologie scheletriche del periodo dell’accrescimento e per il controllo del peso nel cane. Ha presentato 125 relazioni a corsi, congressi e seminari nazionali e internazionali su argomenti di Ortopedia e Traumatologia. È autore di 8 pubblicazioni scientifiche nazionali e di una pubblicazione internazionale. Coautore del Testo Atlante BOA (Breed-Oriented Orthopaedic Approach) ed autore dell’Atlante di Goniometria Clinica e Radiografica dell’arto pelvico del cane. Nell’anno 2000 ha ricevuto l’abilitazione per l’esecuzione della TPLO dalla Slocum Enterprises per il trattamento del-

BRUNO PEIRONE Med Vet, PhD, Torino Professore Associato presso il Dipartimento di Patologia Animale dell’Università di Torino ed è titolare dei corsi di “Patologia Chirurgica”, “Metodologie Chirurgiche” e “Clinica Ortopedica e Traumatologica”. Campi di ricerca sono: tecniche di chirurgia ricostruttiva ossea mini-invasiva, chirurgia protesica dell’anca, chirurgia del ginocchio e delle deformità. Past President della SIOVET (Società Italiana Ortopedia Veterinaria). Chair dell’Educational Committee della AO VET International dal 2006.

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la rottura del legamento crociato craniale nel cane e nel 2004 l’abilitazione dalla Biomedtrix per l’applicazione della protesi non cementata BFX. Nel gennaio del 2005 ha presentato i suoi lavori sull’allineamento dell’arto pelvico nel cane all’AVORE (Association of Veterinary Orthopaedic and Research) e nel settembre 2006 al Congresso Europeo di Ortopedia e Traumatologia ESVOT. Da Novembre 2007 è segretario della Società Italiana di Ortopedia Veterinaria (SIOVET). Fra il 2005 ed il 2008 ha sviluppato la linea veterinaria del fissatore interno a stabilità angolare FIXIN. I suoi interessi particolari sono le patologie scheletriche del periodo dell’accrescimento del cane, gli allineamenti dell’arto anteriore e posteriore, la chirurgia del ginocchio, la fissazione esterna, la fissazione interna a stabilità angolare, la tecnica di Ilizarov, la protesi d’anca e l’artroscopia.

È stato prima istruttore poi relatore al Corso di Cardiologia SCIVAC dall’anno 1996 al 2005 è attualmente segretario della Società italiana di Cardiologia (SICARV). Autore e coautore di pubblicazioni scientifiche e ha partecipato come relatore a seminari nazionali e congressi riguardanti la Leishmaniosi canina, e sull’Ipertensione sistemica, suoi principali campi di interesse. Esercita la libera professione presso il Centro Veterinario Imperiose dove in qualità di Direttore Sanitario si occupa di Cardiologia e Medicina Interna. FRANCESCO PORCIELLO Med Vet, Perugia Il Prof. Francesco Porciello si è laureato in Medicina Veterinaria nel 1989 presso l’Università degli Studi di Perugia. Dal 1993 presta servizio presso il dipartimento di Patologia, Diagnostica e Clinica Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Perugia dove insegna Semeiotica Medica Veterinaria, Terapia Medica Veterinaria e Cardiologia Clinica. Fin dall’inizio della sua carriera si è dedicato al settore della diagnostica ecografia e della cardiologia sia dei piccoli animali che del cavallo sportivo, approfondendone diversi aspetti connessi alla ricerca scientifica ed alla clinica pratica ed intessendo rapporti di collaborazione con la sezione di cardiologia della Cornell University-Ithaca, NY. È Relatore in corsi, convegni e seminari scientifici organizzati in ambito locale e nazionale. È Past President della Associazione Veterinari Italiani Patologia Felina (AIVPaFe) per il triennio 2009-2011. È socio fondatore della Società Italiana di Cardiologi ed Ecografisti Clinici Veterinari (CARDIEC). Fa parte del board dei Revisori della rivista Ippologia e dell’Editorial Board del Journal of Veterinary Cardiology. È Autore di un manuale di Elettrocardiografia, uno di Ecocardiografia (in corso di traduzione in lingua Inglese per un portale di informazione scientifica veterinaria statunitense) e di oltre 90 pubblicazioni su riviste Nazionali ed Internazionali e in Atti di Convegni a cui ha partecipato.

STEFANO PIZZIRANI Med Vet, Dipl ECVS, Dipl ACVO, Massachusetts (USA) Si laurea presso l’Università di Pisa nel 1979 e nel 1984 è tra i Soci Fondatori della SCIVAC e tre anni più tardi della SOVI. È stato presidente SCIVAC dall’87 all’89, Presidente SINVET dal ’95 al ’98 e membro del Consiglio Direttivo SOVI dal ’91 al 2001. Nel 1993 si diploma all’European College of Veterinary Surgeons con ricertificazione nel 2005 e nel 1999 è Research Scholar presso la North Carolina State University. Tra il 1996 e il 1999 è Dottore di Ricerca in Oftalmologia Veterinaria presso l’Università degli Studi di Messina. Nel 2004 si diploma all’American College of Veterinary Ophthalmologists. Esercita come libero professionista presso la Clinica Veterinaria Europa a Firenze sino al 2001 poi si trasferisce negli Sati Uniti dove lavora come Clinical Assistant Professor presso la North Carolina State University. Dal 2004 ad oggi è Assistant Professor (Ophthalmology) presso la Cummings School of Veterinary Medicine TUFTS University. Autore e co-autore di 70 pubblicazioni scientifiche fra abstracts, articoli su giornali scientifici e capitoli di libri. Relatore a congressi scientifici nazionali ed internazionali. Assomma 14 presentazioni (7 come primo autore) e 4 (1) posters all’ACVO.

LIVIANA PROLA Med Vet, Torino Laureata in Medicina Veterinaria nel luglio del 2001 presso l’Università di Torino. Da settembre 2001 ha iniziato un Dottorato di Ricerca presso il Dipartimento di Produzioni Animali dell’Università di Torino - settore Nutrizione - lavorando in modo specifico sull’alimentazione dei piccoli animali e degli animali selvatici. Dal marzo 2002 svolge attività come Assegnista di Ricerca presso lo stesso Dipartimento occupandosi della consulenza nutrizionistica. Dal giugno 2002 esercita la libera professione in strutture private nell’ambito della clinica dei piccoli animali. Da maggio 2003 a novembre 2003 ha svolto attività di ricerca presso l’Istituto di Nutrizione della Ludwig Maximilians Universität - München (Germania) occupandosi di alimentazione del gatto. È coautrice di lavori su riviste nazionali ed internazionali. Dal 2003 è membro dell’ESVCN (European Society of Veterinary and Comparative Nutrition.

MARCO POGGI Med Vet, Imperia Laureato in Medicina Veterinaria nel 1989 presso l’Università di Torino (110/110). Dopo la laurea ha frequentato i laboratori dell’I.Z.S. del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta prima in qualità di volontario poi borsista e incarico come Veterinario Collaboratore, approfondendo conoscenze pratiche di laboratorio, in particolare batteriologia e diagnostica sulla Leishmaniosi, e collaborando alla realizzazione di indagini siero epidemiologiche sulla diffusione di questa malattia nella provincia di Imperia, continuando questa collaborazione è stato coautore di pubblicazioni nazionali e internazionali. Ha conseguito la Specializzazione in Sanità Animale presso la Facoltà di Torino nel Giugno 1994 (70/70) con lode, discutendo una tesi dal titolo “La Leishmaniosi canina in Liguria, contributo epidemiologico della città di Imperia”.

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la cardiologia. È stato professore a contratto in cardiologia per l’anno 1997-1998 presso la Scuola di Specializzazione in Patologia e Clinica degli animali d’affezione dell’Università degli Studi di Milano e per l’anno 2003-2004 e 20052007 presso l’Università degli Studi di Torino per il Master di II livello in Malattie cardiovascolari. Negli anni 20042006 ha seguito il Master in elettrofisiologia ed elettrostimolazione presso la facoltà di medicina dell’Università dell’Insubria. Al momento sta svolgendo il dottorato di ricerca sulla diagnosi e la terapia delle tachicardie sopraventricolari nel cane presso la facoltà di medicina veterinaria di Torino. È stato presidente della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria per il periodo 2001-2004. È autore di numerose pubblicazioni di cardiologia su riviste nazionali ed internazionali. Il suo principale settore di ricerca sono la diagnosi e la terapia delle aritmie nel cane.

GIORGIO ROMANELLI Med Vet, Dipl ECVS, Milano Laureato in Medicina Veterinaria nel 1981 presso l’Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Milano, relatore il Prof. Renato Cheli. Subito dopo la laurea partecipa ad un programma di chirurgia sperimentale sul trapianto di cuore e di pancreas. Libero professionista lavora in provincia di Milano occupandosi totalmente di casi di riferimento di oncologia e chirurgia dei tessuti molli. Charter Member e, dal luglio 1993, diplomato all’European College of Veterinary Surgeons. Presidente SCIVAC nel periodo 1993-1995. Presidente SCVI nel periodo 1998-2004. Segretario SIONCOV. Ha presentato relazioni ad oltre 85 congressi e meeting nazionali ed internazionali. Editor e coautore del testo “Oncologia del cane e del gatto” edito da Elsevier-Masson. Ha soggiornato per periodi di studio presso le università di Cambridge (UK), North Carolina (USA) e Purdue-Indiana (USA). I suoi hobbies sono la pesca a mosca e la coltivazione di alberi bonsai.

PAOLA SCARPA Med Vet, PhD, SCMPA, Milano Si è laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Milano (110/110), dove ha conseguito il Dottorato di Ricerca. Nel 1995 si diploma presso la Scuola di Spezializzazione in malattie dei Piccoli Animali. Dal 1998 al 2000 è Professore a contratto presso la Facoltà di Padova. Nel 2001 diventa Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie di Milano. Attualmente è Professore Associato presso lo stesso Dipartimento ed è incaricata dell’insegnamento di Diagnostica di Laboratorio. La sua attività è testimoniata da numerose pubblicazioni nazionali ed internazionali nel campo della medicina interna e della diagnostica di laboratorio. È socia ESVNU, SINUV, SCIVAC, SISVet. Attualmente riveste la carica di Presidente della SINUV.

FEDERICA ROSSI Med Vet, Dipl ECVDI, Sasso Marconi (BO) La dott.ssa Federica Rossi si è laureata nel novembre 1993. Ha ricevuto dall’Istituto Rotary International il “Premio Rotary Corsi di Laurea” per il miglior Curriculum di Laurea in Medicina Veterinaria nell’Anno Accademico 1992/1993. Dal 1993 lavora come Libero Professionista, svolgendo attività di referenza in Diagnostica per Immagini nella propria struttura a Sasso Marconi (BO) ed in altre Cliniche in Emilia-Romagna. Dal 1995 al 1997 ha frequentato la Scuola di Specializzazione in Radiologia Veterinaria presso l’Università degli Studio di Torino. Dal 1997 al 1999 ha trascorso diversi periodi di formazione all’estero. Ha curato la traduzione in lingua italiana del testo-atlante di ecografia del cane e del gatto “Atlas und Lehrbuch der Ultraschalldiagnostik bei Hund und Katze”, C.P. Nautrup, R. Tobias, Edizioni UTET, Torino 2000. È autrice di numerose pubblicazioni nazionali ed internazionali. Ha presentato posters e lavori scientifici a Congressi nazionali ed internazionali. Collabora attivamente ed è relatrice agli incontri del Gruppo di Studio in Diagnostica per Immagini SCIVAC. Ha svolto il programma di training per il College Europeo di Diagnostica per Immagini presso l’Università di Torino e Berna (Svizzera). Ha conseguito il Diploma ECVDI nel settembre 2003.

MARGIE SCHERK DVM, Dipl ABVP (feline practice), Vancouver, CND La Dr.ssa Margie Scherk è un libero professionista che ha fondato la Cats Only Veterinary Clinic, a Vancouver, BC nel 1986. Si è laureata alla University of Guelph nel 1982 ottenendo un DVM dall’Ontario Veterinary College. Nel 1995 ha ottenuto la Board Certification nella specialità di Feline Practice dall’American Board of Veterinary Practitioners (ABVP). Una delle cose di cui è più orgogliosa è di essere stata un pioniere nell’impiego del Transdermal Fentanyl Patch (cerotto transdermico al fentanyl) per alleviare il dolore negli animali da compagnia. Ha collaborato ed è coautrice di diversi altri lavori; ha scritto un capitolo per l’edizione del 2005 dell’Ettinger and Feldman’s Textbook of Veterinary Internal Medicine e parecchi altri capitoli in altri testi. Ha servito presso il Board of the American Association of Feline Practitioners e nel 2007 è stata Presidente dell’organizzazione. Ha il privilegio di far parte del AAFP/AFM Feline Vaccine Recommendations Panel dal 1995. Ha anche operato come volontaria nell’ABVP exam committee e nel CE committee ed ha servito nel scientific advisory committee for the World Small Animal Veterinary Congress ed è stata editor dei WSAVA Proceedings del convegno di Vancouver nel 2001. Come partecipante al North American Veterinary Licensing Exam Committee (NAVLE), collabora con i

ROBERTO SANTILLI Med Vet, DIpl ECVIM (Cardiology), Samarate (VA) Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano nel 1990. Si è diplomato all’European College of Veterinary Internal Medicine - Companion Animals (Specialty of Cardiology) nel 1999. Lavora presso la Clinica Veterinaria Malpensa in Samarate (Varese) come referente per

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massimi docenti e professionisti per mettere a punto un buon modo di valutare la competenza dei nuovi laureati. È fondatrice e coeditrice di Feline Internal Medicine folder on Veterinary Information Network (VIN), ed attraverso le numerose opportunità offerte dal medium online ha amato sempre più i docenti, gli studenti ed i clinici dell’ambito veterinario, sia online che nel mondo reale. È North American editor di Journal of Feline Medicine and Surgery.

conseguito il Diploma in Ofatalmologia (CES) nel 1989 presso l’ENV de Toulouse (F) e il Diploma in Dermatologia presso l’ENV de Nantes e Lyon (F). Lavora dal 1985, come libero professionista, presso l’ambulatorio associato di Torino, dove si occupa prevalentemente di dermatologia, oftalmologia e istologia nel settore dei piccoli animali. È membro fondatore della SIDEV (Società Italiana di Dermatologia) di cui è, nell’attuale Consiglio, Vice-Presidente. È Presidente della SOVI (Società Italiana di Oftalmologia). È full member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) dove svolge il ruolo di Segretaria nell’attuale Board. È autore di varie pubblicazioni ed ha partecipato come relatore ad alcuni Corsi e Congressi di Dermatologia ed Oculistica.

LAIA SOLANO-GALLEGO DVM, PhD, Dipl ECVCP, Londra (UK) Laureata in medicina veterinaria nel 1996 all’Università Autonoma di Barcellona, dal 1997 al 2001, ha conseguito un PhD (dottorato di ricerca) presso la stessa università sulla diagnosi e immunologia della leishmaniosi canina. Dal 2002 al 2003, ha lavorato nella facoltà di Veterinaria della North Carolina State University (USA) svolgendo ricerca clinica in malattie trasmesse da vettori nel cane e nel gatto. Dal 2003 al 2004, ha seguito il programma di small animal internship presso il Veterinary Teaching Hospital della Purdue University (USA). Dal 2004 al 2007, ha lavorato nella Clinica e laboratorio privato San Marco dove ha sviluppato clinica, diagnosi e ricerca clinica in patologia clinica e medicina interna con prevalente interesse nelle malattie infettive trasmesse da vettori del cane e del gatto. È diplomata in patologia clinica veterinaria dal 2006. Attualmente lavora come Lecturer in Patologia Clinica Veterinaria nel Royal Veterinary College della University of London. È autrice di articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali sulla leishmaniosi, malattie trasmesse da artropodi e patologia clinica veterinaria ed è stata relatrice a congressi nazionali e internazionali sugli stessi argomenti.

ALDO VEZZONI Med Vet, SCMPA, Dipl ECVS,Cremona Laureato a Milano nel 1975, Specializzato in Clinica delle Malattie dei Piccoli Animali nella stessa università nel 1978, ha conseguito il Diploma di specializzazione del College europeo di chirurgia veterinaria (ECVS) a Cambridge nel 1993. Segretario ESVOT (European Society of Veterinary Orthopaedics and Traumatology) dal 1995 e Presidente dal 2006. Presidente della Fondazione Salute Animale dal 1996 e Chairman della relativa Commissione di lettura per la displasia dell’anca e del gomito, accreditata dall’ENCI nel 2002. Vice-Presidente della SIOVET (Società Italiana di Ortopediaa Veterinaria). Membro della Commissione Tecnica Centrale dell’ENCI dal 2000. Dal 1976 opera come libero professionista a Cremona, svolgendo dal 1998 attività di riferimento dei Colleghi nell’ambito della diagnostica e della chirurgia ortopedica dei piccoli animali. Socialmente impegnato per la categoria è stato Socio Fondatore e Presidente della SCIVAC, Socio Fondatore e Consigliere dell’ANMVI; dal 1996 al 2006 ha rivestito le cariche di segretario FNOVI e di Presidente dell’Ordine dei Veterinari di Cremona.

ERIC VANDEN EYNDE Dr Med Vet, Belgio Nasce nel 1952, in Africa (Congo). Studi: Scienze e Latino. Veterinaria: RUG = Gent University, diploma: 1976. 12 mesi di lavoro con veterinari tedeschi (in Mönchengladbach - Erkelenz- Wanlo) presso una grossa struttura per grandi e piccoli animali. Studio dell’Omeopatia dal 1980: VSU (Vlaamse Studievereniging voor Unicistische Homœopathy) ed EBH: Ecole Belge d’Homœopathie e: Centre Hahnemann (France) - dal 1981: segue Alfonso Masi Elisalde - molti seminari con Vithoulkas- Sankaran - Scholten - Farouk Master - Luc De Schepper - Member IIHAI - AFADH - ecc… Anche in Italia, alcuni seminari presso differenti scuole. Docente: VSU - EBH - IIHAI - AFADH - SRBH. Conoscenze: in educazione degli animali, biopsicologia, psicobiologia, comportamento alimentare naturale dei piccoli e grandi animali domestici, ecc… Amministratore: Ecole Belge d’Homœopathie con il Dr Daniel Saelens. Capo-Redattore di Revue Belge d’Homœopathie e autore di molti articoli in numerose riviste di omeopatia.

MARCO VIOTTI Med Vet, Torino Laureato a Torino nel 1994 a pieni voti con una tesi sperimentale presso il dipartimento di morfofisiologia veterinaria sull’embriogenesi del tubo cardiaco, approfondisce lo studio della dermatologia e dell’oculistica nell’anno successivo presso il dipartimento di clinica medica come laureato frequentatore. Esercita la professione sui piccoli animali da 13 anni nella propria struttura, a Torino, insieme ad una socia e altri 4 collaboratori occupandosi esclusivamente di medicina interna e practice management. Frequenta dal 1994 i principali congressi nazionali inerenti la medicina interna, i corsi di chemioerapia ed ecografia presso palazzo Trecchi a Cremona, nonché i principali seminari di practice management con relatori stranieri in Italia. Dal 2003 è fondatore e coordinatore del gruppo di studio scivac di Practice management insieme ad altri 2 colleghi, frequenta nel 2005 il corso avanzato di practice management organizzato da Hill’s con relatori stranieri.

ANTONELLA VERCELLI Med vet, CES Derm, Torino Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Torino nel 1985 con 110/110 e lode, ha

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Autore di 3 relazioni originali a tema all’interno del gruppo stesso e di 2 articoli inerenti il practice management pubblicati sulla rivista “Zootecnia”, è chiamato come relatore per il practice management ai congressi nazionali scivac 2004, 2005 e 2006 con lavori originali su argomenti architettonici ed economici; relatore all’interno di un seminario di practice management per l’Università di Pisa nel novembre 2006, organizzatore e relatore insieme ad altro collega di un corso di practice management per l’Ordine dei Veterinari di Genova e relatore in dicembre 2006 presso l’Ordine dei Veterinari di Venezia sempre per il practice management.

nali, attualmente occupa posizioni amministrative come Associate Hospital Director for Imaging Services e Director of the Center for Imaging Sciences, una struttura di ricerca sulla diagnostica per immagini multimodale del campus della UC Davis.

MAXEY WELLMAN DVM, MS, PhD, Dipl ACVP, Ohio USA La Dr.ssa Wellman si è laureata in medicina veterinaria (DVM) presso la Ohio State University nel 1978. Nel 1979 ha portato a termine un periodo di internato in Small Animal Medicine and Surgery alla Cornell University di Ithaca, New York e nel 1981 ha ottenuto il titolo di MS dalla University of Illinois. Dal 1981 al 1987 è stata residente in patologia clinica e studente laureato presso il Department of Veterinary Pathobiology. Nel 1987, la Dr.ssa Wellman ha conseguito il PhD degree presso la Ohio State University, ha ottenuto lo status di Diplomate dall’ACVP ed è diventata Assistant Professor al Department of Pathobiology della Ohio State University. Attualmente, è Associate Professor presso il Department of Veterinary Biosciences della Ohio State University, dove svolge il ruolo di Director of the Clinical Laboratories e di coordinatore della formazione per il programma di residenza in patologia clinica. Nel 2005 ha ricevuto il Carl Norden-Pfizer Distinguished Teacher Award. È past president dell’American Society for Veterinary Clinical Pathology, ha operato presso l’ACVP board certification committee ed attualmente è Consigliere dell’ACVP.

ANDREA ZATELLI Med Vet, Reggio Emilia Laureato con lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma nel 1990. Dal 1991 al 1998 trascorre periodi di aggiornamento in Europa e negli Stati Uniti finalizzandoli all’esclusivo approfondimento di argomenti di medicina interna e diagnostica per immagini del cane e del gatto. Professore a contratto presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Torino dall’A.A. 20002001 all’A.A. 2003-2004. È socio SCIVAC dal 1991, relatore SCIVAC dal 1998 e consulente scientifico della stessa società dal 2001. Relatore a congressi nazionali ed internazionali, ha tenuto numerosi seminari scientifici e corsi di perfezionamento su argomenti riguardanti la nefrologia, la ecografia addominale e la terapia intensiva/medicina d’urgenza. È autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali inerenti la nefrologia, l’ecografia addominale e l’ecografia interventistica. Nel 2005 ha ricevuto l’IRIS (International Renal Interest Society) AWARD “in recognition of outstanding fundamental and clinical research performed by an individual in the field of nephrology”. I suoi principali settori di interesse sono lo studio qualitativo della proteinuria nel paziente nefropatico, i biomarkers di nefropatia e le tecniche innovative nel settore dell’ecografia interventistica e dell’ecocontrastografia. Attualmente svolge la libera professione a Reggio Emilia dove dal 2002 è Direttore Sanitario di una referral practice.

ERK WISNER DVM, Dipl ACVR, California, USA Il Dr. Wisner si è laureato in medicina veterinaria (DVM) presso la UC Davis nel 1983. Dopo aver esercitato per 5 anni la professione su grandi e piccoli animali, è tornato alla UC Davis dove nel 1991 ha portato a termine un periodo di residenza in radiologia. Dal 1992 al 1997 ha operato come joint faculty appointment alla UC Davis Schools of Veterinary Medicine and Medicine. Dal 1997 fino al 2000 è stato Head of Radiology all’Ohio State College of Veterinary Medicine, dopodiché è tornato alla UC Davis. Attualmente, il Dr. Wisner è professore di diagnostica per immagini e Vice-Chair of the Department of Surgical and Radiological Sciences alla UC Davis School of Veterinary Medicine. I suoi settori di interesse clinici sono la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica. È autore di oltre 100 articoli pubblicati su riviste referee e di oltre 25 capitoli di libri. Oltre ai compiti clinici, di ricerca ed istituzio-

STEFANO ZIGIOTTO Med Vet, Milano Nel Febbraio 1997 si laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università di Milano. Sino al ’99 pratica la libera Professione presso una struttura privata a Cologno Monzese (MI). Nel 1999 diventa Consulente per Hills Pet Nutrition in qualit di informatore. Nel 2001 diventa Consulente per Hills Pet Nutrition in qualità di responsabile e coordinatore degli informatori nonché gestione dei grossisti del canale vendita / pet corner. Dal 2004 ad oggi Consulente per Hills Pet Nutrition in qualità Vet Business Advisor con incarichi di gestione delle attività in Università, attività congressuali, training tecnico attività e consulenze di Practice Management. Svolge incontri di Practice Management presso cliniche private, Facoltà di Medicina Veterinaria e Ordine dei medici veterinari. Iscritto al gruppo studio Scivac di Practice Management.

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ESTRATTI DELLE RELAZIONI


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Patogenesi dell’IBD nel cane Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

Ogni giorno la mucosa intestinale viene sollecitata da un’enorme gamma di antigeni, provenienti dagli alimenti o dalla flora microbica del lume intestinale. Per evitare un’infiammazione indesiderata e dannosa o malattie autoimmuni, il sistema immunitario gastroenterico deve mantenersi iporeattivo nei loro confronti. Tuttavia, deve anche essere in grado di rispondere rapidamente alla presenza di batteri patogeni nel lume dell’intestino e suscitare una risposta immune per eradicare l’agente patogeno. In che modo l’epitelio intestinale si adatta a queste difficoltà? L’epitelio intestinale rileva la presenza di batteri commensali e patogeni attraverso i Pattern Recognition Receptors (PRR)1. Questo gruppo contiene recettori Toll-simili (TLR, tool-like receptors) e recettori NOD-simili (NOD, Nucleotide Binding Oligomerisation Domain-like receptor)2. Questi recettori riconoscono molecole specifiche chiamate PAMP (Pathogen-Associated Molecular Pattern) che sono molecole riscontrate in batteri o altri agenti infettivi e conservate. Il riconoscimento delle PAMP attraverso i TLR è una parte cruciale della risposta immunitaria innata contro i batteri invasori nell’intestino ed avvia un complesso percorso di segnalazione intracellulare che culmina nell’attivazione del fattore di trascrizione NF-κB3. Questo esita nella trascrizione e secrezione di una varietà di chemochine e citochine pro- ed antinfiammatorie dalla cellula che porta il TLR. Se ha successo, le cellule immunitarie attivate da questa risposta eliminano gli agenti patogeni responsabili. Nonostante il fatto che i batteri commensali ed i patogeni condividano gli stessi PAMP, in condizioni normali il sistema immunitario resta non reattivo nei confronti dei microrganismi commensali presenti nel lume intestinale4. La risposta infiammatoria che normalmente si riscontra soltanto come reazione ai batteri patogeni che superano la barriera intestinale è simile a quella riscontrata nella mucosa dei cani colpiti da IBD. Tuttavia, la risposta nell’IBD compare in assenza di patogeni. Si ritiene che il sistema immunitario innato reagisca ai commensali normali nel lume intestinale come se fossero dei patogeni. Le differenze funzionali TLR-correlate senza dubbio giocano un ruolo nella patogenesi dell’IBD nell’uomo5. È ancor più interessante il fatto che nell’uomo siano state dimostrate ed associate ad IBD delle variazioni genetiche nei TLR: un polimorfismo Asp299Gly nel TLR4 umano è associato ad una compromissione della trasmissione dei segnali da parte dei LPS ed un aumento della suscettibilità alle infezioni Gram-negative6. Ciò suggerisce che questo polimorfismo abbia un ruolo nel provocare l’IBD: la funzione normale di questo recetto-

re viene alterata, portando ad uno stato di infiammazione cronica che non è controllabile da parte dell’ospite7. Analogamente al sistema umano, l’IBD nel cane può anche essere associata a risposte immunitarie innate aberranti verso i batteri enterici commensali. Si ritiene che questa sia la ragione principale per la quale alcuni cani con IBD rispondono al trattamento con antibiotici (cosiddetta malattia che risponde agli antibiotici o ARD)8,9. In aggiunta a questo, si è anche riscontrato che l’IBD nel cane sembra avere una componente genetica. Alcune razze di cani, come il cane Pastore tedesco (PT), sono predisposte alla IBD. In uno studio clinico recentemente condotto presso il Royal Veterinary College, siamo stati in grado di dimostrare che i cani di qualsiasi razza con IBD attiva clinicamente grave esprimono livelli più elevati di recettori TLR2 e TLR4 nel duodeno, a confronto con cani sani.10 Nel PT in particolare, l’espressione dri TLR2 si dimostrò essere 60 volte più elevata in confronto ai campioni di cani sani. Abbiamo anche recentemente scoperto un’alterazione della regolazione della comunità microbica caratterizzata da diversità ristrette accanto all’arricchimento delle specie all’interno della famiglia delle Enterobacteriaceae in cani con IBD e, in particolare, nei PT con IBD. Inoltre, abbiamo messo a punto un’analisi di mutazione del TLR2, TLR4 e TLR5 in 10 PT con IBD. Uno dei tre polimorfismi che abbiamo identificato nel gene TLR5 del PT è stato ulteriormente valutato in uno studio caso-controllo e si è riscontrato che era associato significativamente ad IBD in questa razza.

Cosa dedurre da questo? Siamo ancora lontani dal nostro obiettivo di cercare e trovare dei modi migliori per diagnosticare e trattare le enteropatie croniche nel cane. Il passo successivo coinvolgerà le indagini sull’aspetto funzionale dei TLR in questa specie animale. Per ottenere questo, studi attuali presso il RVC stanno indagando sulla trasmissione dei segnali attraverso i TLR del cane a livello cellulare. Queste indagini consentono di fare luce sulle conseguenze funzionali del polimorfismo del TLR2 osservato nei PT e potranno aiutare a chiarire la possibile patogenesi di ARD e IBD. La conoscenza acquisita in queste indagini molto probabilmente identificherà nuove potenziali strategie di trattamento per l’IBD canina. Se vengono identificati batteri o prodotti batterici che stimolano l’appropriata risposta TLR o inibiscono un’attivazione aberrante dei NF-κB TLR-dipendenti, allora questa 21


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conoscenza può essere utilizzata in studi sul trattamento dei cani con enteropatie croniche. Analogamente al sistema dell’uomo, è possibile che alcuni cocktail probiotici siano utilizzabili come trattamenti profilattici nei cani geneticamente predisposti a sviluppare IBD, allergia alimentare o ARD. L’identificazione di un prodotto batterico specifico che riduca l’infiammazione nell’intestino potrebbe servire come integrazione della terapia o anche come adiuvante per potenziali vaccini contro l’IBD nel cane.

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Bibliografia 1.

2. 3.

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Pathogenesis of canine IBD What innate immunity can teach us Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

Each day the intestinal mucosa is challenged with a huge array of antigens, either from food or the microbial flora in the intestinal lumen. The gastrointestinal immune system must maintain hypo-responsiveness to these, in order to avoid unwanted and damaging inflammation or autoimmune diseases. However, it must also be able to respond rapidly to the presence of pathogenic bacteria in the gut lumen and to mount an immune response to eradicate the pathogen. How does the intestinal epithelium cope with such challenges? The gut epithelium detects the presence of both commensal and pathogenic bacteria via Pattern Recognition Receptors (PRRs)1. This group contains Toll-like receptors (TLRs) and Nucleotide Binding Oligomerisation Domain-like receptors (NODs)2. These receptors recognize specific molecules termed Pathogen-Associated Molecular Patterns (PAMPs), which are conserved molecules found on bacteria and other infectious agents. Recognition of PAMPs by TLRs is a crucial part of the innate immune response to invading bacteria in the gut and initiates a complex intracellular signalling pathway culminating in the activation of the transcription factor NF-κ B3. This results in the transcription and secretion of a variety of pro- and anti-inflammatory cytokines and chemokines from the cell bearing the TLR. If successful, immune cells activated by this response clear offending pathogens. Despite the fact that commensal and pathogenic bacteria share PAMP, the immune system remains unresponsive towards commensal organisms present in the intestinal lumen in the normal case scenario4. The inflammatory response which is normally only seen as a reaction towards pathogenic bacteria breaching the intestinal barrier is similar to the response seen in the mucosa of dogs affected with IBD. However, the response in IBD occurs in the absence of pathogens. It is believed that the innate immune system reacts to normal commensals in the intestinal lumen as if they were pathogens. TLR-related functional differences definitely play a role in the pathogenesis of IBD in human beings5. Of even bigger interest is that genetic variations in TLRs have been demonstrated and associated with IBD in humans: An Asp299Gly polymorphism in human TLR4 is associated with impaired LPS signalling and an increased susceptibility to gram-negative infections6. This suggests a role for this polymorphism in triggering IBD: The normal function of this receptor is altered, leading to a chronic inflammatory state which is uncontrollable by the host7.

Similarly to the human system, IBD in dogs may also be associated with aberrant innate immune responses towards commensal enteric bacteria. This is thought to be the major reason why some dogs with IBD respond to treatment with antibiotics (so called antibiotic responsive disease or ARD)8,9. In addition to this, IBD in dogs also seems to have a genetic component. Certain breeds of dog are predisposed to IBD, such as German Shepherd Dogs (GSDs). In a recent clinical study at the Royal Veterinary College, we were able to show that dogs of any breed with clinically severe, active IBD express higher levels of TLR2 and TLR4 receptors in the duodenum compared to healthy dogs10. In GSDs in particular, TLR2 expression was found to be 60-fold higher compared to samples from healthy dogs. We also recently discovered a dysregulated microbial community characterised by restricted diversity alongside the enrichment of species within the family Enterobacteriaceae in dogs with IBD and particularly, in GSDs with IBD. Furthermore, we performed a mutational analysis of TLR2, TLR4 and TLR5 in 10 GSDs with IBD. One of the three polymorphisms that we identified in the TLR5 gene of GSDs was evaluated further in a case-control study and was found to be significantly associated with IBD in this breed.

Where to go from here? We are still a long way from our goal to try and find better ways of diagnosing and treating chronic enteropathies in dogs. The next step will involve investigations into the functional aspects of canine TLRs. In order to achieve this, current studies at the RVC are investigating signalling through canine TLRs on a cellular level. These investigations will allow insights into the functional consequences of TLR2 polymorphisms observed in German Shepherd Dogs, and will help elucidating the possible pathogenesis of ARD and IBD. The knowledge gained in these investigations will very likely identify potential new treatment strategies for canine IBD. If bacteria or bacterial products are identified which either stimulate the appropriate TLR response or inhibit an aberrant TLR-dependent NF-κ B activation, then this knowledge can be used in prospective treatment studies in dogs with chronic enteropathies. Similar to the human system, it is possible that certain probiotic cocktails could be used as prophylactic treatments in dogs which are genetically predisposed to developing IBD, food allergy or ARD. The identification of a specific bacterial product that reduces inflammation in the gut could serve as a treatment supplement or even as an adjuvant for potential vaccines against IBD in dogs. 23


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References 1.

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IBD nel cane: nuove possibilità diagnostiche Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

INTRODUZIONE

to/attività, appetito, vomito, consistenza delle feci, frequenza della defecazione e perdita di peso) sono stati valutati assegnando loro un valore da 1 a 3 e sommati per ottenere un punteggio composito che risulta pari a 0-3 per una malattia non significativa, 4-5 per una IBD lieve, 6-9 per una IBD moderata e 9 o più per una forma grave. Nello studio di Jergens et al.5, 58 cani con un valore mediano di CIBDAI pari a 5,5 vennero rivalutati dopo 2-3 settimane di trattamento, riscontrando che avevano un CIBDAI significativamente ridotto alla mediana di 1,6. Questi esiti risultarono riproducibili in uno studio messo a punto dall’autore a Berna, Svizzera4. In 42 cani con una malattia che rispondeva alla dieta, il CIBDAI mediano si ridusse significativamente da 6,3 prima ad una mediana di 1,2 dopo il trattamento. In 23 cani con malattia che rispondeva agli steroidi, il CIBDAI mediano risulto più elevato prima che iniziasse il trattamento (CIBDAI 9,2) e dopo il trattamento diminuì passando soltanto nell’intervallo di una attività di malattia moderata (CIBDAI 5,5). Abbiamo anche valutato il CIBDAI insieme a parametri aggiuntivi come le misurazioni dell’albumina, la valutazione del grado di edema periferico e ascite e la gravità del prurito per stabilirne il valore prognostico in relazione all’esito. Su 70 cani, 13 (18%) vennero sottoposti ad eutanasia a causa di una malattia intrattabile. L’analisi univariata identificò come fattori di rischio per un esito negativo l’elevato indice di attività clinica, l’alto punteggio endoscopico nel duodeno, l’ipocobalaminemia (< 200 ng/l) e l’ipoalbuminemia (< 20 g/l). Sulla base di questi fattori, fu definito un nuovo indice clinico di punteggio (Indice di Attività dell’Enteropatia Cronica Canina, CCECAI) con il quale prognosticare un esito negativo nei cani che soffrivano di enteropatie croniche con sensibilità e specificità molto buone (0,95%). Furono definite quattro categorie di gravità per il CCECAI: malattia non significativa: 0-3, malattia lieve: 4-5, malattia moderata: 6-8, malattia grave: 9-11, malattia molto grave: 12. Se un cane ha un punteggio al di sopra di 12 con questo indice di attività clinica, il suo rischio di essere sottoposto ad eutanasia per una malattia refrattaria alle cure aumenta di 64 volte4.

Fra le cause di enterite cronica del cane, sono comuni le reazioni avverse al cibo, le infiammazioni intestinali (IBD, idiopathic inflammatory bowel diseases) idiopatiche e la diarrea che risponde agli antibiotici (ARD). Questi disordini sono diagnosticati retrospettivamente in base alla loro risposta al trattamento. Lo specialista, di fronte ad un caso inviatogli, di solito effettua un’estesa indagine diagnostica per escludere le cause extra-gastroenteriche ed i disordini facilmente trattabili come le malattie pancreatiche, le parassitosi croniche o le infezioni batteriche e i tumori. Dopo aver effettuato delle biopsie intestinali e raggiunto una diagnosi, l’approccio usuale al trattamento è una terapia di prova con una elimination diet, un trattamento antibiotico per diverse settimane e infine un trattamento immunosoppressore con corticosteroidi1-3. In un recente studio prognostico ad ampio spettro comprendente 65 cani con enteropatia cronica, abbiamo analizzato nuovi marker diagnostici, prognostici e terapeutici di malattia. In 45 cani è stato attuato un ttrattamento con la sola elimination diet per 14 settimane, al termine delle quali i segni clinici scomparvero. In altri 23 cani, è stato somministrato un trattamento aggiuntivo immunosoppressore con steroidi per 10 settimane, al fine di ridurre i segni clinici. Tutti i cani dello studio furono sottoposti ad un’estesa indagine diagnostica che comprendeva biopsie intestinali prima e dopo il trattamento. Nell’ambito di questa valutazione generale, abbiamo anche preso in esame i test standard effettuati in questi casi per stabilirne l’utilità in relazione a prognosi e terapia.4

STRUMENTI DIAGNOSTICI Indici di attività clinica per la IBD nel cane In medicina umana, gli indici per l’attività clinica di malattia sono calcolati per i pazienti prima, durante e dopo la terapia, e quindi consentono il confronto della gravità clinica nel tempo e fra pazienti diversi. Questi indici vengono determinati sulla base dei segni clinici (frequenza della diarrea, sangue nelle feci, crampi addominali, manifestazioni sistemiche associate ad IBD) e marker sierici come la proteina C-reattiva (CRP) e le misurazioni dell’albumina. Uno studio recente descrive l’applicabilità di un indice clinico della malattia per i casi nel cane (indice di attività IBD nel cane o CIBDAI). Sei parametri gastroenterici (atteggiamen-

Istologia e colorazione delle cellule T Il prelievo di campioni bioptici intestinali è considerato un passo essenziale per escludere le cause neoplastiche e confermare la presenza di infiammazione intestinale. Tuttavia, l’interpretazione delle biopsie intestinali è difficile e soggetta a controversie. Nel nostro studio, non abbiamo riscontrato alcuna correlazione dell’attività clinica con la classifica25


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zione istologica sia prima che dopo la terapia4. Inoltre, il conteggio linfocitario totale ed anche il numero di cellule CD3 infiltranti nella lamina propria non risultarono differenti prima e dopo il trattamento6. Questo è un riscontro nuovo ed inatteso, che suggerisce che il tipo ed il grado di infiltrati istologici nell’IBD del cane possa non essere utile come in medicina umana, in cui i conteggi clinici si correlano molto bene con la classificazione istologica. Un nuovo schema di classificazione per l’interpretazione istologica delle biopsie ottenute endoscopicamente da cani e gatti con IBD è stato recentemente pubblicato dal gruppo di lavoro WSAVA7. I riscontri di questo studio suggeriscono che le alterazioni della microarchitettura sembrino essere molto più importanti degli infiltrati cellulari quando si valuta la gravità istologica della malattia. Tuttavia, questo sistema di classificazione necessita ancora di essere valutato in concomitanza con i riscontri clinici e l’esito in cani ed in gatti affetti da IBD; questi studi dimostreranno quanto sia utile il nuovo sistema di classificazione proposto.

potenzialmente in grado di ridurre i tassi di mortalità nei cani gravemente malati.

Cobalamina La concentrazione di cobalamina sierica è da tempo nota come un importante fattore prognostico negativo nei gatti con enteropatie croniche.8 Abbiamo recentemente dimostrato che questo parametro è anche molto importante per la prognosi dei cani con enteropatie croniche. Se la concentrazione di cobalamina sierica è al di sotto dell’intervallo di riferimento, il rischio di una successiva eutanasia aumenta di 10 volte.4 Quindi, è importante attuare un’integrazione della dieta dei cani con ipocobalaminemia mentre sono sottoposti al trattamento per l’IBD.

Bibliografia 1.

Albumina

2.

In un recente studio retrospettivo sulla IBD del cane, il riscontro di livelli di albumina ridotti è stato descritto come un indicatore prognostico negativo.3 L’enteropatia proteinodisperdente giustifica la perdita di albumina attraverso la mucosa dello stomaco nei cani con IBD colpiti in modo grave. Uno studio su 80 cani ha descritto 12 casi (16%) con ipoalbuminemia e 4 (5%) con panipoproteinemia.3 Dei 12 soggetti citati, 7 vennero successivamente sottoposti ad eutanasia per IBD intrattabile. Nei cani del nostro studio, 12 casi su 58 (21%) furono inizialmente portati alla visita con ipoalbuminemia. Di questi 12 cani, 7 risultarono panipoproteinemici con ipoalbuminemia grave (livello medio di albumina 11 g/l) e 3 di questi dovettero infine essere sottoposti ad eutanasia. Su 12 cani derivanti dal nostro studio, 8 vennero trattati con successo con ciclosporina dopo che non si era ottenuta una risposta alla terapia con steroidi. Ciò suggerisce che un trattamento precocemente aggressivo nei cani ipoalbuminemici sia

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4. 5. 6.

7.

8.

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Jergens, A.E., et al., Idiopathic inflammatory bowel disease in dogs and cats: 84 cases (1987-1990). J. Am. Vet. Med. Assoc., 1992. 201(10): p. 1603-1608. German, A.J., et al., Comparison of direct and indirect tests for small intestinal bacterial overgrowth and antibiotic-responsive diarrhea in dogs. J. Vet. Intern. Med., 2003. 17(1): p. 33-43. Craven, M., et al., Canine inflammatory bowel disease: retrospective analysis of diagnosis and outcome in 80 cases (1995-2002). J.Small Anim Pract., 2004. 45(7): p. 336-342. Allenspach, K., et al., Chronic enteropathies in dogs: evaluation of risk factors for negative outcome. J Vet Intern Med, 2007. 21(4): p. 700-8. Jergens, A.E., et al., A scoring index for disease activity in canine inflammatory bowel disease. J. Vet. Intern. Med., 2003. 17(3): p. 291-297. Schreiner, N.M., et al., Clinical signs, histology, and CD3-positive cells before and after treatment of dogs with chronic enteropathies. J Vet Intern Med, 2008. 22(5): p. 1079-83. Day, M.J., et al., Histopathological standards for the diagnosis of gastrointestinal inflammation in endoscopic biopsy samples from the dog and cat: a report from the World Small Animal Veterinary Association Gastrointestinal Standardization Group. J Comp Pathol, 2008. 138 Suppl 1: p. S1-43. Ruaux, C.G., J.M. Steiner, and D.A. Williams, Early biochemical and clinical responses to cobalamin supplementation in cats with signs of gastrointestinal disease and severe hypocobalaminemia. J. Vet. Intern. Med., 2005. 19(2): p. 155-160.


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Canine IBD: tools for diagnosis, prognosis and therapeutic monitoring Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

INTRODUCTION

clinical IBD. In the study of Jergens et al5, 58 dogs with a median CIBDAI of 5.5 were re-evaluated after 2-3 weeks of treatment, and were found to have a significantly decreased CIBDAI to a median of 1.6. These findings were reproducible in a study performed by the author in Bern, Switzerland4. In 42 dogs with diet responsive disease, median CIBDAI decreased significantly from 6.3 before to a median of 1.2 after treatment. In the 23 dogs with steroid-responsive disease, median CIBDAI was higher before starting treatment (CIBDAI 9.2) and decreased only into the range of moderate disease activity after treatment (CIBDAI 5.5). We also evaluated the CIBDAI and additional parameters such as albumin measurements, assessment of the degree of peripheral oedema and ascites as well as severity of pruritus for their prognostic value regarding outcome. 13/70 (18%) dogs were euthanized due to intractable disease. Univariate analysis identified a high clinical activity index, high endoscopic score in the duodenum, hypocobalaminaemia (<200 ng/L) and hypoalbuminaemia (<20 g/L) as risk factors for negative outcome. Based on these factors, a new clinical scoring index (Canine Chronic Enteropathy Activity Index, CCECAI) was defined which predicts negative outcome in dogs suffering from chronic enteropathies with very good sensitivity and specificity (0.95%). Four categories of severity were defined for the CCECAI: insignificant disease: 0-3, mild disease: 4-5, moderate disease: 6-8, severe disease: 911, very severe disease: 12. If a dog scores over 12 with this clinical activity index, its risk for being euthanized due to refractory disease is increased 64 fold4.

Among the causes for CE in dogs, adverse reactions to food, idiopathic inflammatory bowel diseases (IBD) and antibiotic responsive diarrhea (ARD) are common. These disorders are retrospectively diagnosed by their response to treatment. The clinician faced with a referral case usually performs an extensive workup to exclude extra-gastrointestinal causes as well as easily treatable disorders such as pancreatic diseases, chronic parasitic or bacterial infections and tumors. After taking intestinal biopsies and reaching a diagnosis, the usual approach to treatment is a trial therapy with elimination diet, antibiotic treatment for several weeks and finally, immunosuppressive treatment with corticosteroids1-3. In a recent large prospective study including 65 dogs with chronic enteropathy, we investigated new diagnostic, prognostic and therapeutic markers of disease. Forty-two dogs were treated with an elimination diet alone for 14 weeks after which the symptoms disappeared. In the other 23 dogs, immunosuppressive treatment with steroids over 10 weeks was additionally given in order to reduce the symptoms. All of the study dogs had an extensive workup performed including intestinal biopsies before and after treatment. We also evaluated standard tests performed during the general workup of such cases for their usefulness regarding prognosis and therapy4.

DIAGNOSTIC TOOLS Histology and T cell staining Clinical activity indices for canine IBD

Sampling of intestinal biopsies is considered to be an essential step to exclude neoplastic causes and confirm the presence of intestinal inflammation. However, the interpretation of intestinal biopsies is difficult and subject to controversy. In our study, we found no correlation of clinical activity with histological grading either before or after therapy4. In addition, total lymphocyte counts as well as the number of infiltrating CD3 cells in the lamina propria were not different before and after treatment[6]. This is a new and unexpected finding which suggests that the type and degree of histological infiltrates in canine IBD may not be as helpful as in human medicine, where the clinical scores correlate very well with the histological grading. A new grading scheme for the histological interpretation of endoscopically obtained biopsies form dogs and cats with IBD has recently been published by the WSAVA working

In human medicine, indices for clinical activity of disease are calculated for patients before, during and after therapy, therefore enabling the comparison of clinical severity over time and between different patients. These indices are calculated based on clinical symptoms (frequency of diarrhea, blood in the feces, abdominal cramping, systemic symptoms associated with IBD) and serum markers such as c-reactive protein (CRP) and albumin measurement. A recent study describes the applicability of a clinical index of disease for canine cases (canine IBD activity of disease index or CIBDAI). Six gastrointestinal parameters (attitude/activity, appetite, vomiting, stool consistency, stool frequency, and weight loss) are evaluated and scored from 1-3 and added up to a composite score of 0-3 for insignificant disease, 4-5 for mild IBD, 6-8 for moderate IBD and 9 or greater for severe 27


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group7. The findings in this study suggest that microarchitectural changes seem to be much more important than cellular infiltrates when assessing histological severity of disease. However, so far, this grading system still needs to be assessed in conjuction with clinical findings and outcome in dogs and cats with IBD, and such studies will show how useful the newly proposed grading system actually is.

cobalamin is also very important for the prognosis of dogs with chronic enteropathies. If cobalamin serum concentration is below the reference range, the risk for later euthanasia increases 10 times4. It is therefore important to supplement dogs with hypocobalaminaemia while they undergo treatment for IBD.

References

Albumin Decreased albumin levels have been described as a negative prognostic indicator in a recent retrospective study of canine IBD3. Protein-losing enteropathy accounts for the loss of albumin through the gut mucosa in severely affected dogs with IBD. One study described 12/80 (16%) dogs with hypoalbuminemia and 4/80 (5%) dogs with panhypoproteinemia3. Seven of these 12 dogs subsequently had to be euthanized for intractable IBD. In the dogs of our study, 12/58 (21%) cases initially presented with hypoalbuminemia. Of these 12 dogs, 7 were panhypoproteinemic with severe hypoalbuminemia (mean albumin level 11g/l) and 3 of those eventually had to be euthanized. Eight of 12 dogs from our study were successfully treated with cyclosporine after failing to respond to steroid treatment. This suggests that early aggressive treatment in hypoalbuminemic dogs may potentially decrease mortality rates in severely ill animals.

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Cobalamin

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Serum cobalamin concentration has long been known to be an important negative prognostic factor in cats with chronic enteropathies8. We have recently shown that serum

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Uso della ciclosporina nel cane con IBD Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

TERAPIA DELLA IBD DEL CANE

tedeschi con diarrea cronica intermittente.2 La condizione viene diagnosticata sulla base di segnalamento, anamnesi e segni clinici ed anche sulla risposta ad un ricorso empirico agli antibiotici per os (ad es., ossitetraciclina 10-20 mg/kg TID o metronidazolo 10-20 mg BID o tilosina 20 mg/kg BID o TID).

L’approccio tradizionale al trattamento della IBD del cane si fonda su tre componenti che possono essere utilizzate singolarmente o, più spesso, in modo combinato: modificazioni della dieta, trattamento antibiotico e specifici farmaci antinfiammatori ed immunosoppressori. Anche se la maggior parte degli specialisti concorda nel ritenere che la terapia della dieta sia una componente centrale, l’impiego di routine di antibiotici nel trattamento dei cani con sospetto diagnostico di IBD è controverso. In molti casi, sono state somministrate per vari periodi di tempo dosi immunodepressive di corticosteroidi. In uno studio su 57 cani con infiammazione intestinale cronica di durata superiore a tre settimane, 36 casi risposero completamente o in modo significativo ad una settimana di una dieta di prova con salmone e riso basata soltanto su una elimination diet commerciale (formulazione secca).1 L’elevata percentuale di malati che risposero alla dieta (63%) era sorprendente, considerando che molti di questi animali erano stati inviati alla visita specialistica da veterinari che in precedenza avevano tentato un trattamento medico e dietetico senza un esito soddisfacente. Questa osservazione è anche stata fatta in lavori di gastroenterologia condotti presso altre strutture specialistiche. Al momento della presentazione alla visita, i nostri pazienti che rispondevano alla dieta erano significativamente più giovani di quelli in cui le modificazioni dell’alimentazione erano inefficaci e richiedevano una terapia medica (età mediana 2 anni contro 6 anni). Attualmente, in commercio si trova un’ampia varietà di diete da raccomandare per le prove di eliminazione: un’alternativa recente alle formulazioni classiche è rappresentata dalle diete idrolizzate, che offrono una nuova fonte proteica. È improbabile che le infezioni da batteri enteropatogeni come Campylobacter spp. vengano erroneamente diagnosticate come IBD, se si applica un approccio diagnostico sistematico. Tuttavia, in molti casi resta poco chiaro se i batteri siano la causa della malattia o si accrescano semplicemente in modo opportunistico nei cani con enteropatie sottostanti. L’esistenza di una forma primaria ed idiopatica di proliferazione batterica del tenue (SIBO, small intestinal bacterial overgrowth) è soggetta a controversie. Viene attualmente preferita la denominazione più generica di “diarrea idiopatica che risponde agli antibiotici” (ARD). Nella maggior parte dei casi, questa si riconosce nei giovani pastori

TRATTAMENTO ANTINFIAMMATORIO E IMMUNOSOPPRESSORE Gli attuali protocolli di trattamento per la IBD del cane in genere implicano l’impiego di dosi immunosoppressive di corticosteroidi per diverse settimane, seguiti da una graduale diminuzione per ridurre l’infiammazione della mucosa intestinale ed ottenere la remissione clinica. I protocolli di routine per l’impiego del prednisolone raccomandano dosaggi di 1-2 mg/kg BID per circa 2-4 settimane, seguiti da una lenta diminuzione nel corso di un periodo compreso fra settimane e mesi. Tuttavia, un certo numero di cani trattati con dosi immunosoppressive di corticosteroidi non mostrerà alcuna risposta al farmaco o presenterà una ricaduta dopo settimane o mesi dalla terapia. Un recente studio retrospettivo su 80 cani con IBD rivelò 13 casi (16%) di malattia intrattabile.3 Nell’uomo, si può osservare una mancata risposta al trattamento medico con steroidi nel 20-30% dei pazienti con IBD. A dosaggi elevati, i corticosteroidi presentano numerosi effetti collaterali, come la poliuria/polidipsia, che possono diventare insopportabili per i proprietari, specialmente nei cani di grossa taglia. Nei casi difficili che richiedono una prolungata terapia con corticosteroidi, ma sono sensibili agli effetti collaterali, è stato utilizzato con qualche successo aneddotico un farmaco più costoso, il budesonide (3,0 mg/m2, rispettivamente 0,5-3,0 mg per cane, in relazione al peso corporeo, una volta al giorno o a giorni alterni). Nell’uomo, il budesonide va incontro ad un’estrazione epatica di primo passaggio dell’80-90% circa. Quindi, soltanto una frazione del composto assorbito raggiunge la circolazione sistemica, teoricamente riducendo gli effetti collaterali. È stato documentato che il budesonide sopprime l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel cane con IBD. È necessario uno studio prospettico ben progettato che confronti il prednisone ed il budesonide nel trattamento del cane con IBD. Altri agenti immunosoppressori come l’azatioprina, il clorambucil, la ciclofosfamide ai dosaggi di routine vengono utilizzati da 29


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soli o in associazione con corticosteroidi. Quando sono usati in combinazione, possono (a) diminuire il dosaggio richiesto dei corticosteroidi e gli effetti collaterali associati, o (b) permettere di disabituare i cani ai corticosteroidi nel più breve tempo possibile. Inoltre, questi farmaci sono anche utilizzati nei casi di IBD del cane refrattaria agli steroidi. Possono avere un’insorgenza d’azione ritardata (settimane o mesi fino all’effetto massimo). Ad oggi, non esistono delle pubblicazioni che confrontino oggettivamente l’efficacia di questi diversi agenti. Se la malattia è limitata al grosso intestino, composti molecolari contenenti mesalamina (5-ASA) come la sulfasalazina (inizialmente 10-25 mg/kg PO TID per 6 settimane, poi ridurre progressivamente) o l’olsalazina (inizialmente 510 mg/kg PO TID, poi ridurre gradualmente) hanno dimostrato effetti benefici sulla mucosa del colon. La cheratocongiuntivite secca è una complicanza ben nota nei cani trattati con ognuno di questi due farmaci.

moderata ed un punteggio > 9 indicava una IBD clinicamente grave. Dopo il primo esame endoscopico, tutti i cani ricevettero un trattamento con CyA di 5 mg/kg per os una volta al giorno per un totale di 10 settimane e vennero valutati i punteggi di CIBDAI ogni due settimane dopo l’inizio del trattamento, nel corso dell’intero periodo di studio. In 9 cani, dopo 10 settimane di terapia è stato condotto un nuovo esame endoscopico di controllo. Inoltre, in 8 cani è stata misurata la concentrazione sierica di cyA mediante FPLI, durante le 24 ore successive alla somministrazione della prima dose di cyA, per valutare le farmacocinetiche del farmaco. La gravità clinica stabilita in base al punteggio CIBDAI risultò molto elevata (oltre 9) nella maggioranza dei casi all’inizio del trattamento con cyA, indicando una malattia clinica grave. Dopo 10 settimane di trattamento con cyA, il CIBDAI mediano risultò significativamente ridotto. In 8 cani si osservò una risposta completa entro 4 settimane di trattamento (riduzione di CIBDAI ad un punteggio di 0-2). Altri 2 cani non risposero al trattamento con cyA nel corso delle prime 10 settimane dello studio e furono sottoposti ad eutanasia rispettivamente 6 e 10 settimane dopo l’inizio del trattamento con cyA. Un cane rispose bene alla cyA per 14 settimane, ma in seguito andò incontro ad una ricaduta con segni clinici di vomito intrattabile e fu sottoposto ad eutanasia in quella fase. Gli effetti collaterali attribuiti alla cyA durante lo studio comparvero transitoriamente nelle prime due settimane del trattamento.Gli effetti collaterali riportati furono vomito ed anoressia parziale in 4 cani su 14, ulcerazione gengivale in un cane ed alopecia seguita da ipertricosi in un altro. Le farmacocinetiche della cyA nella grave IBD canina sono paragonabili a quelle osservate nei cani normali ed in quelli atopici, il che indica che ci si può attendere che la cyA sia efficace in casi di IBD gravemente colpiti dal primo giorno di trattamento. In questo studio pilota la cyA è risultata efficace nel ridurre i segni clinici di IBD grave nella maggioranza dei cani e può quindi essere ritenuta un’opzione valida per i cani con IBD resistenti agli steroidi.

LA CICLOSPORINA NELL’IBD: ESPERIENZE CON PAZIENTI UMANI E NEL CANE La ciclosporina A (cyA) si è dimostrata efficace negli attacchi refrattari agli steroidi di pazienti umani affetti da IBD e può rappresentare una valida alternativa nella IBD canina.4 L’infiltrato cellulare nelle enteropatie idiopatiche croniche del cane è dato principalmente da linfociti e plasmacellule nella lamina propria.5 Si ritiene che l’effetto antinfiammatorio della cyA nell’IBD sia dovuto alla sua azione sulle cellule T che infiltrano la mucosa. La cyA si lega intracellularmente alla calmodulina, che riduce il rilascio di calcio dal reticolo endoplasmatico, inibendo così ulteriormente la trasmissione dei segnali downstream ed, in ultimo, inibendo l’espressione dell’IL-2. Dato che quest’ultima è necessaria per la sopravvivenza delle cellule T per un periodo superiore a 24-48 ore, si è ipotizzato che la cyA riduca il numero delle cellule T infiltranti nella mucosa dei cani, diminuendo così la quantità di citochine proinfiammatorie ed, infine, i segni clinici della malattia. Per i cani, la cyA attualmente è approvata soltanto nella formulazione per uso orale. Ciò costituisce un motivo di preoccupazione, perché è possibile che i cani gravemente malati con infiltrati duodenali infiammatori non assorbano una quota di farmaco sufficiente a determinare un effetto clinico. Abbiamo condotto uno studio pilota per valutare l’efficacia farmacocinetica e clinica della cyA nei cani con grave IBD clinica refrattaria agli steroidi.4 Un totale di 14 cani venne incluso in uno studio sull’efficacia clinica. Tutti questi soggetti erano stati trattati con 2 mg/kg/die di prednisolone PO per un periodo che variava da un minimo di 6 settimane, ottenendo soltanto effetti clinici minimi prima che fosse gradualmente sospeso. La gravità della malattia era stata valutata utilizzando il CIBDAI descritto da Jersen et al., in base al quale un punteggio di 0-3 indicava una malattia senza significato clinico, un punteggio di 4-5 indicava una IBD lieve, un punteggio di 6-8 indicava una IBD

CONCLUSIONE La nostra conoscenza della IBD canina è considerevolmente migliorata in quest’ultimo decennio, tuttavia numerose domande restando ancora senza risposta. Sono disponibili molte opzioni per trattare la malattia. Sulla base della varietà di casi riscontrati da ogni singolo veterinario, sono raccomandati differenti protocolli di trattamento di routine. Il nostro studio originale che descriveva l’uso della ciclosporina nel cane con IBD documenta chiaramente l’efficacia di questo farmaco. Sul mercato si possono trovare molti “nuovi” farmaci aggiuntivi. Tuttavia, mancano ancora indagini obiettive e scientificamente valide per supportarne l’impiego nelle situazioni cliniche. Quindi, come guida nell’elaborazione di un piano terapeutico i veterinari spesso devono fare affidamento solo sui dati aneddotici riferiti dai colleghi e sulla propria esperienza personale accumulata nell’esercizio della professione. 30


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Treatment of canine IBD with cyclosporine Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

THERAPY OF CANINE IBD

ANTI-INFLAMMATORY AND IMMUNESUPPRESSIVE TREATMENT

The traditional approach to the treatment of canine IBD relies on 3 components that can be used individually or most often combined: dietary modifications, antibiotic treatment, and specific anti-inflammatory and immunesuppressive drugs. Although most specialists agree that dietary therapy is a central component, the routine use of antibiotics in the treatment of dogs tentatively diagnosed with IBD is subject to controversy. In many instances, immune suppressive doses of corticosteroids are administered for various lengths of time. In a prospective study of 57 dogs with chronic intestinal disease of more than 3 weeks’ duration, 36 dogs responded totally or significantly to one week a food trial with a salmon and rice based commercial elimination diet alone (dry formulation) 1. The high proportion of food responsive disease (63%) was surprising considering that many of these dogs had been referred to from veterinarians who had previously attempted dietary and medical treatment without satisfactory outcome. This observation has also been made by gastroenterologists working in other referral centers. Upon presentation, our food responders were significantly younger than the dogs that did not respond to dietary therapy and required medical therapy (median age 2 years vs. 6 years). There is currently a wide variety of commercially available diets to recommend for elimination trials: hydrolyzed diets are a recent alternative to classical diets offering a novel protein source Infections with enteropathogenic bacteria such as Campylobacter sp. are unlikely to be misdiagnosed as IBD if a systematic diagnostic approach is applied. However, it remains unclear in many instances whether the bacteria are the cause of the disease or merely grow opportunistically in dogs with underlying enteropathies. The existence of primary idiopathic small intestinal bacterial overgrowth (SIBO) is subject to controversy. The more generic denomination “idiopathic antibioticresponsive diarrhea” (ARD) is currently preferred. ARD is most commonly recognized in young German shepherds with chronic intermittent diarrhea 2. It is diagnosed based on signalment, history, and clinical signs, as well as on response to an empiric course of oral antibiotics (e.g. oxytetracycline 10-20 mg/kg TID, or metronidazole 10-20 mg BID, or tylosin 20 mg/kg BID to TID).

Current treatment protocols for canine IBD most often involve the use of immunosuppressive doses of corticosteroids for several weeks followed by slow tapering to reduce the intestinal mucosal inflammation and achieve clinical remission. The usual protocols for prednisolone usage recommend dosages of 1-2 mg/kg BID for approximately 2-4 weeks, followed by a slow tapering period over weeks to months. However, a number of dogs treated with immune suppressive doses of corticosteroids will show either no response at all to the drug or will relapse after weeks to months of treatment. A recent retrospective study including 80 dogs with IBD revealed 13/80 or 16% of cases with intractable disease 3 . In people, failure to respond to medical treatment with steroids can be observed in 20 to 30% of patients with IBD. At high dosages, corticosteroids have numerous sideeffects such as PU-PD which may become unbearable for the owners, especially in large breed dogs. In difficult cases that require prolonged corticosteroid therapy but are sensitive to its side-effects, the more expensive drug budesonide has been used with some anecdotal success (3.0 mg/m2, resp. 0.5-3.0 mg per dog, depending on body weight, once daily or every other day). In humans, budesonide undergoes a first pass hepatic extraction of approximately 80-90%. Therefore, only a fraction of the absorbed compound reaches the systemic circulation, theoretically decreasing the side-effects. It has been documented that budesonide suppresses the hypothalamic-pituitary-adrenal axis in dogs with IBD. A well designed prospective study comparing prednisone and budesonide in the treatment of canine IBD is needed. Other immunosuppressive agents such as azathioprine, chlorambucil, cyclophosphamide at the usual dosages are used alone or in combination with corticosteroids. When used in combination, they may (a) decrease the required dosage of corticosteroids and the associated side-effects, or (b) allow the dogs to be weaned off CS as soon as possible. Moreover, these drugs are also used cases of steroid-refractory canine IBD. They may have a delayed onset of action (weeks to months until maximal effect). To date, there are no publications objectively comparing the efficacy of these different drugs. If the disease is limited to the large bowel, compound molecules containing meselamine (5-ASA) such as sulfasalazine (initially 10-25 mg/kg p.o. TID for 6 weeks, then taper down) or olsalazine (initially 5-10 mg/kg p.o. TID, 32


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within 4 weeks of treatment (reduction in CIBDAI to a score of 0-2). Two dogs did not respond to treatment with cyA during the first 10 weeks of the study and were euthanized 6 and 10 weeks respectively after starting treatment with cyA. One dog responded well to cyA for 14 weeks but then experienced a relapse with clinical signs of intractable vomiting and was euthanized at that time. Side effects attributed to cyA during the study transiently occurred over the first two weeks of treatment. Reported side effects were vomiting and partial anorexia in 4/14 dogs, gingival ulceration in one dog and alopecia followed by hypertrichosis in one dog. Pharmacokinetics of cyA in severe canine IBD were comparable to values in normal dogs and atopic dogs, indicating that cyA can be expected to be effective in severely ill IBD cases from the first day of treatment. CyA was effective in reducing clinical signs of severe IBD in a majority of dogs in this pilot study and may therefore be a valid option for steroid-resistant dogs with IBD.

then reduce gradually) have proven beneficial effects on the colonic mucosa. Keratoconjunctivitis sicca is a well known complications in dogs treated with either of these two drugs.

CYCLOSPORINE IN IBD: EXPERIENCE WITH HUMAN AND CANINE PATIENTS Cyclosporin A (cyA) has been shown to be effective in steroid refractory attacks of human IBD and may also be a valid alternative for canine IBD 4. The cellular infiltrate in canine chronic idiopathic enteropathies mainly consists of lymphocytes and plasma cells in the lamina propria 5. The anti-inflammatory effect of cyA in IBD is thought to be due to its action on T-cells that infiltrate the mucosa. CyA binds intracellularly to calmodulin, which reduces the release of calcium from the endoplasmic reticulum, thereby inhibiting further down-stream signalling and, finally, inhibiting the expression of IL-2. Since IL-2 is necessary for the survival of T cells for longer than 24-48 hours, it is hypothesized that cyA decreases the number of infiltrating T-cells in the mucosa of the dogs, thereby reducing the amount of pro-inflammatory cytokines and, finally, the clinical signs of the disease. For dogs, cyA is currently only approved as an oral formulation. This raises the concern that severely ill dogs with inflammatory duodenal infiltrates will not absorb enough drug to produce a clinical effect. We performed a pilot study to evaluate the pharmacokinetics and clinical efficacy of cyA in dogs with severe steroid-refractory clinical IBD 4. A total of 14 dogs were included into the clinical efficacy study. All of these dogs had been treated with 2mg/kg per day of prednisolone p.o. for a period ranging from a minimum of 6 weeks with only minimal clinical effect before being tapered off. The severity of disease was assessed using the CIBDAI described by Jergens et al., with a score of 0-3 indicating clinically insignificant disease, a score of 4-5 indicating mild IBD, a score of 6-8 indicating moderate IBD and a score of >9 indicating severe clinical IBD. After the first endoscopical examination, all dogs received treatment with cyA 5mg/kg p.o. once daily for a total of 10 weeks and CIBDAI scores were assessed every second week after starting treatment during the entire study period. A recheck endoscopical examination was performed in 9 dogs after 10 weeks of treatment. In addition, serum concentration of cyA was measured in 8 dogs by FPLI during 24hrs after giving the first dose of cyA to assess the drug pharmacokinetics. Clinical severity as scored by CIBDAI was very high (over 9) in the majority of cases at the beginning of treatment with CyA, indicating severe clinical disease. After 10 weeks of treatment with cyA, the median CIBDAI was significantly reduced. Eight dogs showed a complete response

CONCLUSION Our understanding of canine IBD has considerably improved in the last decade, however numerous questions still need to be answered. Many options for treating the disease are available. Based on the variety of cases seen by a particular veterinarian, different routine treatment protocols are recommendable. Our original study describing the use of cyclosporine in dogs with IBD clearly documents the efficacy of this substance. Many additional “new” drugs can be found on the market. However, objective and scientifically sound investigations are still lacking to support their use in clinical situations. Therefore, veterinarians often have to rely solely on anecdotal evidence from colleagues and accrued personal experience to guide them while they elaborate a treatment plan.

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Pancreatite cronica ed IBD livello avanzato Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

INTRODUZIONE

risultati di queste analisi, i cani vennero distinti retrospettivamente in due gruppi; quelli che superavano l’intervallo di riferimento del laboratorio di 200 µg/l vennero definiti come affetti da IBD con pancreatite cronica (IBD-CP) e quelli con risultati inferiori a 200 µg/dl come affetti da IBD senza pancreatite cronica associata (IBD-NCP). Venne quindi valutata retrospettivamente l’indagine diagnostica della IBD in tutti i casi e si effettuò un confronto dei seguenti parametri tra i due gruppi: segni clinici, età, attività di lipasi ed amilasi sierica, concentrazioni di albumina e cobalamina sierica, riscontri ecografici addominali e riscontri istopatologici alle biopsie intestinali, trattamenti della IBD ed esito clinico.

La pancreatite cronica associata a infiammazione intestinale (IBD-CP) è ben nota come entità clinica nell’uomo, perché episodi di pancreatite compaiono in molti pazienti umani nel corso della malattia infiammatoria. Anche se l’eziologia della pancreatite cronica nell’uomo con IBD è sconosciuta, i riscontri clinici, morfologici ed istologici richiamano una pancreatite autoimmune.1 In genere, quest’ultima è subclinica ed è la sola forma di pancreatite cronica nell’uomo che risponda totalmente agli steroidi. I segni clinici della IBD-CP si rilevano in circa il 2% dei pazienti umani, ma la frequenza effettiva della malattia può essere molto più elevata, perché secondo numerosi studi l’iperamilasemia e l’insufficienza pancreatica esocrina sono presenti, rispettivamente, nel 6-16% e nel 21-80% dei pazienti, mentre le alterazioni istologiche sono state osservate nel 38-53% degli esami patologici post-mortem. Quindi, sembra che la IBDCP possa principalmente essere una malattia clinicamente silente. La IBD-CP finora non è stata riportata nel cane. La pancreatite cronica come entità patologia separata in questa specie animale è stata sottostimata, ma numerosi studi hanno dimostrato che può essere più comune di quanto non si creda. Diagnosticare la pancreatite, specialmente quella cronica del cane, è molto impegnativo. I segni clinici sono aspecifici e possono essere facilmente confusi con quelli della IBD stessa. L’innalzamento di amilasi e lipasi può essere influenzato da altre condizioni non pancreatiche e presenta livelli relativamente bassi di specificità e sensibilità per la pancreatite.2 Le radiografie addominali sono soggettive e si basano sulla qualità dell’immagine e sull’esperienza del professionista che la interpreta e sono aspecifiche per la pancreatite del cane. La sensibilità dell’ecografia addominale per la diagnosi di pancreatite è altamente operatore-dipendente e, secondo quanto riportato in letteratura, arriva fino al 68% nel cane. Anche se la biopsia pancreatica una volta era considerata lo standard aureo, sappiamo da vari studi che le sede dell’infiammazione può sfuggire.

RISULTATI Non si riscontrò alcuna significativa differenza relativa a punteggio di attività clinica (p = 0,67), attività dell’amilasi sierica (p = 0,058), concentrazione di cobalamina sierica (p = 0,61), concentrazione dell’albumina sierica (p = 0,052), punteggi di ecografia addominale (p = 0,23) e punteggi istopatologici per l’IBD (p = 0,74). Non si rilevò neppure alcuna differenza significativa nella frequenza del trattamento con steroidi tra i due gruppi (p = 0,13). I cani con IBD-CP risultarono essere significativamente più anziani e presentarono una concentrazione della lipasi sierica più elevata di quelli con IBD-NCP (p = 0,001, p = 0,001, rispettivamente). Inoltre, i cani con IBD-CP avevano un rischio più elevato di un punteggio di follow-up scarso (p = 0,02) e risultò significativamente più probabile che dovessero essere sottoposti ad eutanasia al follow-up (p = 0,02).

IMPORTANZA CLINICA In questo studio, 15 cani su 41 con diagnosi confermata di malattia infiammatoria intestinale presentarono risultati della cPLI sierica elevati, supportando una diagnosi di IBD-CP. Nell’uomo, il dolore addominale è il segno cardine della pancreatite e, quando è presente, viene diagnosticata una forma clinicamente manifesta della malattia. Se si prende il dolore addominale come criterio per diagnosticare la pancreatite clinica, allora questa era clinica nel 2% della popolazione del nostro studio e subclinica nel 33%, sulla base dell’assenza di segni clinici attribuibili a pancreatite. Questo riflette i riscontri clinici di IBD-CP e pancreatite autoimmune nell’uomo.

MATERIALI E METODI Nello studio sono stati inseriti 47 cani affetti da IBD confermata sulla base di riscontri istopatologici. Il siero prelevato da questi cani venne destinato alle valutazioni cPLI (effettuate presso i laboratori Texas GI). In funzione dei 34


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intestinale. Nella maggior parte dei casi la IBD-CP canina è subclinica e sfugge facilmente ai test diagnostici di routine utilizzati nei cani con sospetta IBD. È importante diagnosticare la pancreatite concomitante nei cani affetti da IBD, dato che la sua presenza è associata ad un esito peggiore. L’eziologia della IBD-CP canina non è nota e saranno necessari ulteriori studi per stabilire la causa ed il trattamento appropriato.

Nei cani con IBD-CP il punteggio relativo all’esito era significativamente più scarso e le probabilità che venissero sottoposti ad eutanasia al follow-up erano significativamente maggiori. Ciò era probabilmente dovuto al fatto che la seconda diagnosi di pancreatite cronica era sfuggita nei pazienti con IBD perché la cPLI risultò determinata soltanto retrospettivamente, per lo scopo di questo studio. Non era stato effettuato un trattamento appropriato per la pancreatite cronica, come una dieta a basso tenore di grassi o la somministrazione di enzimi pancreatici, e può darsi che ciò abbia infine peggiorato il decorso di questi casi. Gli steroidi sono impiegati frequentemente come metodo principale per l’induzione o la remissione dell’IBD attiva moderata o grave dell’uomo.5 Attualmente, non è noto con esattezza quali effetti gli steroidi abbiano sul pancreas, dato che la diagnosi di pancreatite indotta da steroidi è oggetto di controversie. Nella nostra popolazione di studio, non riscontrammo alcuna differenza significativa nella frequenza di trattamento con steroidi tra i due gruppi (p = 0,13), il che comporta che il trattamento con steroidi non aveva alcun effetto sul pancreas di questi cani. Tuttavia, sarebbe necessario uno studio prospettivo per determinare se il trattamento steroideo dei pazienti con IBD sia un fattore di rischio per lo sviluppo della pancreatite. In conclusione, questa ricerca suggerisce l’esistenza nel cane di un’infiammazione pancreatica associata a quella

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Chronic pancreatitis in canine IBD Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

INTRODUCTION

Serum was stored from these dogs and sent away for cPLI measurement (performed at the Texas GI laboratory). According to their cPLI results the dogs were retrospectively separated into two groups; those above the laboratory reference range of 200ug/L were designated as IBD with chronic pancreatitis (IBD-CP) and those with results less than 200ug/L as IBDwithout associated chronic pancreatitis (IBD-NCP). The IBD work-up in all cases was retrospectively evaluated and comparisons were made of the following parameters between the two groups: clinical signs, age, serum lipase and amylase activities, serum albumin and cobalamin concentrations, abdominal ultrasound findings, histopathological findings on intestinal biopsies, management of IBD and clinical outcome.

Inflammatory bowel disease-associated chronic pancreatitis (IBD-CP) is well known as a clinical entity in people, as episodes of pancreatitis occur in many human patients during the course of inflammatory bowel disease. Although the aetiology of chronic pancreatitis in people with IBD is unknown, the clinical, morphological and histological features are reminiscent of autoimmune pancreatitis 1. Auto-immune pancreatitis is commonly subclinical and is the only form of chronic pancreatitis in people that is completely responsive to steroids. Clinical symptoms of IBD-CP are found in approximately 2% of human patients but the actual frequency of the disease could be much higher since according to several studies hyperamylasemia and exocrine pancreatic insufficiency are found in 6-16 and 21-80% of patients respectively whereas histological changes are observed in 38-53% of postmortem pathological examination. Therefore, it appears that IBD-CP could mainly be a clinically silent disease. IBD-CP has so far not been reported in dogs. Chronic pancreatitis as a separate disease entity has been under-recognised in dogs, but several studies have shown that it may be more common than perceived. Diagnosing pancreatitis, especially chronic pancreatitis in dogs is very challenging. Clinical signs are non-specific and can easily be confused with those of the IBD itself. Elevated amylase and lipase can be affected by other non-pancreatic conditions and have relatively low specificity and sensitivity for pancreatitis 2. Abdominal radiographs are subjective and rely on the quality of the radiograph and the experience of the reader and are non-specific for canine pancreatitis. The sensitivity of abdominal ultrasound for diagnosing pancreatitis is highly operator dependent and reported to be up to 68% in dogs. Although pancreatic biopsy was once considered to be the gold standard, we know from various studies that the site of inflammation can be missed. So far, cPLI it is considered to be the best test for the diagnosis of canine pancreatitis3. We recently performed a retrospective study at the University of London looking at canine IBD cases with elevated cPLI values 4. The aims of the study were to determine whether IBD-CP exists in dogs and if so to determine the prevalence and characteristics of canine IBD-CP.

RESULTS No significant differences were found in clinical activity score (p=0.67), serum amylase activity (p=0.058), serum cobalamin concentration (p=0.61), serum albumin concentration (p=0.052), abdominal ultrasound scores (p=0.23) and histopathology scores for IBD (p=0.74). There was also no significant difference in the frequency of steroid treatment between the two groups (p=0.13). Dogs with IBD-CP were found to be significantly older and had a higher serum lipase concentration than dogs with IBD-NCP (p=0.001, p=0.001 respectively). Moreover, dogs with IBD-CP had a higher risk of a poor follow-up score (p=0.02) and were significantly more likely to be euthanased at follow-up (p=0.02).

CLINICAL SIGNIFICANCE In this study 15 out of 41 dogs with confirmed inflammatory bowel disease had elevated serum cPLI results supporting a diagnosis of IBD-CP. In people, abdominal pain is the cardinal sign for pancreatitis and when present clinical pancreatitis is diagnosed. If taking abdominal pain as a criterion to diagnose clinical pancreatitis, then 2% of our study population were clinical for pancreatitis and 33% had subclinical pancreatitis based on the absence of clinical signs attributable to pancreatitis. This mirrors the findings in IBD-CP and auto-immune pancreatitis in people. Dogs with IBD-CP had a significantly poorer outcome score and were significantly more likely to be euthanased at follow-up. This was probably because the second diagnosis

MATERIALS AND METHODS Forty-seven canine patients with confirmed IBD on histopathology were prospectively enrolled into the study. 36


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creatitis in dogs with IBD as concurrent pancreatitis is associated with a worse outcome. The etiology of canine IBDCP is unknown and further studies are needed to establish the cause and appropriate treatment.

of chronic pancreatitis was missed in the IBD patients as cPLI was only determined retrospectively for the purpose of this study. Appropriate treatment for chronic pancreatitis such as low fat diet or pancreatic enzyme replacement was not attempted and may have ultimately worsened the outcome for these cases. Steroids are used frequently as the mainstay for induction of remission in moderate to severe active IBD in people 5. Currently it is not known exactly what effect steroids have on the pancreas as controversy surrounds the diagnosis of steroid-induced pancreatitis. In our study population, we did not find any significant difference in the frequency of steroid treatment between the two groups (p=0.13), implicating that steroid treatment had no effect on the pancreas in these dogs. However, a prospective study would be needed to investigate if steroid treatment in IBD patients is a risk factor for the development of pancreatitis. In conclusion, this study suggests that inflammatory bowel disease-associated pancreatic inflammation does exist in dogs. Canine IBD-CP is most commonly subclinical and is easily missed by routine diagnostic tests used in dogs suspected of IBD. It is important to diagnose concurrent pan-

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Colite istiocitaria ulcerativa Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

CARATTERISTICHE CLINICHE ED ISTOPATOLOGICHE DELLA COLITE ISTIOCITARIA ULCERATIVA DEL CANE

specifiche elimination diet), e somministrazione di farmaci antinfiammatori o immunosoppressori come la sulfasalazina, il prednisolone e l’azatioprina. Tuttavia, queste strategie di solito non sono riuscite a migliorare i segni clinici degli animali colpiti, e la maggior parte dei casi è stata sottoposta ad eutanasia perché risultava refrattaria al trattamento. Due ricerche recenti hanno oggi suscitato speranza nel trattamento della malattia, con un totale di 12 casi riportati che avevano dimostrato un netto aumento della risposta alla somministrazione di enrofloxacin (5 mg/kg una volta al giorno) o ad protocollo di combinazione con enrofloxacin, amossicillina (20 mg/kg PO due volte al giorno) e metronidazolo (10-15 mg/kg PO due volte al giorno).16 La risposta al trattamento con enrofloxacin nei lavori più recenti è risultata spettacolare, con tutti i cani che rispondevano entro 3-12 giorni dall’inizio delle somministrazioni. È particolarmente incoraggiante che parecchi cani, secondo quanto riportato in letteratura, siano risultati liberi da malattia quando il farmaco è stato interrotto al termine di un ciclo di 4-6 settimane di trattamento antibiotico con enrofloxacin.4 Questo implica la possibilità di ottenere la guarigione in alcuni casi, anche se finora non sono stati riferiti periodi di follow-up superiori a 21 mesi ed è possibile che alcuni cani necessitino di trattamento con enrofloxacin per un periodo molto più lungo di 6 settimane o eventualmente anche per tutta la vita. In 5 casi riportati, le biopsie furono ripetute dopo il termine del ciclo antibiotico, in un momento in cui i cani mostravano una remissione clinica. In tutti questi 5 cani, vennero dimostrato un drastico miglioramento delle lesioni istologiche, con scomparsa dei macrofagi PAS-positivi in 3 casi e marcata riduzione del numero dei macrofagi negli altri due.4

La colite ulcerativa istiocitaria (HUC) è una forma di infiammazione intestinale che compare più frequentemente nei cani Boxer giovani. Venne descritta per la prima volta 30 anni fa1 e da allora in poi è stata rilevata in molti Paesi, come gli USA,2,3,4 l’Australia,5,6 il Giappone e l’Europa,7,8 in particolare nel Regno Unito.9 Oltre al Boxer, è stata descritta con scarsa frequenza in altre razze, come il Mastiff, l’Alaskan Malamute,10 il Bulldog francese,11 il Bulldog inglese4 ed anche in un gatto.12 La malattia insorge principalmente nei cani giovani con meno di 2 anni di età. I segni clinici sono quelli di una grave infiammazione cronica del grosso intestino e comprendono diarrea, ematochezia, aumento della frequenza della defecazione, tenesmo e muco eccessivo nelle feci. Nei casi gravi, possono anche comparire perdita di peso ed inappetenza. I riscontri endoscopici mostrano sedi di una grave emorragia del colon ed ulcerazioni sparse, con strie di mucosa di aspetto normale. Istologicamente, le lesioni iniziali possono presentarsi con un infiltrato infiammatorio misto nella lamina propria, che è sottostante all’epitelio degenerato.1,3,13,14 Con lesioni più estese e malattia cronica, le ulcerazioni diventano più visibili al rilievo istologico, con una grave infiltrazione della lamina propria e delle regioni della sottomucosa con neutrofili, macrofagi, linfociti, plasmacellule e mast cell. Di solito, si riscontra anche un’imponente perdita della superficie epiteliale nelle biopsie derivanti da lesioni e una perdita di cellule caliciformi nell’intero colon. La lesione istologica patognomonica, tuttavia, è l’accumulo di grandi macrofagi che mostrano una intensa positività alla colorazione con l’Acido Periodico di Schiff (PAS) nel loro citoplasma.2,13,15 Questo è ancora il modo migliore per diagnosticare la HUC con certezza. Gli studi immunoistochimici hanno dimostrato che le lesioni da HUC sono caratterizzate da un aumento del numero delle cellule L1-positive, nonché delle cellule positive al MHC di classe II, delle cellule positive CD3 e delle plasmacellule positive per IgG.9

RICERCHE SULLA PATOGENESI DELL’HUC I meccanismi coinvolti nella patogenesi della HUC del cane sono stati oggetto di dibattito per decenni. Il recente successo del trattamento antibiotico nella HUC canina ovviamente solleva la domanda se la malattia possa essere causata da un microrganismo infettante. Tuttavia, non è la prima volta che questa ipotesti è stata oggetto di studio. Il ruolo giocato dai macrofagi PAS-positivi è stimolante, dato che questa tecnica determina la colorazione intracellulare del materiale fagocitato dai macrofagi e gli studi iniziali condotti con il microscopio elettronico hanno dimostrato i cosiddetti “corpi residuali”, che sembrano dei microrganismi simili a batteri, nei macrofagi che si colorano positiva-

TRATTAMENTO DELLA HUC Sfortunatamente, sino a non molto tempo fa la prognosi per l’HUC variava da riservata ad infausta. Il suo trattamento consiste in varie combinazioni di terapia dietetica (cioè aumento del contenuto di fibra nella formulazione e uso di 38


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mente con il metodo PAS.18 In una recente pubblicazione che ha preso in esame la possibilità di una causa infettiva della HUC canina, mediante ibridazione in situ a fluorescenza della mucosa del colon di Boxer colpiti dalla malattia è stato rilevato un ampio numero di coccobacilli, al contrario di quanto avviene nei tessuti istologicamente normali e nella mucosa di cani con altri tipi di colite.19 Ulteriori studi mediante coltura, clonazione e sequenziazione della flora del colon di Boxer con HUC identificarono i batteri come E. coli. I microrganismi possono essere rilevati mediante microscopia elettronica e localizzati nel comparto intracellulare in macrofagi PAS-positivi nelle lesioni HUC. Questo riscontro è eccitante, in particolare perché un’ulteriore classificazione dei geni della virulenza e del comportamento biologico di questi batteri in co-coltura con cellule epiteliali e macrofagi rivelò proprietà invasive ed adesive specifiche. Le colorazioni di E. coli associate ad HUC dimostrarono un fenotipo simile ed un comportamento adesivo ed invasivo che somigliava a quello di isolati di E. coli che sono stati recentemente associati nell’uomo al morbo di Crohn. In parecchi studi, un ceppo particolare di E. coli, sottonominato E. coli LF82, ha potuto essere dimostrato in biopsie del 20-35% delle lesioni dell’ileo nel morbo di Crohn, ma mai nei casi controllo sani o altre malattie da colite.20 In pazienti umani con IBD sono stati identificati dei difetti genetici in alcuni recettori dell’immunità innata. La risposta infiammatoria che viene normalmente osservata come reazione ai batteri patogeni che attraversano la barriera intestinale è simile a quella riscontrata nella mucosa di soggetti colpiti da morbo di Chron e cani affetti da HUC. È quindi possibile che anche nei cani con HUC si possano trovare difetti dei pattern recognition receptors simili a quelli riscontrati nei pazienti umani con IBD. La predisposizione genetica sembra essere uno dei meccanismi evidenti coinvolti, dato che la maggior parte dei casi descritti è costituita da cani Boxer giovani, e nella prima segnalazione della malattia, nel 1965, fu possibile far risalire ad un singolo progenitore la maggior parte dei cani colpiti.1 Resta da stabilire se i Boxer con HUC portino mutazioni nei pattern recognition receptors come i TLR o i NOD, tuttavia sembra probabile che un difetto dell’immunità innata renda i cani con HUC più suscettibili ad infezioni specifiche, come quelle sostenute da ceppi di E. coli che non causano malattia negli animali normali.

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Histiocytic ulcerative colitis - What’s new? Karin Allenspach Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK

CLINICAL AND HISTOPATHOLOGICAL FEATURES OF CANINE HISTIOCYTIC ULCERATIVE COLITIS

strategies usually failed to improve the clinical signs in affected animals, and most cases had to be euthanased because of refractoriness to treatment. Two recent reports have now sparked hope in treating the disease, as a total of 12 cases have been reported which have shown dramatic response to treatment with enrofloxacin (5mg/kg po once daily for), or a combination protocol with enrofloxacin, amoxicillin (20mg/kg po twice daily) and metronidazole (10-15 mg/kg po twice daily)16. The response to treatment with enrofloxacin in the more recent reports was dramatic, with all dogs responding within 3-12 days of starting treatment. It is particularly encouraging that several dogs were reportedly disease-free when the drug had been discontinued after finishing a course of 4-6 weeks of antibiotic treatment with enrofloxacin4. This implies a possibility of curing the disease in certain cases, even though follow-up times of more than 21 months have not been reported so far and it is possible that some dogs need treatment with enrofloxacin for much longer than 6 weeks or possibly even life-long. In 5 of the reported cases, biopsies were repeated after finishing the course of antibiotic treatment at the time when the dogs were in clinical remission. In all of these 5 dogs, a dramatic improvement in the histological lesions was demonstrated, with disappearance of PAS-positive macrophages in 3 cases and a marked reduction in the number of macrophages in the other 2 cases 4.

Histiocytic Ulcerative Colitis (HUC) is a form of inflammatory bowel disease which occurs most frequently in young Boxer dogs. It was first described 30 years ago 1 and has since then been reported to occur in many countries, such as the USA 2 3 4, Australia 5 6, Japan and Europe 7 8, particularly in the UK 9. Besides Boxers, HUC has also been reported to occur infrequently in other breeds, such as Mastiffs, Alaskan Malamutes 10, French Bulldogs 11, English Bulldogs 4 and even in one cat 12. The onset of disease is predominantly in dogs younger than 2 years of age. The clinical signs are those of severe chronic large intestinal inflammation and comprise diarrhea, hematochezia, increased frequency of defecation, tenesmus and excessive mucus in the feces. Weight loss and inappetence can also be seen in severe cases. Endoscopic findings demonstrate sites of severe colonic hemorrhage and ulcerations interspersed with stretches of normal appearing mucosa. Histologically, early lesions can present with a mixed inflammatory infiltrate in the lamina propria, which are subjacent to degenerative epithelium 1,3,13,14. With more extensive lesions and chronic disease, the ulcerations become more visible on histology with severe infiltration of the lamina propria and the submucosal regions with neutrophils, macrophages, lymphocytes, plasma cells and mast cells. There is also usually massive loss of the epithelial surface in biopsies from lesions and loss of goblet cells in the entire colon. The pathognomonic histologic lesion however is the accumulation of large macrophages which stain strongly positive with Periodic Acid Schiff (PAS) in their cytoplasm 2,13,15. This is still the best way to diagnose HUC with certainty. Immunohistochemical studies have shown that HUC lesions are characterized by an increased number of L1 positive cells, as well as MHC class II positive cells, CD3 positive cells and IgG positive plasma cells 9.

INVESTIGATIONS INTO THE PATHOGENESIS OF HUC The mechanisms involved in the pathogenesis of HUC in dogs have been debated for decades. The recent success with antibiotic treatment in canine HUC obviously raises the question if HUC could be caused by an infectious organism. It is however not for the first time that this hypothesis has been investigated. The role played by the PAS positive macrophages is intriguing, as PAS stains intracellular phagocytosed material in the macrophages, and early electron microscopic studies have demonstrated so-called “residual bodies”, which resemble bacteria-like organisms in PAS- positive staining macrophages 18. In a recent publication investigating the possibility of an infectious cause for canine HUC, large numbers of coccobacilli were found by fluorescent in-situ hybridization in the colonic mucosa of Boxers affected with HUC, as opposed to histologically normal tissues and in the mucosa of dogs with other types of colitis19. Further studies by culture, cloning and sequencing of the flo-

TREATMENT OF HUC Unfortunately, the prognosis for HUC has been guarded to poor until just recently. Management of HUC consisted of various combinations of dietary management (i.e. increasing fiber content in the diet and specific elimination diets), and anti-inflammatory or immune-suppressive treatment with sulfasalazine, prednisolone and azathioprine. However, these 40


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ra in the colon of Boxers with HUC identified the bacteria to be E.coli. The bacteria could be identified by electron microscopy and localized to the intracellular compartment in PAS positive macrophages in HUC lesions. This finding is exciting, particularly because further classification of the virulence genes and biological behavior of these bacteria in coculture with epithelial cells and macrophages revealed specific adhesive and invasive properties. The E.coli strains associated with HUC were shown to have a similar phenotype and adhesive and invasive behavior resembling E.coli isolates which have recently been associated with Crohn’s disease in people. In several studies, a particular strain of E.coli, socalled E.coli LF82, could be demonstrated in biopsies of 2035% of ileal lesions in Crohn’s disease, but never in healthy controls or other colitic diseases 20. Genetic defects in certain receptors of the innate immunity have been identified in people with IBD. The inflammatory response which is normally only seen as a reaction towards pathogenic bacteria breaching the intestinal barrier is similar to what is seen in the mucosa of people affected with Crohn’s disease and dogs affected with HUC. It is therefore possible that similar defects in pattern-recognition receptors as found in people with IBD could be found in dogs with HUC. A genetic predisposition seems to be one of the obvious mechanisms involved, as most cases described are young Boxer dogs, and in the first report of the disease in 1965, most of the affected dogs could be traced back to a single ancestor 1. Whether Boxers with HUC carry mutations in pattern-recognition receptors such as TLRs or NODs remains to be determined, however, it seems likely that a defect in the innate immunity renders dogs with HUC more susceptible to specific infections, such as E.coli strains which do dot cause disease in normal animals.

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La sfida è fornire prestazioni sanitarie di qualità Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S

La compliance – o, piuttosto, la sua mancanza – è un problema di vecchia data e ben documentato in ambito medico umano. Nonostante i potenziali mezzi offerti dalla medicina moderna per prevenire, alleviare e curare molte forme di cattiva salute, le persone spesso non ne fanno uso nel modo prescritto. Gli studi condotti hanno dimostrato che la mancata compliance costituisca un problema molto complesso, con aspetti sociali, economici, psicologici e comportamentali. Spesso è una decisione meditata presa da persone che fanno da sole le proprie scelte sui vantaggi e svantaggi delle medicine. Coinvolgere i pazienti nella gestione delle loro condizioni patologiche, fornendo loro maggiori informazioni sulla malattia e sui trattamenti ed instaurando un dialogo migliore con gli operatori sanitari è la chiave per un uso più efficace dei trattamenti farmacologici.

I veterinari che hanno collaborato all’indagine ed ai quali è stato chiesto di indicare il livello di compliance dimostrato dai loro clienti hanno invariabilmente sovrastimato questo dato. Altri risultati erano ugualmente inquietanti. Ad esempio, a meno di un quinto dei pazienti che avevano bisogno di diete terapeutiche per problemi di nefropatia, obesità, calcoli vescicali, allergie alimentari, affezioni gastroenteriche acute e croniche o FLUTD sono state impartite davvero le relative raccomandazioni. Solo un terzo dei potenziali pazienti anziani è stato sottoposto ad una qualche sorta di “screening geriatrico”. Benché i veterinari odontoiatri raccomandino un trattamento di profilassi per gli animali con patologie di Grado 1 o superiore, solo il 15% dei soggetti che aveva bisogno di cure le ha effettivamente ricevute. Ciò significa che milioni di animali da compagnia che trarrebbero beneficio da certe terapie mediche non ricevono i trattamenti di cui avrebbero bisogno e che si meriterebbero.

E questo, cosa ha a che fare con la professione veterinaria? Nel 2003, l’American Animal Hospital Association (AAHA), con il generoso sostegno della Hill’s Pet Nutrition Ltd., ha pubblicato i risultati di una pionieristica indagine ad ampio raggio sull’importanza della compliance per la professione veterinaria. Questo studio è stato ripetuto in Spagna nel 2007 ed altre ricerche minori sono state pubblicate in questi ultimi anni. Ciò che rivelano tutte è una shockante discrepanza fra il numero degli animali da compagnia che hanno bisogno di un trattamento e il totale di quelli che lo ricevono effettivamente. E la causa primaria di tale discrepanza è la mancanza di una chiara raccomandazione da parte del veterinario e del suo team.

Lavorare con la compliance Il raggiungimento di buoni livelli di compliance coinvolge numerosi fattori. Se uno qualsiasi di questi elementi viene meno, non si otterrà la compliance. Questi fattori vengono utilmente riassunti dalla cosiddetta “equazione CRAFT”:

C = R x A x FT Dove C= Compliance R= Raccomandazione del veterinario e rinforzo da parte del suo team (infermieri veterinari) A= Accettazione della raccomandazione da parte del proprietario dell’animale e sua capacità di attuazione FT= Follow through da parte del team, per garantire risultati ottimali

Che cos’è la compliance? La compliance (o osservanza) in medicina veterinaria viene definita come l’evento che si verifica quando gli animali nella vostra struttura ricevono le cure che voi ritenete migliori per loro. Nello studio dell’AAHA sono state quantificate sei aree della compliance (vedi riquadro sotto). Compliance misurata nelle seguenti aree: 1.Test e profilassi della filariosi cardiopolmonare 2.Profilassi dentale 3.Diete terapeutiche

4.Screening degli anziani 5.Vaccinazioni di base del cane e del gatto (DHLPP e FVRCP) 6. Esami pre-anestesia

Relativi solo ad animali visti da un veterinario negli ultimi 12 mesi

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ai clienti le necessarie informazioni di supporto in modo che possano comprenderle ed accettarle. Gli scopi importanti per la gestione della compliance nella pratica professionale sono ridurre il gap di raccomandazioni, fornire informazioni ai clienti nel modo più chiaro ed utile ed instaurare dei sistemi di follow-up gestiti dallo staff che garantiscano che ogni singolo paziente riceva le migliori cure possibili. E i risultati? Animali più sani, proprietari più soddisfatti, personale più sereno e gratificato e maggiori profitti per la struttura.

Probabilmente, il fattore più importante è la raccomandazione iniziale da parte del veterinario. Perché? Per tre ragioni: È il primo stadio dell’offerta di cure di buona qualità Il cliente se lo aspetta: vuole essere informato su ciò che è meglio per il suo animale (preferibilmente, sia a parole che per scritto) Il cliente non conosce i servizi e prodotti disponibili ed è raro che il costo sia uno dei fattori che influiscono sulla sua scelta

Cosa significa migliorare la compliance per la professione veterinaria?

CJB, 2009

La compliance è un problema sia morale che di qualità delle cure: ci sono milioni di animali che non ricevono prestazioni di livello ottimale perché il team veterinario non impartisce le raccomandazioni iniziali e poi non offre

Indirizzo per la corrispondenza. Caroline Back Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition

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Understanding compliance Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S

Compliance – or, rather, lack of compliance – is an ageold problem in the human medical world. Despite the ability of medicines to prevent, relieve and even cure many forms of ill health, people often do not take them as prescribed. Studies show that non-compliance is a very complex issue involving social, economic, psychological and behavioural aspects. It is often a considered decision by people making their own choices about the benefits and disadvantages of medicines. Involving patients in managing their own condition, through providing more information about the illnesses and treatments and through better dialogue with health professionals, is key to more effective use of medicines.

one fifth of patients needing therapeutic diets to manage kidney disease, obesity, bladder stones, food allergies, acute and chronic GI disease or FLUTD actually received a recommendation. Only one third of potential senior patients received any sort of ‘Senior screening’. Although veterinary dental specialists recommend prophylactic treatments for pets with Grade 1 disease or higher, only 15% of pets needing care actually received it. What this means is that millions of pets that would benefit from medical care are not receiving the treatment they need and deserve.

Working with compliance Achieving good levels of compliance involves a number of different factors. If any one of these elements is missing then compliance will not be achieved. These factors are usefully summarised in ‘the CRAFT equation’:

So, what has this to do with the veterinary profession? In 2003, the American Animal Hospital Association, using a generous grant from Hill’s Pet Nutrition Ltd., published the results of a comprehensive and groundbreaking survey into the importance of compliance for the veterinary profession. This study was repeated in Spain in 2007, and further minor studies have been published as well in the last few years. What they all reveal is the shocking discrepancy between the number of pets requiring treatment and the number actually getting that treatment. And the primary cause of this discrepancy is lack of a clear recommendation from the vet and practice team.

C = R x A x FT Where C= Compliance R= Recommendation by vet and reinforcement by healthcare team (vet nurses) A= Acceptance of recommendation by pet owner and ability to go into action FT= Follow through by healthcare team to ensure optimal outcomes Probably the most important factor is the initial recommendation from the vet. Why? There are three reasons: It is the first stage in providing quality of care Clients expect it: clients want to be informed about what is best for their pet (preferably both verbally and in writing), Clients don’t know what services and products are available and cost is seldom an issue affecting their choice

What is compliance? Compliance is defined as ensuring the pets in your practice receive the care you believe is best for them. In the AAHA study six areas for compliance were quantified (see box below).

What does improving compliance mean for the veterinary profession?

Compliance measured in the following areas: 1. 2. 3. 4. 5.

Heartworm testing and preventive Dental prophylaxis Therapeutic diets Senior screenings Canine and Feline core vaccines (DHLPP and FVRCP) 6. Pre-anaesthetic testing

Compliance is both a moral and quality of care issue: there are millions of pets not receiving optimal levels of care because the veterinary care team is not making the initial recommendation, and then not providing the support information clients need in a way they can understand and accept. Important goals in managing compliance in practice are reducing the recommendation gap, providing information in a clearer, more helpful way to clients, and creating staffmanaged follow up systems that ensure every single patient receives the best possible care. And the outcomes? Healthier pets, more satisfied pet owners, happier, more fulfilled staff, and greater practice profits.

Relates only to pets seen by a veterinarian in the last 12 months

Contributing veterinarians asked to guess the level of compliance shown by their clients invariably over-estimated. Other results were equally disturbing. For example, less than

CJB, 2009 44


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Sei un vero leader nella tua attività? Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S

re la maggior parte della propria soddisfazione dal successo altrui e non temono di iniziare a fare cose nuove e di mostrare ad altri la strada – sporcandosi letteralmente le mani. Inoltre, riconoscono l’importanza di lasciare spazio alla crescita ed allo sviluppo di coloro che sostengono – non cercano di fare tutto da soli.

È la qualità della leadership, più di ogni altro singolo fattore, a determinare il successo o l’insuccesso di un’organizzazione Fred Fiedler & Martin Chemers, Improving Leadership Effectiveness Le strutture veterinarie hanno bisogno di leader? Dopo tutto, sono popolate da individui intelligenti ed energici sulla cui capacità di autogestione per arrivare ad ottenere risultati elevati si dovrebbe poter fare affidamento. La risposta è semplice: “Sì”. Sia i professionisti che il personale di supporto di queste strutture conducono una vita molto impegnata, con molte esigenze contrastanti che richiedono il loro tempo e la loro attenzione. Spesso, vengono così coinvolti dalle minuzie del presente da perdere di vista il punto dove vogliono condurre le proprie vite. I buoni leader all’interno di una struttura offrono la direzione e la spinta necessarie ad aiutare il loro staff ad arrivare a traguardi più numerosi e più elevati di quelli che raggiungerebbero da soli. Così facendo, costruiscono simultaneamente un ambiente più sereno e più produttivo.

La sfida del leader “dalle molte facce” Nella maggior parte delle strutture, i dirigenti devono avere molte sfaccettature. Bisogna che siano leader, manager, proprietari di impresa e veterinari: i differenti ruoli richiedono abilità diverse e portano a risultati differenti. Per i dirigenti delle strutture più piccole, spesso non esiste alcuna ragionevole alternativa. Un leader riesce a far sì che altri facciano certe cose perché li ha convinti della loro importanza e li ha spinti a desiderare di ottenerle. Un leader è efficace. Ha bisogno di buone capacità di comunicazione, negoziazione, delega ed autogestione, abbinate ad una visione a lungo termine. Un manager realizza l’ambiente in cui gli operatori possano raggiungere la massima efficacia. Un manager è efficiente. Il tempo di un manager è più frammentato di quello di un leader, con una maggiore diversità di problemi e situazioni da affrontare ogni giorno ed i risultati sono più ambigui e difficili da misurare. Un proprietario è interessato soprattutto al profitto della struttura. Un clinico veterinario si concentra su diagnosi, terapia e gestione di visite, interventi chirurgici ed appuntamenti. La sua giornata termina con dei segni visibili dei progressi compiuti, che possono essere misurati in molti modi diversi, come il numero dei clienti visti e le entrate generate. Questi sono tutti comportamenti diversi, aspettative diverse e diverse misurazioni dei progressi e dei risultati: cercare di combinare questi ruoli contrastanti può solo portare ad una soluzione di compromesso per un dirigente dalle molte sfaccettature e, non infrequentemente, è causa di frustrazione personale, stress ed aumento del rischio di burnout fisico e mentale. La decisione che si deve prendere all’interno di una struttura è: per il bene della struttura stessa, in che modo il dirigente risulta più prezioso? In quale ruolo (o in quali ruoli) rende più di una semplice unità produttiva, per quanto buona? Per i ruoli che il dirigente è meno disposto o capace di sostenere, si devono trovare delle alternative, come l’assunzione di un manager o di un altro clinico. In che modo pensate di poter contribuire al meglio come leader della vostra struttura?

COS’È LA LEADERSHIP? La funzione della leadership è produrre il cambiamento. Ciò comporta stabilire la direzione – sviluppando una visione – per il futuro della propria attività, identificando le necessarie strategie per realizzare la visione, schierando la gente dietro queste strategie e dando loro la forza di far sì che la visione si realizzi, nonostante gli ostacoli. Ciò è in contrasto con il management, che consiste nel mantenere operativo il sistema in atto attraverso la pianificazione, il budget, l’organizzazione, il reclutamento del personale, il controllo e la soluzione dei problemi. Colui che pensa che il management sia la leadership gestirà il cambiamento, tenendolo quindi sotto controllo, ma non riuscirà ad offrire ciò che occorre per i progressi più grandi e più difficili. Le caratteristiche personali che hanno in comune i leader efficaci sono la volontà di lavorare duro, la capacità di prendere decisioni, l’entusiasmo e, cosa forse più importante di tutte, la capacità di rispondere rapidamente al cambiamento. Spesso, questi leader innovativi sono persone che non accettano le regole, le consuetudini e le tradizioni – dette o non dette – che hanno governato in precedenza la struttura. L’abilità primaria di un leader (e il banco di prova di tutte le sue attività) è data dalla sua capacità o meno di far aumentare il livello di impegno, la spinta e la produttività di coloro che influenza. I leader efficaci sono capaci di integrare elementi di umanità con dure azioni imprenditoriali attraverso la capacità di influenzare positivamente le emozioni, i sentimenti e gli atteggiamenti di altri e la loro determinazione di manifestare il proprio potenziale. Sono disposti a trar-

CBJ March 2009 Adattato da: ‘Managing a Veterinary Practice’, Elsevier, 2007 45


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Are you an effective leader for your clinic? Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S

making space for the growth and development of the people they support – they do not try to do everything themselves.

The quality of leadership, more than any other single factor, determines the success or failure of an organization Fred Fiedler & Martin Chemers, Improving Leadership Effectiveness Should practices need leaders? After all, they are peopled by intelligent, energetic individuals whom it should be possible to rely upon to be self-managing, high achievers. The simple answer is, ‘Yes’. Both professional and support staff in practices lead busy lives with many conflicting demands on their time and attention. They often become so involved with the minutiae of the present that they lose sight of where they want to go with their lives. Good practice leaders provide the direction and drive to help their staff accomplish more and greater things than they would do on their own. This simultaneously builds a happier and more productive practice.

The challenge of the multi-faceted leader In most practices, principals have to be multi-faceted. They have to be leaders, managers, practice owners and veterinarians: different roles requiring different skills and producing different results. For the principals of smaller practices, there is often no reasonably viable alternative. A leader gets things done through people by making meaning for them and a desire to achieve. A leader is effective. He or she requires good communication, negotiation, delegation and self-management skills, coupled with longterm perspective. A manager creates the environment in which people can be more effective. A manager is efficient. A manager’s time is more splintered than a leader’s with a greater diversity of problems and situations to deal with in any one day, and the results are more ambiguous and difficult to measure. An owner is most interested in the practice’s profit. A clinical veterinarian concentrates on the diagnosis, treatment and management of the consultations, operations and visits booked. His or her day ends with visible signs of progress which can be measured in a number of different ways, such as number of clients seen, and income generated. These are all different behaviours, different expectations and different measures of progress and achievement: trying to combine these contrasting roles can only result in compromise for the multi-faceted principal, and, not infrequently, leads to personal frustration, stress and an increased risk of physical and mental ‘burn out’. The decision that has to be made within the practice is: – for the good of the practice, how is the practice principal most valuable to the practice? In which role(s) does he or she become more of an overhead than a valuable production unit? For the roles that the principal is less willing or able to take, alternatives must be found, such as hiring a practice manager, or another clinician. How do you think that you can contribute best as a leader to your practice?

WHAT IS LEADERSHIP? The function of leadership is to produce change. This involves setting a direction - developing a vision – for the future of the business, identifying the necessary strategies to achieve the vision, aligning people behind those strategies, and empowering them to make the vision happen, despite obstacles. This is in contrast to management, which involves keeping the current system operating through planning, budgeting, organising, staffing, controlling and problem solving. The person who thinks management is leadership will manage change, hence keeping it under control, but he or she will be unable to provide the stuff required to make larger and more difficult leaps. Personal characteristics effective leaders have in common are a willingness to work hard, decisiveness, enthusiasm, and, perhaps most important of all, an ability to respond quickly to change. Often these proactive leaders are individuals who do not accept the rules, regulations and traditions – spoken or unspoken - that have governed the practice earlier. The primary skill of a leader (and the test of all his or her activities)is whether or not they are able to raise the level of commitment, drive and productivity of those they influence. Effective leaders are able to integrate the soft human elements with hard business actions through positively influencing other people’s emotions, feelings, attitudes, and their determination to achieve their potential. They are willing to get most of their fulfilment from the success of others, are not afraid to start new things and to show others the way forward – literally to get their hands dirty. They also realise the importance of

CBJ March 2009 Adapted from: ‘Managing a Veterinary Practice’, Elsevier, 2007. Address for correspondence: Caroline Back Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition 46


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Gestire il cambiamento con successo Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S

La caratteristica costante dell’ambiente lavorativo odierno è il cambiamento. Dato che, per sua stessa natura, questo è un fenomeno continuo, un’attività di successo deve essere flessibile ed adattabile – cioè un’organizzazione in grado di reagire. Il cambiamento avviene continuamente intorno a noi. I fattori di modificazione che influiscono sulla pratica professionale odierna possono essere suddivisi in tre grandi categorie: 1. i “fattori mondiali”, come la recessione globale, i progressi della tecnica e della medicina, gli sviluppi dell’informatica e di internet ed alcune norme (le abitudini alimentari della popolazione che influiscono sulle produzioni animali, il benessere degli animali durante il trasporto, la diffusione delle malattie) sui quali la professione ha scarsa influenza. 2. i fattori “esterni” (clienti) come l’aumento delle conoscenze, delle aspettative e delle esigenze della clientela. In questa categoria rientrano anche le modificazioni demografiche, le diverse modalità di detenzione degli animali da compagnia e persino gli aspetti legati alla salute umana in relazione al loro possesso. È una delle maggiori aree di opportunità e di progresso in ambito professionale. 3. i fattori “interni” (alla struttura in cui si opera) che riflettono l’atteggiamento ed i sentimenti all’interno della professione stessa e comprendono le esigenze di cambiamento dei nuovi laureati, alcuni aspetti legislativi (ad esempio, le norme relative agli infermieri veterinari) e la crescita dei livelli di conoscenza e lo sviluppo di nuove capacità tecniche. Gli atteggiamenti e le convinzioni spesso impiegano molto tempo a cambiare e questa categoria può essere una significativa area di limitazione per lo sviluppo della professione.

RIQUADRO 1 Gli otto stadi della guida al cambiamento 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Stabilire l’urgenza Formare una coalizione di guida Avere una visione Comunicare la visione Fornire i mezzi per l’azione Ottenere vittorie a breve termine Consolidare Istituzionalizzare il cambiamento

terà loro, o se ne ha una percezione ambigua, finirà per temere il peggio. Guidare il cambiamento è impegnativo e difficile. Tuttavia, il guru del management John Kotter (1) ha sviluppato un potente processo in otto stadi (vedi riquadro 1: gli otto stadi della guida al cambiamento) che viene ampiamente utilizzata nell’alta finanza e che può essere modificata in modo da adattarsi altrettanto bene alle piccole imprese e persino alle cliniche veterinarie. L’esempio fornito nel corso della relazione descrive il modo in cui questi otto stadi sono stati messi in atto con successo in una situazione di vita reale per imprimere una svolta ad un grande ospedale veterinario in Svezia che si trovava in cattive condizioni.

1.Stabilire l’urgenza La gente si oppone per natura al cambiamento, anche se sa che è necessario. Per ottenere l’energia indispensabile per guidare il processo di modificazione è di importanza vitale suscitare un senso di urgenza. Tuttavia, è facile che l’ “urgenza” venga interpretata come panico, che è un’emozione distruttiva. La chiave è quella di coinvolgere lo staff mostrando loro chiaramente dove sta il problema, l’effetto che hanno sull’organizzazione e ciò che insieme possiamo e dobbiamo fare con loro.

Il cambiamento è una minaccia per i familiari quadri di comportamento, sicurezza, status e gratificazioni economiche e viene raramente accolto a braccia aperte – anche da coloro che sanno che è per il meglio. Il cambiamento richiede di fare le cose in modo differente, il che – all’inizio – comporta un aumento dell’energia e degli sforzi profusi. La gente ha una naturale preferenza per la stabilità, le abitudini ed il conformismo (“il modo in cui abbiamo sempre fatto qui”). Vedono e percepiscono il cambiamento come una minaccia al proprio comfort ed ai propri interessi e spesso focalizzano l’attenzione solo sul disagio a breve termine generato dallo sforzo del cambiamento piuttosto che sui vantaggi a lungo termine. Anche la paura di cambiare è una ragione molto significativa per opporsi al cambiamento. Se la gente non comprende i benefici che il cambiamento por-

2.Formare una coalizione guida In questa fase del cambiamento sono essenziali dei leader dotati di una forte capacità visionaria che lavorino bene insieme ed ispirino i loro collaboratori.

3. Avere una visione Una visione è necessaria per guidare tutte le decisioni e dare loro forma. Una visione deve essere fonte di ispirazio47


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ne ed eccitazione – e una vera sfida! Questa visione viene poi usata per redigere la pianificazione dell’attività per i successivi tre anni.

7. Consolidare Non esiste un punto di arrivo del cambiamento o del processo di modificazione. Il cambiamento è continuo e quindi è importante che i mutamenti desiderabili all’interno dell’organizzazione vengano consolidati. Ciò si può fare, ad esempio, esaminando in maniera critica i cambiamenti e verificando che stiano funzionando come previsto, assumendo le persone giuste che contribuiranno a motivare e guidare il processo ed incoraggiando e ricompensando le nuove idee ed i nuovi modi di fare le cose.

4. Comunicare la visione È essenziale che la visione viva in tutte le decisioni prese nell’ambito dell’attività e per ottenere questo risultato i leader dell’organizzazione devono costantemente fare “fatti, non parole”.

5. Fornire i mezzi per l’azione Un problema che limita la crescita ed il cambiamento in molte cliniche è che nessuno si prende la responsabilità delle decisioni. Inoltre, quando viene delegata una decisione, spesso non vengono assegnate anche le risorse appropriate quali conoscenze, preparazione e tempo, il che provoca frustrazione ed apatia. Attivando un chiaro modello di organizzazione con una linea diretta delle responsabilità, ed imparando a delegare assegnando anche le risorse necessarie, la creatività e la spontaneità cominceranno ad emergere.

8. Istituzionalizzare il cambiamento Lo stadio finale del processo del cambiamento è la sua istituzionalizzazione – facendolo entrare a far parte della cultura, in modo che l’organizzazione non possa scivolare indietro al “buon tempo andato”. Ciò si applica sia all’interno che all’esterno, in relazione al modo in cui ci vedono le altre organizzazioni ed i clienti. CJB, 2009

6. Ottenere vittorie a breve termine È importante mostrare che il cambiamento si sta davvero verificando. Sono esempi di vittorie a breve termine l’arrivo di nuove uniformi, la sostituzione dei vecchi computer con altri nuovi, l’attivazione di nuove posizioni funzionali per i collaboratori migliori e la realizzazione di un locale dove i proprietari possano visitare gli animali ricoverati. È anche importante ricompensare visibilmente i successi con premi e riconoscimenti.

Bibliografia 1.

Leading Change, John Kotter, 1995.

Indirizzo per la corrispondenza. Caroline Back Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition

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Leading change Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S

The one consistent feature of today’s business environment is change. As change by its very nature is continuous then the successful business must be flexible and adaptable – the responsive organisation. Change is happening around us all the time. Change factors affecting practice today can be divided into three broad categories 1. ’world factors’ such as global recession, technical and medical advances, IT and internet advances and some legislation (eating habits of people that affect animal production, humane transport of animals, spread of disease) over which the profession has little influence. 2. ’external’ (client) factors such as increased client knowledge, expectations and demands. This category also includes changing demographics, pet ownership patterns, and even human health in relation to animal ownership. It is a major area for opportunity and progress in practice. 3. ’internal’(practice) factors which reflect the attitude and feelings within the profession itself and include the changing needs of new graduates, some legislation ( for example, regulations for veterinary nurses), and growth in knowledge and skill development. Attitudes and beliefs often take a long time to change and this category can be a significant area of limitation for development of the profession.

BOX 1: The eight stages of leading change 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Establish urgency Form a guiding coalition Create vision Communicate vision Empower action Create short-term wins Consolidate Institutionalise change

1. Establish urgency People are naturally resistant to change, even if they know it is needed. To create the necessary energy to drive the change process it is vital to establish a sense of urgency. However, it is easy that ‘urgency’ is interpreted as panic which is a destructive emotion. The key is to involve staff by clearly showing them where problems lie, the effect they have on the organisation, and what we together can and shall do about them.

2. Form a guiding coalition Strong visionary leaders who work well together and inspire to their co-workers are essential to this phase of change.

Change is a threat to familiar patterns of behaviour, security, status and financial rewards and is seldom met with open arms – even when people know it is for the better. Change requires doing things differently which – in the beginning - requires increased energy and effort. People have a natural preference for stability, habit and conformity (‘The way we’ve always done things around here’). They see change as a perceived threat to their own comfort and interests and often only focus on the short-term discomfort a change effort generates rather than the longer term benefits. Fear of change is also a very significant reason to resist change. If people do not understand or feel ambiguous about the benefits change will bring them, they fear the worst. Leading change is challenging and difficult. However, management guru john Kotter(1)) has developed a powerful eight stage process (see box 1: The eight stages of leading change) used widely in Big Business which can be modified to work just as well in small companies and even veterinary clinics. The example given during the presentation describes how these eight stages were implemented successfully in a real life situation to turn around a large, failing vet hospital in Sweden.

3. Create vision A vision is necessary to guide and shape all decisions. A vision should be inspiring and exciting – and a real challenge! This vision is then used to write the business plan for the next three years.

4. Communicate vision It is essential the vision lives in all decisions made in the business, and to achieve this the organisation’s leaders must constantly ‘walk the talk’.

5. Empower action A problem that limits growth and change in many clinics is the tradition that no one takes responsibility for decisions. In addition, if a decision is delegated, often appropriate resources such as knowledge, training and time are not, which results in frustration and apathy. By creating a clear organisation’s model with direct line-responsibility, and learning to delegate with the necessary resources creativity and spontaneity began to come forth. 49


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6. Create short-term wins

8. Institutionalise change The final stage in the change process is institutionalising it – making it part of the culture so that the organisation cannot slip back into ‘the good old ways’. This applies both internally and even externally in how other organisations and clients see us

It is important to show that change is really happening. Short term wins such as having new uniforms, exchanging old for new computers, creating the position of Care Nurse, and creating a Care room for owners to visit ward patients are examples. It is also important to visibly reward wins with public praise and recognition.

CJB, 2009

7. Consolidate There is no end point with change or with a change process. Change is continuous so it is important that desirable changes within the organisation are consolidated. This is done by, for example, critically reviewing changes and seeing that they function as planned, hiring the right people who will contribute to motivating and leading the process forward, and encouraging and rewarding new ideas and new ways of doing things.

References 1.

Leading Change, John Kotter, 1995.

Address for correspondence: Caroline Back Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition

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Progettazione/organizzazione: uno strumento per migliorare la tua professione Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S

Il successo è un parametro misurabile ed implica un miglioramento rispetto alla situazione precedente. Può essere misurato in molti modi, come il fatto di avere più denaro, essere più felici, avere più proprietà ed ottenere risultati migliori. Si tratta di un fattore fortemente individuale, per cui ciò che può essere successo per uno può essere solo mediocrità per un altro. Il successo può arrivare all’improvviso o dopo una vita di lotte. Talvolta sembra essere sfuggente. Spesso è di breve durata – la vittoria di oggi ha già meno valore il giorno dopo. In un’attività imprenditoriale, il successo deriva dall’aver soddisfatto gli scopi dell’impresa, cioè averne portato al massimo il valore nel tempo attraverso la vendita di beni e servizi. Il successo si ottiene attraverso la pianificazione: il suo livello è influenzato da una combinazione di impegno, duro lavoro e fortuna. Nell’attività imprenditoriale, la pianificazione è sia a breve che a lungo termine. Si tratta di un’attività con il compito di adattare la struttura ed i sistemi alle idee che avete al momento – non consiste necessariamente nell’introdurre un mucchio di idee nuove. Una pianificazione è importante perché consente all’impresa di prevedere e pianificare gli eventi futuri invece di limitarsi a reagire alle circostanze esterne e andare alla deriva da una crisi all’altra. Il punto di partenza di una pianificazione di impresa consiste nel rispondere a queste domande fondamentali: • A che punto siamo? • Dove ci piacerebbe essere e quando? • Come possiamo riuscirci?

perdite, i fogli di bilancio ed i dati chiave come le entrate generate da ogni veterinario, i costi dello staff espressi come percentuale delle entrate generate e gli onorari incassati per ciascun caso. Se assimilati correttamente, questi dati chiave possono essere molto utili nel confronto con altre strutture simili. Il passo successivo è considerare dove la struttura vuole andare, ed in quanto tempo. Ciò prevede un approfondito esame della filosofia della struttura stessa e la sua nuova affermazione in un linguaggio chiaro e semplice. Questa “visione” descrive il futuro desiderato per la struttura. Verranno quindi delineate le strategie per arrivare a questa visione o scopo, suddividendole ulteriormente in pianificazioni. Queste ultime indicano delle azioni misurabili con le quali sarà possibile monitorare i progressi. Il modo semplice per esprimere un piano è di individuare uno scopo SMART: • Specific (specifico) • Measurable (misurabile) • Actionable (attuabile) • Realistic (realistico) • Timed (temporizzato) Per questa struttura, aggiungerei anche una “R” per responsabile: colui che è effettivamente responsabile di vedere che il piano venga seguito e che i risultati vengano misurati. La “R” può anche significare risorse, dal momento che è necessario investire in tutte quelle che occorrono per soddisfare le pianificazioni. Esistono tre principali aree, parzialmente sovrapposte, che richiedono una pianificazione in una struttura:

È importante partire dalla prima domanda, dato che la mancanza di un’analisi iniziale della situazione in atto può portare a discordie interne e a prendere decisioni sbagliate. Il modo più semplice per valutare la situazione in atto è quello di chiedere a tutti i membri della struttura di contribuire ad un’analisi SWOT che determina lo stato della struttura stessa in relazione a: • Strengths (forze): gli aspetti positivi della struttura • Weaknesses (debolezze): i punti deboli • Opportunities (opportunità): dove è possibile attuare dei miglioramenti • Threats (minacce): i rischi, potenziali o reali, dell’impresa.

• Persone: tutte le organizzazioni dipendono dalle persone per il loro successo. Impiegare lo staff giusto, offrire incentivi appropriati ed ottenere buoni risultati sono tutti elementi della pianificazione relativa al personale. • Aspetti economici: lo scopo del budget è quello di tradurre i vostri piani in dati reali che fissino dei traguardi per il futuro rendimento dell’impresa. Monitorando il rendimento attuale in confronto al budget è possibile individuare precocemente problemi e carenze. • Marketing: serve ad attirare, mantenere e far crescere la clientela.

Inoltre è necessario condurre una dettagliata analisi della situazione economica considerando i conti profitti e 51


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Il piano di impresa a questo punto è pronto per l’uso – ma qui viene il difficile: far sì che coloro che lavorano nella struttura modifichino il loro attuale comportamento in modo da ottenere i risultati pianificati. Questi devono essere costantemente e regolarmente monitorati a sottoposti ad una fine regolazione per giungere ai traguardi stabiliti. Il successo è il frutto di una accurata pianificazione che viene rigorosamente monitorata. Tuttavia, senza una chiara visione di dove state andando e senza specifici comportamenti da misurare, è quasi impossibile giungere alla meta. Stabilire i traguardi da ottenere, fissare le strategie

ed elaborare i piani di azione sono una parte continuamente in atto ed in costante mutamento del processo che costituisce lo stile di vita necessario per arrivare ad una struttura di successo. CJB, March 2009

Indirizzo per la corrispondenza. Caroline Back Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition

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Planning for success Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S

Success is a measurable parameter and implies an improvement on what has been before. It can be measured in many ways including having more money, being happier, owning more possessions and reaching greater achievements. Success is very individual, so what is success for one may be only mediocre for another. Success can happen quickly or after a lifetime of struggle. Sometimes success seems to be elusive. Achieving success is often short-lived – success today is already of less value the next. In business, success results from fulfilling the business’s purpose, that is maximising the business’s value over time by selling goods and services. Success is achieved through planning: the level of success is influenced by a combination of commitment, hard work and luck. Planning in business is both short term and long term. It puts structure and systems to the current ideas you have – it is not necessarily bringing in lots of new ideas. A business plan is important because it enables the business to predict and plan for future events instead of just reacting to outside circumstances and drifting from one crisis to another. The starting point of a business plan is to answer these fundamental questions: • Where are we now? • Where would we like to be and when? • How can we get there?

ple language. This ‘vision’ describes the desirable future of the practice. Strategies to achieve the vision or goal are then outlined which are further broken down into plans. Plans provide measurable actions with which to monitor progress. The simple way to express a plan is as a SMART goal: • Specific • Measurable • Actionable • Realistic • Timed To this structure I would also add an ‘R’ for responsible: who is actually responsible for seeing that the plan is followed through and the outcomes measured. ‘R’ can also include resources as it is also necessary to invest in any resources that are needed to fulfil the plans. There are three main overlapping areas that require planning in practice: • People: all organisations depend for their success on people. Employing the right staff, offering appropriate incentives, and producing good results are all part of people planning. • Finances: the purpose of budgeting is to turn your plans into actual figures which set targets for future business performance. By monitoring actual performance against the budget early detection of problems and deficiencies are possible. • Marketing: serves to attract, retain and develop clients.

It is important to start with the first question as failure to first analyse your current situation can lead to internal discord and bad decision making. The simplest way to look at your current situation is to ask all practice members to contribute to a SWOT analysis which determines the practice in relation to its: • Strengths: the positive aspects of the practice • Weaknesses: the skill gaps • Opportunities: where improvements can take place • Threats: the potential or actual business risks.

The business plan is now ready for use – but here comes the hardest part: getting people in the practice to change their current behaviour to achieve the results of the plans. Results must be constantly and regularly monitored and fine tuning made to reach the desired goals. Success is the outcome of careful planning that is rigorously monitored. However, without a clear vision of where you are going and without specific behaviours to measure, it is almost impossible to achieve a goal. Goal-setting, strategies, and action plans are an ongoing, ever-changing part of the process that is a way of life in creating successful practices.

In addition it is necessary to carry out a detailed financial analysis including looking at the profit and loss accounts, balance sheet and key figures such as income generated per veterinarian, staff costs as a percentage of income generated, and fees generated per case. If correctly assimilated these key figures can be very useful in comparisons with other similar practices. The next stage is to consider where the practice wants to be and by when. This includes a thorough examination of the philosophy of the practice and the restating of it in clear sim-

CJB, March 2009

Address for correspondence: Caroline Back Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition 53


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Il comportamento di aggressione: sintomo o diagnosi? Claude Beata Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F

Da un articolo di Colette Arpaillange Docteur Vétérinaire Comportementaliste DENVF Non esiste un comportamento aggressivo, ma numerosi comportamenti diversi per le loro origini e conseguenze.

D 1990). Si ritroveranno anche i termini di aggressione difensiva (il cane risponde all’approccio della sua vittima o si difende nei confronti di un pericolo reale o immaginario) o offensiva (il cane si dirige verso la sua vittima). La classificazione più utilizzata in Francia è quella proposta da Patrick Pageat (1998) secondo quella di Moyer (1968). Riporta cinque tipi di aggressioni, che si distinguono essenzialmente per il loro svolgersi: fattore scatenante o circostanze scatenanti, descrizione della sequenza (fase di minaccia, consumo o tranquillizzazione). Altre classificazioni vengono proposte da altri autori (cfr. schema). La classificazione di Pageat è riassunta nella Tabella 1.

DEFINIZIONI L’aggressione corrisponde ad un comportamento che porta a colpire l’integrità fisica o psichica di un altro individuo o l’integrità dell’ambiente. Per alcuni etologi, ogni comportamento che ha per obiettivo intimidire l’altro e per risultato mantenerlo a distanza può essere considerato come un’aggressione, anche se non comporta alcun danno. Una minaccia è quindi un’aggressione, ma anche altri comportamenti che consentono la difesa del territorio, come la marcatura, ne farebbero quindi parte (McFarland D., 1990). Un cane è detto aggressivo quando si trova in uno stato di motivazione che scatena una maggiore probabilità di produrre dei comportamenti aggressivi (Dehasse J. 2002). L’aggressività è la condizione di reazione in cui il cane mostra la maggiore aggressione (Mège C 2003). Ridefiniremo i nostri propositi sulla valutazione dell’aggressività che porta attacco all’integrità delle persone. È difficile parlare di valutazione di aggressività senza richiamare le nozioni di rischio e di pericolo. Il rischio è un “pericolo in cui rientra l’idea di un ruolo della sorte” (Littré 2006). Il pericolo è una “Situazione, congiuntura, circostanza, che compromette la sicurezza, l’esistenza di una persona o di una cosa” (Littré 2006). Un rischio valutabile può essere considerato come la probabilità di occorrenza di un pericolo o di una situazione pericolosa. Un cane è considerato come potenzialmente pericoloso quando possiede delle caratteristiche che fanno sì che un’integrità fisica o psichica possa essere messa in pericolo dai suoi comportamenti (Dehasse J 2002).

MEZZI DI VALUTAZIONE La valutazione dei comportamenti aggressivi in clinica può fare riferimento a diversi strumenti.

Semiologia delle aggressioni L’andamento clinico seguito nella medicina comportamentale non differisce in nulla da quello che adotta la medicina veterinaria in generale: - individuare i sintomi presenti - raggrupparli per determinare una o più ipotesi diagnostiche di cui sarà valutata la pertinenza L’esame del comportamento aggressivo non fa eccezione e necessita di uno studio approfondito dell’insieme del comportamento dell’animale, per determinare l’origine dei sintomi osservati ed il disturbo del comportamento in causa. La valutazione clinica delle condotte aggressive mira a tipizzare l’aggressione secondo la classificazione riportata (cfr.§3). Il clinico si sforzerà di analizzare con precisione la sequenza comportamentale ed il contesto dello scatenamento. - Fase di minaccia: Dove (dov’era il cane, dov’era la vittima, in quale luogo…)? Quando (in quale momento della giornata, che cosa aveva fatto il cane prima, che cosa aveva fatto la vittima prima…)? Contesto (situazione aperta o chiusa, livello di eccitazione del cane prima del morso, attività del cane al momento del morso, attività della vittima al momento del morso, spostamento e natura dell’interazione, presenza di testimoni, presenza di altri cani, di un altro animale)…? Atteggiamento del cane (mimica facciale, postura, vocalizzi [ringhi, abbaiamenti, grida, gemiti…], segni neurovegetativi, segni di paura, tentativo di fuga…)?

TIPI DI AGGRESSIONE Esistono numerose classificazioni possibili di aggressioni canine. Queste classificazioni si basano sul contesto, la motivazione, il fattore scatenante e la conseguenza o l’effetto. Le differenze derivano dall’approccio che viene scelto. Una prima dicotomia riguarda le aggressioni di autodifesa e quelle il cui scopo è proteggere la proprietà (McFarland 54


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campione si divideva fra cani campione aggressivi (23 appartenenti ad altre razze) e cani campione non aggressivi. Nella procedura, le situazioni messe in atto sono molto variate e si realizzano in assenza o in presenza del proprietario, secondo delle procedure standardizzate. I test appaiono come estremamente faticosi per i cani e del resto la frequenza dei comportamenti aggressivi è elevata (il 97% dei cani presenta aggressioni!), ivi compresi i cani campione. D’altra parte, si rilevano delle frequenze significative tra i cani non morsicatori ed i cani aggressivi nei confronti delle persone soltanto nella categoria dei cani di razze ritenute pericolose ed assolutamente non nei soggetti di controllo.

- Fase consumatoria: descrizione precisa del morso, in particolare: morso trattenuto o no, morso semplice o multiplo, danni provocati (lesione cutanea, slabbramento, ematoma)… - Fase di tranquillizzazione: è importante conoscere l’atteggiamento immediato del cane, quello della vittima e degli eventuali testimoni, in particolare del proprietario, così come le reazioni di risposta del cane. Soprattutto, si mirerà a rilevare il ritorno ad una postura minacciosa o, al contrario, alla fuga o ad una postura di tranquillizzazione. Commento: Questa tappa diagnostica si dimostra, in pratica, delicata per numerose ragioni. Molto spesso i testimoni non hanno potuto descrivere la scena con precisione e l’emozione suscitata nella vittima scatena le modificazioni dei fatti. Infine, il coraggio sta nel riconoscere che molto spesso la sequenza descritta non rientra perfettamente in una categoria stabilita. La precisione della diagnosi su questa base descrittiva esige una certa pratica. Molti veterinari poco avvezzi all’esercizio della disciplina possono trovarsi impreparati. L’applicazione clinica necessita di un solido corpus teorico e tecnico, che dipende da una formazione e da una esperienza specifica sulla patologia del comportamento. Ottenere una diagnosi è indispensabile per progettare un trattamento ed è utile per giungere ad una prognosi. Ci sembra importante sviluppare degli strumenti di valutazione che consentano di affrancarsi da questa tappa delicata in modo da poterne fare a meno per valutare i rischi.

COSA SI VALUTA Il quadro in cui il veterinario realizza la sua valutazione è importante da definire. Ci si pone due domande: a chi è destinata la valutazione, chi ne è l’iniziatore? e cosa si valuta ed a quale scopo?

Per chi La valutazione può essere richiesta dal proprietario. E questo non vuol dire sistematicamente che lo faccia di sua volontà. Può chiedere una visita sotto sollecitazione di un terzo che faccia parte del suo ambito più o meno prossimo e che eserciti delle pressioni su di lui. Il suo atteggiamento varia secondo la situazione: infatti, se chiede un consulto sotto la richiesta di un terzo, il proprietario può tendere a dissimulare dei fatti o a diminuirne la portata per discolpare il cane. Il clinico deve poter individuare questa situazione. La domanda deve essere definita con precisione nel corso della visita. Alcune famiglie richiedono il consulto ed al tempo stesso comunicano di voler avviare una terapia. La decisione di ricorrere ad un trattamento dovrà perlomeno essere studiata a fine consulto, quanto tutti i parametri saranno conosciuti. Altri vanno dal veterinario per confermare una decisione di eutanasia. L’idea che ciascuno dei protagonisti si fa del futuro del cane può influenzare la visita ed il suo svolgimento: il clinico deve prenderne coscienza perché la raccolta dei dati sia svincolata da ogni influenza. Si consiglia al professionista di adottare un atteggiamento disponibile, ma neutro, per non orientare le risposte. In questo modo eviterà di rientrare in schemi esplicativi nel corso del suo esame comportamentale. Infine, il cane può essere presentato da parte di un’autorità, talvolta anche in assenza del proprietario. Il mandato del clinico allora è quello del perito, che interviene come esperto debitamente nominato o come consulente.

Le griglie di valutazione Una scala di valutazione clinica è una formalizzazione standardizzata di valutazione di una (o più) caratteristiche non misurabili direttamente, per mezzo di indicatori o voci misurabili direttamente, che consentano di attribuire in funzione di regole logiche uno o più valori numerici alla caratteristica studiata Le griglie di valutazione sono strumenti di valutazione clinica standardizzati, che hanno per obiettivo stimare la gravità del comportamento aggressivo e di quantificarla (cfr. relazione sulle griglie).

Test di situazione I test consistono nel sottoporre il cane ad un insieme di compiti o situazioni e nel valutare le sue reazioni. I comportamenti osservati nel corso del test sono utilizzati con lo scopo di - predire altri comportamenti in una situazione “naturale” - definire le tendenze di reazione, qualificate generalmente in base al temperamento. Sono stati pubblicati ed ampiamente utilizzati numerosi test, in particolare nei Paesi tedeschi (Svizzera, Paesi Bassi). Pochissimi sono formulati specificamente per valutare il comportamento aggressivo. L’articolo di Netto et al. (Netto e Planta, 1997) presenta una batteria di test (43!) destinati ad valutare il comportamento aggressivo con l’obiettivo di eliminare dalla riproduzione i cani giudicati aggressivi. A questo titolo la maggior parte di soggetti testati nello studio iniziale (75/112) apparteneva a razze “considerate come pericolose” (Fila Brasileiro, Dogo Argentino ed American Staffordshire Terrier) il 60% dei quali aveva precedenti di morsicature… La popolazione dei cani

Cosa si valuta? Questa domanda apparentemente molto semplice merita di essere precisata. Valutazione del pericolo Valutazione del rischio Questi concetti non sono sovrapponibili. Il pericolo potrà essere assimilato al potenziale aggressivo del cane nei confronti di un bersaglio definito. Per esempio, un cane poco socievole con i bambini può presentare un pericolo importante per i bambini e nessun pericolo per gli adulti. 55


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Il rischio è definito come la probabilità di comparsa dell’aggressione. Questo concetto tiene conto dell’esistenza di una possibile esposizione del cane al bersaglio potenziale. Quindi, il cane aggressivo nei confronti dei bambini non presenta lo stesso rischio se viene regolarmente a contatto con i bambini nella sua famiglia o se vive in un canile! Un cane può essere pericoloso per i bambini e non generare che un rischio praticamente nullo. Valutazione del cane: la valutazione del cane si sforza di determinare il carattere patologico della sequenza di aggressione e la presenza di una condizione patologica. Questa tappa permette di emettere un giudizio sullo stato funzionale dell’animale e sulla presenza di una patologia comportamentale o organica. Valutazione del contesto famigliare: il contesto nel quale evolve il cane

i proprietari, e, perché no, il veterinario! L’intersezione fra questi due dati consente di definire quattro gradi di rischio: - un rischio elevato e non sopportabile, che implica l’eutanasia o delle misure di sicurezza drastiche - un rischio che non necessita di misure particolari - due rischi intermedi • uno debole, per il quale le misure consigliate sono spesso nell’ordine dell’educazione • uno critico, in cui si impongono una valutazione più fine e/o delle misure di prevenzione adeguate. Si possono prendere in considerazione un trattamento e delle restrizioni meccaniche (museruola) se l’ambiente famigliare sembra adatto a farsene carico. È auspicabile l’intervento di un veterinario comportamentalista per affinare la diagnosi e, se necessario, mettere a punto un protocollo terapeutico.

MATRICE DI RISCHIO

CONCLUSIONE

La matrice del rischio è uno strumento di valutazione dei rischi che tiene conto della probabilità di comparsa e delle ripercussioni dell’avvenimento. Una matrice di rischio può essere definita per i vari attori: il cane, le vittime potenziali,

Certamente, un comportamento aggressivo non definisce una diagnosi. Deve essere tipizzato ed il suo studio rientra nella valutazione del rischio legato alla gravità delle sequenze combinate alla probabilità del loro verificarsi.

G R A V I T À

Molto elevata

Livello 3

Livello 4

Livello 4

Livello 4

Elevata

Livello 2

Livello 3

Livello 4

Livello 4

Moderata

Livello 1

Livello 2

Livello 3

Livello 4

Debole

Livello 1

Livello 1

Livello 2

Livello 3

Debole

Moderata

Elevata

Molto elevata

PROBABILITÀ

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RISCHIO = GRAVITÀ X PROBABILITÀ Fattori di gravità

Fattori di probabilità di occorrenza

Fattori fisiologici ➢ Struttura fisica del cane: taglia, peso, potenza ➢ Stato di salute ➢ Fattori iatrogeni

Fattori anamnestici ➢ Precedenti di ringhi o minaccia ➢ Cattive condizioni di sviluppo ➢ Presenza di un’affezione comportamentale

Fattori comportamentali ➢ Carenza di controllo nella sindrome HSHA (iperattività-ipersensibilità) ➢ Paura ➢ Predazione ➢ Malattia psichiatrica ➢ Addestramento, esercizio

Fattori psicologici ➢ Stato sessuale ➢ Struttura fisica ➢ Stato di salute Fattori clinici ➢ Affezioni comportamentali accompagnate da un’elevata probabilità di comparsa di aggressioni ➢ Possibilità o impossibilità terapeutica ed attuazione

Vulnerabilità delle vittime ➢ Bambini, persone anziane, persone immunodepresse, emofilici…

Fattori ambientali ➢ Esposizione alle vittime potenziali ➢ Possibilità di isolamento ➢ Paura dell’ambiente circostante Fattori legati ai proprietari ➢ Capacità di controllo ➢ Presa di coscienza, realismo: ➢ Motivazione a trattare ➢ Credenze ➢ Immagine del cane (gentile, buon guardiano…) ➢ Capacità di comunicazione ➢ Attaccamento ➢ Stato gerarchico

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Comportement agressif: symptôme ou diagnostic? Claude Beata Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F

D’après un article de Colette Arpaillange Docteur Vétérinaire Comportementaliste Dipl ENVF Il n’existe pas un comportement agressif mais de nombreux comportements différents par leurs origines et leurs conséquences.

d’agression défensive (le chien répond à l’approche de sa victime ou se défend vis à vis d’un danger réel ou imaginaire) ou offensive (le chien se dirige vers sa victime). La classification la plus utilisée en France est celle qui est proposée par Patrick Pageat (1998) d’après la classification de Moyer (1968). Elle répertorie cinq types d’agressions qui se distinguent essentiellement par leur déroulement: déclencheur ou circonstances de déclenchement, description de la séquence (phase appétitive, consommatoire et d’apaisement). D’autres classifications sont proposées par d’autres auteurs (cf. schéma). La classification de Pageat est résumée dans le tableau 1.

DÉFINITIONS L’agression correspond à un comportement qui porte atteinte à l’intégrité physique ou psychique d’un individu tiers ou à l’intégrité de l’environnement. Pour certains éthologues tout comportement ayant pour objectif d’intimider l’autre et pour résultat de le maintenir à distance peut être considéré comme une agression, même s’il n’en résulte aucun dommage. Une menace est donc une agression, mais d’autres comportements permettant la défense territoriale, comme le marquage, en feraient alors partie (McFarland D, 1990). Un chien est dit agressif lorsqu’il se trouve dans un état de motivation qui entraîne une plus grande probabilité de produire des comportements agressifs (Dehasse J 2002). L’agressivité est l’état réactionnel où le chien produit davantage d’agressions (Mège C 2003). Nous recentrerons nos propos sur l’évaluation de l’agressivité portant atteinte à l’intégrité des personnes. Difficile de parler d’évaluation d’agressivité sans évoquer les notions de risque et de danger. Le risque est un «péril dans lequel entre l’idée de hasard» (Littré 2006). Le danger est une «Situation, conjoncture, circonstance, qui compromettent la sûreté, l’existence d’une personne ou d’une chose» (Littré 2006). Un risque évaluable peut être considéré comme la probabilité de survenue d’un danger ou d’une situation dangereuse. Un chien est considéré comme potentiellement dangereux lorsqu’il possède des caractéristiques qui font que l’intégrité physique et ou psychique peut être mise en péril par ses comportements (Dehasse J 2002).

OUTILS D’ÉVALUATION L’évaluation des comportements agressifs en clinique peut faire appel à différents outils.

Sémiologie des agressions La démarche clinique suivie en médecine du comportement ne diffère en rien de celle qu’adopte la médecine vétérinaire en général: - repérer les symptômes présents - les regrouper afin de déterminer une ou plusieurs hypothèses diagnostiques dont la pertinence sera évaluée L’exploration du comportement agressif ne fait pas exception et nécessite une étude approfondie de l’ensemble du comportement de l’animal afin de déterminer l’origine des symptômes observés et le trouble du comportement en cause. L’évaluation clinique des conduites agressives vise à typer l’agression selon la classification retenue (cf § 3). Le clinicien s’attachera à analyser précisément la séquence comportementale et le contexte de déclenchement - Phase de menace: Où (où était le chien où était la victime, dans quel lieu …)? Quand (à quel moment de la journée, qu’avait fait le chien avant, qu’avait fait la victime avant …)? Contexte (situation ouverte ou fermée, niveau d’excitation du chien avant la morsure, activité du chien au moment de la morsure, activité de la victime au moment de la morsure, déplacement et nature de l’interaction, présence de témoins, présence d’autres chiens, d’un autre animal) …? attitude du chien (mimique faciale, posture, vocalises [grognements, aboiements, cris, gémissements …], signes neurovégétatifs, signes de peur, tentative de fuite …)? - Phase consommatoire: description précise de la morsure en particulier morsure tenue ou non, morsure simple

TYPES D’AGRESSION Il existe plusieurs classifications possibles des agressions canines. Ces classifications reposent sur le contexte, la motivation, le déclencheur et la conséquence ou l’effet. Les divergences résultent de l’abord qui est choisi. Une première dichotomie concerne les agressions d’autodéfense et celles dont le but est de protéger la propriété (McFarland D 1990). On retrouvera également les termes 58


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agressifs (23, appartenant à d’autres races) et chiens témoins non agressifs. Dans la procédure, les mises en situation sont très variées et se réalisent en l’absence ou en présence du propriétaire selon des procédures standardisées. Les tests apparaissent comme extrêmement éprouvants pour les chiens et d’ailleurs la fréquence des comportements agressifs est élevée (97% des chiens présentent des agressions!) y compris chez les chiens témoins. Par ailleurs, des différences significatives apparaissent entre les chiens non mordeurs et les chiens agressifs envers les personnes seulement dans la catégorie des chiens de races réputées dangereuses et absolument pas chez les sujets contrôles.

ou multiple, dégâts provoqués (effraction cutanée, délabrement, hématome) … - Phase d’apaisement: il est important de connaître l’attitude immédiate du chien, celle de la victime et des éventuels témoins, notamment du propriétaire, ainsi que les réactions du chien en retour. En particulier on s’attachera à repérer le retour à une posture menaçante ou au contraire la fuite ou une posture d’apaisement. Commentaire: Cette étape diagnostique s’avère en pratique délicate pour plusieurs raisons. Bien souvent les témoins n’ont pas pu décrire la scène avec précision et l’émotion suscitée chez la victime entraîne des modifications des faits. Enfin, force est de reconnaître que bien souvent la séquence décrite ne rentre pas parfaitement dans une catégorie établie. La précision du diagnostic sur cette base descriptive réclame une certaine pratique. Beaucoup de vétérinaires peu familiarisés avec la pratique de la discipline peuvent se trouver désemparés. La démarche clinique nécessite un solide corpus théorique et technique qui relève d’une formation et d’une pratique spécifique à la pathologie du comportement. L’obtention du diagnostic est indispensable pour envisager un traitement et est utile pour établir un pronostic. Il nous semble important de développer des outils d’évaluation qui permettent de s’affranchir de cette étape délicate et d’évaluer les risques sans passer par cette étape.

QU’EST CE QU’ON ÉVALUE Le cadre dans lequel le vétérinaire réalise son évaluation est important à définir. Deux questions se posent: à qui est destinée l’évaluation, qui en est l’initiateur? et qu’est ce qu’on évalue et dans quel but?

Pour qui La demande d’évaluation peut être initiée par le propriétaire. Ce qui ne veut pas dire systématiquement qu’il en est l’instigateur. Il peut consulter à la demande d’un tiers faisant partie de son entourage plus ou moins proche et qui fait pression sur lui. Son attitude varie selon la situation; en effet, s’il consulte à la demande d’un tiers, le propriétaire peut avoir tendance à dissimuler des faits ou à en diminuer la portée afin de dédouaner le chien. Le clinicien doit pouvoir repérer ce cas de figure. La demande doit être définie précisément au cours de la consultation. Certaines familles consultent en annonçant d’emblée une demande de traitement. La décision de traiter devra néanmoins être étudiée en fin de consultation quand tous les paramètres seront connus. D’autres viennent chez le vétérinaire pour confirmer une décision d’euthanasie. L’idée que chacun des protagonistes se fait du devenir du chien peut influencer la consultation et son déroulement; le clinicien doit en prendre conscience afin que le recueil des données soit épuré de toute influence. Il est conseillé au clinicien d’adopter une attitude bienveillante mais neutre afin d’éviter d’orienter les réponses. Il évitera de rentrer dans des schémas explicatifs pendant son examen comportemental. Enfin, le chien peut être présenté par une autorité, parfois même en l’absence du propriétaire. Le mandat du clinicien est alors celui de l’expertise, qu’il intervienne en tant qu’expert dûment nommé ou en tant que sapiteur.

Les grilles d’évaluation Une échelle d’évaluation clinique est une formalisation standardisée de l’évaluation d’une (ou plusieurs) caractéristique(s) non mesurable(s) directement, au moyen d’indicateurs ou item(s) mesurables directement, permettant d’attribuer en fonction de règles logiques une ou plusieurs valeurs numériques à la caractéristique étudiée Les grilles d’évaluation sont des outils d’évaluation clinique standardisés ont pour objectif d’apprécier la gravité du comportement agressif et de la quantifier. (cf articl sur les griles)

Tests de situation Les tests consistent à soumettre le chien à un ensemble de tâches ou de situations et à évaluer ses réactions. Les comportements observés au cours du test sont utilisés dans le but de - prédire d’autres comportements en situation «naturelle» - définir des tendances réactionnelles qualifiées généralement de tempérament. De nombreux tests sont publiés et largement utilisés dans les pays Germaniques notamment (Suisse, Pays Bas). Très peu sont formulés spécifiquement pour apprécier le comportement agressif. L’article de Netto et al (Netto and Planta 1997) présente une batterie de tests (43!) destinés à apprécier le comportement agressif dans l’objectif d’éliminer les chiens jugés agressifs de la reproduction. A cet effet l’essentiel de l’effectif testé dans l’étude initiale (75 / 112) appartenait à des races «considérées comme dangereuses» (Fila Brasileiro, Dogue argentin et American Staffordshire Terriers) 60% d’entre eux ayant des antécédents de morsure … La population des chiens témoins se divisait entre chiens témoins

Qu’est ce qu’on évalue? Cette question apparemment très simple mérite d’être précisée. Evaluation du danger Evaluation du risque Ces notions ne sont pas superposables. Le danger pourrait être assimilé au potentiel agressif du chien vis à vis d’une cible définie. Par exemple, un chien peu socialisé aux enfants peut présenter un danger important pour les enfants et aucun danger pour les adultes. 59


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L’intersection entre ces deux données permet de définir quatre degrés de risque: - un risque élevé et non supportable impliquant l’euthanasie ou des mesures de sécurité drastiques - un risque ne nécessitant pas de mesures particulières - deux risques intermédiaires • Un faible pour lequel les mesures préconisées sont souvent de l’ordre de l’éducation • Un critique, où s’imposent une évaluation plus fine et/ ou des mesures de prévention adéquates. Un traitement et des restrictions mécaniques (muselière) peuvent être envisagés si le milieu familial apparaît apte à la prise en charge. L’intervention d’un vétérinaire comportementaliste est souhaitable pour affiner le diagnostic et mettre en place s’il y a lieu un protocole thérapeutique.

Le risque est défini comme la probabilité de survenue de l’agression. Cette notion prend en compte l’existence d’une possible exposition du chien avec la cible potentielle. Ainsi, le chien agressif vis à vis des enfants ne présente pas le même risque s’il est régulièrement en contact avec des enfants dans sa famille ou s’il vit dans un chenil! un chien peut être dangereux pour les enfants et ne générer qu’un risque quasiment nul. Evaluation du chien: l’évaluation du chien s’attache à déterminer le caractère pathologique de la séquence d’agression et la présence d’un état pathologique. Cette étape permet de statuer sur l’état fonctionnel du chien, la présence d’une pathologie comportementale ou organique. Evaluation du contexte familial: le contexte dans lequel évolue le chien

MATRICE DE RISQUE CONCLUSION La matrice de risque est un outil d’évaluation des risques qui prend en compte la probabilité d’apparition et les répercussions de l’événement. Une matrice de risque peut être définie pour les différents acteurs: le chien, les victimes potentielles, les propriétaires, et pourquoi pas le vétérinaire!

De façon certaine, un comportement agressif ne définit pas un diagnostic. Il doit être typé et son étude rentre dans l’évaluation du risque lié à la gravité des séquences combiné à la probabilité de leur survenue.

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RISQUE = GRAVITE X PROBABILITE Facteurs de gravité

Facteurs de probabilité de survenue

Facteurs physiologiques ➢ Format du chien: Taille du chien, poids, puissance ➢ Etat de santé: ➢ Facteurs iatrogènes

Facteurs historiques ➢ Antécédents de grognements ou de menace ➢ Mauvaises conditions de développement ➢ Présence d’une affection comportementale Facteurs physiologiques ➢ Statut sexuel ➢ Format ➢ Etat de santé

Facteurs comportementaux ➢ Déficit de contrôle dans le syndrome HSHA ➢ Peur ➢ Prédation ➢ Maladie psychiatrique ➢ Dressage, entraînement

Facteurs cliniques ➢ affections comportementales accompagnées d’une haute probabilité de survenue des agressions. ➢ possibilité thérapeutique ou non et mise en œuvre

Vulnérabilité des victimes ➢ Enfants, personnes âgées, personnes immunodéprimées, hémophiles…

Facteurs environnementaux ➢ Exposition aux victimes potentielles ➢ Possibilités d’isolement ➢ Peur de l’entourage Facteurs liés aux propriétaires ➢ Capacités de contrôle ➢ Prise de conscience, réalisme: ➢ Motivation à traiter ➢ Croyances ➢ Image du chien (gentil, bon gardien…) ➢ Capacité de communication ➢ Attachement ➢ Statut hiérarchique

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Il comportamento di aggressione e la gerarchia Claude Beata Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F

Il concetto di gerarchia è stato al centro di numerose controversie di questi ultimi anni ed illustra perfettamente la nozione di evoluzione di una idea-faro. Al di là del lavoro intellettuale che ha presieduto alle sue modificazioni, è sicuramente nell’applicazione pratica e nelle conseguenze terapeutiche quotidiane che i cambiamenti sono stati i più numerosi.

squilibrio nelle strutture gerarchiche del gruppo. Talvolta, le attitudini dell’animale testimoniano una grande attenzione prestata alle prerogative (nutrimento, luoghi di riposo, iniziativa di contatti), talvolta le sequenze di aggressione sono caratteristiche ed analoghe a quelle che possono essere visibili negli scontri interspecifici legati al possesso di una risorsa. Quando la semiologia mette in luce questi elementi e la loro correzione risolve la situazione, è legittimo considerare che questo approccio clinico conservi il proprio valore.

RICHIAMI STORICI Un abuso del modello Gli studi sui lupi hanno rivelato un’organizzazione sociale molto gerarchica. Questo modello ha ispirato ed ispira oggi numerose teorie ed applicazioni. Da moltissimi anni, infatti, viene sostenuta un’analogia fra lupi e cani. Le nozioni conosciute sull’organizzazione sociale dei primi sono applicate all’organizzazione sociale dei secondi e, al di là, su quella del gruppo interspecifico costituito dai proprietari e dai loro cani. Partendo da Lorenz (“L’anello di re Salomone”), ad andando fino al concetto di muta-famiglia sviluppato da Pageat sulle basi care a Scott e Fuller, passando per i libri o i siti editi da E. Terroni o J. Ortega, le nozioni di dominanza e di sottomissione, di maschio alfa, di organizzazione spaziale nella muta, delle prerogative legate allo status di dominante sono penetrate a fondo nell’area, conscia ed inconscia, delle nozioni relative ai cani. Il concetto stesso di gerarchia di dominanza è ancora più antico, legato ai lavori di Schjelderup-Ebbe (1922) sull’”ordine di beccata” dei polli. Lo sviluppo della medicina comportamentale veterinaria oltre Atlantico si è appoggiato alla nozione di “dominanza aggressione”, nozione sfocata che ricopre quasi l’insieme delle aggressioni perpetrate su un membro del gruppo. La sociopatia, diagnosi nosografica, sviluppata nel modello francese ha anche evidenziato il ruolo dell’instabilità gerarchica nello scatenamento di certi aggressioni.

È molto facile trovare, quasi in tutti i cani di famiglia, dei comportamenti che possono evocare una gerarchia ambigua. Questo non significa sempre, fuori dal contesto, che bisogna trovarvi l’eziologia dell’affezione comportamentale incriminata. Ora, numerosi terapeuti si fermano a questi primi elementi e basano il loro intervento su un riequilibrio della gerarchia. Questo è ancora più vero nel mondo degli addestratori che, eccetto qualche eccezione nella nuova generazione, basano la grande maggioranza dei loro interventi sul modello gerarchico accompagnato da una colpevolizzazione dei proprietari e da una denuncia della loro incapacità ad essere i “capi della muta”. Inoltre, una cattiva comprensione di questa nozione di gerarchia ha condotto a numerosi errori nell’effettuazione di modificazioni comportamentali. Stabilire un quadro gerarchico chiaro non è imporsi con la forza. Ora, in nome della gerarchia, molti cani sono stati sottoposti a punizioni fisiche che dovevano avere lo scopo di dominarli, ma la cui conseguenza più classica è stata l’aumento dell’ansietà. Non solo, questo non provocava il miglioramento atteso ma potevano sopraggiungere dei peggioramenti impressionanti, in particolare nella gravità delle aggressioni.

Una confusione classica Infine, la predominanza di questo modello comporta una confusione ricorrente tra disturbi gerarchici ed aggressione. Il termine anglosassone già segnalato di “dominance aggression” ha contribuito molto a questa situazione, che comporta quindi due tipi di errori: Per eccesso: quando tutte le aggressioni all’interno della famiglia sono considerate come dei sintomi di squilibrio gerarchico, è evidente che questo è falso e suscita una sopravalutazione di quest’eziologia Per difetto: i sintomi legati all’ambiguità del quadro gerarchico non si riducono alle aggressioni. Non pensare all’eziologia dell’organizzazione gerarchica unicamente che

CONSEGUENZE CLINICHE Le conseguenze cliniche di questa forte penetrazione di questi concetti sono di tre ordini

Un modello operatorio In un certo numero di casi, il modello funziona. L’analisi clinica consente di reperire degli elementi che indicano uno 62


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e/o inutile – quando questo fattore scatenante non esiste. In un gruppo stabile, senza una motivazione imponente, spesso è impossibile distinguere una gerarchia all’interno di specie animali che vengono però ugualmente ritenute sociali, ma questo si può verificare in caso di necessità. La gerarchia appare allora come una soluzione economicamente conveniente dal punto di vista energetico per disarmare i conflitti potenziali all’interno del gruppo o perlomeno ridurne le conseguenze. Secondo certi osservatori, e lontano dalle prime teorie che mettevano al primo posto un leader che si imponeva con la forza, la figura emergente del gruppo gioca un ruolo regolatore e rappacificante ed è spesso “designata” dal resto del gruppo. È in caso di ambiguità, di sfida, che non soltanto la gerarchia non gioca più un ruolo rappacificante ma può essere la causa di sequenze aggressive.

in presenza di aggressioni è perdere la maggioranza dei segni e non comprendere l’importanza di questo fattore nell’equilibrio emozionale del cane.

LE EVOLUZIONI Una situazione di questo tipo non può restare stabile e quindi generare delle reazioni, addirittura dei contrasti. Anche la nozione di gerarchia è rimessa in dubbio. Dal fenomeno del bilanciamento ai nuovi approcci etologici, la prossima evoluzione del concetto dovrà consentire di restituirle tutta la sua pertinenza clinica.

Da un estremo all’altro In seguito allo svilimento della nozione di gerarchia da parte di numerosi autori, si è delineato un movimento di rifiuto per opporsi, in particolare, all’impiego della violenza. Questo è stato molto netto nei veterinari comportamentalisti nord-americani della nuova generazione, che non parlano più per nulla di dominanza. Talvolta, applicano le stesse modificazioni comportamentali (controllo dei contatti, dei luoghi dove coricarsi o dell’organizzazione dei pasti), ma le presentano come necessarie all’equilibrio emozionale ed alla buona comunicazione, senza però collegarle alla necessità di un’organizzazione sociale comprensibile per il cane. In questa tendenza radicale, altri scienziati rimettono in causa la possibilità stessa che esista una gerarchia tra due membri di una specie diversa. Questo sembra essere molto lontano dalla nostra realtà, in cui gli esempi, gli aneddoti ed il senso clinico convergono per indicare che il concetto è valido. La rimessa in causa potrebbe essere interessante se si accompagna a proposte alternative ma, ad oggi, non ne siamo a conoscenza. È quindi necessaria un’evoluzione, basata su un procedimento scientifico per dare all’approccio clinico le basi numeriche che permetteranno di attestarne la pertinenza.

Nuova attitudine clinica La nuova attitudine clinica si disegna allora segnando un’evoluzione molto grande dagli ultimi dieci anni. Il terapeuta, nel corso della sua raccolta semiologica, deve prestare attenzione agli elementi ritenuti essere dei buoni indicatori della gerarchia nel cane, ma soprattutto non si deve fermare a questo primo livello. È là che si verifica l’evoluzione: bisogna valutare poi se questi elementi sono significativi per il cane. Bisogna smettere di vedere i disturbi della gerarchia ovunque: non è perché un cane monta sul divano che è sociopatico! Soprattutto se ne ridiscende alla minima richiesta e se non mostra nessun segno di ansietà o di aggressività legata a questa risorsa. Ma non bisognerebbe soprattutto abbandonare il concetto talvolta determinante nella comprensione e nel trattamento dei disturbi del comportamento. Quando si cerca di cambiare il posto della cesta e il cane la riporta al centro del salone, voler trovare altre spiegazioni può rivelare della cecità.

CONCLUSIONE

Le nuove basi

Il concetto di gerarchia nella sua applicazione clinica nei disturbi del comportamento del cane si è molto evoluto in questi ultimi dieci anni. Dopo essere uscita dalla visione caricaturale secondo cui tutto è gerarchia, la disciplina non deve oggi correre il rischio di abbandonare un concetto fecondo.

Le basi teoriche etologiche esistono già. Secondo la scuola di T. Rowell, un nuovo modo di osservare ha consentito di indicare che la gerarchia doveva essere considerata come un dato fluido e non statico. La comparsa di risorse molto motivanti fa spuntare una gerarchia che è spesso inapparente –

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Evolution du concept de hiérarchie et ses applications Claude Beata Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F

Le concept de hiérarchie a été au sein de nombreuses controverses ces dernières années et illustre parfaitement la notion d’évolution d’une idée-phare. Au-delà du travail intellectuel qui a présidé à ses changements, c’est bien dans l’application pratique, dans les conséquences thérapeutiques quotidiennes que les changements ont été les plus nombreux.

un déséquilibre dans la structure hiérarchique du groupe. Parfois, les attitudes de l’animal témoignent d’une grande attention portée sur les prérogatives (nourriture, lieux de repos, initiative des contacts), parfois les séquences d’agression sont caractéristiques et analogues à celles qui peuvent être visibles dans des affrontements intraspécifiques liés à la possession d’une ressource. Quand la sémiologie met en lumière ces éléments et que leur correction amende la situation, il est légitime de considérer que cette approche clinique garde une valeur.

RAPPELS HISTORIQUES

Un abus du modèle

Les études sur les loups ont révélé une organisation sociale très hiérarchisée. Ce modèle a inspiré et inspire toujours de nombreuses théories et applications. Depuis de très nombreuses années, en effet, l’analogie est faite entre loups et chiens. Les notions connues sur l’organisation sociale des loups sont plaquées sur l’organisation sociale des chiens et, au-delà, sur celle du groupe interspécifique constitué par les maîtres et leurs chiens. Partant de Lorenz «The Ring of King Solomon», en allant jusqu’au concept de meute-famille développée par Pageat sur des bases chères à Scott et Fuller, en passant par les livres ou les sites édités par E.Terroni ou J. Ortega, les notions de dominance et de soumission, de mâle alpha, d’organisation spatiale dans la meute, de prérogatives liées au statut de dominant se sont installées dans l’espace, conscient et inconscient, du savoir relatif aux chiens Le concept même de hiérarchie de dominance est encore plus ancien, relié aux travaux de Schjelderup-Ebbe (1922) sur le «pecking-order» chez les poules. Le développement de la médecine comportementale vétérinaire outre-atlantique s’est appuyée sur la notion de «dominance aggression», notion floue qui recouvre quasiment l’ensemble des agressions perpétrées sur un membre du groupe. La sociopathie, diagnostic nosographique, développé dans le modèle français a aussi mis en avance l’instabilité hiérarchique dans le déclenchement de certaines agressions.

Il est très facile de trouver, quasiment chez tous les chiens de famille, des comportements pouvant évoquer une hiérarchie ambiguë. Cela ne signifia pas toujours, loin de là, qu’il faut y voir l’étiologie de l’affection comportementale incriminée. Or de nombreux thérapeutes s’arrêtent à ces premiers éléments et basent leur intervention sur un rééquilibrage de la hiérarchie. Ceci est encore plus vrai dans le monde des éducateurs qui, hormis quelques exceptions dans la nouvelle génération, basent la grande majorité de leurs interventions sur le modèle hiérarchique accompagné d’une culpabilisation des propriétaires et d’une dénonciation de leur incapacité à être les «chefs de meute». De plus, une mauvaise compréhension de cette notion de hiérarchie a conduit à de nombreuses erreurs dans la mise en place des modifications comportementales. Etablir un cadre hiérarchique clair, ce n’est pas s’imposer par la force. Or, au nom de la hiérarchie, beaucoup de chiens ont été soumis à des punitions physiques dont le but était de dominer mais dont la conséquence la plus classique était d’augmenter l’anxiété. Non seulement, cela ne provoquait pas l’amélioration attendue mais de spectaculaires aggravations pouvaient intervenir, notamment dans la gravité des agressions

Une confusion classique Enfin, la prédominance de ce modèle entraîne une confusion récurrente entre troubles hiérarchiques et agression. Le terme anglo-saxon déjà signalé de «dominance aggression» a beaucoup contribué à cette situation qui entraîne donc deux types d’erreurs: Par excès: quand toutes les agressions à l’intérieur de la famille sont considérées comme des symptômes de déséquilibre hiérarchique, il est évident que cela est faux et entraîne une surévaluation de cette étiologie Par défaut: les symptômes reliés à l’ambiguïté du cadre hiérarchique ne se résument pas aux agressions. Ne penser à

CONSÉQUENCES CLINIQUES Les conséquences cliniques de cette imprégnation forte sont de trois ordres

Un modèle opératoire Dans un certain nombre de cas, le modèle fonctionne. L’analyse clinique permet de repérer des éléments indiquant 64


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très motivantes fait surgir une hiérarchie qui est souvent inapparente – et/ou inutile – quand ce déclencheur n’existe pas. Dans un groupe stable, sans motivation majeure, souvent il est impossible de distinguer une hiérarchie dans des espèces pourtant réputées sociales. mais celle-ci peut apparaître en cas de besoin. La hiérarchie apparaît alors comme une solution économe en énergie pour désarmer les conflits potentiels à l’intérieur du groupe ou du moins en réduire les conséquences. D’après certains observateurs, et loin des premières théories mettant en avance un leader qui s’imposerait par la force, la figure émergente du groupe joue un rôle régulateur et apaisant et est souvent «désigné» par le reste du groupe. C’est dans les cas d’ambiguïté, de challenge que non seulement la hiérarchie ne joue plus de rôle apaisant mais peut être la cause de séquences agressives.

l’étiologie de l’organisation hiérarchique uniquement qu’en présence d’agressions c’est rater la majorité des signes et ne pas comprendre l’importance de ce facteur dans l’équilibre émotionnel du chien

LES ÉVOLUTIONS Une telle situation ne pouvait pas rester stable et a donc généré des réactions, voire des oppositions. La notion même de hiérarchie est remise en question. Du phénomène de balancier aux nouvelles approches éthologiques, la prochaine évolution du concept devrait permettre de lui redonner toute sa pertinence clinique.

D’un extrême à l’autre La notion de hiérarchie ayant été galvaudée par de nombreux intervenants, un mouvement de refus s’est dessiné pour s’opposer notamment à l’utilisation de la violence. Cela a été très net chez les vétérinaires comportementalistes nord-américains de la nouvelle génération qui ne parlent plus jamais de dominance. Parfois, ils appliquent les mêmes modifications comportementales (contrôle des contacts, des lieux de couchage ou organisation des repas) mais en les présentant comme nécessaires à l’équilibre émotionnel et à la bonne communication mais sans le relier à la nécessité d’une organisation sociale compréhensible pour le chien. Dans cette attitude radicale, d’autres scientifiques remettent en cause la possibilité même qu’il existe une hiérarchie entre deux membres d’une espèce différente. Ceci semble très loin de notre réalité, où les exemples, les anecdotes et le sens clinique convergent pour indiquer que le concept est valable. La remise en cause pourrait être intéressante si elle s’accompagnait de propositions de remplacement mais, à ce jour, celles-ci ne sont pas arrivées à notre connaissance. Une évolution est donc nécessaire, appuyée sur une démarche scientifique pour donner à l’approche clinique les bases chiffrées qui permettront d’attester de sa pertinence.

Nouvelle attitude clinique

Les nouvelles bases

Le concept de hiérarchie dans son application clinique en troubles du comportement du chien a beaucoup évolué ces dix dernières années. Après être sortie de la caricature du tout hiérarchique, la discipline ne doit pas aujourd’hui courir le risque d’abandonner un concept fécond.

La nouvelle attitude clinique se dessine alors marquant une très grande évolution depuis les dix dernières années. Le thérapeute, au cours de son recueil sémiologique, doit prêter attention aux éléments réputés être de bons indicateurs de la hiérarchie chez le chien mais il ne doit surtout pas s’arrêter à ce premier niveau. Et c’est là que se situe l’évolution: Il faut apprécier ensuite si ces éléments sont significatifs pour le chien. Il faut arrêter de voir des troubles de la hiérarchie partout: ce n’est parce qu’un chien monte sur le canapé qu’il est sociopathe! Surtout s’il en redescend à la moindre demande et s’il ne montre aucun signe d’anxiété ou d’agressivité autour de cette ressource. Mais il ne faudrait surtout pas abandonner un concept parfois déterminant dans la compréhension et dans le traitement des troubles du comportement. Quand on essaye de changer la place du panier et que le chien le ramène au milieu du salon, vouloir trouver d’autres explications peut relever de l’aveuglement.

CONCLUSION

Les bases théoriques éthologiques existent déjà. Dans la lignée de T. Rowell, une nouvelle façon d’observer a permis de montrer que la hiérarchie devait être considérée comme une donné fluide et non statique. L’apparition de ressources

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Aggressività o pericolosità: una griglia di valutazione Raccomandazioni generali Claude Beata Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F

Questo strumento è stato messo a punto da Claude Béata a partire da griglie già esistenti: la scala di valutazione dell’aggressività di Patrick Pageat (Pageat P. Pathologie du comportament du chien 2ème edition. Edition du Point Vétérinaire, Maison Alfort 1998: 367 p.), la parte aggressività della griglia 4A di Claude Béata, la griglia di valutazione semplificata della pericolosità di un cane dopo che ha morso di Joël Dehasse (Dehasse J. Le chien agressif, Publibook Paris 2002 342 p.). Queste griglie combinate hanno per obiettivo di aiutare il veterinario a valutare il livello di pericolosità potenziale di un cane che ha già morso un uomo. Il confronto, la concordanza o meno dei diversi indici è uno strumento apprezzabile per giudicare la pericolosità ed orientare il valutatore nelle sue conclusioni sulla pericolosità dell’animale al momento dell’esame, non è uno strumento predittivo, né diagnostico. L’impossibilità di avere accesso a determinati dati può, in certi casi, rendere inadatto l’impiego delle griglie per la valutazione della pericolosità. I proprietari non possono autovalutarsi; non devono quindi conoscere le voci della griglia, né il punteggio ad esse attribuito, per compilarle da soli. È il veterinario che deve, con un atteggiamento neutrale e benevolo, condurre il colloquio. La durata della visita deve essere sufficiente a permettere l’indagine ed assicurare anche una buona percezione del contesto di vita del cane e dell’insieme dei suoi comportamenti. Una valutazione non può mai ridursi alla sola quantificazione degli indici. L’indagine è condotta, in particolare, in modo da documentare la griglia, ma non consiste nel porre direttamente il problema della griglia: la risposta a questa domanda compete al clinico che ha interrogato il proprietario; quindi la griglia è la formalizzazione di questo colloquio secondo un canovaccio standardizzato, che consenta i confronti e che limiti le variazioni da un valutatore all’altro. È indispensabile riferirsi al manuale per conoscere le voci e i loro punteggi. Le domande indicate nel manuale non sono che suggerimenti, possono essere modificate o completate se necessario. Ogni voce deve essere esplorata a sufficienza per permettere al veterinario che effettua la quantificazione di effettuare una stima valida. Anche l’esame clinico e l’osservazione durante la visita concorrono a determinare tale quantificazione. Queste informazioni generali e le risposte alle domande che riguardano direttamente l’aggressività arrivano a confermare o inficiare le

conclusioni della griglia; dubbi o incoerenze implicano un’analisi approfondita per valutare la validità delle risposte. Se questi dubbi persistono, devono essere citati nel referto specialistico. Si deve sempre tenere conto della quantificazione più favorevole. Alcuni indici necessitano di scegliere di valutare un morso, una persona aggredita, le reazioni dei proprietari. Per uno stesso animale si possono riempire più griglie. Se sono state aggredite varie persone, si deve conservare la valutazione più sfavorevole. Numerosi fattori sono suscettibili di modificare i risultati delle griglie di valutazione: il livello di conoscenza dei proprietari, le condizioni di vita del cane, la varietà delle situazioni con le quali questo si è confrontato … Naturalmente viene privilegiato lo studio dell’avvenimento che è all’origine della domanda di valutazione. Benché questo avvenimento possa consistere nell’aggressione di un conspecifico o di un essere umano, familiare o no, talvolta la richiesta può derivare da un timore fondato o meno del vicino, o da una prescrizione dell’autorità in relazione al fenotipo del cane in esame. In ogni caso, è l’insieme delle manifestazioni aggressive che deve essere indagato, passando in rassegna i rappresentanti di tutte le specie animali in contatto con il cane, e dei diversi esponenti della specie umana: età differenti, persone familiari, persone in contatto regolarmente, estranei, persone e comportamenti non abituali, ecc… Nell’ambito di una raccolta di dati statistica ed anonima devono figurare: • la data, la razza o il tipo razziale, la categoria, l’età • il motivo della valutazione • il contesto giuridico • i risultati di eventuali valutazioni precedenti. La griglia, in formato elettronico, prevede che ad ogni voce sia abbinata una quantificazione nella colonna corrispondente, indicata da una freccia. I conti vengono fatti dal programma, ed il foglio di sintesi riprende automaticamente i risultati delle tre griglie.

SINTESI DELLE TRE GRIGLIE All’espressa condizione che ci sia concordanza fra le conclusioni dell’esame clinico ed il comportamento da una parte ed i 4 indici derivati dalle griglie dall’altra, si possono utilizzare le seguenti proposte, adattando la risposta al caso valutato. 66


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• Livello 2: Maggioranza di verdi ed arancio: Cane che attualmente presenta un rischio di minore entità, si consiglia di occuparsene. • Livello 3: Maggioranza di arancio e rosso o Indice 3 massimale: Cane che attualmente presenta un rischio critico, è obbligatorio occuparsene. • Livello 4: Se 3 o più indici sono coerenti e rossi: Cane che presenta un rischio grave. Si raccomanda la separazione.

I 4 indici sono: - 1 / Indice di aggressività generale - 2 / Indice di aggressività sociale - 3 / Indice di aggressività griglia 4A - 4 / Indice “dopo morso” Il livello di pericolosità è indicato da una progressione del colore: verde arancio, rosso: massimo pericolo. • Livello 1: Se i 4 indici sono coerenti e verdi: Cane che attualmente non presenta dei rischi particolari.

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Aide à l’évaluation de la dangerosité d’un chien par les grilles combinées Recommandations générales Claude Beata Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F

Cet outil a été mis au point par Claude Béata à partir de grilles déjà existantes: l’échelle d’évaluation de l’agressivité de Patrick Pageat (Pageat P. Pathologie du comportement du chien 2ème édition. Editions du Point Vétérinaire, Maisons-Alfort 1998: 367 p.), la partie agressivité de la grille 4A de Claude Béata., la grille d’évaluation simplifiée de la dangerosité d’un chien après qu’il ait mordu de Joël Dehasse (Dehasse J. le chien agressif, Publibook Paris 2002 342p) Ces grilles combinées ont pour objectif d’aider le vétérinaire à évaluer le niveau de dangerosité potentielle d’un chien ayant déjà mordu un humain. La comparaison, la concordance ou non des différents indices est un outil appréciable pour évaluer la dangerosité et orienter l’évaluateur dans ses conclusions sur la dangerosité de l’animal au moment de l’évaluation, ce n’est pas un outil prédictif, ni de diagnostic. L’impossibilité d’avoir accès à certaines données peut, dans certains cas, rendre inadaptée l’utilisation des grilles pour l’évaluation de la dangerosité. Les propriétaires ne peuvent pas s’auto évaluer; ils ne doivent donc pas avoir connaissance des items de la grille ni de leur cotation, ou la remplir eux-mêmes. C’est le vétérinaire qui doit, avec neutralité bienveillante, mener l’entretien. La durée de la consultation doit être suffisante pour permettre le questionnement et également assurer une bonne perception du contexte de vie du chien et de l’ensemble de ses comportements. Une évaluation ne peut jamais se réduire à la seule cotation des indices. Le questionnement est mené de manière, notamment, à documenter la grille mais ne consiste pas à poser directement la question de la grille: cette question est posée au praticien qui a interrogé le propriétaire; ainsi la grille est la formalisation de cet entretien selon un canevas standardisé, permettant des comparaisons et limitant les variations d’un évaluateur à l’autre. Il est indispensable de se référer au manuel pour appréhender les items et leurs cotations. Les questions indiquées dans le manuel ne sont que des suggestions, elles peuvent être modifiées ou complétées si nécessaire. Chaque item doit être exploré suffisamment pour permettre au vétérinaire effectuant la cotation d’avoir une bonne appréciation. L’examen clinique et l’observation durant la consultation interviennent aussi au niveau de la cotation. Ces informations générales et les réponses aux questions concernant directement l’agressivité viennent confirmer ou infirmer les conclu-

sions de la grille; des doutes ou des incohérences impliquent une exploration poussée pour évaluer la validité des réponses. Si ces doutes persistent, ils doivent être mentionnés dans le rapport d’expertise. La cotation la plus défavorable doit toujours être retenue. Certains indices nécessitent de choisir d’évaluer une morsure, une personne agressée, les réactions d’un des propriétaires. Plusieurs grilles peuvent être remplies pour un même animal. Si plusieurs personnes ont été agressées, conserver l’évaluation la plus défavorable. De nombreux facteurs sont susceptibles de modifier le résultat des grilles d’évaluation: le niveau de connaissance des propriétaires, les conditions de vie du chien, la variété des situations auxquelles est confrontée le chien… L’exploration de l’événement à l’origine de la demande d’évaluation est naturellement privilégiée. Cependant si cet événement peut consister en l’agression d’un congénère ou en l’agression d’un être humain, familier ou non, il peut parfois reposer sur la crainte fondée ou pas de voisins, ou de représentants de l’autorité se basant sur un phénotype. Dans tous les cas, c’est l’ensemble des manifestations agressives qui doit être exploré, en passant en revue les représentants de toutes les espèces en contact avec le chien, et des représentants variés de l’espèce humaine: âges différents, personnes familières, personnes en contact régulier, étrangers, personnes aux comportements inhabituels, etc. Dans un but de collecte statistique et anonyme des données doivent figurer: • la date, la race ou le type racial, la catégorie, l’âge, • le motif de l’évaluation, • le contexte juridique, • les résultats d’évaluations précédentes éventuelles. La grille en format informatique prévoit que chaque item soit coté dans la colonne correspondante, indiquée par une flèche. Les additions se font automatiquement, et la feuille de synthèse reprend automatiquement les résultats des 3 grilles.

SYNTHÈSE DES 3 GRILLES A la condition expresse qu’il y ait concordance entre les conclusions de l’examen clinique et comportemental d’une part, et les 4 indices issus des grilles d’autre part les propositions suivantes peuvent être utilisées, en adaptant la réponse au cas évalué. 68


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• Niveau 2: Majorité de verts et oranges: Chien présentant un risque mineur actuellement. Prise en charge conseillée. • Niveau 3: Majorité d’oranges et rouges ou Indice 3 maximal: Chien présentant un risque critique actuellement, prise en charge obligatoire. • Niveau 4: Si 3 indices ou plus sont cohérents et rouges: Chien présentant un risque majeur. Séparation recommandée.

Les 4 indices sont: - 1 / Indice d’agressivité générale - 2 / Indice agressivité sociale - 3 / Indice agressivité grille 4A - 4 / Indice «après morsure» Le niveau de dangerosité est indiqué par une progression de couleur: vert orange, rouge: danger maximum. • Niveau 1: Si les 4 indices sont cohérents et verts: Chien ne présentant pas de risque particulier actuellement.

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Il comportamento di aggressione: principi di terapia farmacologica Claude Beata Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F D’après un article de Nathalie Marlois, Docteur Vétérinaire Comportementaliste Dipl ENVF • Inibendo l’aggressività e quindi rendendo un rischio accettabile o gestibile • Favorendo gli apprendimenti… - Rischio, si tratta: • Di rischi indotti dal cambiamento di stato dell’animale: destabilizzazione di un animale dominante, sicuro di sé, e quindi aumento del rischio di aggressione vulnerante. • Del rischio di non fare nulla e quindi di veder continuare o comparire dei comportamenti patologici o inquietanti: aggressioni, distruzioni…

Prendersi carico di una situazione a rischio in una consulenza sul comportamento significa adottare una strategia che dipenderà dalle osservazioni effettuate, dalle informazioni acquisite fino a quel momento e dalla valutazione dell’importanza dei rischi da parte del proprietario e del medico che prescrive gli interventi da effettuare. Per quanto riguarda i farmaci, il prescrittore gioca sullo stato del sistema e tenta di restringere il campo di quelli possibili. Il farmaco, se viene teoricamente presentato come una stampella, un supporto, in pratica è spesso pensato in termini di protesi quale che sia per i proprietari o il prescrittore. Ma più che il farmaco da solo ed al di là delle ricette che non si possono dare, è il quadro nel quale si inserisce la prescrizione farmacologica che è interessante da esplorare ed analizzare ed è quello che noi cercheremo di fare qui.

I/2 Misura del rischio Ogni trattamento di un animale a rischio o di una situazione a rischio, in riferimento a due domande fondamentali che sono affrontate nelle altre relazioni: - Cos’è un rischio accettabile? - Come quantificare, misurare i rischi? Nei due casi, dobbiamo contemporaneamente utilizzare la nozione di grandi numeri e quindi del suo corollario, l’idea di una certa unità degli individui che formano una collettività, ma anche riconoscere i parametri individuali di ciascuno e del sistema terapeutico. Di fronte al rischio, la razionalità degli individui e del gruppo dipende dal suo sistema di valori. Non è sempre possibile quantificare il rischio assegnando un prezzo a cose che non ne hanno (la vita, il comfort, il piacere…) In questo quadro le griglie di valutazione costituiscono uno strumento di cui bisogna conoscere i limiti.

1/ASSUMERSI IL RISCHIO DI TRATTARE Decidere di trattare un animale è di per sé assumersi un rischio: rischio di riuscire o di fallire, rischio di effetto secondario, rischio intrinseco ad ogni cambiamento. La particolarità della chemioterapia, in relazione alla terapia comportamentale, è la presenza di un agente esterno, di un mediatore: il farmaco. Questo può essere l’oggetto di tutte le speranze, ma anche accusato di tutti i fallimenti; richiede meno investimenti o meno coinvolgimento in prima persona, eccezion fatta per il costo e per quanto concerne l’osservanza.

I/1 Calcolare il rapporto beneficio atteso/rischi

I/3 Trattare o meno Assumersi il rischio di trattare significa stimare che l’uquilibrio beneficio atteso/rischio sia a favore del trattamento che si va ad instaurare. In certi casi, si può rivelare più prudente non trattare un cane pericoloso i cui proprietari gestiscono in modo abbastanza efficace il rischio, piuttosto che destabilizzare il sistema attraverso la somministrazione di un farmaco ed una terapia comportamentale. Quando viene presa la decisione di non trattare, esistono numerose soluzioni, e non saranno sviluppate in questa sede: - l’eutanasia - il ricollocamento - lo “statu quo”, che non è mai veramente una soluzione accettabile al termine della consulenza e di ciò che si è detto. Nessuna di queste soluzioni è senza rischio, che riguardi l’animale, il gruppo famigliare, il veterinario o la società.

Non esistono dei trattamenti senza rischio e lo scopo di ognuno di essi è ottenere un beneficio per il malato o il sistema. Si tratta quindi di massimizzare l’utilità sperata del farmaco per ottenere un rapporto beneficio/rischio il più favorevole possibile. Quest’utilità non si può valutare che nel quadro di una diagnosi e di un contesto particolare. - Beneficio atteso: il cambiamento di stato dell’animale che segue l’assunzione del farmaco può consentire la realizzazione di una terapia comportamentale, o diminuire il rischio di aggressioni: • giocando sulle condizioni emotive: stati ansiosi che favoriscono le aggressioni da irritazione, paura nelle fobie sociali, • Inibendo l’impulsività, rinforzando gli autocontrolli • Stabilizzando l’umore 70


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• Via tubero-infundibolare: i neuroni situati nell’ipotalamo inviano delle proiezioni nell’ipofisi anteriore. In condizione normale, inibiscono la liberazione di prolattina. - GABA: presente in tutte le zone del cervello, la sua comparsa è rapida ed ha un ruolo inibitore (d), - Altri: esistono numerosi altri neurotrasmettitori che sono suscettibili di giocare un ruolo, (glutammato, peptidi, prolattina, ormoni tiroidei, sessuali…), allo stato attuale il loro apporto in farmacoterapia è molto ridotto. I trattamenti utilizzati per diminuire l’aggressività, quindi, giocano su questi differenti sistemi di neuromediatori. Sembra evidente che secondo il tipo di aggressione entrino in azione differenti zone del cervello e differenti sistemi di neuromediatori. Studi condotti nel gatto (s) hanno mostrato che l’ipotalamo mediano e il “grigio periacqueduttale del mesencefalo” sono le strutture principali che intervengono nelle aggressioni difensive, come l’ipotalamo laterale “perifornicale” interviene nella predazione ed esistono dei sistemi di regolazione di intensità. Dei mediatori facilitano le aggressioni difensive: glutammato, sostanza P, colecistochinina; i peptidi oppiacei sarebbero soppressori. L’azione del sistema GABA sarebbe una spiegazione dell’inibizione reciproca osservata tra questi due tipi di aggressione. È possibile che queste ricerche, che sono di competenza delle neuroscienze, offrano in futuro delle nuove prospettive di trattamento adattate al tipo di aggressione in causa.

II/QUADRO “TEORICO” DI PRESCRIZIONE La scelta di un trattamento farmacologico dipende sicuramente dal caso clinico da trattare ma è fortemente influenzata dalla “cultura” del prescrittore ed, in particolare, dai suoi modelli.

II/1 Modello psicofarmacologico In questo modello, una grande importanza viene data ai neuromediatori, da quello meno conosciuto a quello più noto. Recettori ed enzimi sono contemporaneamente sede di azione dei farmaci e mediatori dell’azione delle malattie. Numerosi disturbi comportamentali possono essere considerati in relazione alle modificazioni della neurotrasmissione sinaptica.

II/1-1 Neuromediatori Le aggressioni costituiscono il rischio più grande da gestire nella terapia comportamentale. Anche se sono state selezionate delle linee di discendenza di ratti poco o molto aggressivi sulla base di un genotipo particolare, evidenziando il ruolo dei recettori dopaminici D2(O), non esiste né un gene, né un neuromediatore dell’aggressività. Tutti i grandi sistemi di neuromediatori sono in grado di intervenire in un comportamento aggressivo: - Noradrenalina: i corpi cellulari dei neuroni noradrenergici sono situati nel locus coeruleus. Quest’ultimo gioca un ruolo importante nel processo di attenzione: stabilire la priorità, fissazione dell’attenzione. Il sistema noradrenergico interviene così nella percezione e nella reazione ad una minaccia che proviene dall’ambiente o dai segnali interni del dolore (d). Il modo in cui l’attenzione è diretta partecipa all’apprendimento ed alla creazione delle memorie, elementi che intervengono nelle reazioni future. Il sistema noradrenergico gioca un ruolo anche per la conoscenza, l’umore, le emozioni, la motricità. - Serotonina: i corpi cellulari dei neuroni serotoninergici sono situati nel nucleo del rafe e si proiettano in differenti zone cerebrali: la cortex, con un ruolo sull’umore; i gangli della base: controllo della motricità, ossessioni, compulsioni; aree limbiche: ansietà, panico. - Dopamina: si risconoscono quattro vie dopaminergiche maggiori • Via mesolimbica: stabilisce delle proiezioni dei corpi cellulari dei neuroni dopaminergici dal tegmento ventrale verso le terminazioni assonali delle aree limbiche come il nucleo accumbems. Questa via giocherebbe un ruolo nella produzione delle allucinazioni uditive, del delirio e dei disturbi del pensiero nell’uomo. Gioca anche un ruolo sull’aggressività e sul controllo delle vie serotoninergiche. Ed anche nei circuiti del rafforzamento e della ricompensa, quindi dell’apprendimento. • Via mesocorticale: del tegmento ventrale alla cortex limbica, è legata alla precedente. Gioca un ruolo nella cognizione. • Via nigro-striata: i corpi cellulari sono nella sostanza nera del tronco cerebrale e si proiettano verso i gangli della base e il corpo striato. Controlla la motricità.

II/1-2 Limiti del modello È molto importante, quando si prescrive un farmaco, avere bene in testa che ci si riferisce ad un modello: “I farmaci non sono che dei muletti che caricano dei meccanismi sulla loro schiena” (d). Resta ancora parecchio ignoto ciò che riguarda i meccanismi farmacologici di certi principi attivi, anche a livello dei meccanismi patologici. Inoltre, gli effetti clinici sono talvolta differenti da quelli teorici (i neurolettici atipici, che dovrebbero comportare una diminuzione della secrezione della prolattina; non è il caso di tutti, in particolare il risperidone che può provocare delle montate lattee.) Sono molto importanti delle variazioni individuali (citocromo, vulnerabilità..) ma si hanno pochi studi, che riguardano unicamente gli animali da compagnia.

II/2 Mono-polichemioterapia Sono esistite varie “correnti” nella nostra disciplina; dopo un periodo in cui venivano citate frequentemente alcune associazioni (ad es., anafranil-dipiperon) è seguito un periodo unicista. Cosa si può ragionevolmente prendere in considerazione ai nostri giorni? È più rischioso prescrivere un’associazione di farmaci e/o quest’ultima consente di gestire meglio i rischi, di attuare una terapia migliore? Nell’uomo, l’evoluzione dei farmaci verso una più grande specificità d’azione facilita le associazioni. Queste, in particolare in caso di resistenza al trattamento o di insuccesso sono molto frequenti (associazioni di antidepressivi, risperidone + ISRS, carbamazepina + ISRS …). Il principio è utilizzare delle associazioni di farmaci sicuri e razionali, sfruttando delle sinergie molecolari e farmacologiche (quindi del meccanismo) che si suppone consen71


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tano, se possibile, una tolleranza migliore (D). In medicina veterinaria le pubblicazioni sull’interesse delle associazioni fanno difetto. In pratica, in un’associazione: - si ricerca: • Una sinergia • Una complementarietà: 1+1 = 10 • Una diminuzione degli effetti secondari: 1+1 = 0 - si rischia: • Un aumento degli effetti secondari, una tossicità • Un’inefficacia Il sistema enzimatico citocromo P450 (CYP450) ha un ruolo chiave nella farmacocinetica degli psicotropi a livello di fegato e di intestino (D). Nell’uomo, è stato osservato un polimorfismo di questo sistema: è molto probabile che accada lo stesso nell’animale. Malgrado numerosi dati ignoti, sembra interessante tener conto della teoria. Gli psicotropi possono essere substrato, inibitori o induttori degli enzimi del CYP450, esempi: - CYP450 1A2: bloccato dagli ISRS (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), in particolare la fluvaxamina: riducono l’efficacia dei farmaci metabolizzati dalla 1A2 in caso di somministrazione congiunta (teofillina, caffeina, certi neurolettici atipici) con il rischio di tossicità. - CYP450 2D6: gli antidepressivi triciclici (ATC) sono substrati della 2D6, gli ISRS sono degli inibitori (in particolare, la paroxetina e la fluoxetina). Quindi, la loro somministrazione concomitante o in caso di cambiamento di un ATC con un ISRS aumenta i tassi di ATC, eventualmente fino ad un livello tossico. - CYP450 3A4: la somministrazione di un substrato (benzodiazepina) con un inibitore 3A4 (fluoxetina, fluvoxamina) aumenta il tasso del substrato. - La carbamazepina è un substrato ed un induttore (aumenta l’attività dell’enzima al di là della sua attività fisiologica inducendo numerose copie dell’enzima) 3A4; in caso di trattamento cronico, si verifica induzione enzimatica e caduta dei tassi plasmatici, con conseguente aumento della dose. In pratica, le associazioni devono essere pianificate secondo dei criteri farmacologici, ma l’esperienza clinica è di importanza primaria per giudicare la loro utilità ed i loro rischi. Bisogna quindi stare attenti e non cercare di nascondere le nostre carenze in termini di terapia mediante una escalation farmacologica. Le associazioni praticate più frequentemente (E, H) sono: - acetato di ciproterone associato sistematicamente alla carbamazepina - pipamperone, associato sistematicamente alla clomipramina o alla fluvoxamina J. Dehasse (H) utilizza con soddisfazione delle associazioni in linea di massima non raccomandate, come la selegilina con la fluvoxamina o la carbamazepina. Sarebbero utili degli studi su grandi numeri per giudicarne l’innocuità.

Aggressione difensiva: clomipramina, fluoxetina, fluvoxamina, selegilina Aggressione da dolore: alprazolam, amitriptilina Aggressione gerarchica: carbamazepina, fluoxetina, fluvoxamina Iperaggressione primaria: fluoxetina, fluvoxamina Aggressione offensiva: carbamazepina, fluoxetina, fluvoxamina Aggressione sessuale: ciproterone Questa presentazione è abbastanza semplice da utilizzare, e, coscientemente o no, la impieghiamo tutti più o meno. Usarla come modello mi parrebbe più azzardato. Ogni psicotropo corrisponde a numerosi sintomi e viceversa. Nell’uomo, fino ad oggi, la ricerca dei sottotipi patologici in relazione alla risposta da trattamenti è stata per lo più infruttuosa. È stata condotta una prova con il cane nella HS/HA (sindrome comportamentale da ipersensibilità/iperattività) (E): il tipo 1 rispondeva meglio alla selegilina, il tipo 2 agli ISRS; non appare evidente la realtà clinica di queste suddivisioni e della loro risposta al trattamento. L’estrema semplificazione di questo modello non ci permette di acquisire i fattori che sottendono alla scelta di uno psicotropo, di un’associazione, come delle modalità d’azione dello psicotropo. Di fatto, questo limita le possibilità di ricerca, di comprensione dei meccanismi e di progresso della disciplina. Senza dubbio è clinicamente efficace, ma la parte dell’esperienza dei capi fila che propongono la tabella diventa preponderante nelle scelte.

III/INFLUENZA DELL’ESPERIENZA CLINICA Si può concepire a diversi livelli:

III/1 Bibliografia Gli studi pubblicati sugli psicotropi, in particolare come placebo e nell’aggressività nel cane e nel gatto, sono rari. Sono da tenere in considerazione i fattori etici, di rischio per la salute umana in caso di aggressione; inoltre, il numero degli animali compresi negli studi spesso è ridotto. Infine, i farmaci per uso veterinario sono poco numerosi e le AMM (autorizzazioni alla commercializzazione) non coprono tutte le indicazioni. In uno studio riguardante 9 cani (un numero molto ridotto), la fluoxetina somministrata alla dose di 1 mg/kg contro un placebo ha mostrato una riduzione significativa delle aggressioni di dominanza dirette contro i proprietari (I). Uno studio di G. Muller (J) dimostra l’efficacia dell’azaperone in confronto ad un placebo nella gestione degli animali ospedalizzati, in particolare per quello che riguarda le aggressioni, diminuendo così i rischi in caso di manipolazione da parte del personale della clinica. C. Béata (K) ha presentato a Salsbourg uno studio sulla clomipramina nel comportamento di marcatura nel gatto. Negli effetti collaterali di tipo comportamentale si è notata una diminuzione dei comportamenti di aggressione sui conspecifici.

II/3 Modello sintomatologico Joël Dehasse (H) ha sviluppato un modello sintomatologico che associa a determinati sintomi dei possibili psicotropi. Ecco qualche esempio che può essere utile in caso di aggressività: 72


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In pratica, la maggior parte dei clinici stabilisce la propria prescrizione in funzione di ciò che viene trasmesso dai capi fila (E,F,H) della scuola alla quale si appartiene. È evidente che in termini di responsabilità, di assunzione di rischio è essenziale riferirsi all’esperienza di specialisti riconosciuti.

Uno studio condotto per confrontare un placebo con la clomipramina somministrata alla dose di 1,5 mg/kg due volte al giorno in 28 cani sterilizzati non ha mostrato un’efficacia superiore al placebo su aggressioni di dominanza su membri della famiglia (q). Un altro studio (r) ha indicato l’assenza di una differenza significativa tra pazienti che presentavano delle condotte aggressive trattate unicamente mediante una terapia comportamentale e quelli che ricevevano, in aggiunta, amitriptilina (antidepressivo triciclico) alla dose di 2 mg/kg due volte al giorno. La gestione di questi studi pone il problema delle definizioni di aggressioni e della loro classificazione nosografica. Numerosi farmaci umani sono impiegati negli animali, spesso con approssimazione e pochi dati sono presentati nell’animale. Per altro gli studi si effettuano su animali da laboratorio, come la ricerca di Rilke (p) che mostra l’inefficacia del citalopram nel ratto nelle aggressioni contro intrusi. Per quanto riguarda i farmaci veterinari, i dossier delle AMM presentano studi condotti su indicazioni precise (clomicalm® e ansietà da separazione), cui segue l’impiego che farà sì che il trattamento sia utilizzato in varie altre indicazioni (altri disturbi ansiosi, disturbi cognitivi, marcatura urinaria…) I confronti tra i due farmaci sono scarsi (es.: L) ed in generale non riguardano delle situazioni a rischio.

III/2 Esperienza personale Nonostante le tracce indicate dai più esperti tra noi, ognuno è indotto a forgiare la propria esperienza. Tra i promotori di varie tendenze esistono gli esploratori, avidi di provare nuovi trattamenti, nuove associazioni o dosi, ed i prudenti, che si attengono a trattamenti ampiamente diffusi. Ogni atteggiamento presenta vantaggi ed inconvenienti, anche dei rischi. - L’esperienza permette di acquisire l’abitudine per certi farmaci, il che consente di presentarli meglio ai proprietari: effetti secondari, effetti attesi, impiego, regolazione delle dosi, tutti questi elementi facilitano gli abbinamenti terapeutici e danno un certo comfort al prescrittore. - Il prescrittore può provare delle novità: • Con riferimento a ciò che si fa nell’uomo, perché ha dei campioni a sua disposizione… • Perché le risposte ai trattamenti classici sono “insoddisfacenti” • Per gusto del rischio o noia della routine. Pochi tra noi vedono casi a sufficienza per avere delle conclusioni interpretabili, quindi occorre essere prudenti e non: - trarre delle conclusioni generali di casi particolari in termini • di efficacia • di effetti secondari _ un effetto secondario descritto, ma mai incontrato, finisce per essere “dimenticato” e i proprietari non ricevono più l’informazione _ un effetto secondario raro che arriva dopo il primo impiego può far abbandonare un trattamento peraltro interessante - impegnarsi in trattamenti difficili da giustificare in caso di problemi.

IV/2 Fattori esterni al farmaco È importante ricordare che la prescrizione di un farmaco viene effettuata nel quadro di una diagnosi. Questa parte non verrà sviluppata in questa sede, ma è difficile parlare di rischio, di aggressività senza fare un’astrazione del contesto. Numerosi fattori influenzeranno l’efficacia del farmaco e la valutazione dei risultati: - l’animale: la sua fisiologia, la sua genetica, la sua vulnerabilità sono dei fattori di cui occorrerà poter tener conto, ma che sono difficili da apprendere. - Il proprietario: l’osservanza del trattamento è un primo fattore, le sorprese sono frequenti (l’animale che migliora, ma che non ha ricevuto il trattamento); soggettività delle valutazioni: animale percepito come migliorato, ma se il veterinario analizza la situazione non ci sono variazioni, effetti secondari dei placebo…. - Il veterinario: soggettività della valutazione: osservazione degli effetti in un quadro predefinito che influenza la visione delle cose. Le griglie, malgrado il loro difetto, possono costituire un fattore di equilibrio per questa soggettività - Altre prescrizioni: la terapia comportamentale, con rare eccezioni (distimia, sindrome dissociativa) è un elemento fondamentale del trattamento. Nelle prove in generale è presente, ma è difficile tenerne conto. L’associazione oculata della chemioterapia alla terapia comportamentale è un elemento importante di riuscita.

Le prove sono indispensabili per far progredire i trattamenti, gli psicotropi umani sono in costante evoluzione e sarebbe un peccato che la nostra disciplina non ne approfittasse. La creazione di un osservatorio di chemioterapia sarebbe sicuramente un plus per la nostra professione, riunendo dati oggi troppo sparsi.

IV/EFFICACIA DEI TRATTAMENTI La mancanza di studi clinici veterinari costituisce un handicap reale, l’abbiamo già sottolineato.

IV/1 Studi

IV/3 È possibile attuare negli animali un trattamento con psicofarmaci?

Gli studi contro i placebo sono rari (I), in particolare quando si deve prendere in considerazione la pericolosità. È importante non dimenticare mai che nessun farmaco ha un’efficacia del 100% in tutti gli individui e che l’effetto placebo è una realtà.

È una domanda alla quale è molto difficile rispondere. I farmaci utilizzati per praticare l’eutanasia rappresentano certamente un tranquillante efficace e definitivo. P. Pageat (E) presenta l’associazione tiapride + dipiperon come in grado di “sopprimere i morsi” nei sociopatici stru73


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mentalizzati, l’associazione sultopride + pipamperone che permette una “soppressione immediata di tutte le aggressioni”. L’impiego dei neurolettici ad alte dosi consente senza dubbio di rendere l’animale meno reattivo, addirittura stuporoso, ma si ritiene che gli apprendimenti siano difficili o impossibili con questo tipo di trattamento: cosa si può dire sull’evoluzione a lungo termine dei cani trattati così? Si può parlare realmente di soppressioni delle aggressioni? Ad oggi i farmaci più utilizzati nella pratica corrente e presentati qui sotto consentono, quando sono impiegati alla dose adeguata, una riduzione del rischio aggressivo, ma non possono essere considerati come psicofarmaci. Queste considerazioni devono invitarci alla prudenza, il farmaco è uno degli elementi importanti che consentono di ridurre i rischi, ma non è il solo. La terapia comportamentale, il riconoscimento e la prevenzione delle situazioni a rischio non devono mai essere dimenticati.

dosi minime, barbiturici a dosi minime (fenobarbital), trioxazina. - Le sostanze che aumentano la vigilanza, la sensibilità, la reattività e l’attività; mianserina, buspirone, ormoni. - Le sostanze che inducono una confusione mentale e riducono la regolazione comportamentale: dosi sedative dei neurolettici, sostanze ad azione anticolinergica nel cane anziano (clomipramina), barbiturici a forte dose. L’impiego di questi trattamenti nelle situazioni a rischio potrebbe coinvolgere la responsabilità del clinico. Di conseguenza, la realtà di alcune di queste controindicazioni non è del tutto stabilita. Nello studio sulla clomipramina (k) non è stata notata alcuna modificazione del comportamento dell’aggressione nei confronti dei proprietari, anche a dosi deboli. Lo studio di coorti importanti sarà una necessità per valutare questi rischi.

V/3 Effetti secondari Mancano i dati statistici e i consigli dati ai proprietari derivano spesso dai dati estrapolati da quelli umani, associati all’esperienza dei prescrittori. È quindi necessario precisare su grandi numeri gli effetti secondari, quello potrebbe essere il ruolo di un osservatorio farmacologico. Gli effetti secondari non sembrano sempre essere dose-dipendenti: esempio della fluoxetina i cui effetti secondari nei cani di grossa taglia sembrano comparire con dosi minori rispetto al peso. Altri effetti meriterebbero di essere documentati come i disturbi epatici indotti dai trattamenti a lungo termine alla carbamazepina. Lo studio di questi effetti permetterà senza dubbio di prescrivere meglio, di adattare meglio le dosi, di costruire una migliore alleanza terapeutica con i proprietari.

V/I FARMACI NELLA PRATICA CORRENTE V/1 I farmaci più utilizzati per diminuire un rischio aggressivo - Propanolo beta-bloccante, azione noradrenergica - Antidepressivo triciclico: clomipramina azione noradrenergica e serotoninergica - ISRS: 5 “classici” della stessa famiglia, che tuttavia non hanno affatto le stesse attività (d). Una differenza di azione sembra descritta da numerosi utilizzatori, la fluoxetina sembra avere l’azione più rapida e più costante sull’impulsività. La fluvoxamina avrebbe un’azione sulle aggressioni ma può essere più lenta (2 mesi nel caso di HS/HA: Dehasse 1999), il suo dosaggio deve essere aggiustato frequentemente e può arrivare a 20 mg/kg (G). - Carbamazepina: interferendo con gli ioni Na e K, sembra aumentare l’azione inibitrice del GABA. Si tratta di un timoregolatore. - Litio: la sua azione è ancora poco conosciuta, potrebbe agire oltre il recettore, a livello dei secondi messaggeri; è un timoregolatore. Dato che ha un indice terapeutico debole, è necessario un monitoraggio mediante esami ematologici e sono possibili le intossicazioni. Di conseguenza il suo impiego è delicato. - Neurolettici a dose antiproduttiva: azione antagonista D2, sono attivi su tutte le vie dopaminergiche, la loro azione anticolinergica ed antistaminica li rende poco utilizzabili nella pratica corrente. - Neurolettici atipici, il più utilizzato oggi in medicina veterinaria è il risperidone; sono degli antagonisti serotoninergici e dopaminergici che hanno azioni diverse a seconda delle regioni cerebrali. Questi trattamenti presentano molti meno effetti negativi dei neurolettici classici e sono quindi affascinanti, anche se molto più cari.

CONCLUSIONE La riflessione condotta al riguardo della chemioterapia del rischio deve consentirci di interrogarci sulle nostre pratiche di prescrizione. Fare una scelta “ragionata” del trattamento farmacologico (anche se i criteri di scelta sono il caso o il costo) consente al prescrittore di inquadrarsi, di informare i proprietari, di gestire gli effetti del trattamento e di prevedere la sua evoluzione (dose, cambiamento, interruzione…). In qualche disturbo realmente “zoopsichiatrico” raro (distimia, sindrome dissociativa), il farmaco rappresenta il solo trattamento e non sembra che gli psicotropi impiegati possano rappresentare uno psicofarmaco efficace a lungo termine. In praticamente tutti gli altri disturbi, il farmaco è uno degli elementi costitutivi di una terapia e la gestione come la assunzione dei rischi sono ripartiti fra i diversi elementi. Bisogna quindi diffidare della ricerca del farmaco “miracolo” anche se talvolta il veterinario ed i proprietari si lasciano trascinare nel gioco.

V/2 Farmaci sconsigliati Alcuni farmaci sono sconsigliati nelle situazioni a rischio (H): - Le sostanze che riducono le inibizioni sociali e gli autocontrolli (benzodiazepina, neurolettici a dosi ridotte, alcuni antidepressivi triciclici (clomipramina) o ISRS a

Bibliografia (D) Stahl S M. Psychopharmacologie essentielle Ed Médecine Sciences Flammarion 4 rue Casimir- Delavigne 75006 Paris première édition française 2002: 601 p.

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(E) Pageat, P., 1995. Pathologie du comportement du chien Editions du Point Vétérinaire, Maisons-Alfort, 368 p. (E) Pageat, P., 1998. Pathologie du comportement du chien Editions du Point Vétérinaire, Maisons-Alfort, 383 p. (F) Overall, K. L., 1997. Clinical Behavioral Medicine for Small Animals Mosby, St-Louis, Missouri. G: Dramard: fluvoxamine chez labrador. H: Dehasse J. Le chien agressif. I: Dodman NH Donelly R. Schuster L. Mertens P Rand W. Miczek K Use of fluoxetine to treat dominance aggression in dogs. Jouranl of the American Veterinary Medical Association. 209 (9): 1585-7, 1996 Nov1. J: Muller G Delteil V. Pharmacological control of aggression and other fear induced behaviors in hospitalised dogs, Mondial d’ethologie Lyon 1999. K: Béata C., Steffan J., King J. Clomipramine dose titration urine spraying in cats, presentation au congrès ESVCE Salsbourg 2003. L: Rapoport J. L., Ryland D. H., Kriete M. Drug treatmeent of canine acral lick, an animal model of obsessive-compulsive Disorder Arch Gen Psychiatry 1992; 49: 517-521. M: Béata C., Steffan J., Peel J. Effect of clomipramine on the activity pattern and urinary retention in cats. N: Mège C., Beaumont-Graff E., Béata C., Diaz C, Habran T., Marlois N.,

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Comportement agressif: éléments de pharmacothérapie Claude Beata Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F D’après un article de Nathalie Marlois, Docteur Vétérinaire Comportementaliste Dipl ENVF • Stabilisant l’humeur • Inhibant l’agressivité et donc rendre un risque acceptable ou gérable • Favorisant les apprentissages… - Risque, il s’agit: • Des risques induits par le changement d’état de l’animal: déstabilisation d’un animal dominant, sûr de lui, et donc augmentation du risque d’agression vulnérante. • Du risque de ne rien faire et donc de voir continuer ou apparaître des comportements pathologiques ou dérangeants: agressions, destructions….

Prendre en charge une situation à risque en consultation de comportement, c’est adopter une stratégie qui dépendra des observations effectuées, des informations acquises jusque-là et de l’évaluation de l’importance des risques par le propriétaire et par le prescripteur. Par le médicament, le prescripteur joue sur l’état du système et tente de restreindre le champ des possibles. Le médicament, s’il est théoriquement présenté comme une béquille, un support, est en pratique souvent pensé en terme de prothèse que ce soit par les propriétaires ou le prescripteur. Mais plus que le médicament lui-même et au delà des recettes qu’on ne peut donner, c’est le cadre dans lequel s’inscrit la prescription pharmacologique qu’il est intéressant d’explorer et d’analyser et c’est ce que nous allons tenter de faire ici.

I/2 Mesure du risque Tout traitement d’un animal à risque ou d’une situation à risque en réfère à 2 questions fondamentales qui sont abordées dans les autres conférences: - Qu’est-ce qu’un risque acceptable? - Comment quantifier, mesurer les risques? Dans les 2 cas, nous devons à la fois utiliser la notion de grand nombre et donc son corollaire, l’idée d’une certaine unité des individus formant la collectivité, mais aussi reconnaître les paramètres individuels de chacun et du système thérapeutique. Face au risque, la rationalité des individus et du groupe dépend de son système de valeur. Il n’est pas toujours possible de mathématiser le risque en donnant un prix à des choses qui n’en ont pas (la vie, le confort, le plaisir…) Dans ce cadre les grilles d’évaluation constituent un outil dont il faut connaître les limites.

I/PRENDRE LE RISQUE DE TRAITER Décider de traiter un animal, c’est en soi prendre un risque: risque de réussir ou d’échec, risque d’effet secondaire, risque inhérent à tout changement.. La particularité de la chimiothérapie, par rapport à la thérapie comportementale, c’est la présence d’un agent externe, d’un médiateur: le médicament. Celui-ci peut être l’objet de tous les espoirs mais aussi accusé de tous les échecs; il demande moins d’investissement ou de remise en cause personnelle hormis en terme de coût et en ce qui concerne l’observance.

I/1 Calculer le rapport bénéfice escompté /risques

I/3 Traiter ou non

Il n’existe pas de traitement sans risque et le but de tout traitement est d’obtenir un bénéfice pour le malade ou le système. Il s’agit donc de maximiser l’utilité espérée du médicament pour obtenir un rapport bénéfice sur risque le plus favorable possible. Cette utilité ne peut s’évaluer que dans le cadre d’un diagnostic et d’un contexte particulier. - Bénéfice escompté: le changement d’état de l’animal suite à la prise du médicament peut permettre la mise en place d’une thérapie comportementale, ou diminuer le risque d’agressions en: • jouant sur les états émotionnels: état anxieux favorisant les agressions par irritation, peur dans les phobies sociales, • Inhibant l’impulsivité, renforçant les autocontrôles

Prendre le risque de traiter, s’est estimer que la balance: bénéfice escompté/risque est en faveur du traitement que l’on va instaurer. Dans certains cas, il peut s’avérer plus prudent de ne pas traiter un chien dangereux dont les propriétaires gèrent de façon assez efficace le risque plutôt que de déstabiliser le système par l’administration d’un médicament et une thérapie comportementale. Lorsque la décision de ne pas traiter est prise, plusieurs solutions existent, elles ne seront pas développées ici: - l’euthanasie - le replacement - le «statu quo», qui n’en est jamais vraiment du fait de la consultation et de ce qui s’y est dit. Aucune des ces solutions n’est sans risque, que ce soit pour l’animal, le groupe familial, le vétérinaire ou la société. 76


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• Voie tubéro-infundibulaire: les neurones situés dans l’hypothalamus envient des projections dans l’hypophyse antérieure. A l’état normal, ils inhibent la libération de prolactine. - GABA: présent dans toutes les zones du cerveau, son apparition est rapide et il a un rôle inhibiteur (d). - Autres: de nombreux autres neurotransmetteurs existent et sont susceptibles de jouer un rôle, (glutamate, peptides, prolactine, hormones thyroïdiennes, sexuelles…) leur apport en pharmacothérapie est faible à l’heure actuelle. Les traitements utilisés pour diminuer l’agressivité vont donc jouer sur ces différents systèmes de neuromédiateurs. Il semble évident que selon le type d’agression différentes zones du cerveau et différents systèmes de neuromédiateurs vont entrer en action. Des études chez le chat (s) ont montrées que l’hypothalamus médian et «midbrain periacqueductal gray» sont les structures principales intervenant dans les agressions défensives, alors que l’hypothalamus latéral «perifornical» intervient dans la prédation, des systèmes de régulation d’intensité existent. Des médiateurs facilitent les agressions défensives: glutamate, substance P, cholecystokinine, les peptides opïoides seraient suppresseurs. L’action du système GABA serait une explication à l’inhibition réciproque observée entre ces deux types d’agression. Ces recherches, qui sont du domaine des neurosciences offriront peut être dans l’avenir de nouvelles perspectives de traitement adaptées au type d’agression en cause.

II/CADRE «THÉORIQUE» DE PRESCRIPTION Le choix d’un traitement pharmacologique dépend bien sûr du cas clinique à traiter mais il est grandement influencé par la «culture» du prescripteur et en particulier, ses modèles. II / 1 Modèle psychopharmacologique Dans ce modèle, une grande importance est donnée aux neuromédiateurs, du moins aux plus connus. Récepteurs et enzymes sont à la fois siège de l’action des médicaments et médiateurs de l’action des maladies. De nombreux troubles comportementaux peuvent être considérés en lien avec des modifications de la neurotransmission synaptique.

II/1-1 Neuromédiateurs Les agressions constituent le plus grand risque à gérer en thérapie comportementale. Même si des lignées de rat peu ou très agressifs ont été sélectionnées sur la base d’un génotype particulier, mettant en avant le rôle des récepteurs dopamine D2 (O), il n’existe ni gène, ni neuromédiateur de l’agressivité. Tous les grands systèmes de neuromédiateurs sont susceptibles d’intervenir dans un comportement agressif: - Noradrénaline: les corps cellulaires des neurones nordadrénergiques sont situés dans le locus ceruleus. Ce dernier joue un rôle important dans le processus d’attention: établissement de priorité, fixation de l’attention. Le système noradrénergique intervient ainsi dans la perception et la réaction à une menace venant de l’environnement ou aux signaux internes de la douleur (d). La manière dont l’attention est dirigée participe à l’apprentissage et à la création des mémoires, éléments intervenants dans les réactions futures. Le système noradrénergique joue un rôle aussi dans la cognition, l’humeur, les émotions la motricité. - Sérotonine: les corps cellulaires des neurones sérotoninergiques sont situés dans le noyau du raphé et se projettent dans différentes zones cérébrales: le cortex, avec un rôle sur l’humeur; les ganglions de la base: contrôle de la motricité, obsessions, compulsions; aires limbiques: anxiété panique. - Dopamine: quatre voies dopaminergiques majeures sont reconnues • Voie mésolimbique: elle établit des projections des corps cellulaires des neurones dopaminergiques du tegmentum ventral vers les terminaisons axonales des aires limbiques comme le noyau accubems. Cette voie jouerait un rôle dans la production d’hallucinations auditives, du délire et des troubles de la pensée chez l’homme. Elle joue aussi un rôle sur l’agressivité et sur le contrôle des vois sérotoninergiques. Elle joue aussi un rôle dans les circuits du renforcement et de la récompense, donc de l’apprentissage • Voie mésocorticale: du tegmentum ventral au cortex limbique, elle est liée à la précédente. Elle joue un rôle dans les cognition • Voie nigro-striée: les corps cellulaires sont dans la substance noire du tronc cérébral et se projette vers les ganglions de la base et le striatum. Elle contrôle la motricité.

II/1-2 Limites du modèle Il est très important, lorsqu’on prescrit un médicament, de bien avoir en tête que l’on se réfère à un modèle:: «les médicaments ne sont que des mulets qui charrient des mécanismes sur leur dos» (d). Il reste encore beaucoup d’inconnues quant aux mécanismes pharmacologiques de certains médicaments de même qu’au niveau des mécanismes pathologiques. De plus les effets cliniques sont parfois différents des effets théoriques (les neuroleptiques atypiques, devraient entraîner une diminution de la sécrétion de la prolactine, ce qui n’est pas le cas de tous, en particulier la risperidone qui peut provoquer des montées de lait.) Des variations individuelles sont très importantes (cytochrome, vulnérabilité…), de plus peu d’études concernent uniquement l’animal de compagnie.

II/2 Mono-poly chimiothérapie Différents «courants» ont existé dans notre discipline; après une période ou certaines associations étaient fréquemment évoquées (ex: anafranil-dipiperon), a suivi une période uniciste. Que peut on raisonnablement envisager à l’heure actuelle? Est-il plus risqué de prescrire une association de médicaments et/ou cela permet-il de mieux gérer les risques, de mieux traiter? Chez l’homme, l’évolution des médicaments vers une plus grande spécificité d’action facilite les associations. Celles-ci, notamment en cas de résistance au traitement ou d’échec sont très fréquentes (association d’antidépresseurs, risperidone+ISRS, carbamazépine+ISRS…). 77


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Le principe est d’utiliser des associations de médicaments sûres et rationnelles, exploitant des synergies moléculaires et pharmacologiques (donc de mécanisme) supposées tout en permettant, si possible, une meilleure tolérance (D). En médecine vétérinaire les publications sur l’intérêt des associations font défaut. En pratique, dans une association: - on recherche: • Une synergie • Une complémentarité: 1+1=10 • Une diminution des effets secondaires1+1 = 0 - on risque: • Une augmentation des effets secondaires, une toxicité • Une inefficacité Le système enzymatique cytochrome P450 (CYP450) a un rôle clef dans la pharmacocinétique des psychotropes eu niveau du foie et de l’intestin(D). Chez l’homme, un polymorphisme de ce système a été observé, il est très probable en soit de même chez l’animal. Malgré de nombreuses inconnues, il semble intéressant de tenir compte de la théorie. Les psychotropes peuvent être substrat, inhibiteurs ou inducteurs des enzymes du CYP450, exemples: - CYP450 1A2: bloquée par les ISRS, en particulier fluvaxamine: ils réduisent l’efficacité de médicaments métabolisés par la 1A2 lors l’administration conjointe (théophylline, caféine, certains neuroleptiques atypiques) avec risque de toxicité. - CYP450 2D6: les antidepresseurs tricycliques sont des substrats de la 2D6, les ISRS des inhibiteurs (en particulier la paroxétine et la fluoxétine). Leur administration concomitante ou lors de changement d’un ATC pour un ISRS va donc augmenter les taux d’ATC éventuellement jusqu’au niveau toxique. - CYP450 3A4: l’administration d’un substrat (benzodiazépine) avec un inhibiteur 3A4 (fluoxétine, fluvoxamine) va augmenter le taux du substrat. - La carbamazépine est substrat et inducteur (augmente l’activité de l’enzyme au-delà de son activité physiologique en induisant de nombreuses copies de l’enzyme) 3A4; lors d’un traitement chronique, il y a induction enzymatique et chute des taux plasmatiques nécessitant d’augmenter la dose. En pratique, les associations doivent être envisagées selon des critères pharmacologiques, mais l’expérience clinique est primordiale pour juger de leur utilité et de leurs risques. Il faut cependant veiller à ne pas essayer de cacher nos insuffisances en terme de thérapie par une surenchère pharmacologique. Les associations les plus couramment pratiquées (E,H) sont: - acétate de cyproterone systématiquement associé à la carbamazépine - pipamperone, systématiquement associée à la clomipramine ou à la fluvoxamine J. Dehasse (H) utilise avec satisfaction des association en principe non recommandées, comme sélégiline avec fluvoxamine ou carbamazépine. Des études sur des grands nombres seraient utiles pour juger de l’innocuité.

sibles. Voici quelques exemples qui peuvent être utiles en cas d’agressivité: Agression défensive: clomipramine, fluoxétine, fluvoxamine, selegiline Agression par douleur: alprazolam, amitryptiline Agression hiérarchiques: carbamazépine, fluoxétine, fluvoxamine Hyperagression primaire: fluoxétine, fluvoxamine Agression offensive: carbamazépine, fluoxétine, fluvoxamine Agression sexuelle: cyproterone Cette présentation est assez simple à utiliser, et, consciemment ou non, nous l’utilisons tous plus ou moins. L’utiliser comme modèle, me paraît plus risqué. Chaque psychotrope correspond à plusieurs symptômes et inversement. Chez l’homme, jusqu’à présent, la recherche de sous-types pathologiques en relation avec la réponse à des traitements a été le plus souvent infructueuse. Un essai a été fait avec le chien dans le HS/HA (E): type 1 répondant mieux à la sélégiline, type 2 aux ISRS, la réalité clinique de ces subdivisions et de leur réponse au traitement ne semble pas évidente. La simplification extrême de ce modèle, ne nous permet pas d’appréhender les facteurs qui sous tendent le choix d’un psychotrope, d’une association, ainsi que les modalités d’action du psychotrope. De ce fait, cela limite les possibilités de recherche, de compréhension des mécanismes et d’avancement de la discipline. C’est sans doute cliniquement efficient mais la part de l’expérience des chefs de file proposant le tableau devient prépondérante dans les choix.

III/INFLUENCE DE L’EXPÉRIENCE CLINIQUE Elle peut se concevoir à différents niveaux:

III/1 Bibliographie Les études publiées sur les psychotropes, en particulier contre placebo et dans l’agressivité chez le chien et le chat sont rares. Les facteurs éthiques, de risque pour la santé humaine en cas d’agression sont à prendre en compte, de plus, le nombre des animaux inclus dans les études est souvent faible. Enfin, les médicaments à usage vétérinaire sont peu nombreux et les AMM ne couvrent pas toutes les indications. Dans une étude concernant 9 chiens (ce qui est très faible), la fluoxétine administrée à 1mg/Kg contre placebo a montré une réduction significative des agressions de dominance dirigées contre les propriétaires (I). Une étude de G Muller (J) montre l’efficacité de l’azaperone contre placebo dans la gestion des animaux hospitalisés, en particulier en ce qui concerne les agressions, diminuant ainsi les risques lors de manipulation par le personnel de la clinique. C. Béata (K) a présenté à Salsbourg une étude sur la clomipramine dans le marquage chez le chat. Dans les effets annexes sur le comportement sont noté une diminution des

II/3 Modèle symptomatologique Joël Dehasse (H) a développé un modèle symptomatologique qui associe, à des symptômes des psychotropes pos78


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comportements d’agression sur les congénères. En pratique, la plupart des praticiens établissent leur prescription en fonction de ce qui est transmis par les chefs de file (E,F,H) de l’école à laquelle ils appartiennent. Il est évident qu’en terme de responsabilité, de prise de risque il est essentiel de pouvoir se référer à l’expérience de spécialistes reconnus.

efficace à 100% chez tous les individus et que l’effet placebo est une réalité. Une étude contre placebo sur la clomipramine administrée à la dose de 1,5mg/kg 2 fois par jour chez 28 chiens stérilisés, n’a pas montré une efficacité supérieure au placebo sur des agressions de dominance sur des membres de la famille (q). Une autre étude ® a montré l’absence de différence significative entre des patients présentant des conduites agressives traités par une thérapie comportementale uniquement et ceux recevant, en plus, de l’amiptriptyline (antidépresseur tricyclique) à 2mg/kg 2 f/j. L’exploitation de ces études pose le problème des définitions des agressions et de leur classification nosographique. De nombreux médicaments humains sont utilisés chez l’animal, souvent par approximation et peu de données sont présentées chez l’animal. Pour d’autres les études ont lieu sur des animaux de laboratoire, comme l’étude de Rilke (p) montrant l’inefficacité du citalopram chez le rat dans des agressions contre intrus. En ce qui concerne les médicaments vétérinaires, les dossiers d’AMM présentent des études sur des indications précises (clomicalm® et anxiété de séparation), puis c’est l’usage qui fera que le traitement sera utilisé dans de nombreuses autres indications (autres troubles anxieux, troubles cognitifs, marquage urinaire…). Les comparaisons entre deux médicaments sont peu nombreuses (ex: L) et ne concernent en général pas des situations à risque.

III/2 Expérience personnelle Malgré les pistes données par les plus expérimentés d’entre nous, chacun est amené à se forger sa propre expérience. Parmi les prescripteurs de nombreuses attitudes existent: les explorateurs, avides de s’essayer à de nouveau traitements, nouvelles associations ou doses, les prudents qui s’en tiennent aux traitements largement répandus. Chaque attitude présente des avantages et des inconvénients, des risques aussi. - l’expérience permet d’acquérir l’habitude de certains médicaments, cela permet de mieux les présenter aux propriétaires: effets secondaires, effets attendus, utilisation, réglage des doses, tous ces éléments facilitent l’alliance thérapeutique et donnent un certain confort au prescripteur. - Le prescripteur peut s’essayer à des nouveautés: • Par référence à ce qui se fait chez l’homme, parce qu’il a, à sa disposition, des échantillons… • Parce que les réponses aux traitements classiques sont «insatisfaisantes» • Par goût du risque ou lassitude de la routine Peu d’entre nous voient suffisamment de cas pour avoir des conclusions interprétables, il faut donc être prudent et ne pas: - tirer des conclusions générales de cas particuliers en terme • d’efficacité • d’effets secondaires: _ un effet secondaire décrit mais jamais rencontré finit par être «oublié» et les propriétaires ne reçoivent plus l’information _ un effet secondaire rare qui arrive dès la première utilisation peut faire abandonner un traitement par ailleurs intéressant - engager sa responsabilité dans des traitements difficiles à justifier en cas de problème.

IV/2 Facteurs externes au médicament Il est important de rappeler que la prescription d’un médicament se fait dans le cadre d’un diagnostic. Cette partie n’est pas développée ici, mais il est difficile de parler de risque, d’agressivité sans faire abstraction du contexte. De nombreux facteurs vont influencer l’efficacité du médicament et l’appréciation des résultats: - l’animal: sa physiologie, sa génétique, sa vulnérabilité sont des facteurs dont il faudrait pouvoir tenir compte mais qui sont difficiles à appréhender. - Le propriétaire: l’observance du traitement est un premier facteur, les surprises sont fréquentes (animal amélioré mais qui n’a pas reçu le traitement), subjectivité des appréciations: animal perçu comme amélioré mais si le vétérinaire analyse la situation: pas de modification, effets secondaires des placebos… - Le vétérinaire: subjectivité de l’appréciation: observation des effets dans un cadre prédéfini qui influence la vision des choses. Les grilles, malgré leur défaut peuvent constituer une balance à cette subjectivité - Autres prescriptions: la thérapie comportementale, à de rares exceptions près (dysthymie, syndrome dissociatif) est un élément fondamental du traitement. Dans les essais elle est en général présente mais il est difficile d’en tenir compte. L’association judicieuse de la chimiothérapie à la thérapie comportementale est un élément important de réussite.

Les essais sont indispensables pour faire avancer les traitements, les psychotropes humains sont en constante évolution et il serait dommage que notre discipline n’en profite pas. La création d’un observatoire de chimiothérapie serait certainement un plus pour notre profession en réunissant les données trop disséminées à l’heure actuelle.

IV/EFFICACITÉ DES TRAITEMENTS Le manque d’études cliniques vétérinaire constitue un réel handicap, nous l’avons déjà évoqué.

IV/1 Etudes

IV/3 Existe-t-il une camisole chimique possible chez l’animal?

Les études contre placebo sont rares (I), en particulier quand une dangerosité doit être prise en compte. Il est important de ne jamais oublié qu’aucun médicament n’est

C’est une question à laquelle il est très difficile de répondre. 79


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Les médicaments utilisés pour pratiquer l’euthanasie constituent certainement une camisole efficace et définitive. P Pageat (E) présente l’association tiapride + dipiperon comme susceptible de «supprimer les morsures» chez des sociopathes instrumentalisés, l’association sultopride + pipamperone permettant une «suppression immédiate de toutes les agressions». L’utilisation de neuroleptiques à haute dose permet sans doute de rendre l’animal moins réactif, voir stuporeux, mais les apprentissages sont réputés difficiles voir impossibles sous ce type de traitement: que peuton dire sur l’évolution à long terme des chiens ainsi traités? Peut-on parler réellement de suppressions des agressions? A l’heure actuelle les médicaments les plus utilisés en pratique courante et présentés ci-dessous permettent, lorsque utilisés à dose adéquate une réduction du risque agressif, ils ne peuvent pas être considérés comme des camisoles chimiques. Ces considérations doivent nous inciter à la prudence, le médicament est un des éléments important qui permettent de réduire les risques mais il n’est pas le seul. La thérapie comportementale, la reconnaissance et la prévention des situations à risques ne doivent jamais être oubliées.

V/2 Médicaments déconseillés

V/LES MÉDICAMENTS EN PRATIQUE COURANTE

V/3 Effets secondaires

Certains médicaments sont déconseillés dans des situations à risque (H): - Les substances qui réduisent les inhibitions sociales et autocontrôles (benzodiazépine, neuroleptiques à faible dose, certains antidépresseurs tricycliques (clomipramine)ou ISRS à faible dose, barbituriques à faible dose (phenobarbital), trioxazine - Les substances qui augmentent la vigilance, la sensibilité, la réactivité et l’activité: la miansérine, buspirone, hormones - Les substances induisant une confusion mentale et réduisant la régulation comportementale: doses sédatives de neuroleptiques, substances à action anticholinergique chez le chien âgé (clomipramine), barbituriques à forte dose. L’utilisation de ces traitements dans des situations à risque pourrait engager la responsabilité du praticien. Pourtant, la réalité de certaines des ces contre indications n’est pas tout à fait établie. Dans l’étude sur la clomipramine (k) aucune modification du comportement d’agression vis à vis des maîtres n’a été noté, même à faible dose. L’étude de cohortes importantes serait une nécessité pour évaluer ces risques.

Les données statistiques font aussi défaut et les conseils donnés aux propriétaires découlent souvent de données extrapolées des données humaines, associées à l’expérience des prescripteurs. Il est donc nécessaire de préciser sur des grands effectifs les effets secondaires, cela pourrait être le rôle d’un observatoire pharmacologique. Les effets secondaires ne semblent pas toujours doses dépendants: exemple de la fluoxétine dont les effets secondaires chez les grands chiens semblent apparaître avec des doses moindres rapportées au poids). D’autres effets mériteraient d’être documentés comme les troubles hépatiques induits par des traitements longue durée à la carbamazépine. L’étude de ces effets permettrait sans doute de mieux prescrire, de mieux adapter les doses, de construire une meilleure alliance thérapeutique avec les propriétaires.

V/1 Médicaments les plus utilisés pour diminuer un risque agressif - Propanolol bêta bloquant, action noradrénergique - A tricyclique: clomipramine action noradrénergique et sérotoninergique - ISRS: 5 «classiques» de la même famille, n’ayant cependant pas tout à fait les mêmes activités (d). Une différence d’action semble décrite par de nombreux utilisateurs, la fluoxétine semble avoir l’action la plus rapide et la plus constante sur l’impulsivité. La fluvoxamine aurait une action sur les agressions mais peut être plus lente (2 mois dans des cas de HS/HA: Dehasse 1999), son dosage doit être ajusté fréquemment et peut atteindre 20 mg/kg (G) - Carbamazépine: en interférant avec les ion Na et K, elle semble augmenter l’action inhibitrice du GABA. Il s’agit d’un thymorégulateur - Lithium: son action est encore mal connue, il pourrait agir au delà du récepteur, au niveau des seconds messagers; c’est un thymorégulateur. Son index thérapeutique faible nécessite une surveillance sanguine et les intoxications sont possibles. Son emploi est donc délicat. - Neuroleptiques à dose antiproductive: action antagoniste D2, ils sont actifs sur toutes les voies dopaminergiques, leur action anticholinergique et antihistaminique les rendent peu utilisables en pratique courante. - Neuroleptiques atypiques, le plus utilisé à l’heure actuelle en médecine vétérinaire est la risperidone: ce sont des antagonistes sérotoninergique et dopaminergiques qui ont des actions différentes selon les régions cérébrales. Ces traitements présentent beaucoup moins d’effets néfastes que les neuroleptiques classiques et sont donc séduisants bien que beaucoup plus chers.

CONCLUSION La réflexion menée autour de la chimiothérapie du risque doit nous permettre de nous interroger sur nos pratiques de prescription. Faire un choix «raisonné» du traitement pharmacologique (même si les critères de choix sont le hasard ou le coût) permet au prescripteur de se situer, d’informer les propriétaires, de gérer les effets du traitement et d’envisager son évolution (dose, changement, arrêt…). Dans quelques troubles réellement «zoopsychiatriques» rares (dysthymie, syndrome dissociatif), le médicament constitue le seul traitement et il ne semble pas que les psychotropes employés puissent constituer une camisole chimique efficace à long terme. Dans pratiquement tous les autres troubles, le médicament est un des éléments constitutifs d’une thérapie et la gestion ainsi que la prise de risques sont réparties entre les différents éléments. Il faut donc se 80


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méfier de la recherche du médicament «miracle» même si parfois le vétérinaire et les propriétaires se laissent prendre au jeu.

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Efficacia di Amitraz in una formulazione spot-on nel trattamento delle diverse forme cliniche di demodicosi canina Massimo Beccati Med Vet, PhD, Torino

Laura H. Kramer Med Vet, PhD, Dipl EVPC, Parma

INTRODUZIONE

ri hanno riportato l’efficacia di Amitraz spot-on per il trattamento di cani infetti con Demodex canis e Sarcoptes scabiei. Nel caso della demodicosi generalizzata, gli autori riportano che la somministrazione ogni 15 giorni risulta nella rapida riduzione del numero di acari e la guarigione clinica/parassitologia del 63% dei cani dopo tre mesi. La somministrazione mensile, invece, risulta nella guarigione del 43% dei cani. Qui, gli autori valutano, in due distinte esperienze in vivo, l’utilizzo e la risposta a due protocolli terapeutici, della formulazione spot-on di amitraz plus Metaflumizone (ProMeris Duo® ) in cani affetti da demodicosi.

La demodicosi canina è causata dalla proliferazione di acari commensali del Genere Demodex (D. canis, D. injai, D. non classificato “corto”)?. Clinicamente, la demodicosi del cane è caratterizzata da alopecia focale o multifocale non pruriginosa spesso aggravata da papule follicolari, eritema, pustole e croste, iperpigmentazione, comedoni. Le lesioni possono essere focali, soprattutto al muso nella forma localizzata mentre colpire zone più diffuse del corpo, della forma di demodicosi generalizzata (DG). È noto da tempo che alcune linee famigliari di cane sono predisposte alla demodicosi generalizzata ad insorgenza giovanile, e la stragrande maggioranza dei cani affetti sono di razza pura. Tuttavia, nonostante siano passati 30 anni, non si conosce ancora il meccanismo immuno-patogenetico che porta alla generalizzazione dell’infezione. La diagnosi viene formulata mediante raschiati profondi o tricogramma. Secondo molti, la demodicosi localizzata giovanile si risolve spontaneamente nel 90% dei pazienti e di solito la terapia acaricida non è necessaria, tuttavia va ricordato che circa il 10-20% dei casi recidiva o evolve nella forma generalizzata. Quest’ultima per contro, richiede un trattamento prolungato nel tempo, con il rischio di recidive. Diversi farmaci e protocolli terapeutici sono stati proposti per il trattamento della demodicosi nel cane. L’applicazione topica di Amitraz sotto forma di spugnature, una volta ogni 7-15 giorni (soluzione dallo 0,025-0,06%), l’Ivermectina a 300-600 µg/kg die PO, la Milbemicina a 1-3 mg/kg die PO, o la Moxidectina a 400 µg/kg die PO sono stati tutti dimostrati efficaci nel trattamento della DG. Solo l’Amitraz e la Milbemicima ossima sono registrati per l’uso specifico, mentre l’utilizzo delle altre molecole permane “off-label”. Recentemente la moxidectina in formulazione spot-on è stata registrata per la terapia della DG (Advocate® ). Una nuova formulazione spot-on di Amitraz (associato al Metaflumizone, entrambi a 20 mg/kg, ProMeris Duo®) è attualmente registrata per la prevenzione/trattamento delle infestazioni da pulci e da zecche nei cani. Il prodotto è anche indicato come parte della strategia di trattamento per la dermatite allergica da pulci (DAP). Recentemente, alcuni auto-

MATERIALI E METODI A. Protocollo con applicazione bi – mensile 24 cuccioli suddivisibili in 16 femmine e 8 maschi con un range di età di 3-10 mesi, comprendente diverse razze (tuttavia segnaliamo che 10/24 erano di Razza Carlino ) sono stati trattati per demodicosi . 18/24 affetti dalla forma multifocale generalizzata mentre 6/24 con distribuzione localizzata ma in fase evolutiva. In nessuno dei pazienti abbiamo ritenuto necessaria la terapia antibiotica di supporto. Per escludere l’influenza di una compliance negativa relativa all’applicazione del prodotto da parte del proprietario, abbiamo applicato Noi il prodotto ogni 15 giorni metodica che ci ha permesso di seguire l’evolversi della patologia costantemente . Il prodotto è stato applicato partendo dalle aree lesionate e non dal routinario spazio interscapolare. I cani sono stati statisticamente valutati dopo 4 somministrazioni (2 mesi di terapia), evidenziando un netto miglioramento clinico/parassitologico (lesioni / numero e vitalità parassitaria). In nessun caso si sono avute sovra crescite batteriche o da Malassezia spp. In 12/24 (50%) dei casi, abbiamo considerato guariti dopo due mesi di terapia (6/6 della forma localizzata). In tutti i cani considerati guariti (22/24 in un range di trattamento di 2-4 mesi), abbiamo continuato il trattamento per altri due mesi oltre la guarigione clinico/parassitaria. 82


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principio attivo permane fino a 54 giorni dalla somministrazione. Il limite di questo studio, tuttavia, è la mancanza di dati per quanto riguarda la concentrazione del principio attivo a livello podale, zona spesso implicata nella cronicizzazione dell’infezione. In conclusione, la somministrazione mensile/bi-mensile della formulazione spot-on di amitraz plus Metaflumizone (ProMeris Duo®) risulta sicura ed efficacia per il trattamento di cani affetti da demodicosi.

In 16/24 si sono avuti effetti secondari transitori come: depressione del sensorio, letargia, inappetenza. 2/24 hanno dovuto sospendere il trattamento per intolleranza al farmaco .

B. Protocollo con applicazione mensile 32 cani affetti da DG (di insorgenza giovanile/adulta) hanno partecipato in uno studio doppio cieco randomizzato controllato con Advocate®. Il farmaco (22 cani = amitraz; 10 cani = moxidectina) è stato somministrato una volta ogni 28±3 giorni per un massimo di 6 mesi. I cani sono stati osservati clinicamente una volta al mese per la valutazione di lesioni associate a Demodex e per la conta degli acari. I cani trattati con amitraz spot-on hanno dimostrato una riduzione del numero di acari pari al 90% al giorno 56 (dopo due sole somministrazioni) e al 98,6% a fine studio (giorno 168). Lo score delle lesioni cutanee è diminuito significativamente nei cani trattati con amitraz spot-on a partire dal giorno 54. Nella valutazione finale della guarigione, miglioramento o non-risposta al trattamento, 94,4% dei cani trattati con amitraz spot-on sono guariti e 5,6 sono migliorati (vs. rispettivamente il 62,5% e il 12,5% dei cani trattati con moxidectina). Il trattamento è stato ben tollerato da tutti i cani.

Bibliografia essenziale Mueller RS Treatment protocols for demodicosis: an evidence-based review Veterinary Dermatology 2004, 15:75-89. Heine J, et al: Evaluation of the efficacy and safety of imidacloprid 10% plus moxidectin 2.5% spot-on in the treatment of generalized demodicosis in dogs: results of a European field study. Parasitology Research, 2005, 97:S89-96. Fourie LJ, et al. Efficacy of a novel formulation of metaflumizone plus amitraz for the treatment of sarcoptic mange in dogs. Vet Parasitol. 2007, 15;150(3):275-81. Fourie LJ, et al. Efficacy of a novel formulation of metaflumizone plus amitraz for the treatment of demodectic mange in dogs. Vet Parasitol. 2007, 150(3):268-74. DeLay RL Pharmacokinetics of metaflumizone and amitraz in the plasma and hair of dogs following topical application. 2007, Vet Par 150: 251-257. N.A. McEwan. Diagnosis and treatment of canine demodicosis. Atti congessuali “6 World congress of veterinary dermatology. Hong Kong, 19-22 Novembre 2008. M. Beccati. Esperienze personali sull’uso di Amitraz+mataflumizone spot on nella terapia e gestione della demodicosi canina giovanile. Atti congressuali: Congresso nazionale AIVPA, Modena 11-12, Ottobre 2008. D.J. DeBoer. Treatments for demodicosis: old and new. Atti congressuali: “Workshop on Dermatological therapy “ Cuneo , Maggio 2008. L.J. Fourie et al .Efficacy of a novel formulation of metaflumizone plus amitraz for treatment of demodectic and sarcoptic mange in dog. Atti congessuali 32° Congress WSAVA Sidney 2007.

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI L’amitraz è una insetticida/acaricida del gruppo dei formamidine, inibitori della monoaminossidasi ed agonisti 〈2adrenergici. Quando applicato sotto forma di spugnature, una volta ogni 7-15 giorni, è efficace contro la demodicosi generalizzata in circa 70% dei casi (guarigione parassitologia/clinica, comprese le forme ad insorgenza in età adulta. L’amitraz è fra i prinicipi di prima scelta per la demodicosi canina. Nonostante la recente registrazione di una formulazione spot-on contenente moxidectina, i dati sull’efficacia sono ancora pochi. Tuttavia, l’interesse nelle formulazioni spoton per la terapia delle demodicosi canina è sicuramente forte. Da un lato, lo spot-on è meno difficile da somministrare delle spugnature tradizionali, aumentando l’owner-compliance. Dall’altro, potrebbe rappresentare un’alternativa valida all’uso improprio dei lattoni macrociclici. Recentemente, è stata valutata la farmaco-cinetica della formulazione spot-on utilizzato nel presente studio. Gli autori riportano che i livelli plasmatici di amitraz rimangono molti bassi, mentre il farmaco si diffonde rapidamente su tutta la superficie corporea e raggiunge i massimi livelli sul pelo/sulla cute dopo circa 7 giorni dalla somministrazione. Il

Indirizzo per la corrispondenza: Massimo Beccati C.M.V “Adda”, Capriate San Gervasio (Bg) Dipt. Produzioni animali, Epidemiologia, Ecologia. Sez. Parassitologia, Università degli Studi di Torino, Via L. da Vinci 44 Grugliasco, 10095 Torino Laura H. Kramer Dipt. di Salute Animale, Università degli Studi di Parma, Via del Taglio 10, 43100 Parma, Italy Tel: +39 0521 032715, E-mail: kramerlh@unipr.it

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Lo stato dell’arte della Chlamydosi aviare: alcuni come e perchè Marco Bedin Med Vet, PhD student, Monselice (PD)

CENNI DI BIOLOGIA DI CHLAMYDOPHILA

uccelli infetti e la manipolazione di colture deve essere effettuato sotto cappa a flusso laminare o con materiale protettivo idoneo. Il periodo di incubazione è di 5-14 giorni anche se è possibile un periodo di incubazione maggiore. Le infezioni nell’uomo variano da in apparenti a patologie sistemiche con polmonite interstiziale ed encefalite. La malattia è raramente fatale nei pazienti adeguatamente trattati anche se la prevenzione e la terapia precoce sono molto importanti per ridurre i rischi. Le persone infettate manifestano tipicamente • mal di testa • tremori (brividi) • malessere • mialgia con o senza segni respiratori Il coinvolgimento polmonare è comune anche se i reperti auscultatori possono sembrare normali portando a sottostimare l’entità del problema. La diagnosi può essere difficile e si basa sulla comparazione di due differenti determinazioni del titolo anticorpale per Chlamydia mediante il test di fissazione del complemento. Negli umani la terapia d’elezione consiste nella somministrazione di tetraciclina, doxiciclina e azitromicina. La durata del trattamento varia a seconda del farmaco impiegato, ma deve essere continuata per almeno 14 giorni per le tetracicline. Tradizionalmente la terapia in corso di Clamydiosi aviare, anche nelle specie da compagnia, si protrae per 42 giorni con somministrazione del farmaco PO o IM. Le terapie nell’acqua da bere, se non per allevamenti e collezioni di grosse dimensioni, dovrebbero essere per lo più evitate per l’impossibilità di garantire adeguati livelli terapeutici del farmaco. Recentemente alcuni ricercatori Statunitensi hanno pubblicato uno studio secondo il quale è sufficiente una terapia per soli 21 giorni.

Chlamydophila è un batterio intracellulare obbligato che possiede un envelope simile a quello dei batteri gram negativi. Possiede sia DNA che RNA, ma non é in grado di produrre energia necessaria alla replicazione cellulare per cui il suo metabolismo dipende dalla cellula ospite. Chlamydophila ha un ciclo vitale bifasico ed esiste in due forme: • I Corpi elementari (CE) sono particelle in grado di vivere in ambiente extracellulare, infettanti ma non in grado di moltiplicarsi. Sono eliminati con le feci, secrezioni oculo-nasali e con le urine degli animali infetti. Questi vengono ingeriti o inalati da un nuovo ospite, penetrano così nelle cellule epiteliali dove formano un endosoma citoplasmatico. • I Corpi reticolari (CR) si formano all’interno delle cellule e diventano metabolicamente attivi e sono in grado di moltiplicarsi per fissione binaria. Non sono però in grado di vivere al di fuori della cellula ne di infettare altre cellule e tanto meno altri individui. La famiglia delle Chlamydiaceae è stata recentemente riclassificata in due generi e nove specie in base all’analisi sequenziale dei geni del loro RNA 16S e 23S. I due “nuovi” (dal 2000) generi sono Chlamydia e Chlamydophila. • Il genere Chlamydia include C. trachomatis (uomo), C. suis (suino) e C. muridarum (topo, criceto). • Il genere Chlamydophila include C. psittaci (uccelli), C. felis (gatto), C. abortus (pecora, capra e bovini), C. caviae (Cavia), C. pecorum (pecora e bestiame) e C. pneumonia (uomo). I ceppi aviari appartengono tutti alla specie Chlamydophila psittaci. Questa specie comprende 6 sierovarianti aviarie note e 2 sierovarianti dei mammiferi M56 e WC ogni una isolata in una singola epidemia. Le sierovarianti aviarie prendono il nome da A sino ad F e ogni una mostra specificità d’ospite. Gli ospiti associati alle varie sierovarianti sono: • A (psittaciformi) • B (piccioni) • C (anatre e oche) • D (tacchini) • E (piccioni e ratiti) • F (psittaciformi) Quello che non è dato sapere è quale tra questi uccelli e mammiferi è l’ospite naturale delle differenti sierovarianti. I ceppi di Chlamydia aviari che possono infettare l’uomo devono essere maneggiati con cautela. Molte infezioni avvengono per via inalatoria. L’esame post mortem degli

LA CHLAMYDIOSI NELLE DIVERSE SPECIE AVIARIE La Chlamydiosi Aviare (AC) è causata da un batterio Chlamydophila psittaci, che colpisce gli uomini e gli uccelli e venne originariamente chiamata Psittacosi. Successivamente fu introdotto il termine Ornitosi per identificare la malattia contratta anatre selvatiche e domestiche. Le due sindromi sono oggi giorno considerate la stessa patologia. La loro precedente separazione fu basata sul fatto che l’ornitosi era una patologie più lieve rispetto alla psittacosi. In ogni caso bisogna tenere ben presente che la malattia negli uomini contratta da tacchini e anatre è spesso più grave di quella 84


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sono manifestare una diarrea giallo verdastra. Nei tacchini sono state descritte anche delle patologie articolari (artriti) legate all’infezione da Chlamydia psittaci. Le lesioni caratteristiche evidenti alla necroscopia negli uccelli infettati dal ceppo virulento includono epato e splenomegalia e la presenza di un essudato fibrinoso o fibrinopurulento sulle superfici respiratorie, peritoneali e pericardiche. Le lesioni possono includere sinusiti, tracheiti, aerosacculiti, polmoniti ed enteriti. La polmonite si evidenzia solo in soggetti che muoiono per l’infezione. Le lesioni negli uccelli infetti con il ceppo a bassa virulenza sono simili, ma non sono così estese o gravi. La Chlamydiosi nella anatre è importante sia dal punto di vista economico che dal punto di vista della salute pubblica in alcune regioni del mondo, specialmente nel Sud Est Asiatico. La malattia è solitamente grave con morbilità dell’80% a una mortalità che oscilla tra 0-40% a seconda dell’età delle anatre e dalla presenza di patologie concomitanti. I segni clinici includono • tremori della testa • instabilità • congiuntiviti • secrezioni nasali siero purulente • depressione e morte

contratta da psittaciformi. Chlamydophila psittaci determina una malattia sistemica e occasionalmente fatale negli uccelli. I segni clinici variano altamente per gravità e dipendono dalla specie considerata, dall’età dell’animale e dal ceppo di chlamydia considerata. AC può determinare: • letargia, • ipertermia, • aumento delle secrezioni, • scolo nasale e • oculare e • diminuzione nella produzione delle uova. Il tasso di mortalità può variare altamente. Negli uccelli da compagnia i segni clinici più comuni sono • anoressia e perdita di peso • diarrea • urati giallastri • sinusiti • congiuntiviti • biliverdinuria • scolo nasale • sternuti • lacrimazione • distress respiratorio

• • • •

Molti uccelli, specialmente gli psittaciformi più anziani, possono non manifestare alcun segno clinico anche se possono comunque eliminare l’agente per lunghi periodi di tempo. Le necroscopie degli uccelli deceduti in seguito a Chlamydiosi spesso mostrano: • aumento di volume di milza e fegato • aerosacculite fibrinosa • pericardite • peritonite

Alla necroscopia sono reperti comuni: splenomegalia necrosi focale del fegato polisierosite fibrinosa polmoniti

Negli ultimi anni, è stata scoperta una forma di media entità in cui i segni clinici sono minimi o assenti e la mortalità è associata solo allo stress per la manipolazione o ad altre malattie. L’infezione nell’uomo avviene per manipolazione di soggetti clinicamente sani e in apparentemente infetti. La chlamydiosi negli struzzi e nei ratiti è stata descritta in molte parti del mondo. L’unico sierotipo che è stato isolato in queste specie è il serovar E, che è stato isolato anche dai piccioni, anatre e uomo. Il suo reservoir sembrano essere i piccioni selvatici e gli altri uccelli selvatici. I ratiti infatti sono solitamente stabulati all’esterno dove è più facile venire a contatto con uccelli selvatici. La chlamydiosi colpisce solitamente i giovani soggetti, ma può colpire anche gli adulti. Si manifesta solitamente in forma molto acuta e con un elevato tasso di mortalità; Data quindi la possibilità di contagio all’uomo questi uccelli e gli uccelli selvatici devono essere manipolati con attenzione e accortezza.

Le lesioni istologiche non sono patognomoniche a meno che non sia identificabile la presenza di chlamydia. La gravità dell’infezione nei tacchini, come in altre specie, dipende dai ceppi di chlamydia e dalla concomitante presenza di altre malattie. I ceppi del serovar D sono solitamente i più gravi e potenzialmente pericolosi per i tecnici che lavorano con il pollame. Al culmine di una epidemia, in un allevamento infetto con il serovar D, il 50-80% degli uccelli possono mostrare segni clinici di malattia e il tasso di mortalità si attesta su livelli del 10-30%. Nei tacchini da carne, la mortalità può superare l’80%. I ceppi di altri serovar come i serovar B ed E hanno un tasso di morbilità del 5-20% e di mortalità inferiore al 5%. I segni clinici e le lesioni necroscopiche variano fortemente. I tacchini infetti con il ceppo altamente virulento mostrano cachessia, anoressia e temperatura elevata. Gli uccelli eliminano deiezioni giallo verdastre. Nelle femmine in ovideposizione, l’ovideposizione si riduce drasticamente e rimane bassa fino a quando non si ha guarigione completa. Nei tacchini da carne, è stata descritta una sindrome respiratoria con le caratteristiche di una rinotracheite. I segni incudono congiuntivite, gonfiore dei seni infraorbitali e sternuti. Nei tacchini infetti con ceppi a basa virulenza i segni clinici sono meno gravi e includono prevalentemente anoressia ed alcuni soggetti che pos-

TECNICHE DIAGNOSTICHE Il metodo migliore per l’identificazione della Chlamydiosi aviare è l’isolamento e l’identificazione dell’organismo. Per il tempo necessario, l’elevata qualità di campioni necessari e i pericoli per il personale di laboratorio, sono spesso usate altre tecniche. Queste includono le colorazioni istochimiche di essudati e feci, e vetrini per impressione dai tessuti, colorazioni istochimiche di citologici ed istologici, ricerche antigeniche ELISA (enzyme-linked immunosorbent 85


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disponibili sono la fissazione del complemento, l’agglutinazione dei corpi elementari e l’IFA. I test per determinare la presenza degli organismi negli uccelli in vita comprendono la coltura, l’ELISA e la PCR. I test che individuano la presenza dell’organismo in una delle porte di uscita (coana o cloaca) sono molto utili in uccelli con segni clinici che possono fare sospettare l’eliminazione di chlamydia. La sierologia è migliore per determinare se l’uccello è stato precedentemente infettato, per confermare una infezione attiva quando vengono esaminati una coppia di campioni o per supportare la probabilità di una infezione quando una determinazione per la ricerca di chlamydia è risultata positiva. Negli uccelli clinicamente ammalati, i risultati dei test sierologici ed antigenici risultati devono essere interpretati con le debite considerazioni dell’aumento dei globuli bianchi e degli enzimi epatici. Un singolo test sierologico positivo indica che è stato infettato da clamidia psittaci nel recente passato immunologico, ma non indica che l’uccello sia infetto in modo attivo. Una infezione attiva può essere diagnosticata solo in caso di aumento del titolo anticorpale di almeno 4 volte rispetto alla determinazione precedente e in caso di risultato positivo del test antigenico e del test anticorpale. La sierologia è di limitato valore durante le prime fasi di una infezione quando un uccello potrebbe essere ammalato ed eliminare l’organismo ma sierologicamente negativo. Il trattamento può ridurre la risposta anticorpale. In alcuni casi, la chlamydiosi può essere diagnosticata mediante la colorazione con macchiavello o giemsa delle cellule congiuntivali o nasali. Attualmente, non ci sono test che possono essere usati per confermare che un uccello non ha una infezione da chlamydia. La sierologia negativa accoppiata ad una incapacità a individuare l’organismo in una via di ingresso o di uscita fornisce le informazioni più complete. I tessuti da cui è possibile isolare chlamydia includono milza, fegato, sacchi aerei, cuore o intestino. In alcuni casi è possibile coltivare l’organismo dalla cloaca o dalle coane. I campioni per la coltura devono essere refrigerati ma non congelati. Perché la quantità di chlamydia eliminata da un uccello con infezione attiva sembra che possa variare di giorno in giorno, la raccolta di campioni fecali per almeno 35 giorni può migliorare la sensibilità del test. Durante il periodo di raccolta il campione deve essere tenuto in un contenitore sigillato in frigorifero.

assays), PCR (polymerase chain reaction) e PCR-RFLP (Restriction fragment lenght polymorphism). La diagnosi clinica di Chlamydiosi rappresenta una sfida diagnostica per il medico veterinario. Per la sua prevalenza negli uccelli da compagnia e la sua potenzialità nel determinare patologie nell’uomo, la chlamydophilosi deve essere una patologia da escludere sempre in caso di infezioni respiratorie e digerenti che includono • dispnea • anoressia • depressione • perdita di peso • diarrea • riniti • congiuntiviti • urati giallastri o verdastri indicativi della presenza di una patologia epatica Frequentemente gli uccelli che presentano segni clinici compatibili con chlamydiosi sono stati appena acquistati o sono stati in contatto con gruppi numerosi di altri uccelli. In alcuni casi gli uccelli positivi a chlamydia, muoiono in modo acuto, mentre altri rimangono pressoché normali ed eliminano l’organismo per un lungo periodo di tempo. La progressione di una infezione può varare in relazione alla specie di uccelli considerata, il ceppo di chlamydia, la dose infettante, l’età e le condizioni dei salute dell’uccello al momento dell’infezione.

Diagnosi Oltre alla visita clinica e all’anamnesi assume una certa importanza la radiologia. Le alterazioni radiografiche, in particolare negli uccelli con segni clinici gravi e cronici includono epatomegalia, splenomegalia o aerosacculite. Di estrema utilità diagnostica alla diagnosi clinica risulta l’ematologia e al biochimica clinica. Eterofilia, spesso con una conta superiore a 30.000, monocitosi e aumento dell’attività degli enzimi epatici sono suggestivi di una infezione attiva da chlamydia. Può essere presente anemia in corso di infezioni croniche. L’elettroforesi delle sieroproteine, seppur molto utile a raffinare la diagnosi non è mai patognomonica. Storicamente la diagnosi di clamidiosi negli uccelli da compagnia si avvale di varie determinazioni sierologiche sia per gli studi epidemiologici che per la diagnosi indiretta di infezione in un singolo soggetto. Comunque, la sierologia usata per la determinazione degli anticorpi anti clamidia usata negli uccelli da compagnia è sempre meno specifica di quella usata in medicina umana e non differenzia tra i vari ceppi delle Chlamydiaceae. Una combinazione di test sierologici e tentativi di isolare o individuare l’organismo in campioni raccolti da cloaca o coana fornisce la diagnosi più accurata in uccelli clinicamente ammalati. Attualmente le determinazioni anticorpali

Bibliografia Disponibile su richiesta presso l’autore

Indirizzo per la corrispondenza: Marco Bedin Clinica Veterinaria Euganea, Animali da Compagnia ed Animali Esotici - Monselice (PD) - Italy

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Le malattie infettive negli psittaciformi: cosa c’è di nuovo Marco Bedin Med Vet, PhD student, Monselice (PD)

Molti uccelli infettati con PsCV 1 sviluppano una infezione transitoria che può essere individuata dimostrando i segmenti bersaglio dell’acido nucleico nel sangue. La risposta immunitaria può avere la meglio sul virus negli uccelli con infezione subclinica, senza determinare malattia o la comparsa di cintomi clinici nell’ospite. I segni clinici che caratterizzano gli uccelli il cui sistema immunitario non è stato in grado di rispondere in modo adeguato nei confronti di PsCV 1 possono essere peracuti, acuti o cronici. In generale le patologie associate a infezioni da PsCV1 nei pappagalli del vecchio mondo, sono considerate progressive e fatali. Di contro, alcuni pappagalli del nuovo mondo con patologie determinate da PsCV 1 è stato dimostrato che possano guarire. La differenziazione con PsCV 2 è prettamente accademica in quanto le lesioni microscopiche non sono differenti da quelle evidenziate in corso di infezione da PsCV 1 e alcuni sembra che possano apparentemente guarire. Poiché PsCV 2 sembra comportarsi in modo differente da PsCV 1 in alcuni uccelli, il clinico deve essere accorto nello stabilire se il test basato su sonda a DNA sta indicando PsCV 1, PsCV 2 o altre sequenze bersaglio che hanno reazioni crociate con la sequenza di circovirus. L’uso di primer poco specifici (studiati per amplificare delle sequenze bersaglio che possono non essere specifiche a PsCV 1) per eseguire un screening del DNA virale possono portare a conclusioni affrettate e non corrette sia dal punto di vista scientifico che gestionale. Se un uccello infettato con PsCV 2 ha una maggiore possibilità di guarigione quando comparato ad uno infettato con PsCV 1, l’eutanasia di una uccello con anomalie del piumaggio associato a PsCV 2 può essere un errore grave sia per il singolo individuo a per la sua specie. Deve essere molto chiaro, che la gestione del singolo paziente è differente da quella dell’intero allevamento o gruppo di animali e gli uccelli ammalati devono essere completamente separati dagli altri. Gli uccelli che sono in grado di guarire dalle patologie associate a PsCV 2, possono trasferire il fattore responsabile della loro guarigione alla F1, il che può essere decisamente un vantaggio genetico e un miglioramento del corredo genetico delle popolazioni future.

Sono molte le malattie infettive che possono colpire gli psittaciformi sia di origine batterica e micotica, che virale. La visita clinica post acquisto rappresenta un momento importante non solo per valutare lo stato generale di salute del singolo animale, ma anche per individuare eventuali animali che una volta introdotti in allevamento possono essere fonte di trasmissione di importanti malattie virali al resto dell’allevamento. Assumono quindi grande importanza i test sierologici o antigenici per l’individuazione di alcune malattie infettive come Chlamydia, la Malattia del becco e delle piume (PBFD) e il Polyomavirus (APV). Nonostante i recenti passi in avanti nella diagnostica di laboratorio per l’identificazione degli agenti causali di malattia, alcune malattie, come la PDD, rimangono difficilmente identificabili per la mancanza di test necessari alla loro individuazione.

1. CIRCOVIRUS DEGLI PSITTACIFORMI: (MALATTIA DEL BECCO E DELLE PIUME DEGLI PSITTACIFORMI - PBFD) Il circovirus degli psittaciformi è stato descritto per la prima volta nei primi anni ’70. La malattia era caratterizzata da distrofia e perdita del piumaggio in modo simmetrico, sviluppo di deformità del becco e morte dei soggetti colpiti. A metà degli anni ’80 fu dimostrato che PBFD era causato da un virus non ancora descritto e che rappresenta uno dei prototipi virali della famiglia delle circoviridae. I dati raccolti dalle ricerche compiute nei 12 anni successivi hanno suggerito che la struttura proteica e il genoma del circovirus che colpisce gli psittaciformi (un virus che noi adesso chiamiamo PsCV 1) era relativamente stabile. In ogni modo, una variante del circovirus degli psittaciformi (un virus che chiamiamo PsCV 2) è stato provato essere la causa della distrofia delle piume in un gruppo di lori. L’analisi sequenziale confermò che PsCV 2 ha sufficienti differenze nell’acido nucleico che non viene individuato con i primer per l’individuazione del PsCV 1 sviluppato dai laboratori di ricerca per le malattie infettive. Questa variante è stata individuata quando sono stati esaminati 9 campioni ematici e di piume provenienti da lori con distrofia dei follicoli. L’ibridazione in situ del DNA con una sonda virus specifica dimostrò che le cellule associate con le piume colpite di tutti questi lori contenevano l’acido nucleico del circovirus. Usando primers specifici per il PsCV 1, quest’ultimo non fu identificato nel sangue di questi lori.

Uccelli con piumaggio normale Testare il sangue per l’identificazione degli acidi nucleici del PsCV mediante sonda a DNA • Un test positivo in uccelli senza anomalie del piumaggio, indica che il pappagallo è stato esposto a PsCV e che l’acido nucleico vitale è presente nel sangue. Questo 87


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uccello deve essere ritestato dopo 90 giorni, questo indica che l’uccello è infetto in modo subclinico o che l’uccello è stato ripetutamente esposto al virus. Gli uccelli infettati in modo subclinico potranno sviluppare in un secondo momento delle alterazioni del piumaggio. Se l’uccello è negativo quando ritestato, questo indica che l’uccello era infetto in modo transitorio e che il S.I. dell’ospite è stato in grado di eliminare l’acido nucleico virale dal sangue. Gli uccelli con piumaggio normale e positivi al secondo test possono essere considerati come resistenti al PBFD. Molti uccelli che sono esposti al PsCV potranno avere l’acido nucleico del virus nel loro sangue per un periodo breve. • Un test negativo indica che il segmento bersaglio dell’acido nucleico del PsCV non è stato individuato nel sangue.

Medici Veterinari i quali, fino al 1995, non avevano a disposizione nessuna arma efficace per limitare la diffusione del virus. I dati epidemiologici suggeriscono che il APV sia la principale causa di morte nei piccoli psittaciformi (< 150 gg d’età) con un tasso di mortalità del 10% al 93% nei neonati a rischio. Le infezioni acute sono caratterizzate da morte conseguente ad un periodo di 12-48 h di sintomi clinici che possono comprendere: • depressione • anoressia • perdita di peso • ritardato svuotamento del gozzo • rigurgito • diarrea • emorragie sottocutanee Oltre ai piccoli, anche gli psittaciformi adulti possono essere suscettibili all’infezione, possono ammalarsi e alcuni possono morire. L’esposizione al virus tramite contatto diretto con uccelli infettati in modo clinico o subclinico, o mediante contatto con un ambiente contaminato dal virus è considerato importante per la trasmissione dell’APV. Negli allevamenti le infezioni da APV sono dovute a: 1. Procedure di quarantena inadeguate 2. Scatole nido contaminate dal virus 3. Incubatrici contaminate dal virus 4. Spedizioni di animali non vaccinati o non completamente vaccinati ad importatori e rivenditori al dettaglio di uccelli 5. Assembramento di uccelli non vaccinati provenienti da diversi luoghi 6. Esposizione di uccelli non vaccinati o neonati ad uccelli infetti o ad un ambiente contaminato e l’inserimento in allevamento senza un periodo di quarantena adeguato

Uccelli con anomalie del piumaggio Inviare le piume colpite per un esame istologico e del sangue per la determinazione dell’acido nucleico virale nel sangue mediante sonda sul DNA. • Un test positivo alla sonda di DNA sul sangue di un uccello con caratteristici corpi inclusi nelle cellule delle piume colpite suggerisce che l’uccello ha una infezione attiva da PsCV 1 • Se la biopsia del follicolo evidenzia la presenza dei caratteristici corpi inclusi, ma il test basato su sonda per il DNA sul sangue è negativo per PsCV 1, il campione di sangue deve essere ritestato usando una meno specifica determinazione del DNA del circovirus. Un uccello che risulta positivo ad una variante del PsCV differente da PsCV 1, deve essere isolato e non sottoposto ad eutanasia, e monitorato per la comparsa di piumaggio normale che sta ad indicare la guarigione dalla malattia. Un uccello che sta guarendo da PBFD sarà positivo per diversi mesi al test ematico per ricerca dell’acido nucleico prima che tutte le piume infette (le cellule dove viene ritenuto PsCV fino alla muta) siano rimpiazzate durante la muta. Quando le piume distrofiche o la loro cenere associata sono presenti l’uccello deve essere considerato infetto • Deve essere tenuto presente che alcuni psittaciformi infetti con PsCV di origine sudamericana sono guariti spontaneamente dalla malattia

Fino a quando il vaccino per l’APV non è stato registrato negli States, il controllo delle infezioni da Polyomavirus si basava solo sulla messa a punto e il rispetto di buone pratiche di allevamento. Il virus infatti é particolarmente stabile nell’ambiente per cui l’unico modo efficace di controllo dell’infezione è di mantenere una allevamento a ciclo chiuso, praticando una igiene straordinaria e tentando di isolare i soggetti con infezioni transitorie. Le tecniche sviluppate all’University of Georgia per facilitare questo procedimento, consistono nella messa a punto di metodiche in grado di identificare il DNA del Polyomavirus e di determinare i livelli anticorpali anti polyomavirus. Entrambi i tipi di determinazione hanno alcune limitazioni. La determinazione degli anticorpi anti polyomavirus in un singolo campione di siero indica solamente una precedente e transitoria infezione. Sonde a DNA specifico per polyomavirus possono essere usate per individuare l’acido nucleico virale in tamponi cloacali, tessuti freschi (sangue, fegato, milza, ecc..) o campioni ambientali (raccolti da ospedali, nursery, incubatrici, ecc..) che possono essere stati contaminati dal virus. Gli uccelli che sono sierologicamente negativi alla ricerca dell’agente eziologico mediante PCR possono essere suscettibili all’infezione.

Gestione degli uccelli positivi Se in un allevamento un uccello con anomalie del piumaggio viene trovato positivo a PsCV1, 2 o qualsiasi variante del circo virus questo deve essere rimosso dall’allevamento il prima possibile. Gli uccelli infettati dal virus con anomalie del piumaggio eliminano grandi quantità di virus nella loro cenere delle piume e possono trasmetterla agli altri uccelli mediante il vento, i vestiti degli operatori, la loro pelle e i capelli. Tutte le aree, i vestiti e le attrezzature di allevamento che possono essere contaminate dalla cenere delle piume devono essere accuratamente lavate e disinfettate.

2. POLYOMAVIRUS AVIARE (APV) Dalla sua prima descrizione nei primi anni ’80, il polyomavirus aviare ha causato frustrazione in allevatori e 88


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Gli uccelli che sono sierologicamente positivi e negativi per la presenza di acidi nucleici virali mediante sonde a DNA usando un accurato test basato sulla PCR possono essere considerati come “naturalmente vaccinati”. I pazienti in cui viene individuato l’acido nucleico virale mediante un accurato test basato sulla PCR devono essere isolati e ritestati sia mediante PCR che sierologicamente. Le strategie per l’utilizzo del vaccino per l’APV sono simili a quelle usate per controllare le malattie infettive di altri animali da compagnia. Vaccinando gli adulti si diminuisce anche la popolazione di soggetti a rischio di infezione, e la probabilità di trasmissione tra gli adulti è ridotta. Questo di conseguenza diminuisce le possibilità che gli adulti possano fungere da fonte di esposizione al virus per i neonati. Se l’attività del virus è ridotta nella popolazione mediante la vaccinazione, allora gli allevatori “incauti” (es. che non rispettano le quarantene, portano uccelli da altri allevamenti direttamente nelle nursery, permettono l’accesso alle nursery ai visitatori che hanno contatto diretto indiretto con altre nursery) diventano le uniche vie di accesso del virus agli allevamenti. I riproduttori devono essere vaccinati 2 volte con un intervallo di 2 settimane tra i due interventi vaccinali. È meglio vaccinare i riproduttori nel periodo di risposo riproduttivo. Le raccomandazioni per la vaccinazione dei piccoli si basano sul fatto che più “vecchio” è il pulcino quando viene vaccinato maggiori sono le probabilità di una migliore risposta del suo sistema immunitario. È bene aspettare che un pullo abbia almeno 35 giorni d’età quando si intende eseguire la vaccinazione e questa deve prevedere un richiamo a 2-3 settimane di distanza. In corso di epidemia si può iniziare a vaccinare i piccoli con sicurezza tra i 1020 giorni di vita. Questi uccelli devono ricevere due richiami supplementari con un intervallo di 2-3 settimane tra le somministrazioni. In ogni caso un uccello deve essere sottoposto all’ultimo intervento vaccinale 2 settimane prima di lasciare l’allevamento. I dati ottenuti da prove sperimentali e sul campo suggeriscono che il vaccino inattivato per il polyomavirus aviare è sicuro ed efficace nei pappagalli di diverse età, specie e con differente stato immunitario. È stato provato che la vaccinazione sia efficace e utile per il controllo delle epidemie di polyomavirus e il suo impiego non è stato associato a reazioni avverse nemmeno quando viene usato in corso di epidemia. L’efficacia sul campo è stata stabilita vaccinando gruppi di pappagalli durante una epidemia e comparando i livelli di malattia pre e post somministrazione del vaccino. In 9 gruppi diversi il tasso di mortalità nei piccoli a rischio prima della vaccinazione e durante la stessa è stato del 29%. Dopo la vaccinazione invece il tasso complessivo è sceso all’1%. Mentre non è consigliato di vaccinare un allevamento durante la stagione riproduttiva, la vaccinazione può essere usata anche per arrestare una epidemia durante la stagione riproduttiva. Quando si vaccina durante una epidemia, è importante che lo staff veterinario e il personale dell’allevamento eseguano delle procedure straordinarie di pulizia e igiene per far si che le procedure di manipolazione e iniezione del vaccino non rappresentino un rischio aggiuntivo per la diffusione del virus da soggetto a soggetto.

3.PDD Introduzione Fu Scoperto per la prima volta in delle Ara importate negli USA e in Germania nei primi anni ’70 (Macaw wasting disease). Conosciuta con nomi diversi nel corso del tempo: ganglio neurite neuropatica, ganglioneurite linfoplasmocitaria, neuropatia splancnica infiltrativa e encefalomielite degli psittaciformi. È stato descritto in tutti i continenti e in oltre 50 specie di uccelli, non solo psittaciformi. La malattia si manifesta in forma sporadica, in alcuni casi colpisce un singolo soggetto di una coppia senza comparsa di segni clinici nel partner. L’incubazione si presume (dal momento che non si conosce ancora con certezza l’agente eziologico) possa essere di 10 anni o meno, ma dall’epidemiologia della malattia in alcune epidemie negli allevamento si presume che l’incubazione possa essere anche di soli 10 giorni. Sono state eseguite diagnosi di PDD in soggetti di età inferiore a 10 giorni e superiore a 49 anni. Dal momento che non si conosce l’agente eziologico è veramente improbabile pensare a quale sia la reale via di trasmissione della malattia. La PDD è una patologia cronica progressiva in grado di colpire diverse specie di psittaciformi. Nonostante la reale eziologia sia sconosciuta, molti autori ritengono possa essere di origine virale. I soggetti malati sviluppano segni clinici a carico dell’apparato gastrointestinale e del SNC sia singolarmente che in associazione tra loro, anche nello stesso animale. I segni clinici sono compatibili con una encefalomielite non suppurativa progressiva caratterizzata da un infiltrato di linfociti, plasmacellule e macrofagi. Ad oggi non è disponibile un test sierologico per testare gli animali asintomatici. In Medicina umana esiste una patologia che determina la comparsa di lesioni e segni Clinici simili e prende il nome di Sindrome di Guillaine Barrè (GBS) ed è una patologia autoimmune. La malattia è caratterizzata dalla comparsa di anticorpi antigangliosidi, la cui individuazione aiuta a confermarne la diagnosi. Sulla base di ciò è possibile che il meccanismo patogenetico della PDD sia un meccanismo autoimmune. Tentando di identificare gli anticorpi con il metodo ELISA e Dot Blot, si è scoperto che il 15% dei soggetti testati è positivo e che il 98% dei soggetti sintomatici e istologicamente positivi mostrano elevati livelli di anticorpi.

Sintomi clinici La sintomatologia della PDD deriva dalla progressiva distruzione dei nervi che innervano il sistema digerente (gozzo, pro ventricolo, ventricolo e primo tratto dell’intestino tenue) e del sistema nervoso centrale e periferico. Ciò che è evidente in corso di PDD è una risposta infiammatoria caratterizzata dalla presenza di linfociti e plasmacellule. Come risultato del danno, gli uccelli non sono in grado di svuotare il loro tratto GI e di assimilare l’alimento con conseguente stasi del gozzo, perdita di peso, dilatazione del gozzo, proventricolo, ventricolo ed intestino, rigurgito e malassorbimento. Sono state riportate anche depressione, diarrea, presenza di alimento in digerito nelle feci, poliuria, anomalie cardiache ed ipotensione. Alcuni studi hanno evidenziato come l’autodeplumazione possa essere un primo segno clinico di PDD. I segni clinici associati a danno del SNC com89


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appartenenti alla famiglia delle Bornaviridae in pappagalli con sintomi clinici di PDD. Un gruppo dell’università della California, San Francisco ha individuato Borna virus mediante un pannello di screening virologico (pan viral microarray) in 5 di 8 soggetti positivi e in nessun soggetto senza segni clinici. Un Altro gruppo, della Columbia University ha testato 3 soggetti positivi per PDD con altre metodiche ottenendo la positività di tutti i soggetti con lesioni riconducibili a PDD e la negatività per i 4 soggetti negativi testati. Il bornavirus identificato sembra appartenere ad una nuova specie di bornavirus: Avian bornavirus del quale, mediante sequenziamento del genoma ne sono stati identificati due ceppi diversi. Il Bornavirus è un virus a RNA, altamente neurotropico in grado di infettare il SNC, periferico ed autonomo che è in grado di causare patologie neurologiche note con il nome di Borna disease caratterizzate da meningoencefaliti in cavalli e pecore in Europa. Sulla base di ciò, delle lesioni istologiche e della sintomatologia negli uccelli, è più che plausibile che l’agente eziologico di PDD possa essere una bornavirus. Alcuni ricercatori statunitensi hanno trovato alcune proteine antigene nei preparati ottenuti dal cervello di pappagalli deceduti per PDD mentre non ne sono hanno riscontrato al presenza in soggetti deceduti per altre cause. Avvalendosi di questi antigeni, stanno mettendo a punto una metodica in grado di individuare gli anticorpi nei confronti dell’agente eziologico di PDD nel siero. Se veramente Avian bornavirus è l’agente causale di PDD, allora la PCR eseguita su tessuti degli animali infetti sarà la metodica definitiva e più accurata per eseguire la diagnosi.

prendono atassia, incoordinazione, tremori, deficit propriocettivi e movimenti anomali della testa. I segni clinici neurologici possono essere associati o meno a segni GI e l’evoluzione della malattia può essere lenta e progressiva o acuta.

Diagnosi La diagnosi presuntiva si basa sull’anamnesi, la sintomatologia clinica e l’evidenza radiografica di una dilatazione o di ridotta motilità del tratto GI, evidenziabile con Rx in bianco e mdc, o con fluoroscopia. La diagnosi definitiva si esegue mediante esame istologico di un campione prelevato mediante biopsia del gozzo che includa un vaso e un nervo. L’evidenza istologica di una ganglioneurite linfoplasmocitaria conferma la diagnosi. All’esame post mortem possono essere prelevati per essere sottoposti ad istopatologia diversi tessuti come SNC, tratto GI, cervello, midollo spinale, cuore.

Terapia Attualmente non esistono della terapie che possano avere un effetto risolutivo della patologia ma solo terapie sintomatiche che si basano sul trattamento delle lesioni riscontrate all’istologia del campione del gozzo prelevato mediante biopsia. Queste si basano sulla somministrazione di FANS, come il meloxicam e altri coxib per uso umano. Questi farmaci però, sono solo in grado di prolungare la vita del paziente. Nonostante l’epidemiologia della malattia e le modalità di trasmissione della stessa siano ancora non completamente chiarite si consiglia di isolare gli animali con sintomi clinici dagli altri soggetti dell’allevamento per almeno 3 anni. L’allevamento può essere considerato esente da PDD quando nell’arco di 3 anni non si sono verificati decessi imputabili a PDD e si soggetti deceduti per altre causa siano stati sottoposti ad esame istologico post mortem senza evidenziare lesioni compatibili con la patologia.

Bibliografia Disponibile su richiesta presso l’autore

Recenti avanzamenti nella ricerca Lo sviluppo di nuovi metodi molecolari ha permesso ai virologi di eseguire degli screening per identificare la presenza di moltissimi virus negli psittaciformi. Due differenti gruppi di ricerca indipendenti hanno identificato virus

Indirizzo per la corrispondenza: Marco Bedin Clinica Veterinaria Euganea Animali da Compagnia ed Animali Esotici - Monselice (PD)

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Il gatto con l’artrosi: consigli pratici per il veterinario generalista David Bennett BSc, BVetMed., PhD, DSAO, FHEA, MRCVS, Glasgow, GB

È una credenza diffusa che il gatto, a differenza del cane, soffra raramente di artrosi. Questa errata convinzione nasce soprattutto dalla difficoltà nel rendersi conto che, nel gatto, il dolore cronico da artrosi si manifesta in modo molto diverso rispetto al cane, soprattutto perché la zoppia non è il segno clinico più comune. Sono i cambiamenti comportamentali e/o dello stile di vita a fornire la chiave per diagnosticare l’artrosi del gatto. L’artrosi è una malattia molto rilevante e frequente nel gatto anziano. Colpisce prevalentemente il gomito e l’anca, sebbene qualsiasi articolazione possa venirne coinvolta. Generalmente è una malattia bilaterale e non è raro che colpisca più articolazioni contemporaneamente. A differenza di quanto accade nel cane, nel gatto l’artrosi è in prevalenza idiopatica o primaria, senza un’apparente causa sottostante. Oltre all’artrosi a carico degli arti (appendicolare), il gatto anziano può manifestare anche una degenerazione a carico della colonna vertebrale (assiale), che, anche in questo caso, provoca dolore cronico. È essenziale che l’artrosi del gatto venga tempestivamente riconosciuta e, conseguentemente, trattata, al fine di ridurre il prima possibile il dolore e la sofferenza del paziente. L’artrosi del gatto non può essere diagnosticata se il veterinario non affronta la questione con spirito di intraprendenza, e se il proprietario non offre al generalista la propria indispensabile collaborazione. È fondamentale che il veterinario interroghi i proprietari di gatti con età superiore ai 6 anni sull’eventualità che il loro animale abbia manifestato modifiche del comportamento e/o dello stile di vita rispetto a quando era più giovane. A questo scopo possono essere utilizzati anche appositi questionari. Se eseguita in modo appropriato, tale intervista – che può essere inizialmente condotta anche dal personale tecnico infermieristico – potrà durare in media 10-15 minuti. Esistono specifici questionari sullo stile di vita del gatto, che possono essere usati nella pratica clinica. I cambiamenti del comportamento e/o dello stile di vita possono essere raggruppati in 4 categorie: mobilità, attività, toeletta, carattere; la loro gravità può essere quantificata tramite un punteggio. I cambiamenti nella mobilità comprendono il rifiuto o la riluttanza a saltare verso l’alto o verso il basso, oppure la capacità a compiere solo salti ridotti. I cambiamenti comportamentali legati al salto sono i più rilevanti per la diagnosi di artrosi del gatto. Le modifiche che interessano il livello di attività si riflettono in un aumento del tempo dedicato al sonno, una minore interazione con il proprietario, una certa riluttanza ad uscire e ad esercitare la normale attività di caccia. I gatti con dolore cronico riducono il

tempo dedicato alla toeletta (grooming) e tendono a modificare anche l’abitudine a “farsi le unghie”. Come cambiamenti di carattere, si intendono, ad esempio, una ridotta sopportazione del proprietario o di altri animali, ed i cambiamenti a carico del comportamento generale (il gatto tende a starsene più tempo tranquillo ed isolato). È importante chiedere al proprietario sia una valutazione complessiva del gatto, sia una valutazione quantitativa (punteggio) dei singoli cambiamenti del comportamento / stile di vita manifestati dal proprio animale. Se si fa ricorso ad un questionario, è preferibile associarlo ad una intervista “faccia a faccia”. Nel caso in cui emergano modifiche del comportamento e/o dello stile di vita, allora è opportuno approfondire la questione nel dettaglio, indagando, ad esempio, perché il gatto non salti più come prima sul davanzale della finestra. Potrebbe anche emergere una storia di zoppia, sebbene spesso si tratti di episodi non gravi e generalmente intermittenti. Se si manifesta anche solo uno di questi cambiamenti di comportamento / stile di vita, molto probabilmente il gatto soffre di dolore cronico da artrosi, ed è per questo legittimo condurre ulteriori approfondimenti, ricordando che sarà ovviamente necessario escludere altre condizioni che potrebbero aver generato tali modifiche comportamentali. La maggior parte dei proprietari considera che i cambiamenti di comportamento / stile di vita siano attribuibili esclusivamente all’invecchiamento del gatto e, per questo, non lo portano dal veterinario. È, dunque, importante sottoporre ad un attento esame tutti i gatti anziani che arrivano nel nostro ambulatorio, qualunque sia il motivo (es. vaccinazione, altre malattie), in modo da valutare tutte le possibili alterazioni del comportamento o dello stile di vita e verificare l’eventuale presenza di dolore artrosico. È anche consigliabile contattare i proprietari di gatti anziani già registrati come pazienti della clinica / ambulatorio ed invitarli a compilare l’apposito questionario. Tutti questi gatti dovrebbero essere rivalutati regolarmente (circa ogni 6 mesi), quanto meno tramite la compilazione del questionario da parte del proprietario. Eseguire un utile esame clinico dell’apparato muscoloscheletrico del gatto non è cosa semplice. Ai gatti non piace che le loro articolazioni vengano palpate e manipolate. È importante mantenere il gatto calmo e rilassato, e farlo sentire in un ambiente sicuro. La cosa ideale è che il proprietario passi qualche minuto a coccolare e spazzolare il proprio gatto prima della visita, in modo da aiutarlo a rilassarsi. Potrebbe rilevarsi utile anche il ricorso a spray/diffusori di feromoni nell’area visita o in sala di attesa. In genere, le arti91


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nico FANS attualmente autorizzato per l’uso a lungo termine nel gatto, è facile da somministrare ed efficace nel ridurre il dolore artrosico. Viene metabolizzato attraverso vie ossidative ed è dunque relativamente sicuro in questa specie. È consigliabile effettuare terapie a dosaggio pieno per 2-3 settimane e, in caso di miglioramento, ridurre gradualmente la dose, fino a trovare la dose minima efficace. In alcuni casi, è anche possibile sospendere completamente il trattamento, per poi re-introdurlo alla ricomparsa dei segni clinico/comportamentali. Quando un gatto è in terapia a lungo termine con un FANS, è importante alimentarlo con cibo umido, in modo da facilitare un’adeguata assunzione di liquidi. I supplementi nutrizionali hanno un posto di rilevo nella gestione dell’artrosi del gatto. Si tratta, in genere, di prodotti a base di condroitin solfato e glucosamina, alcuni dei quali contengono anche altre sostanze efficaci, come antiossidanti ed acidi grassi essenziali (EFA). I supplementi nutrizionali possono essere usati singolarmente o in combinazione con i FANS. In virtù del loro elevato profilo di sicurezza, molti veterinari preferiscono usare inizialmente i nutraceutici, prima di un eventuale ricorso ai FANS. Attualmente, nel gatto si sta sviluppando il concetto di “terapia analgesica multimodale” (cioè l’uso di una combinazione di analgesici con diversi meccanismi d’azione che agiscono in modo sinergico), ma ulteriori studi sono necessari per definire quale sia la combinazione più appropriata e sicura. La migliore valutazione della risposta alla terapia resta la verifica di eventuali miglioramenti comportamentali e/o dello stile di vita, come riferiti dal proprietario. Oggi la popolazione felina è una popolazione che sta invecchiando; dunque, l’artrosi del gatto sta diventando una malattia sempre più importante. Negli ultimi 15 anni, l’età media dei gatti in Europa è aumentata da 4,7 a 5,3 anni, ed attualmente si stima che in Europa ci siano 20 milioni di gatti geriatrici (con età superiore agli 11 anni), pari al 20% della popolazione totale, e che la maggioranza di questi gatti anziani sia destinata a soffrire di artrosi e, dunque, a richiedere un’opportuna terapia. Per il veterinario generalista, identificare un gatto con dolore da artrosi non solo è un atto della massima importanza per il benessere dell’animale, ma possiede anche importanti implicazioni economiche.

colazioni del gatto con artrosi non sono particolarmente ispessite; il versamento sinoviale, così come pure il crepitio, sono rari. Anche per questo, non è facile valutare in modo accurato il dolore articolare del gatto. La radiografia può essere utile per evidenziare segni patologici in una determinata articolazione. Qualunque sia la specie animale, la presenza di osteofiti è la caratteristica radiografica più rilevante per la diagnosi di artrosi; nonostante ciò, l’osteofitosi non sempre è un segno radiografico molto evidente nell’articolazione artrosica del gatto. Altro segno importante, soprattutto a carico del gomito artrosico, è la sclerosi ossea, sebbene a volte sia difficile interpretarla. L’evidenza radiografica di sclerosi potrebbe dipendere, oltre che da una effettiva sclerosi dell’osso subcondrale (ispessimento delle trabecole ossee), anche dalla presenza di osteofiti del margine articolare sovrapposti all’epifisi, o dalla mineralizzazione dei tessuti molli sovrastanti l’osso. In effetti la mineralizzazione dei tessuti molli e la presenza di corpi mineralizzati liberi intra-articolari non sono reperti rari nel gatto affetto da artrosi. Alcune particolari caratteristiche radiografiche delle articolazioni del gatto possono a volte generare confusione nella diagnosi di artrosi. Si tratta, ad esempio, del notevole sviluppo del processo coracoideo della scapola, della clavicola, dell’osso sesamoide posto all’interno del muscolo supinatore, della mineralizzazione del menisco mediale del ginocchio e, infine, della presenza di entesiofiti localizzati (es. a livello della tuberosità tibiale), che non rappresentano necessariamente segni di artrosi. L’indagine radiografica richiede la sedazione o l’anestesia generale del soggetto. Ciò è spesso motivo di preoccupazione nel gatto anziano, soprattutto se affetto da altre malattie cliniche o sub-cliniche, come le nefropatie. A mio parere, se esistono cambiamenti comportamentali e/o dello stile di vita, e se, all’esame clinico, c’è evidenza di dolore, allora è opportuno cominciare una terapia, anche in assenza di conferma radiografica di artrosi. Ottenere un miglioramento comportamentale o dello stile di vita del gatto in seguito al trattamento - soprattutto se a base di analgesici – ci aiuterà a confermare la presenza di dolore articolare e a suffragare la diagnosi definitiva. Il management dell’artrosi del gatto si basa su molti approcci diversi, e può essere complicato dalla presenza di malattie concomitanti, come il diabete e le nefropatie. Tutti i gatti con sospetto diagnostico di artrosi vanno sottoposti ad esami ematochimici completi. L’obesità può essere una caratteristica dei gatti con artrosi (circa il 20% dei gatti con artrosi è obeso); questi soggetti vanno evidentemente messi a dieta fino al raggiungimento del peso ideale, sebbene non si tratti di un obiettivo facilmente raggiungibile. Grande importanza rivestono anche le modifiche ambientali (es giacigli comodi e confortevoli), oppure quelle strategie di arricchimento ambientale, che facilitano le interazioni gatto/proprietario, ovvero che consentono al gatto di nascondersi al bisogno. La fisioterapia, sebbene più difficile da effettuare nel gatto che non nel cane, sta acquistando una grande popolarità per la gestione dell’artrosi felina. Il meloxicam è l’u-

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Aurum muriaticum: analisi del rimedio in relazione al suo impiego in alcuni casi di fistole perianali nel cane David Bettio Med Vet, Parma

La M.O. fonda le sue basi scientifiche su alcuni principi. Il primo importante concetto è la Legge della Similitudine. Nel §22 dell’Organon si legge: “Le proprietà terapeutiche dei medicamenti risiedono esclusivamente nella loro facoltà di provocare sintomi patologici nell’uomo sano e di farli sparire nel malato…i medicamenti diventano capaci di sconfiggere le malattie provocando un certo stato patologico artificiale capace di annullare ed eliminare… lo stato morboso presente”. Hahnemann notò come la somministrazione di una sostanza omeopatica in un individuo sano fosse in grado di produrre un determinato complesso di sintomi. Cioè, un medicamento omeopatico è capace di provocare una vera e propria patologia artificiale in un individuo sano. Questo quadro patologico artificiale, qualora si presentasse come malattia in un paziente, può essere curato dal medesimo rimedio che l’ha provocato nel sano. La reciprocità di manifestazioni tipiche di un rimedio e quelle presenti in una forma morbosa, esprime l’applicabilità di questa legge. Quindi, tanto più una malattia ricalca il quadro sintomatologico prodotto da un rimedio, tanto più si rispecchia nella Legge della Similitudine. Il proving è il processo attraverso il quale vengono valutate le proprietà medicinali delle sostanze omeopatiche (definite di seguito “rimedi”): è il processo della sperimentazione omeopatica. Ogni rimedio viene somministrato a gruppi di individui sani, i quali produrranno una serie di sintomi fisici, mentali ed emozionali che esprimono le caratteristiche del rimedio oggetto di sperimentazione. Ogni rimedio è in grado di produrre una vera e propria patogenesi specifica se somministrato in un individuo sano. Tutti i sintomi specifici prodotti da una tale somministrazione sono le manifestazioni cliniche e caratteristiche tipiche del rimedio in esame e vengono registrate nelle Materie Mediche. Nelle Materie Mediche (M.M.) si trova quindi l’elenco sistematico di tutti i sintomi che compaiono negli sperimentatori di una determinata sostanza. A tutt’oggi il medico veterinario consulta le MM derivanti da provings in medicina umana, quindi sono a volte necessarie interpolazioni analogiche dei sintomi presenti negli animali. Lo scheda della raccolta dei sintomi nelle MM ricalca quello tracciato da Hahnemann: i primi ad essere elencati saranno i sintomi riguardanti l’aspetto mentale, seguiti da tutti i sintomi cosiddetti locali (testa, faccia, collo, torace, estremità, etc. etc.), fino ad arrivare alla rubrica dei sintomi che riguardano lo stato generale. È importante sottolineare che ogni rimedio, oltre a manifestare i suoi sintomi peculiari a livello organico, possiede un “nucleo”, che ne indica e ne caratterizza la sua essenza sia nell’espressione delle dinamiche psico-comportamentali, sia dei tropismi

organici più specifici. Le Materie Mediche permettono di soddisfare l’applicabilità della Legge della Similitudine, confrontando il quadro generale dell’individuo e della sua malattia, con il quadro generale, espresso in sintomi, dai rimedi omeopatici sperimentati. Uno dei problemi che si riscontrano in Omeopatia Veterinaria è determinato dal fatto che i rimedi sono testati (provings) negli uomini e non sugli animali e sulle diverse specie di animali. Di conseguenza il Repertorio è una collezione di sintomi dei provings umani. Così il limite che abbiamo noi veterinari è quello di utilizzare il repertorio rubrica per rubrica. Ma noi abbiamo usato il repertorio e la Materia Medica con successo per molti anni. Quindi il problema è di come va usato la Materia Medica in Medicina Veterinaria e quanto prezioso lavoro possiamo apportare alla stessa attraverso le osservazioni tipiche di specie che vengono curate dai rimedi. In questo modo l’esperienza nella cura di molti casi clinici con un determinato rimedio, può servire per identificare il “nucleo” sintomatologico inquadrandolo in un senso veterinario. Nel mio caso, l’analisi di Aurum muriaticum vuole essere una spunto di riflessione sulle caratteristiche veterinaria di tale rimedio. Partendo dall’analisi di alcuni casi clinici con una patologia in comune (fistole perianali del cane), ho cercato di fissare alcuni sintomi e segni tipici di Aurum muriaticum veterinario. MENTE - AFFLIZIONE (pena) MENTE - ANSIA - eccitazione; da MENTE - ATTIVITÀ; desiderio di MENTE - AVVERSIONE - tutto, a MENTE - BRUSCO, rude - affettuoso; rude ma MENTE - BUIO - coricarsi al buio e che nessuno gli parli, desidera MENTE - COLLERICO E IMPETUOSO MENTE - COMPAGNIA - desiderio di MENTE - CONTRADDIZIONE - tendenza a contraddire MENTE - DISTURBI da - afflizione MENTE - DISTURBI da - spavento MENTE - ECCITAZIONE MENTE - INDIFFERENZA, apatia - tutto, a MENTE - IRREQUIETEZZA MENTE - IRREQUIETEZZA - cammina, mentre - aria aperta; all’ - migl. MENTE - PIANTO MENTE - SENSIBILE - rumore, al MENTE - SOBBALZARE, sussultare MENTE - SOBBALZARE, sussultare - sonno - durante MENTE - TRISTEZZA - afflizione, dopo 93


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Faccia: escoriazioni, ulcere presenti sulle labbra e in bocca (FACCIA - ULCERE - Labbra), i denti non sono fissi nell’alveolo (DENTI - MOBILITÀ dei denti, traballanti).

OCCHI - ULCERAZIONE - Cornea ORECCHIO - ERUZIONI - Dietro le orecchie - eczema NASO - LUPUS NASO - SCOLI (rinorrea) - escorianti NASO - SCOLI (rinorrea) - giallo-verdastri NASO - SCOLI (rinorrea) - purulenti FACCIA - CANCRO - lupus FACCIA - CONTRAZIONI, spasmodiche FACCIA - ESPRESSIONE - vecchieggiante FACCIA - GONFIORE - Sottomascellari, ghiandole FACCIA - ULCERE - Labbra DENTI - MOBILITÀ dei denti (traballanti) STOMACO - DILATAZIONE - mangiando - dopo mangiato ADDOME - INGROSSATO (ingrossamento) - Fegato ADDOME - INGROSSATO (ingrossamento) - Milza RETTO - EMORRAGIA anale - defecazione - durante RETTO - ESCORIAZIONE RETTO - ESCORIAZIONE - Perineo; del RETTO - FISTOLA RETTO - STITICHEZZA - difficile, defecazione RETTO - ULCERAZIONE VESCICA - MINZIONE - involontaria - notte VESCICA - MINZIONE - sgocciolamento VESCICA - STIMOLO a urinare - notte PROSTATA - GONFIORE MASCHILI, GENITALI - GONFIORE - Testicoli MASCHILI, GENITALI - INDURIMENTO - Testicoli RESPIRAZIONE - DIFFICILE - caldo - stanza, in una RESPIRAZIONE - DIFFICILE - salendo PELLE - ULCERE - sifilitiche SINTOMI GENERALI - NOTTE SINTOMI GENERALI - CALDO - aggr. SINTOMI GENERALI - CALDO - stanza calda - aggr. SINTOMI GENERALI - TEMPO - freddo - umido - migl.

Addome: splenomegalia ed epatomegalia, infiammazione cronica del fegato, il fegato è aumento ed indurito (ADDOME - INGROSSATO (ingrossamento) – Fegato; ADDOME - INGROSSATO (ingrossamento) – Milza). Dolore pressante nella regione del fegato, problemi epatici con perdita di albumina nelle urine e edema declive agli arti inferiori. Formazione di gas addominali (STOMACO - DILATAZIONE - mangiando - dopo mangiato). Diarrea che peggiora di notte. Emorroide sanguinanti alla defecazione, escoriazione marcata dell’ano. Fistole perianali (RETTO – ESCORIAZIONE; RETTO ESCORIAZIONE - Perineo; del RETTO – FISTOLA; RETTO – ULCERAZIONE) Gentalia: ingrossamento della prostata, iperplasia prostatica benigna (PROSTATA – GONFIORE), testicoli aumentati di volume, estasia dell’epididimo (MASCHILI, GENITALI - GONFIORE – Testicoli; MASCHILI, GENITALI - INDURIMENTO – Testicoli) Urine: minzione frequente di giorno e di notte, ma peggiorata di notte, perdita di gocce di urina (VESCICA - MINZIONE - involontaria – notte; VESCICA - MINZIONE – sgocciolamento; VESCICA - STIMOLO a urinare - notte), urine di aspetto torbido, con sedimento rossastro.

Bibliografia Boericke W. – Materia Medica Omeopatica – Trad. del dott. Roberto Petrucci Borland “Some emergencies of general practice”, B.Jain Publisher Brancalion A. – Scala LM e Prognosi nella pratica dell’Omeopatia- H.M.S., Como, 2004. Candegabe M.E., Carrara H.C. – Approssimazione al Metodo Pratico e Preciso dell’Omeopatia Pura – Centro Internazionale della Grafica, Venezia, 1997. Canello S. - Teoria E Metodologia Omeopatica In Medicina Veterinaria IPSA, Palermo, 1995 E. Villiers, L. Blackwood; Canine and Feline Clinical Pathology second edition 2005 EH™ Homoeopathic Software – Vers. 2.1 – Archibel SA, Belgique. F. Schroyens Syntesis 8.0 G. Vithoulkas - Materia Medica Viva Hanneman S.F.C. OMEOPATIA VI Edizione - Ed Dimensione umana Srl Milano 1975 Houpt K. A. – Domestic animal behavior for veterinarians– Manson Publishing/the veterinary press, UK, 1998 Kent J.T. - Repertory of Homeopathic materia medica - Jain Publishers PVT. LTD, New Dheli, 1996 Voll 1e 2 Kent, J.T. “Lesser writings”, B.Jain Publisher Morrison “Desktop Companion to Physical Pathology”Murphy R.- Homeopathic Medical Repertory -2nd Revised Edition – B. Jain Publisher ltd New Delhi – 2004 Ortega P.S – Introduzione alla Medicina Omeopatica – Ipsa Editore, Palermo – 2001 Paschero. T.P. – Le lezioni di T.P. Paschero alla L.U.I.M.O. – Edizione Cemon, Napoli -1996 Gava R, A. Abbate, “L’Esperienza, la Tecnica e la Metodologia di Studio e di Cura Omeopatica delle Malattie Croniche di A.Masi Elizalde”, ed. Salus infirmorum

I sintomi mentali sono molto pronunciati: eccitamento (MENTE – ECCITAZIONE,), ipersensibilità ai rumori (MENTE - SENSIBILE - rumore, al), sobbalza quando sta dormendo (MENTE - SOBBALZARE, sussultare - sonno – durante) . Insicuro, non ha stima in se stesso, ha bisogno di conferme esterne (MENTE - FIDUCIA - mancanza di fiducia in se stesso; MENTE - ILLUSIONI - trascurato - viene trascurato/a; MENTE - ILLUSIONI - apprezzata, non è). Continua a lamentarsi (MENTE - PIANTO). Costantemente ansioso e agitato con grande irrequietezza. Non vuole stare in casa perché è peggiorato, quindi esce ma vuol star da solo (MENTE – IRREQUIETEZZA, MENTE - IRREQUIETEZZA - cammina, mentre - aria aperta; all’ - migl open air amel). Cerca si isolarsi da tutto e va a coricarsi in un posto tranquillo (MENTE - AVVERSIONE - tutto, a; MENTE INDIFFERENZA, apatia - tutto, a). È un rimedio che esprime i suoi sintomi soprattutto di notte (SINTOMI GENERALI – NOTTE) Naso: secrezioni purulenti simili a Pulsatilla e Kalium sulphuricum, che migliorano all’aria aperta. Lo scolo è denso, maleodorante, offensivo e a volte sanguinolento. Il naso è coperto di croste che sanguinano. Lupus al naso (NASO SCOLI (rinorrea) – escorianti; NASO - SCOLI (rinorrea) giallo-verdastri; NASO - SCOLI (rinorrea) – purulenti)

Indirizzo per la corrispondenza: David Bettio Email: david.bettio@omeopatia.org - Cell. 339-3497871 94


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Aggiornamento sulle conoscenze in tema di ipotiroidismo del cane e del diabete mellito del gatto Andrea Boari Med Vet, Teramo

zione in cui nella pratica clinica di gran parte delle strutture veterinarie italiane ed europee, la diagnosi di ipotiroidismo primario si basa comunemente sull’osservazione di bassi valori di T4 e di alti valori del TSH. Purtroppo più del 30% dei cani con ipotiroidismo hanno valori di TSH all’interno dei valori di riferimento, rendendo la diagnosi molto complessa. A causa di queste grosse limitazioni diagnostiche l’autore utilizza il test di stimolazione con rhTSH e sebbene non vi siano ancora dei valori di riferimento universalmente accettati, si può ragionevolmente affermare che il test risulta indicativo di ipotiroidismo quando il T4 post stimolazione è inferiore a 1.5 µg/dl, mentre valori >2,5µg/dl indicano uno stato di eutiroidismo. Ma se la diagnosi di ipotiroidismo rappresenta attualmente uno dei dilemmi più difficile da risolvere nel panorama endocrinologico veterinario, il trattamento risulta estremamente facile. I soggetti con ipotiroidismo mostrano generalmente un’eccellente risposta ad una appropriata terapia di supplementazione. Storicamente l’approccio terapeutico consisteva nella somministrazione al soggetto ipotiroideo di compresse per uso umano di Levotiroxina sodica per tutta la vita del cane. Fino a pochi mesi fa la terapia prevedeva il ricorso iniziale a compresse alla dose di 20 mcg/Kg p.c. per via orale con il pasto ogni 12 ore. Considerando che nel cane, l’assorbimento intestinale di levotiroxina è marcatamente inferiore a quanto avviene nell’uomo, i dosaggi necessari al controllo della malattia risultano essere molto più elevati di quelli impiegati nell’uomo. In Italia, sono in commercio compresse di levotiroxina per uso umano che arrivano ad un dosaggio massimo di 150 mcg; tale concentrazione è scarsamente adattabile al cane in quanto ad esempio nei cani di grossa taglia è necessaria la somministrazione di un numero elevato di compresse due volte al giorno. Dal novembre 2008, è in commercio un prodotto per uso veterinario di levotiroxina sodica in formulazione liquida concentrata. Questo prodotto offre il vantaggio di essere somministrato facilmente e in una sola volta al giorno alla dose di 20 mcg/kg. Dose quest’ultima che rappresenta la metà di quella comunemente impiegata con la formulazione in compresse. L‘assorbimento di questa formulazione liquida di levotiroxina viene ridotto dalla presenza di cibo, di conseguenza, viene raccomandato che il prodotto venga preferibilmente somministrato 2-3 ore prima dei pasti. In uno studio recente5 che ha valutato l’utilizzo della l-tiroxina liquida per uso veterinario su 35 cani con ipotiroidismo, la risposta clinica è risultata per lo più sorprendente: lo stato generale e l’attività sono nettamente migliorate già nelle pri-

L’ipotiroidismo costituisce una delle più frequenti endocrinopatie del cane. La diagnosi risulta particolarmente complessa soprattutto a causa dei segni clinici aspecifici e per la mancanza di un test dotato di sufficiente accuratezza diagnostica. Fondamentale per la diagnosi risultano essere i dati anamnestici, i segni clinici e laboratoristici integrati opportunamente con la valutazione degli ormoni tiroidei. A livello laboratoristico, gli ormoni più comunemente misurati sono la tiroxina totale (T4), la tiroxina libera (fT4) e la tireotropina endogena (TSH). La concentrazione di T4 totale rappresenta un eccellente test di screening per l’ipotiroidismo in quanto è in grado di identificare chiaramente i soggetti non ipotiroidei1,2. Le concentrazioni di T4 totale possono risultare falsamente ridotte in numerose patologie croniche non tiroidee e dopo somministrazione di alcuni farmaci (situazione denominata “euthyroid sick sindrome” o “nonthyroidal illness”). Uno dei test dotati di maggior accuratezza diagnostica, quando considerato singolarmente, è il free T4 (fT4), la quota di T4 non legata alle proteine che costituisce la parte metabolicamente attiva. I soggetti ipotiroidei hanno basse concentrazioni di fT4 e le sue concentrazioni sono meno influenzate dall’“euthyroid sick sindrome” e dall’assunzione di farmaci. Il fT4, viene attualmente valutato mediante diverse metodiche fra cui l’unica dotata di dimostrata accuratezza diagnostica è quella che utilizza l’equilibrio dialitico (ED)3, test complesso e costoso che richiede la disponibilità di un laboratorio specializzato al momento non presente in Italia. Per quanto riguarda il TSH o tireotropina endogena, il cTSH specie specifico mostra una buona accuratezza diagnostica nelle svariate metodiche utilizzate, ma è comunque influenzato, anche se in grado limitato, da farmaci e malattie concomitanti. Una specificità diagnostica del 98% per la diagnosi di ipotiroidismo è stata riportata quando l’fT4 (ED) viene usato in congiunzione al TSH endogeno. Recentemente si sta affermando il test di stimolazione con TSH ricombinante umano (rhTSH o Thyrogen®)4, da alcuni Autori ritenuto il gold standard per la diagnosi di ipotiroidismo canino ed in grado di discriminare fra soggetti eutiroidei e ipotiroidei. Esso valuta la riserva funzionale della tiroide dopo stimolo con TSH. Il farmaco, non è tuttavia facilmente reperibile in commercio ed è molto costoso. Il test di stimolazione con rhTSH, utilizzato anche dall’autore, si effettua valutando il T4 sierico basale e a distanza di 6 ore dalla somministrazione endovenosa di 75mg di rhTSH. Gli elevati costi e la mancata disponibilità sia del fT4 (equilibrio dialitico) che del rhTSH, spiegano l’attuale situa95


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me 4 settimane di trattamento, mentre le alterazioni dermatologiche hanno impiegato alcuni mesi. I livelli di T4 e TSH sono rapidamente rientrati nei limiti della norma nella maggior parte dei soggetti esaminati. Gli autori suggeriscono di effettuare il monitoraggio della terapia dopo 4 settimane dall’inizio del trattamento, basandosi sulla valutazione dello stato clinico e sui livelli sierici di T4. Il T4 totale deve essere misurato 4-6 ore dopo la somministrazione di levotiroxina. La terapia risulta appropriata quando i livelli sierici di T4 risultano vicini o leggermente al di sopra del range superiore dell’intervallo normale di riferimento (35-95 nmol/l). Livelli elevati o bassi richiedono un aggiustamento della dose pari a 10 mcg/kg. Successivamente, la funzionalità tiroidea sarà rivalutata ogni 6-8 settimane per i primi 6-8 mesi e poi una o due volte all’anno. Ogni volta si procede ad una modificazione del dosaggio il cane deve essere rivalutato dopo circa 4 settimane. Una raccomandazione importante soprattutto valida in endocrinologia ed in particolare per la gestione dell’ipotiroidismo, è di servirsi sempre dello stesso laboratorio, che sia affidabile e utilizzi metodiche validate nel cane, il tutto per evitare risultati inattesi o di difficile interpretazione. In riferimento al diabete mellito (DM) nel gatto siamo di fronte ad una patologia estremamente complessa e multifattoriale che riconosce numerosi fattori di rischio quali il sesso, l’obesità, gli errori alimentari, la vita sedentaria, l’amiloidosi pancreatica e la presenza di pancreatiti6. È noto come i gatti con DM siano molto più difficili da gestire rispetto al cane. L’approccio terapeutico ideale si basa sulla modificazione della dieta (ricca di proteine e povera di carboidrati) e sulla precoce istituzione di una idonea terapia insulinica. Viene prevista una fase di stabilizzazione (necessaria al raggiungimento del miglioramento della sintomatologia) che di solito dura circa 12-16 settimane. Questa fase iniziale è seguita poi da una fase di mantenimento in cui si cerca di conservare i risultati ottenuti attraverso un preciso follow up effettuato a casa dal proprietario e/o in clinica. La curva glicemica, caratterizzata da controlli glicemici giornalieri eseguiti ogni 2 o 3 ore, pur con i limiti imposti dalla difficile interpretazione legata alla variabilità individuale e da giorno a giorno, rappresenta comunque un importante punto di riferimento nella valutazione del paziente con DM. Se si eccettuano evidenti casi di ipoglicemia, sono di fatto sconsigliate decisioni terapeutiche legate alla valutazione di un singolo valore glicemico o peggio basate sulla evidenziazione di glicosuria. Al contrario la assenza ripetuta di glicosuria deve considerarsi segno di controllo ideale del DM ma spesso preclude o indica la remissione della malattia per cui può assumere un significato di estrema importanza.7 In un gatto, al momento della diagnosi di DM non complicato, è consigliabile iniziare con l’insulina lenta suina per uso veterinario al dosaggio di 0.25-0.5 U/Kg due volte al giorno7,8,9. Si tratta di una insulina usata con successo nel gatto in Europa, Canada, Australia e ultimamente in USA. In un recente studio multicentrico europeo condotto su 46 gatti con diabete mellito, il protocollo prevedeva l’approccio iniziale con 0,25-0.50 U/kg bid e comunque viene sconsigliato di utilizzare un dosaggio superiore a 2 U/bid8. In questo studio, dove l’autore ha partecipato con una casistica di

8 casi, sono andati incontro a remissione del diabete mellito ben 8 soggetti. Tale situazione di ripristino delle funzioni pancreatiche è più facile che venga raggiunta se le misure dietetiche e una corretta terapia insulinica vengono adottate precocemente e si persevera nel monitoraggio attento del paziente. Il recente studio europeo8, in accordo con altri lavori che hanno valutato anche altre insuline di diversa derivazione e durata di azione10,11,12, circa il 60% dei gatti hanno raggiunto la stabilità clinica nei primi 3 mesi di terapia. Per stabilità clinica si intende un gatto apparentemente sano ed interattivo a casa, con appetito e urinazione e sete normali e con peso corporeo stabile. L’ipoglicemia è un problema piuttosto frequente in corso di trattamento insulinico e di solito si associa all’impiego di dosi elevate di insulina. Nello studio multicentrico8 è emerso che occorre fare particolare attenzione a questa potenzialmente mortale complicazione quando il dosaggio di insulina supera le 2 unità/gatto due volte al giorno e questo rischio appare più elevato soprattutto nelle prime settimane di terapia. È fondamentale ricordare come, oltre a porre in grave rischio la vita del paziente, gli episodi ipoglicemici (più spesso documentabili attraverso dosaggi seriali della glicemia) possono esitare nel fenomeno di Somogyi e quindi complicare significativamente la gestione del gatto con DM. Particolare cura deve inoltre essere fatta al tipo di glucometro utilizzato, cercando di preferire quelli che sono stati validati per la medicina veterinaria. È noto come i glucometri siano poco accurati nelle loro letture di valori posti agli estremi (bassi vs alti) ma in particolare è facile che si possano registrare valori erroneamente troppo bassi che andrebbero verificati mediante metodica gold standard (esochinasi) prima di adottare misure atte a controllare o prevenire l’ipoglicemia. Lo studio in oggetto si riferisce a casi non complicati di DM, nel senso che sono stati inclusi solo soggetti in cui è si è cercato di escludere patologie complicanti quali ipertiroidismo, iperadrenocorticismo, acromegalia, pancreatiti e principali infezioni e insufficienza d’organo. Tuttavia l’età spesso avanzata dei soggetti esaminati, le obiettive difficoltà diagnostiche di alcune patologie (pancreatite ad es. e acromegalia) possono a volte complicare enormemente la gestione di tali pazienti e spesso si procede a modificazione di dosaggi e/o tipi di insuline quando in realtà potrebbe non essercene bisogno perché la causa dell’iperglicemia è da ricercarsi in situazioni patologiche spesso difficili da dimostrare. Pertanto laddove il controllo del DM risulti scadente, risulta molto importante procedere con estrema cautela nella modificazione del dosaggio di insulina cercando dapprima di verificare eventuali patologie e situazioni concomitanti e in caso di procedere per piccoli gradi soprattutto quando si è deciso di aumentare la dose. In riferimento all’efficacia della glargina, una delle più recenti insuline per uso umano a lenta durata, sono numerosi i dati che riportano risultati positivi del suo impiego ma questi rimangono per lo più limitati a presentazioni di casi a Congressi e non sono supportati da studi adeguati che ne pongano in risalto le caratteristiche di efficacia e di sicurezza così come è stato fatto per la insulina lenta per uso veterinario di derivazione suina. Si ricorda in ultimo che nel nostro paese vigono leggi che impongono al veterinario il ricorso primario a farmaci 96


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approvati per uso veterinario e che il ricorso di analoghi prodotti per uso umano deve essere accuratamente giustificato e comunque riservato a documentata inefficacia del farmaco veterinario. Per concludere una considerazione che ritengo importante è che se fino a qualche anno fa l’obiettivo finale della gestione del DM del gatto era quello di ottenere il miglioramento dei segni clinici, la nuova sfida del clinico internista è quello di effettuare nei tempi e nei modi più adeguati un intervento terapeutico che preveda l’utilizzo congiunto di insulina e di una dieta idonea per cercare di ottenere la remissione del diabete mellito.

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Indirizzo per la corrispondenza Prof. Andrea Boari Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Università degli studi di Teramo

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Citologia delle neoformazioni del cavo orale: non è tutto così facile come sembra! Ugo Bonfanti Med Vet, Dipl ECVCP, Accelera (MI)

L’indagine citologica di neoformazioni della cavità orale rappresenta momento fondamentale nell’ambito della valutazione di un processo patologico della porzione più prossimale del canale alimentare. Sedazione o anestesia risultano spesso necessari per eseguire un’indagine approfondita della cavità orale, con relativo esame citologico, nel caso ad un esame ispettivo si riscontrino ispessimenti di forma e dimensioni variabili, placche, neoformazioni a carico di labbra, gengive, palato, tonsille, lingua e strutture ossee di mandibola o mascella. Risulta determinante campionare porzioni profonde della lesione mediante biopsia citologica con ago sottile (FNB), previa eventuale detersione della parte, evitando di contaminare il prelievo con cellule epiteliali squamose superficiali, con popolazione batterica di origine contaminante, e con elementi di origine infiammatoria. È inoltre consigliabile eseguire apposizioni della superficie di taglio di biopsie incisionali o escissionali, o di lesioni asportate chirurgicamente, al fine di esaminare quanto prima il materiale, per individuare l’origine del processo patologico. Altre metodiche di prelievo di lesioni del cavo orale sono rappresentate da tamponi inumiditi da far rotolare sulla parte (swab technique), spazzolamento (brushing technique) mediante appositi scovolini (citobrush), e scarificazione (spesso in caso di ulcere) con una lama da bisturi (scraping technique).

Rilievo comune, specie in preparati derivanti da processi infiammatori, ed indipendentemente dal tipo di prelievo eseguito, è la presenza esclusiva di elementi di derivazione ematica.

LESIONI NEOPLASTICHE Complessivamente le neoplasie della cavità orale rappresentano circa il 6% di tutte le neoplasie nella specie canina, ed il 3% nella specie felina. La neoplasia epiteliale più frequente in assoluto è rappresentata dal carcinoma squamocellulare. È la neoplasia più frequente della cavità orale nel gatto, e spesso si verifica coinvolgimento osseo con relativa lisi. L’aspetto degli elementi neoplastici può variare in base all’entità della differenziazione. Forme carcinomatose ben differenziate sono costituite da elementi epiteliali squamosi con scarsi criteri di malignità citologica: accanto ad anisocitosi ed anisocariosi moderate, le cellule manifestano basofilia citoplasmatica e citoplasma relativamente abbondante. In caso di neoplasie ben differenziate si possono rilevare rare cellule gravemente atpiche frammiste a cellule relativamente ben differenziate. Forme carcinomatose scarsamente differenziate si caratterizzano per la presenza di elementi tondeggianti, più spesso singoli, con scarso citoplasma intensamente basofilo, talora contenente vacuoli perinucleari ialini, elevato rapporto nucleo:citoplasma, ipercromatismo nucleare e nucleoli prominenti, di grosse dimensioni. Il melanoma maligno rappresenta neoplasia frequente ed aggressiva nella specie canina (circa il 6% dei tumori orali) e meno frequente nella specie felina. Può localizzarsi a livello di gengive, palato, labbra, guance e lingua. È in grado di coinvolgere secondariamente il tessuto osseo determinando lisi ossea. Né l’entità di pigmentazione, né la morfologia delle cellule posseggono valore prognostico. Dal punto di vista citomorfologico si caratterizza per la presenza di elementi pleomorfi da tondeggianti, a poligonali a fusiformi. Le cellule sono spesso voluminose, ad elevato rapporto nucleo:citoplasma; il nucleo, da tondeggiante ad ovalare, possiede cromatina reticolare e frequentemente nucleoli multipli, voluminosi e talora prominenti. Il citoplasma, chiaro o lievemente basofilo, possiede un variabile numero di granuli di melanina puntiformi, talora finissimi, tondeggianti e nerastri. In alcune occasioni i granuli sono completamente assenti o presenti in numero ridotto (melanoma amelanotico): in quest’ultimo caso per arrivare ad una

LESIONI NON NEOPLASTICHE Le principali lesioni non neoplastiche del cavo orale sono rappresentate da processi infiammatori a componente cellulare variabile rappresentata da polimorfonucleati neutrofili, da macrofagi, da linfociti, da plasmacellule e da eosinofili. Sono comuni processi infiammatori misti, cronici, granulomatosi, neutrofilico-macrofagici o linfoplasmacellulari. Nel caso in cui il processo infiammatorio sia causato da un’infezione batterica primaria, o complicato da un’infezione batterica secondaria, si rileva una popolazione omogenea di batteri fagocitati da neutrofili. Un infiltrato caratterizzato dalla predominanza di linfociti maturi e da plasmacellule, può rilevarsi in gatti affetti da gengivite o stomatite linfoplasmacellulare. Granulomi e placche contenenti un rilevante numero di eosinofili, eventualmente frammisti a neutrofili, macrofagi, fibroblasti e mastociti, rappresentano reperto comune in corso di lesioni del complesso del granuloma eosinofilo felino. 98


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diagnosi, possono essere d’aiuto le caratteristiche morfologiche precedentemente descritte, e l’eventuale presenza di melanofagi. I fibrosarcomi orali sono neoplasie relativamente frequenti in entrambe le specie. Le cellule neoplastiche sono fusiformi o di forma irregolare, con nuclei ovalari, cromatina reticolare, ed uno o più nucleoli prominenti. Occasionalmente si rilevano cellule giganti multinucleate. Fibrosarcomi più anaplastici possono essere costituiti da numerose cellule tondeggianti o ovalari, meno differenziate. Nella cavità orale si segnalano anche fibrosarcomi ben differenziati, sebbene localmente aggressivi ed invasivi. In questo caso i criteri di malignità delle cellule neopastiche sono estremamente scarsi. Tra le neoplasie mesenchimali di derivazione osteocartilaginea coinvolgenti il cavo orale si segnalano più frequentemente osteosarcomi e condrosarcomi. L’osteosarcoma si caratterizza per la presenza di voluminosi elementi fusiformi o di forma ovalare, con nuclei spesso eccentrici, dismetrici, cromatina finemente punteggiata e nucleoli voluminosi, spesso multipli, talora prominenti; il citoplasma, spesso basofilo, contiene talora fini punteggiature rossastre. Di supporto alla diagnosi, in questi casi, è la matrice extracellulare (sostanza osteoide) tra le cellule neoplastiche. Sebbene non sempre citologicamente rilevabile, la presenza di abbondante materiale rosato o debolmente eosinofilo, brillante, finemente granulare, intercellulare (condroide) rappresenta caratteristica distintiva di condrosarcoma. In tal caso le cellule sono tondeggianti o fusiformi, ad elevato rapporto nucleo:citoplasma, con atipie nucleari evidenti e citoplasma scarso, grigiastro, vacuolizzato. Le neoplasie rotondocellulari più rappresentate nel cavo orale sono linfomi e plasmacitomi. Il linfoma, che può coinvolgere o meno le tonsille, è più frequentemente costituito da elementi linfoidi immaturi, di grosse dimensioni, nucleolati e con scarso citoplasma basofilo. Più spesso nel gatto sono rappresentati linfomi costituiti principalmente da elementi linfoidi di piccole e medie dimensioni. Plasmacitomi insorgono in particolare nel cane anziano e coinvolgono principalmente labbra e gengive. Sono solitamente benigni, ben differenziati, sebbene talora siano rilevabili cellule multinucleate e sostanza amiloide. Il tessuto da cui traggono origine le strutture dentarie può andare incontro allo sviluppo di neoplasie: neoplasie di origine odontogenica. Queste derivano dalla componente epiteliale, che possiede specifiche caratteristiche istomorfologiche, e/o da quella mesenchimale. L’ameloblastoma è un tumore odontogenico benigno, a crescita lenta, invasivo, non metastatico, con caratteristiche istomorfologiche specifiche tra cui, ad esempio, palizzate di elementi epiteliali disposti alla periferia, nuclei situati in posizione apicale, e citopla-

sma chiaro. Dal punto di vista citomorfologico si possono riconoscere cellule neoplastiche coese, con anisomacrocitosi moderata, e nuclei lievemente dismetrici. Talora tale neoplasia può manifestare caratteri di cheratinizzazione. In questi casi possono rilevarsi cellule epiteliali cheratinizzate, tendenzialmente tondeggianti (ameloblastoma cheratinizzante). L’ameloblastoma acantomatoso del cane possiede caratteristiche citomorfologiche sovrapponibili a quelle descritte in precedenza. Risulta più aggressivo rispetto all’ameloblastoma, spesso si verifica lisi ossea, e la differenziazione squamosa è rara. Tra i tumori derivanti dal tessuto del legamento periodontale si segnala l’epulide fibromatosa del legamento periodontale. Tale proliferazione gengivale, benigna, è considerata da alcuni autori una proliferazione non neoplastica di elementi mesenchimali (iperplasia reattiva). Coinvolge la gengiva senza infiltrare l’osso. Dal punto di vista citomorfologico si riconoscono cellule fusiformi di variabili dimensioni, sostanza fondamentale intercellulare, cellule squamose mature o di dimensioni intermedie. In corso di epulide ossificante si può rilevare sostanza extracellulare eosinofila, morfologicamente suggestiva per sostanza osteoide.

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Indirizzo per la corrispondenza: Ugo Bonfanti Nerviano Medical Sciences, viale Pasteur 10 20014 Nerviano, Milano E-mail: ugo.bonfanti@gmail.com

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Esame citologico delle neoplasie gastriche ed intestinali nel cane e nel gatto Ugo Bonfanti Med Vet, Dipl ECVCP, Accelera (MI)

co e citoplasma ampio, schiumoso. I secondi sono caratterizzati da cellule di forma tondeggiante, caratterizzate da ampio citoplasma chiaro contenente mucine acide o neutre che tendono a periferizzare il nucleo (“signet-ring cells”). Le neoplasie della muscolatura liscia (leiomiomi - leiomiosarcomi) insorgono tipicamente in animali di età media o avanzata e sono tondeggianti, solitarie, spesso endoluminali. Come tutte le neoplasie mesenchimali tendono ad esfoliare con difficoltà. Le cellule dei leiomiomi sono fusiformi, con sottili nuclei allungati ad estremità smusse, e citoplasma relativamente ampio a margini indistinti. Rare le figure mitotiche. Le caratteristiche citologiche dei leiomiosarcomi sono: maggiore cellularità, cellule di forma allungata e talora pleomorfe, ovalari o tondeggianti, con variabile rapporto nucleo:citoplasmatico. I linfomi gastrici possono presentarsi sia come neoformazioni o masse, singole o multiple, tondeggianti, sia come ispessimento diffuso della porzione mucosale, con o senza ulcerazione concomitante. Lo stomaco può essere coinvolto sia primariamente (linfoma alimentare) allorquando la neoplasia insorga dall’apparato gastroenterico, sia in corso di linfoma multicentrico. Lo stomaco è più spesso interessato da linfoma alimentare che da linfoma multicentrico. La diagnosi citologica si basa classicamente sulla presenza di elementi linfoidi immaturi di variabili dimensioni, ad elevato rapporto nucleo:citoplasma, con nucleo tondeggiante o lievemente indentato, cromatina finemente punteggiata, uno o più nucleoli e citoplasma scarso a variabile basofilia. Più raramente si riconoscono linfomi costituiti da piccoli linfociti maturi.

Le neoplasie gastrointestinali pur rappresentando una percentuale relativamente ridotta di tutte le neoplasie del cane e del gatto, costituiscono comunque un rilevante problema oncologico negli animali da affezione. Esse sono rappresentate da neoplasie di origine epiteliale, neuroendocrina, mesenchimale e rotondocellulare. Grazie alla sempre maggiore diffusione di ecografia, TC, endoscopia, l’esame citologico di differenti segmenti dell’apparato gastroenterico ha assunto carattere quasi routinario, permettendo di ottenere preparati in modo meno invasivo rispetto alla laparotomia. I differenti metodi di prelievo di campioni provenienti dall’apparato gastroenterico sono rappresentati da: - biopsia citologica ecoguidata o TC assistita, che trova primariamente applicazione a neoformazioni / masse sottomucosali o più profonde. - spazzolamento mediante via endoscopica, limitato a lesioni mucosali - apposizione o schiacciamento di prelievi ottenuti mediante biopsia per via endoscopica, che trova principalmente applicazione in corso di lesioni mucosali o sottomucosali - apposizione di lesioni o neoformazioni rilevate in sede chirurgica, in particolare destinata ad indagare lesioni sottomucosali o profonde.

NEOPLASIE GASTRICHE Le neoplasie gastriche, che rappresentano meno dell’1% delle neoplasie dei piccoli animali, sono meno frequenti negli animali domestici di quanto non lo siano nell’uomo. Esse sono più frequentemente rappresentate da adenocarcinomi, leiomiomi - leiomiosarcomi, linfomi. Più raramente si segnalano adenomi, carcinoidi, mastocitomi. Gli adenocarcinomi gastrici insorgono tipicamente in cani e gatti anziani e possono presentarsi come neoformazioni sessili ulcerate o ispessimenti diffusi della parete gastrica, sviluppandosi sulla superficie mucosale o in profondità. Prelievi per spazzolamento o mediante apposizione della superficie mucosale della lesione possono non fornire sempre cellule diagnostiche. Queste neoplasie sono principalmente rappresentate da adenocarcinomi mucinosi e da carcinomi con cellule “ad anello con castone”. I primi si caratterizzano per la presenza di abbondante materiale (mucina) extracellulare, e per la presenza di elementi tondeggianti, ovalari o di forma colonnare, solitamente raccolti in piccoli ammassi, e che talora posseggono nucleo eccentri-

NEOPLASIE INTESTINALI L’incidenza delle neoplasie intestinali è relativamente bassa, sebbene maggiore rispetto alle neoplasie gastriche. Costituiscono circa il 3% di tutte le neoplasie nel cane e dal 4 al 9% delle neoplasie nella specie felina. Sono più frequentemente rappresentate da adenocarcinomi, leiomiosarcomi, GIST, linfomi. Più raramente si segnalano carcinoidi e mastocitomi. Gli adenocarcinomi rappresentano la neoplasia intestinale più frequente nel cane e la seconda neoplasia in ordine di frequenza nel gatto. Macroscopicamente si presentano come masse intraluminali o come lesioni circonferenziali, ad anello. I prelievi derivanti da queste neoplasie sono spesso molto cellulati. Le cellule che li costituiscono sono disperse o 100


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raccolte in aggregati coesivi che possono manifestare citoarchitetture papillari o acinari. Tali cellule, di forma tondeggiante, ovalare o colonnare, si caratterizzano per anisocitosi ed anisocariosi variabili, spesso risultano nucleate e posseggono citoplasma debolmente basofilo, relativamente abbondante, e che talora contiene vacuoli di mucina. Talora si rileva estesa desmoplasia, con eventuale presenza di sostanza fondamentale, che comporta il rilevo citologico di elementi mesenchimali (fibroblasti). Si riporta che la presenza di elementi colonnari manifestanti disposizione “a palizzata” sia più caratteristica di forme neoplastiche derivanti dal grosso intestino. I carcinoidi derivano dalle cellule neuroendocrine presenti nello spessore della mucosa intestinale. Assumono spesso il nome della sostanza che secernono (ad es. gastrinoma, glucagonoma). Macroscopicamente si presentano più spesso come lesioni circonferenziali, ad anello. La maggior parte sono maligni. I prelievi sono abbastanza cellulati e le cellule che li compongono posseggono un aspetto relativamente monotono. Si rilevano comunemente numerosi nuclei solo lievemente dismetrici, di forma tendenzialmente tondeggiante con cromatina addensata, solo raramente nucleolati. Il citoplasma ove visibile è moderato in ampiezza, chiaro, occasionalmente vacuolato. L’intestino può essere affetto da linfoma sia in corso di linfoma multicentrico, sia primariamente (linfoma alimentare). I linfomi derivanti dal MALT (mucosa associated lymphoid tissue), sono principalmente di fenotipo T, e sono spesso difficilmente differenziabili da malattie infiammatorie croniche dell’intestino (IBD). Sono spesso costituiti da linfociti di piccole e medie dimensioni residenti a livello mucosale. Solo raramente sono costituiti da elementi linfoidi immaturi (“high-grade lymphomas”). I linfomi di fenotipo B originano da tessuto linfoide organizzato: placche di Peyer e noduli linfatici mucosali. Sono più spesso costituiti da elementi linfoidi di piccole dimensioni (“small-grade lymphomas”), ma possono evolvere a linfomi di grado elevato. I linfomi dei linfociti granulari (LGL) originanti da linfociti NK e linfociti T citotossici, si caratterizzano per la presenza elementi linfoidi di differenti dimensioni, più spesso immaturi, nucleolati, e per la presenza di granuli intracitoplasmatici, di dimensioni differenti e a differente affinità tintoriale, talora in prossimità di un’indentatura nucleare. I mastocitomi intestinali sono più frequenti nella specie felina rispetto al cane. Si caratterizzano per la presenza di mastociti a differenti stadi di differenziazione. Talora, in particolare nella specie felina, non sono infrequenti mastociti tondeggianti o ovalari, degranulati, o con granuli a scarsa affinità tintoriale, a citoplasma chiaro. Non raramente si segnala l’infiltrazione da parte polimorfonucleati eosinofili.

Con il termine di GIST (tumori gastroenterici stromali) si intende un gruppo eterogeneo di neoplasie mesenchimali dell’apparato gastroenterico derivanti da cellule mesenchimali indifferenziate o primitive, che successivamente possono differenziarsi in senso muscolare o neurale. Sembra che l’origine precisa sia rappresentata dalle cellule interstiziali di Cajal (c-kit e CD117 positive). Dal punto di vista citomorfologico, in particolare in medicina umana, sono state descritte forme neoplastiche costituite principalmente da cellule fusiformi con nuclei allungati e talora stroma mixoide, e neoplasie costituite da cellule con morfologia di tipo epitelioide a margini indistinti, nuclei ovalari o tondeggianti e citoplasmi di ampiezza talora contenenti vacuolizzazioni. I leiomiosarcomi, tumori derivanti dalla muscolatura intestinale, positivi per i marker immunoistochimici actina e desmina, e negativi per c-kit, si caratterizzano citomorfologicamente per la presenza di cellule di forma allungata, talora pleomorfe, con variabile rapporto nucleo:citoplasma, nuclei allungati a forma di sigaro (“cigar-shaped nuclei”) e citoplasma grigiastro o chiaro.

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Indirizzo per la corrispondenza: Ugo Bonfanti Nerviano Medical Sciences, viale Pasteur 10 20014 Nerviano, Milano E-mail: ugo.bonfanti@gmail.com

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Le nuove frontiere della clinica: Biomarker quale certezza? Michele Borgarelli DMV, PhD, DECVIM-CA (Cardiol) - Kansas State University, Manhattan, KS, USA

La definizione di biomarker include genericamente qualsiasi variante genetica, immagine clinica, test fisiologico, biopsia tissutale, o sostanza presente nel sangue e nelle urine. In cardiologia, negli ultimi anni, un numero crescente di enzimi, ormoni, sostanze biologiche ed altri marker di stress or malfunzionamento miocardico hanno acquisito una sempre maggiore importanza. Da un punto di vista clinico i biomarker possono avere svariate funzioni che possono essere associate a stadi differenti di evoluzione della malattia. La maggior parte delle malattie cardiovascolari presentano un lungo periodo asintomatico, seguito in genere da scompenso cardiaco che porta a morte l’animale. Idealmente, sotto questo punto di vista un biomarker dovrebbe consentire: • Di eseguire una diagnosi in animali senza apparente malattia cardiovascolare (biomarker di screening) • Di eseguire una diagnosi in animali con sospetto di malattia cardiac (biomarker diagnostici) • Di emettere una prognosi negli animali con malattia cardiaca evidente (prognostic biomarkers) Il raggiungimento di questi obiettivi è possibile solo se un biomarker soddisfa le seguenti tre condizioni: • Consente di eseguire delle misure accurate e ripetibili. Deve essere disponibile ad un costo ragionevole e i risultati debbono essere disponibili in tempi rapidi (test eseguibile in clinica) • Consente di ottenere informazioni che non siano già disponibili con un esame clinico accurato • La sua determinazione consente di prendere decisioni terapeutiche determinanti per l’animale Va infine sottolineato che molti biomarker rappresentano anche fattori di rischio per se, e potrebbero quindi anche essere utilizzati al fine di monitorare la terapia. I biomarkers più studiati in cardiologia veterinaria sono rappresentati dalle catecolamine, dalle endoteline, dalle troponine (Tn) e più recentemente dal peptide natriuretico atriale (ANP) e da quello cerebrale (BNP) e dalla proteina C-reattiva (CRP).

test di screening, sia come test prognostici. In uno studio recente è stato osservato che la CRP era significativamente più elevata in un gruppo di cani con malattia degenerativa mitralica cronica (CDVD) rispetto a cani normali, e che questo innalzamento non era correlato con la presenza di insufficienza cardiaca o dell’intensità del soffio. Tuttavia in questo studio la determinazione della CRP non ha dimostrato sufficiente sensitività e significatività per essere utilizzata come test di screening.

Neuro-ormoni L’attivazione neuro-ormonale rappresenta uno dei meccanismi più studiati nei pazienti con insufficienza cardiac. Sfortunatamente la valutazione della maggior parte dei neuro-ormoni non è semplice e ci sono molti fattori che possono influenzare i risultati quali ad es il contenuto di sale nella dieta. Per tali motivo, la determinazione di catecolamine, renina, angiotensina II e altri neuroormoni è stata prevalentemente eseuguita in lavori di ricerca Recentemente la misurazione dell’endotelina 1 (ET-1) utilizzando un kit ELISA destinato all’uomo, è stata validata nel cane e nel gatto. L’ET-1 si è dimostrata significativamente più elevata nei cani e nei gatti affetti da patologia cardiovascolare rispetto ai sani. Questi studi tuttavia non hanno consentito di stabilire l’utilità di misurare l’ET-1 per fini prognostici.

Troponine Le troponine (TnI e TnT) rappresentano indicatori di danno dei cardiomiociti. In medicina umana le troponine, in particolare la TnI, si sono dimostrate dei biomarkers utili sia per la diagnosi, sia per la stratificazione del rischio dei pazienti con malattia coronarica. È importante ricordare che i valori di TnI nel cane debbono essere correlati al tipo di analizzatore utilizzato. Innalzamenti della TnI sono stati individuati in cani e gatti con patologie cardiache differenti e la gravità dell’innalzamento è stata correlata con la gravità dello scompenso cardiaco. La TnI è stata anche trovata elevata in cani con malattie sistemiche in assenza di patologie cardiovascolari suggerendo l’esistenza di un danno miocardico inapparente, o di una possibile alterata eliminazione.

Proteina C-reattiva Recentemente è stato evidenziato come l’infiammazione miocardica, anche di grado modesto, rappresenti un elemento importante per la progressione e la patogenesi dello scompenso cardiaco. Diversi studi in medicina umana hanno evidenziato come i biomarkers di infiammazione, quali la CRP; il tumor necrosis factor-〈 e le interleukine possano essere di aiuto sia come

Peptidi natriuretici (ANP e BNP) L’ANP e il BNP, sono i peptidi natriuretici più studiati nel cane. L’ANP è rilasciato dagli atri, mentre il BNP è rilasciato dai ventricoli. Il principale ruolo di tali peptidi è quello di indurre vasodilatazione, e promuovere l’eliminazione di Na e acqua e di consequenza di controbilanciare gli effetti del 102


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sistema renina angiotensina aldosterone. Storicamente il primo peptide ad essere misurato nel cane e nel gatto è stato l’ANP. Tuttavia, oggi il BNP appare il peptide natriuretico su cui si sono focalizzati la maggior parte degli studi, in quanto la sua misurazione appare relativamente più semplice. Va ricordato che i valori di ANP e BNP sono correlati con età, peso corporeo e funzione renale. L’interpretazione dei risultati di tali determinazioni quindi deve essere eseguita considerando questi elementi. L’ANP è risultato correlato con le dimensioni dell’atrio di sinistra e valori elevati di ANP si sono dimostrati correlati con la prognosi in cani con miocardiopatia dilatativa. Per quanto concerne il BNP, esso

al momento appare di maggiore utilità nel gatto. Due recenti studi indipendenti hanno infatto evidenziato come la determinazione del BNP possa essere utile per lo screening della miocardiopatia ipertrofica, o per differenziare i gatti con dispnea dovuta a problemi respiratori da quelli con scompenso cardiaco. Nel cane la determinazione del BNP al momento non ha fornito gli stessi risultati incoraggianti. Per entrambe le specie invece al momento mancano dati sul valore prognostico della determinazione del BNP.

Bibliografia: è disponibile a richiesta all’autore

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La terapia dello scompenso cardiaco acuto Michele Borgarelli DMV, PhD, DECVIM-CA (Cardiol) - Kansas State University, Manhattan, KS, USA

Lo scompenso cardiac acuto (AHF) rappresenta una condizione sempre di più frequente riscontro anche in medicina veterinaria. Poiché lo AHF può avere conseguenze fatali per la vita dell’animale, è essenziale riconoscere gli animali affetti da questa condizione rapidamente, al fine di ottimizzare il trattamento e di conseguenza migliorare la prognosi. Nel cane e nel gatto lo scompenso cardiaco acuto è clinicamente caratterizzato, nella maggior parte dei casi, da segni di insufficienza cardiaca sinistra quali, insorgenza acuta di dispnea e ortopnea. Alcuni soggetti possono anche presentare sincopi. Nei casi più gravi si osservano i segni dello schock cardiogeno. È importante ricordare che tali segni clinici non rappresentano segni specifici di AHF e possono anche essere presenti in corso di patologie respiratorie acute delle vie respiratorie inferiori. In medicina umana, alcuni biomarker quali il fattore natriuretico cerebrale (BNP) si sono rilevati estremamente utili al fine di differenziare i pazienti con AHF da quelli con insufficienza respiratoria primitiva. Al momento la determinazione del BNP nel cane e nel gatto a questo fine ha prodotto risultati contrastanti e ulteriori studi sono necessari al fine di valutarne l’utilità come biomarker diagnostico. Gli animali con AHF sono particolarmente sensibili allo stress e di conseguenza è essenziale ridurre al minimo le procedure diagnostiche che possono peggiorare le condizioni cliniche. In genere, se la storia clinica e l’esame clinico indicano che l’animale è in AHF, è consigliabile rinviare le procedure diagnostiche dopo aver iniziato la terapia. La prima misura terapeutica per i pazienti con sospetto di AHF presso il nostro centro è rappresentata dalla somministrazione di ossigeno e furosemide e.v.. Sotto questo punto di vista è consigliabile garantire un accesso venoso mediante il posizionamento di un catetere in tutti gli animali con AHF. Per quanto concerne le procedure diagnostiche è consigliabile eseguire appena possibile una radiografia in posizione dorso ventrale. Questo indagine e ‘in genere ben tollerata anche dai pazienti in condizioni cliniche più critiche, e consente di confermare la presenza di edema polmonare e/o di versamento pleurico. In caso di versamento pleurico, è importante procedere ad una toracocentesi appena possibile. Tale procedura è infatti in grado di alleviare i segni clinici e in molti casi di stabilizzare il paziente. In caso di animali particolarmente stressati, è possibile ricorrere ad una lieve sedazione con buprenorfina. Nel caso si sospetti che lo scompenso lo AHF sia determinato da un’aritmia è essenziale eseguire un ECG con l’animale in decubito sternale o in posizione quadrupedale sempre al fine di ridurre lo stress. Il trattamento dello AHF accertato è basato sulla somministrazione di alcuni farmaci che richiedono un monitoraggio continuo pressorio ed elettrocardiografico del paziente.

La scelta del tipo di trattamento deve basarsi, quando possibile, sulla conoscenza dell’eziologia dello AHF. Per esempio in caso di AHF determinato da rottura delle corde tendinee in un cane con malattia degenerativa mitralica cronica la somministrazione di nitroprusside rappresenta il trattamento di scelta in quanto in grado di ridurre il precarico ventricolare in modo significativo. Nel caso di un cane con AHF determinato da miocardiopatia dilatativa la scelta dell’autore è diretta verso la somministrazione di dobutamina o dopamina al fine di sostenere la funzione sistolica. In caso non sia possibile accertare la malattia cardiaca responsabile dello AHF la nostra preferenza è diretta all’utilizzo della dobutamina perché dotata di minore effetti ipotensivi. È importante ricordare che i gatti con AHF sono spesso affetti da malattie cardiache quali la miocardiopatia ipertrofica o restrittiva. Il trattamento di questi pazienti può essere particolarmente difficile poiché una eccessiva riduzione del precarico con diuretici o farmaci vasodilatatori può ridurre significativamente la portata cardiaca. Tra i farmaci recentementi proposti per il trattamento dello scompenso cardiaco acuto vi è anche il pimobendan. I dati preliminari di uno studio condotto presso un centro di referenza negli USA ha fornito dati contrastanti. Il pimobendan può essere indicato nei pazienti con AHF per i suoi effetti inotropi positivi e vasodilatatori. Il principale svantaggio del pimobendan per il trattamento degli animali con AHF è legato al fatto che non esiste in soluzione iniettabile. Sotto questo punto di vista il levomisendan, un farmaco con effetti simili al pimobendan disponibile per somministrazione e.v., potrebbe rappresentare una possibile opzione terapeutica in futuro. Il levomisendan si è dimostrato un farmaco efficace per il trattamento dello scompenso cardiaco acuto nell’uomo. Tra i farmaci sconsigliati per il trattamento dello AHF a nostro parere vi sono i beta bloccanti. Tali farmaci infatti, sebbene possano avere positivi nei pazienti con scompenso cardiaco cronico stabilizzato, a causa della loro azione inotropa negativa possono contribuire in modo importante al peggioramento delle condizioni cliniche degli animali con AHF non determinato da un’aritmia. Alcuni dati preliminare suggeriscono che, nei gatti con miocardiopatia ipertrofica scompensata e stenosi dinamica aortica l’utilizzo dei beta bloccanti è associato ad una prognosi peggiore. È importante però ricordare che nel caso di gatti in trattamento cronico con un farmaco beta bloccante, questo non deve essere sospeso. Infatti, la sospensione improvvisa di questi farmaci può indurre l’insorgenza di aritmie ventricolari o di peggioramenti emodinamici significativi a causa del cosiddetto effetto di “rebound catecolaminico”. La bibliografia è disponibile su richiesta 104


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Ecocontrasto in ecocardiografia Michele Borgarelli DMV, PhD, DECVIM-CA (Cardiol) - Kansas State University, Manhattan, KS, USA

L’utilizzo di mezzi di contrasto in ecocardiografia risale a circa 40 anni fa. Originariamente gli studi ecocardiografici con contrasto erano determinati dalla necessità di riconoscere meglio le diverse strutture cardiache e la loro anatomia in soggetti con esami di scarsa qualità, nonché per riconoscere la presenza di shunts. Il mezzo di contrasto più semplice utilizzato in ecocardiografia è rappresentato da una soluzione fisiologica agitata manualmente e iniettata in una vena periferica. Questa tecnica è utile per identificare le camere cardiache destre in caso di anomalie congenite come cor triatriatum o per identificare la presenza di shunts destri sinistri. Infatti, quando si agita manualmente una soluzione fisiologica, si creano delle microbolle di aria di dimensioni superiori a quelle dei capillari polmonari che, in condizioni normali, non possono attraversare il letto capillare polmonare e raggiungere i settori sinistri cardiaci. L’identificazione anche solo di poche bolle in atrio o ventricolo sinistro, deve essere quindi interpretata come conseguenza di uno shunt destro sinistro. Negli ultimi anni la ricerca ha consentito di produrre nuovi mezzi di contrasto ecocardiografici utilizzando la tecnica di sonificazione. Tale metodica consiste nel produrre microbolle di gas di dimensioni inferiori a quelle dei globuli rossi e che quindi possono attraversare i capillari polmonari e raggiungere i settori sinistri cardiaci dopo essere stati iniettati in una vena periferica. Il primo di questa nuova generazione di mezzi di contrasto è stato l’Albunex, prodotto mediante sonificazione di una soluzione al 5% di albumina umana. Il gas contenuto all’interno delle microbolle di Albunex era rappresentato da aria. Il principale svantaggio dell’Albunex era rappresentato dal fatto che l’aria essendo un gas altamente diffusibile fuorisciva facilmente dalle microbolle nel momento del loro passaggio nei capillari polmonari e l’opacificazione del ventricolo sinistro era di conseguenza ridotta. Al fine di superare questo limite, l’aria nelle microbolle è stata sostituita da gas ad alto peso molecolare. Questi gas, essendo insolubili nel sangue, anche in caso di fuoriuscita dalle microbolle, mantengono la capacità di aumentare il contrasto nelle camere cardiache. L’utilizzo di uno di questi mezzi di contrasto in ecocardiografia (Optison) è stato descritto in medicina veterinaria al fine di aumentare la qualità del segnale Doppler nella proiezione sottocostale. Recentemente sono disponibili i mezzi di contrasto di terza generazione in cui il gas non è più intrappolato in un guscio di albumina ma in una struttura lipidica o di policarbonato. Questi mezzi sono rappresentati dal Sonovue e dal Definity. Entrambi sono caratterizzati da una maggiore sta-

bilità delle microbolle in circolo e da un ottima capacità di opacifizzare il miocardio. Gli studi ecocardiografici con mezzo di contrasto necessitano di settare l’ecocardiografo in modo diverso da un esame normale. In particolare l’indice meccanico della macchina deve essere ridotto. Questo indice rappresenta la potenza del segnale ecocardiografico, e valori elevati distruggono le microbolle rapidamente. Inoltre, le caratteristiche fisiche delle microbolle richiedono l’utilizzo della seconda armonica al fine di ottimizzare il contrasto prodotto. Le principali indicazioni per l’utilizzo della metodica dell’ecocontrasto in cardiologia sono rappresentate da: a) Identificazione di shunts come descritto in precedenza b) Opacificazione delle camere cardiache in pazienti con qualità dell’immagine scarsa c) Miglioramento del segnale Doppler d) Valutazione del transito polmonare e) Valutazione della perfusione miocardica

Opacificazione delle camere cardiache e miglioramento del segnale doppler Nei pazienti in cui la qualità delle immagini ecocardiografiche ottenute con la metodica standard è scarsa, l’utilizzo dei mezzi di contrasto di seconda e terza generazione può essere utile al fine di identificare meglio le strutture cardiache. In particolare la metodica ecocontrastografica può essere di particolare utilità per calcolare la frazione di eizione in apicale in pazienti con finestra acustica non ottimale. Come detto precedentemente la metodica ecocardiografica può risultare estremamente utile anche per aumentare l’intensità del segnale doppler. Quest’ultima applicazione può essere importante in caso di screening per malattie quali la stenosi subaortica o polmonare.

Valutazione del transito polmonare (TTP) Il TTP è un indice di funzione cardiaca. Recentemente è stato dimostrato che il TTP, valutato mediante tecnica radio cine-angiografica, correla con la funzione sistolica in cani normali e cani con malattia degenerativa cronica mitralica. La valutazione del TTP utilizzando la metodica ecocontrastografica è relativamente semplice e consiste nel conto dei battiti cardiaci che intercorrono dal momento della comparsa del mezzo di contrasto in atrio destro, al momento della sua comparsa in atrio sinistro. In uno studio pilota condotto presso il nostro laboratorio, tale tempo appare costante in cani normali e concorda con quello riportato negli studi condotti con radiocineangiografici. 105


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Valutazione della perfusione miocardica

bolle inviando per un breve periodo un segnale con indice meccanico elevato, è quindi possibile studiare quanto tempo impiegano le microbolle a riperfondere il miocardio e ad evidenziare eventuali aree di ipoperfusione. L’ecocardiografo utilizzato nel nostro laboratorio inoltre dispone di software dedicato che consente di quantificare la perfusione in diverse aree del miocardio contemporaneamente.

I mezzi di contrasto di ultima generazione sono relativamente stabili nel circolo ematico. In conseguenza di questa loro proprietà essi ricircolano nel sistema cardiovascolare e perfondono anche il miocardio. La valutazione della perfusione miocardiaca richiede un’infusione continua di microbolle. Questo permette il raggiungimento di uno stato di equilibrio in circolo tra le microbolle immesse e quelle rimosse dal circolo. In seguito alla distruzione delle micro-

La Bibliografia è disponibile su richiesta

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Ruolo della radioterapia ed integrazione radio chemioterapica nel trattamento dei linfomi multicentrici nel cane Julia Buchholz Dr Med Vet, Dipl ACVR - Radiation Oncology, Switzerland

Lymphoma is one of the most frequently diagnosed cancers in dogs and accounts for 7-24% of canine neoplasia. It is the most common malignancy of the hematopoetic system. The etiology is largely unknown and likely multifactorial in nature. Ongoing investigations are currently focused on chromosomal aberrations and their etiologic and prognostic importance and their usefulness as predictive assays. The most common anatomic form of lymphoma in dogs is the multicentric form with about 80% representing that type and with the main clinical sign being generalized peripheral lymphadenopathy. More than 80% of dogs are presented in advanced stages (stage III-V). About 20-40% present with clinical signs, classified as substage b (WHO classification), which is associated with a worse prognosis. The immunophenotype is known to be a prognostic indicator as well. About 60-80% of canine lymphoma are of B-cell phenotype, whereas 10-38% are of T-cell origin, often associated with hypercalcemia and cranial mediastinal involvement and a worse prognosis. Standard of care is the treatment with multiagent chemotherapy protocols, including vincristine, cyclophosphamide, doxorubicin and prednisone (CHOP protocol). Those drugs are known to be most potent for the treatment of lymphoma, achieving high initial remission rates of 80-90% and fast return of a good quality of life and median survival times of about 12 months. Development of multidrug resistance is a major drawback in achieving long-term control and at some point most patients finally die because of recurrence that is not responsive to chemotherapy anymore and expression of the MDR-gene could be shown to be more likely in recurrent lymphoma. Lymphocytes are known to be exceptionally sensitive to radiation and radiation is used successfully for the treatment of localized lymphoma (stage I lymphoma) in diverse areas of the body, such as the nasal cavity, brain, spinal cord and skin. Since the multicentric form of lymphoma involves the whole body, the radiation, in consequence, would have to be administered to the entire body which in turn carries a higher risk of toxicity. Johnson et al. as well as Laing et al. first evaluated the technique of half-body radiation therapy (HBRT) in dogs and subsequently the administration of HBRT to treat canine lymphoma patients. Laing et al. applied 7 Gy to each half, separated by 28 days in between treatments. The radiation was not combined with chemotherapy, even though some dogs failed chemotherapy before being enrolled in the radiation treatment. Those that have not

received chemotherapy prior to radiation and those with smaller tumor burdens responded more favorably. Still, the overall tumor response was poor compared to combination chemotherapy protocols and the toxicity was unacceptable, including deaths due to tumor lysis syndrome, sepsis, thrombocytopenia, and up to 80 % of dogs showed signs of radiation sickness. Since then, more commonly 4 Gy fractions on 2 consecutive days were administered to each half of the body 3-4 weeks apart to reduce toxicity. To increase efficacy, radiation was incorporated in protocols to be given in combination with chemotherapy rather than using the two treatments apart from each other, trying to let the two modalities work complementary (Williams et al., 2004; Gustafson et al., 2004). Results obtained within the pilot study performed at Colorado State University, published by Gustafson et al. were promising with median survival times of 560 days. When looking at a larger cohort of dogs treated at the same institution, median survival times reached 461 days (Buchholz et al., 2008), which is satisfying, but not overwhelmingly convincing. Another approach has been used to treat relapsed canine lymphoma, using low-dose total body irradiation (LDTBI). The additional rationale for using LDTBI is to induce an immune response (Rassnick et al,, 2007). A recently published study also used low-dose rate irradiation administered to half of the body with the rationale to be able to shorten the inter-radiation interval. This means that half of the body gets treated first with this low dose rate allowing for sublethal damage repair to occur, and therefore the other half of the body can be treated safely after 2 weeks already, thereby minimizing tumor cell repopulation between the two fractions of radiation. Results of this study were very promising. Median survival times were about 3 years, even though patient numbers were small and long-term, maintenance chemotherapy for about 2 years was administered (Lurie et al., 2008). Potential side effects after half-body-/total body irradiation are myelosuppression (mainly neutropenia and thrombocytopenia), alopecia, vomiting/diarrhea (after irradiation of the caudal half), and anorexia. These side effects are minimal if patients that are already in clinical complete remission are irradiated. If macroscopic lymphoma is present and gets irradiated, tumor lysis syndrome is a possible severe, and potentially life-threatening, complication (Vickery et al., 2007). 107


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Administering radiation to such large areas of the body such as half of the body or even the whole body requires very careful planning as is true also for fractionated radiation therapy to localized areas. For comparison, a commonly used fractionation scheme in veterinary medicine for radiation patients treated for localized, solitary tumors, such as mast cell tumors or soft tissue sarcomas uses fraction sizes of 3-3.5 Gray per fraction for 15-18 times within a relatively short period of time. The LD 50/60 for humans is estimated to be around 3.25 Gray for young healthy adults without any medical intervention, which indicates a mortality rate of 50% sixty days after having received that dose. This example illustrates the potential danger if people that are not welltrained are using radiation, or other potentially hazardous treatment modalities. In human medicine, radiation is not used anymore for the treatment of lymphoma on a routine basis. It mainly is still used for limited-stage Hodgkin’s lymphoma, where it has evolved from extended field radiation therapy (EFRT) to involved-field radiation therapy (IFRT), reducing toxicity while maintaining high cure rates. Recently, further field size reductions to involved-nodal radiation therapy (INRT) have been recommended. The advantage of irradiating small areas only is the fact that higher total doses can be applied. This is also an important factor while treating our animal patients. With total or half-body irradiation, we obviously administer the same dose to all sensitive tissues, such as brain, heart, lungs, spinal cord. Also, the bone marrow toxicity limits our fractionation schedule. Therefore, if we focus more on irradiating lymph nodes/lymph centers/lymphatic vessels only, we might be able to treat these areas up to total doses of 30-40 Gray, leading to long-lasting T-cell lymphopenia. Using computerized treatment planning, after having obtained exact anatomical information with a CT scan, radiation can be applied in a very exact and “elegant” way to structures we want to treat without hitting the sensitive organs that do not necessarily need the dose. Since we are, in contrast to human medicine, not able to treat lymphoma aggressive enough with chemotherapy to cure our patients (less than 10% cure rate), radiation might play a larger role in the treatment of veterinary lymphoma patients. Side effects from aggressive chemotherapy are not acceptable in our patients, and since radiation is very well tolerated it holds some promise to prolong survival times and hopefully cure rates in canine lymphoma patients. Also, using radiation, we might be able to overcome the problem of chemotherapy resistance. ìFor the future, main indications for dogs with lymphoma might be further elaborated consolidation protocols for dogs that are already in complete clinical remission after having received systemic multi-drug chemotherapy protocols, treatment of patients with chemotherapy-resistant lymphomas, as well as the treatment of local and/or locoregional macroscopic lymphoma. Pictures: 1) A dog from Italy immediately prior to administration of the radiation and 2) the 3-dimensional reconstruction of the same dog on the treatment planning computer. 3) Another picture of the same dog showing the dose distribution in the region of the lymph nodes cranial to the diaphragm (“mantle field”) 108


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Farmacologia degli analgesici: la teoria incontra la pratica Antonello Bufalari Med Vet, PhD, Perugia

Chiara Maggio, Med Vet, Perugia Ilaria Cerasoli, Med Vet, Perugia

Lidocaina

cessivamente ampliate e, ad oggi, l’infusione continua si impiega in neurochirurgia, in terapia intensiva per pazienti pediatrici, per la cardiochirurgia, etc. In medicina veterinaria, la possibilità di utilizzare la dexmedetomidina (bolo di carico di 1-5 mcg/kg, EV), in infusione continua (1 mcg/kg/h), in corso di intervento chirurgico, risulta particolarmente interessante. Nella nostra esperienza, in corso di anestesia generale con isoflurano, abbiamo riscontrato un significativo abbassamento della dose di infusione di sufentanil (oppiaceo agonista puro) somministrato contemporaneamente alla dexmedetomidina. A fronte di parametri cardiovascolari e respiratori stabili, si è notata una maggiore capacità di controllo dello stimolo nocicettivo intraoperatorio. Inoltre, è stato evidenziato un risveglio dall’anestesia tranquillo e scevro da complicazioni. Il vantaggio di poter diminuire la dose di oppiaceo in infusione continua può risultare di particolare rilievo nella corretta gestione dell’anestesia bilanciata per minimizzare gli effetti collaterali (es. depressione respiratoria) indotti dagli oppioidi agonisti puri (Bufalari A, et al. 2008).

Gli effetti della lidocaina somministrata in infusione endovenosa sono stati oggetto di numerosi studi condotti negli ultimi anni. L’infusione continua di lidocaina si è rivelata vantaggiosa per diversi aspetti: nell’uomo ha dimostrato essere efficace nel trattamento del dolore intraoperatorio (Cassuto et al., 1985) e dopo chirurgia addominale, nonché nel trattamento dell’iperalgesia (Koppert et al., 1998); nel ratto affetto da dolore neuropatico, se somministrata in premedicazione, sembra ritardare la comparsa di iperalgesia (Smith et al., 2002). Negli animali è stato documentato che l’infusione di lidocaina diminuisce la richiesta di anestetico inalatorio (misurata tramite la determinazione della MAC) del 50% nel cavallo e del 18% nel cane e proprio questa notevole riduzione sembra dimostrare l’effettivo potere analgesico della lidocaina somministrata in infusione (Smith et al., 2004). I meccanismi con i quali la lidocaina riduce il dolore includono sicuramente l’interazione con i recettori degli oppioidi µ e κ. Infatti, da recenti studi sembra possibile evincere un’interazione tra anestetici locali e recettori oppioidi che potrebbe modulare la formazione di cAMP. Il bolo di carico è di 1 mg/kg, EV, seguito da infusione continua di 50-100 mcg/kg/min.

Ketamina È un agente anestetico con proprietà dissociative, catalettiche ma non ipnotiche. Induce uno stato di catatonia e una condizione di analgesia per riduzione del “wind-up” dei neuroni spinali. La ketamina ha la capacità di bloccare l’azione di particolari recettori chiamati N-Metil-D-Aspartato (NMDA) che, se attivati, modificano la permeabilità di membrana dei neuroni con l’instaurarsi di una situazione di ipersensibilità allo stimolo dolorifico. La ketamina, inoltre, interviene nella modulazione dello stimolo nocicettivo agendo sia con i recettori degli oppioidi, che riducono la trasmissione nocicettiva a livello di lamina I e V delle corna dorsali, sia riducendo la trasmissione del tratto spino-reticolare. La ketamina in infusione continua, per la sua peculiare caratteristica di controllare il dolore, potrebbe svolgere in futuro un possibile ruolo di primo piano come adiuvante nell’analgesia intra e postoperatoria. In medicina umana, concentrazioni plasmatiche superiori a 20 ng/ml aumentano l’efficacia di morfina e bupivacaina epidurali. Nel cane il bolo di carico è di 0,5-1 mg/kg, EV, seguito da infusione continua di 0,3-0,5 mg/kg/h.

Dexmedetomidina

La dexmedetomidina è il più recente e selettivo agente α2agonista disponibile in Italia. È costituito esclusivamente dall’isomero destrogiro della medetomidina. L’assenza dell’isomero levogiro ha permesso di ridurre il carico metabolico epatico, l’interazione con altre molecole e la manifestazione di effetti indesiderati. I due enantiomeri mostrano effetti opposti sulla trasduzione del segnale a livello cellulare: la dexmedetomidina agisce come un agonista puro, inibendo la produzione di cAMP e riducendo l’entrata del Ca2+ nelle terminazioni nervose, mentre la levomedetomidina agisce come un agonista inverso, aumentando la sintesi di cAMP e del Ca2+. La dexmedetomidina si comporta, quindi, come un agonista puro e possiede una selettività α2/α1 superiore rispetto alla clonidina e un’affinità molto bassa per i recettori α1, che mediano l’aumento dell’attività eccitatoria e locomotoria e l’aumento della probabilità di aritmie indotte dall’adrenalina. La dexmedetomidina è stata inizialmente impiegata in medicina umana nel 1999 negli USA come agente sedativo per infusione intravenosa nei pazienti adulti in terapia intensiva. Le applicazioni cliniche sono state suc-

Sufentanil Il sufentanil citrato è un oppioide agonista puro analogo tienilico del fentanyl. Studi in vitro hanno dimostrato che la 109


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un rapido onset time (circa un minuto), si equilibra rapidamente tra il cervello ed il sangue e ha un ridotto volume di distribuzione (Chism, 1996). Il tempo di dimezzamento è particolarmente breve (3-5 min) ed è indipendente dalla durata della somministrazione. Nella struttura chimica del remifentanil è presente un estere metilico molto labile che rende il farmaco suscettibile di idrolisi da parte di esterasi eritrocitarie e tissutali aspecifiche; i muscoli, l’intestino ed il cervello sono gli organi che partecipano più attivamente alla clearance del remifentanil (Chism, 1996). Il fegato, pertanto, contribuisce in modo del tutto trascurabile al metabolismo del farmaco. Il suo principale metabolita ha anch’esso un’azione µ agonista ed è escreto dal rene, ha potenza d’azione trascurabile rispetto al remifentanil. Gli effetti collaterali riportati in letteratura per il remifentanil sono sovrapponibili a quelli degli altri oppioidi agonisti e consistono in apnea, bradicardia, modica ipotensione e rigidità muscolare. La depressione respiratoria che può verificarsi con l’uso del remifentanil suggerisce che debba essere garantita la ventilazione assistita del paziente durante l’intervento chirurgico. Tuttavia è di comune riscontro la rapida ripresa della normale funzionalità respiratoria appena l’infusione del farmaco viene interrotta. Dose di infusione 5-15 mcg/kg/h; non necessita di un bolo di carico.

selettività di questo farmaco per i recettori µ è superiore a quella del fentanyl, morfina, meperidina e metadone. Studi in vivo nel cane hanno rilevato che la potenza del sufentanil è 625 volte superiore a quella della morfina e circa 5 volte superiore a quella del fentanyl, mentre il margine di sicurezza (rapporto tra la dose responsabile di grave depressione cardiovascolare e quella in grado di determinare profonda analgesia) è di 24 per il sufentanil e di 5 per il fentanyl (De Castro et al., 1979). Questo farmaco è più liposolubile del fentanyl e si lega in elevata percentuale alle proteine plasmatiche. È metabolizzato a livello epatico, attraverso reazioni di dealchilazione e demetilazione. Nel cane la maggior parte dei metaboliti viene eliminata con le urine (60%). Gli effetti cardiovascolari e respiratori sono simili a quelli del fentanyl, rispetto al quale sembra produrre una minore depressione respiratoria nei pazienti umani (Bailey et al., 1986). Nel cane, anche a dosi di infusione elevate, dimostra un margine di sicurezza cardiovascolare superiore rispetto al fentanyl (Monk, 1988), nonostante la bradicardia vago mediata. La dose in infusione continua di sufentanil nel cane è di 0,1-2 mcg/kg/h, dopo un bolo di carico di 0,11 mcg/kg, EV.

Alfentanil L’alfentanil cloridrato (Fentalim ?) è un derivato fenilpiperidinico analogo del fentanyl. È un oppioide agonista puro dei recettori µ (Branson, 2001). L’alfentanil ha un rapido onset d’azione (circa 1-2 minuti dopo somministrazione endovenosa) con durata di 5-10 minuti. Durante l’infusione endovenosa raggiunge concentrazioni plasmatiche stabili in circa 10-15 minuti. La percentuale di legame con le proteine plasmatiche è superiore a quella del fentanyl e tale legame è meno influenzato dal pH rispetto a quanto avviene per fentanyl e sufentanil. L’alfentanil è metabolizzato in sede epatica attraverso reazioni di dealchilazione e di demetilazione. Il suo ridotto volume di distribuzione ne rende l’eliminazione rapida, la sua durata d’azione è breve e il suo accumulo è scarso anche in caso di infusioni prolungate. Il suo indice terapeutico, cioè il rapporto tra la LD/50 e la ED/50, è di 1080 nel ratto, a dimostrazione di un margine di sicurezza nettamente superiore a quello del fentanyl (Fatale, 1999). L’alfentanil ha un maggiore potere vagotonico rispetto al fentanyl e spesso è necessario somministrare degli anticolinergici per prevenire delle bradiaritmie clinicamente significative. Tuttavia la somministrazione in infusione endovenosa continua ha evidenziato buona stabilità cardiovascolare nel cane (De Hert, 1991). Dose di carico di 5-10 mcg/kg, EV, seguita da infusione di 10-20 mcg/kg/h.

Bibliografia Branson KR et al. Agonisti ed antagonisti oppiacei. In: Farmacologia e terapeutica veterinaria. Adams RH, Cap. XIII. Adams ed., 2a ed. italiana EMSI Roma, 1999. Bufalari et al. Dexmedetomidine constant rate infusion during sufentanil and isoflurane anaesthesia in dogs. Proceedings AVA Barcelona, 100, 2008. Bailey PL et al. Sufentanil produces shorter lasting respiratory depression and longer lasting analgesia than equipotent doses of fentanyl in human volunteers Anesthesiol 65, A493 1986. Cassuto J et al. Inhibition of post-operative pain by continuous low-dose intravenous infusion of lidocaine. Ansth Analg, 64, 971-974, 2003. Chism JP. The pharmacochinetics and extra-epatic clearance of remifentanil, a short acting opioid agonist, in male dogs during constant rate infusion”. In: Drug metabolism and disposition, 24,1: 34-40, 1996. De Castro J et al. Comparative study of cardiovascular, neurological and metabolic side-effects of eight narcotics in dogs. Acta Anaesthesiol Belg 30, 5-99, 1979. De Hert SG. Study of effect of six intravenous anesthetic agents on regional ventricular function in dogs Thiopental, Etomidate, Propofol, Fentanyl, Sufentanil, Alfentanil. In: Acta Anaesthesiologica Belgica, 42, 25-39, 1991. Fatale M. Impiego in Sala Operatoria. In: Atti del primo seminario di anestesia e rianimazione, Roma, 43-45, 1999. Koppert et al. Low dose lidocaine suppresses experimentally induced hyperalgesia in humans. Anesthesiology, 89, 1345-1353, 1998. Monk JP et al. Sufentanil. A rewiew of its pharmacological properties and therapeutic use. In: Drug Evaluation, 36: 286-313, 1988. Smith et al. Systemic lidocaine infusion as an analgesic for intraocular surgery in dogs: a pilot study. Vet Anesth Analg. 31, 53-63, 2004. Smith et al. Continual systemic infusion of lidocaine provides analgesia in an animal model of neurophatic pain. Pain. 97, 267-273, 2002.

Remifentanil Il remifentanil cloridrato è un oppioide di sintesi derivato della 4-anilidopiperidina che agisce sugli specifici recettori µ. La potenza analgesica del remifentanil è intermedia tra quella del fentanyl e dell’alfentanil. Il remifentanil possiede

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Il comportamento di aggressione: la prevenzione nelle scuole Maria Chiara Catalani DVM Comportamentalista, Dottoranda Ricerca Università degli Studi di Perugia, Consigliere SISCA

PREMESSA

decentra da situazioni d’angoscia o da esperienze negative, attacchi di panico o fobie; etico-scientifiche: orienta i ragazzi verso una relazione equilibrata e rispettosa con l’alterità animale, fondata sulla conoscenza delle differenze comportamentali e dei differenti bisogni dell’animale.

La zooantropologia nasce come specifica disciplina di analisi della relazione tra uomo e animale intesa come rapporto di dialogo, e dei potenziali beneficiali (contributi referenziali) che scaturiscono da tale rapporto. I presupposti fondamentali su cui si fondano relazione e contributi referenziali sono tre. Innanzitutto il riconoscimento del concetto di alterità animale ovvero l’identificazione dell’animale come soggetto portatore di differenze ed interlocutore nella relazione. Il secondo aspetto riguarda la valorizzazione della diversità di cui è portatore l’animale, in grado di offrire una forte specificità di contenuti attraverso la relazione di interscambio. Infine, il principio di relazione è il terzo elemento secondo cui presupposto per la relazione è il riconoscimento nell’animale di un soggetto attivo e coinvolto, capace di interagire con la persona attraverso un dialogo e un interscambio, in grado di apportare e ricevere un cambiamento dalla relazione. Su questi tre principi, la zooantropologia fonda le attività che offrono contributi di arricchimento per la persona. In zooantropologia applicata si pone come obiettivo un contributo referenziale che viene promosso dall’incontro con la diversità animale e che offre al fruitore contributi per un cambiamento personale e relazionale – sociale6. Numerosi studi dimostrano che l’interazione uomo-animale presenta importanti valenze formative, didattiche e di sostegno1. Nei bambini l’interazione con l’animale si è dimostrata efficace nell’accrescere l’autostima, motivare le pulsioni relazionali, diminuire gli stati di paura, ansia e depressione, arricchire il repertorio espressivo, dare un sostegno nelle “crisi di passaggio”, aumentare la curiosità e l’entusiasmo3. Inoltre, l’interazione con l’animale presenta valenze educative4: formative: aumenta il vocabolario immaginativo e la fantasia, riduce la diffidenza verso la diversità, migliora disposizioni sociali e capacità relazionali, autocontrollo e acquisizione di un corretto registro di movimento, stimola le disposizioni di cura e la dimensione affettiva, implementa relazioni empatiche e di partecipazione emotiva; didattiche: funge da centro di interesse, permette esperienze di gioco-studio, aiuta a connettere ambiente domestico e scolastico, facilita percorsi interdisciplinari e la comprensione di alcuni concetti descrittivi e di alcuni valori; di sostegno: aumenta l’interesse e la motivazione ludica e cognitiva, facilita i rapporti sociali, offre stimoli tranquillizzanti ed appaganti, diminuisce stati di ansia/depressione,

LA ZOOANTROPOLOGIA DIDATTICA: OBIETTIVI E CONTENUTI7 Il progetto di ZD consta di lezioni teorico-pratiche dove i ragazzi vengono coinvolti in attività con specifici contenuti disciplinari e importanti valenze educative e didattiche, che facilitano il raggiungimento degli obiettivi complessivi dell’attività didattica curricolare. Un progetto di ZD può prevedere: – Attività informative sulle caratteristiche comportamentali, in particolare di cane e gatto, sulle corrette modalità di comunicazione e interazione, sulla prevenzione degli incidenti legati ai problemi di aggressività, sull’adozione responsabile e la cura degli animali da compagnia, sulla prevenzione al randagismo e sulla educazione sanitaria. – Attività educative finalizzate a valorizzare e promuovere alcuni aspetti della formazione del ragazzo (educazione affettiva, sviluppo dell’immaginario, valorizzazione della diversità, educazione senso-motoria, processi di autostima, componenti cognitive, espressive, figurative, autocontrollo). – Attività didattiche rivolte ad aumentare la partecipazione alla vita scolastica creando centri di interesse, a migliorare le relazioni tra i ragazzi, favorire l’acquisizione e l’organizzazione delle conoscenze, connettere il vissuto domestico e scolastico, migliorare l’expertise del ragazzo. – Attività emendativo-rieducative, sono volte ad aiutare il ragazzo a superare particolari difficoltà e a fortificare alcune aree deficitarie, assisterlo e motivarlo se poco interessato, migliorare il registro comportamentale, tonificare l’area emozionale e la dimensione affettivo-partecipativa. Molteplici possono essere i contenuti specifici della ZD. I progetti possono essere focalizzati su a) pet-ownership ovvero su cura e accudimento del pet, scelta dell’animale, interazione e comunicazione; b) comportamento animale con approfondimento dell’etogramma di specie, l’adattamento, i processi di apprendimento, percezione e comunicazione animale; c) partnership uomo-animale focalizzate sulla collaborazione uomo-animale domestico, l’analisi storicogeografica di tale alleanza; d) zooantropologia urbana con 111


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analisi del rapporto uomo-animale in città, dell’ecologia urbana, prevenzione dell’abbandono e degli incidenti con animali; e) natura relativi alle diverse entità naturali, al contesto ambientale, all’organizzazione di esperienze conoscitive; f) ecologia, per la conoscenza delle diverse relazioni tra i viventi; g) diversità animale, mirati a valorizzare la diversità e la conoscenza dell’animale; h) orientamento dello sviluppo, finalizzati a tonificare una particolare area del ragazzo (educazione dei sensi, comunicazione, ecc.). Infine, la ZD può proporre progetti di affiancamento, dove il progetto assume il compito di rafforzare altri progetti (educazione alimentare, sanitaria, all’affettività, ecc.) attraverso specifici contenuti disciplinari.

CONCLUSIONI Le attività di ZD permettono di raggiungere importanti obiettivi, differenziati sulla base dei contenuti programmati e delle attività realizzate in classe. È fondamentale programmare interventi di ZD integrati nelle attività curricolari, per arricchirle e favorire il processo pedagogico. Il contributo offerto dalla ZD non è limitato all’aspetto sanitario – preventivo o a quello informativo ma coinvolge aree fondamentali dello sviluppo individuale del bambino. Da ciò deriva che la formazione del medico veterinario impegnato in queste attività sia specificamente orientata sull’approfondimento della zooantropologia teorica, dell’etologia, della pedagogia. È fondamentale, infatti, che si arricchiscano le attività di tipo informativo – tecnico con programmi che investano sui contributi referenziali offerti dalla relazione con l’animale per contribuire alla crescita e alla formazione del bambino.

PROGETTO “GLI ANIMALI DOMESTICI: CONOSCERLI, RISPETTARLI, VIVERCI IN SICUREZZA”6 L’iniziativa, rivolta ai bambini della Scuola Primaria, è stata realizzata come progetto pilota sull’etologia degli animali d’affezione e sull’approccio sicuro ad essi grazie all’interesse ed il contributo erogato da un Ente Pubblico (Provincia di Ancona) a SISCA. Il progetto è stato realizzato in tre incontri teorici sull’etologia del cane e del gatto, la comunicazione interspecifica uomo – cane/gatto, le regole dell’approccio al cane ed un incontro con l’animale a Scuola. La parte teorica è stata realizzata con lezioni frontali seguite da lavori di mimica e drammatizzazione, per allenare i ragazzi sul gioco di ruoli nella relazione con l’altro e portarli a sperimentare ed acquisire specifiche prassi di interazione con un cane sconosciuto, nell’ottica della prevenzione degli incidenti. L’incontro col cane è stato realizzato grazie al contributo di binomi pet-partner della SIUA, composti da un operatore per la pet therapy e la ZD e dall’animale partner, formati e certificati dalla scuola per queste attività.

Bibliografia 1. 2.

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4. 5.

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7.

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Barnard C., (2007), Ethical regulation and animal science: why animal behaviour is special, Anim. Behav,74(1), 5-13. Catalani MC, (2004), Teorie esplicative della pet relationship. Cosa spinge l’uomo verso la relazione con l’animale? in “Nuove prospettive nelle attività e terapie assistite da animali” a cura di R. Marchesini, Edizioni SCIVAC, Cremona, 57-78. Christine L. et Al., (2009), Increasing Physical Activity in Preschool: A Pilot Study to Evaluate Animal Trackers, Journ. Nutr. Educ. Behav., 41(1), 47-52. Marchesini R, (2005), Canone di zooantropologia, Alberto Perdisa Editore, Bologna. Tarlowski A., (2006), If it’s an animal it has axons : Esperience and culture in preschool children’s reasoning about animates, Cogn. Devel., 21(3), 249-265. Toyama N., et Al.. (1997), Japanese preschoolers’ understanding of biological related concepts to procedures for animal care, Early Childhood Res. Quarterly, 12 (3), 347-360 www.siua.it – Manifesto della Zooantropologia.


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Il dolore acuto nel cane: come identificarlo? Louise Clark DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, Londra, UK

Prima degli anni ’80 del secolo scorso, i tentativi sistematici di valutare il dolore clinico negli animali erano stati rari, ed il lavoro più rilevante in questo campo è stato effettuato dopo il 1990. Sono stati effettuati alcuni tentativi di quantificare obiettivamente la risposta algica di un animale. Rientrano fra questi le misurazioni delle risposte fisiologiche, biochimiche e comportamentali, comprese quelle dell’animale in esame ai test standard come la sollecitazione della cute con stimoli nocivi e non nocivi quantitativamente controllati. Nel cane, in ambito di ricerca, è stata impiegata con successo la misurazione della soglia termica, che però non è facilmente trasferibile nella pratica clinica. Nel tentativo di valutare ulteriormente il dolore, sono state studiate in modo obiettivo le risposte fisiologiche ad esso. Queste possono essere rappresentate da dilatazione delle pupille e/o spalancamento delle palpebre, modificazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, aumento della frequenza e/o della profondità del respiro, variazioni della temperatura cutanea e corporea, incremento del tono muscolare, sudorazione, aumento della defecazione e della minzione. Queste modificazioni si possono riscontrare in presenza del dolore, dato che non sono specifiche e tendono semplicemente a riflettere l’attivazione dei sistemi simpatico-surrenalico o ipotalamo-ipofisario, ma sono comunque molto aspecifiche e possono comparire in tutti gli stati di ansia o paura. Sperimentalmente, nel tentativo di trovare utili indicatori del dolore, è stata effettuata la misurazione delle variazioni dei livelli di alcune sostanze biochimiche (diverse dai corticosteroidi) a livello del plasma e del liquido cefalorachidiano. Tuttavia, non esistono prove che indichino che una qualsiasi si esse possa rappresentare un indice pratico. Di conseguenza, poiché non è stata dimostrata la possibilità di misurare obiettivamente il dolore nelle specie animali, si deve fare ricorso ad una valutazione soggettiva. Ciò comporta un ruolo dell’uomo come valutatore ed impone un giudizio di valore. Si deve fare una distinzione fra il dolore che l’animale può percepire e l’impressione che il valutatore umano ne ha. L’ideale è che la valutazione del dolore non sia influenzata dallo stato emotivo del valutatore. La maggior parte degli esseri umani ha una capacità altamente sviluppata di apprezzare e condividere i sentimenti degli altri uomini. Tuttavia, questa capacità non viene utilizzata solo in modo appropriato per valutare i sentimenti degli altri (nel qual caso può funzionare molto bene), ma viene anche applicata agli animali, quando potrebbe non essere appropriata. Benché sia possibile fare delle ipotesi sulla natura generale

del dolore in base alle analogie della fisiologia e farmacologia della nocicezione in un’ampia gamma di specie, può essere un errore tentare di abbinare una definizione umana del dolore a ciò che provano gli animali. Questo è un problema intrinseco del fatto che sia un uomo a valutare il dolore animale! Nella loro risposta comportamentale al dolore, gli animali possono adottare una o più delle seguenti strategie: • Risposte che portano a cambiamenti del comportamento dell’animale e che gli permettono di ridurre o evitare il ripetersi dell’esperienza algica. Queste risposte coinvolgono le esperienze emotive e l’apprendimento, che richiedono le funzioni nervose centrali di livello elevato. • Risposte, spesso automatiche, che proteggono in parte o del tutto l’animale. Queste reazioni e risposte riflesse consistono nella retrazione dall’origine dello stimolo, nella rimozione dello stimolo stesso o nei tentativi di ottenere questi risultati. I riflessi di retrazione possono essere considerati come risposte minime e possono essere estesi fino al punto che l’animale scappa via, o, in alternativa, può cercare di rimuovere o ridurre lo stimolo nocivo leccando, mordendo o attaccandone la fonte. • Risposte che riducono al minimo il dolore e favoriscono la guarigione, per cui l’animale può ridurre l’attività coricandosi, restando in piedi quasi immobile o adottando alcune altre posture caratteristiche. L’animale può andarsene o nascondersi. • Risposte volte a chiedere aiuto o a far desistere un altro animale (uomo compreso) dall’infliggere un ulteriore dolore, ad es. attraverso la comunicazione mediante vocalizzazione, atteggiamenti posturali, ecc. Ci si potrebbe aspettare che, sotto le pressioni evolutive, tali risposte vengano soppresse, dato che i predatori potrebbero individuarle ed utilizzarle per catturare le prede. Tuttavia, negli animali giovani, che dipendono dalla madre, e come minimo in alcune specie sociali, possono invece essere ben sviluppate per ottenere aiuto dalla madre stessa o da altri membri del gruppo. • Incapacità di manifestare risposte comportamentali ben stabilite a causa del predominio di quella algica in atto. Rientrano in questa categoria la mancanza delle interazioni sociali, l’assenza di risposta ai comandi e la disattenzione. © University of Edinburgh La valutazione soggettiva del comportamento algico può risultare impegnativa. L’ambiente ospedaliero sottopone l’a113


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si riesce ad identificare una fonte del dolore. La frequenza della valutazione delle percezioni algiche dipende dal problema che ha determinato la presentazione del soggetto alla visita. Nei pazienti con dolore chirurgico o traumatico, si raccomanda di effettuarla come minimo ogni 2 ore.

nimale ad uno stress che può complicare la valutazione del dolore. Il cane ha perso la sua gerarchia sociale e può essere spaventato dai vicini rumorosi e confuso, oltre che dolorante. L’effetto di una lesione sul comportamento osservabile dei pazienti umani è mal correlato alle descrizioni o ai giudizi che questi ne danno; ciò può avvenire anche nel cane. Ad esempio, i cani più gravemente feriti della nostra unità di terapia intensiva di norma mostrano scarsa attenzione al loro problema, assumendo l’atteggiamento che potrebbero manifestare ai loro proprietari nei periodi in cui si trovano in buona salute. Negli animali, l’intensità dell’esperienza algica può essere superiore a quella prevedibile unicamente sulla base dell’osservazione casuale del comportamento. È essenziale che non ci si limiti solo ad osservare il cane, ma che si interagisca anche fisicamente con lui. Allo scopo è necessario eseguire la palpazione delle ferite e chiedere al paziente di alzarsi e muoversi, se è in grado di camminare e non sta dormendo! Gli infermieri spesso riescono a valutare il dolore molto meglio dei veterinari, perché trascorrono più tempo con gli animali. È importante imparare a riconoscere qual è il comportamento normale di un dato individuo prima di un intervento chirurgico. Come riferimento, può essere utile un questionario da far compilare al proprietario prima del ricovero in ospedale dell’animale. È un cane socievole? Gli piace la gente? Dorme arrotolato su se stesso o rovesciato sulla schiena? Vocalizza molto? Bisogna poi tenere in considerazione altri fattori, come la sordità o la cecità! L’espressione del dolore varia con l’età e da un individuo all’altro. La mancanza di manifestazioni palesi non indica necessariamente che i pazienti non stiano sperimentando le conseguenze negative del dolore. Segnalazioni aneddotiche suggeriscono che certe razze sembrino più sensibili di altre agli stimoli dolorifici. Si ignora se ciò rifletta l’effettiva percezione dei segnali algici. Singoli animali sottoposti alla medesima procedura possono sperimentare o esprimere il dolore in modo differente. Un singolo animale può sperimentare più di un tipo di dolore in un dato momento. Ad esempio, i soggetti anziani con osteoartrite che vengono sottoposti ad un intervento chirurgico possono percepire un dolore muscoloscheletrico dovuto al posizionamento durante l’operazione oltre a quello associato alla chirurgia stessa. Se restano dei dubbi sulla presenza del dolore, si deve somministrare un analgesico e valutare la risposta del paziente. La reazione alla terapia è un mezzo appropriato ed importante per giudicare il dolore. Quando è necessario gestire il problema, si deve formulare un piano, seguirlo ed aggiornarlo secondo necessità. Può risultare difficile differenziare la disforia dal dolore, soprattutto nei casi traumatici o chirurgici. Le due condizioni si possono verificare simultaneamente, complicando ulteriormente il quadro. Gli animali disforici sono spesso difficili da distrarre o calmare attraverso l’interazione o le manipolazioni. La somministrazione di una quota maggiore di oppiacei non serve a migliorare la situazione e non si rileva una fonte del dolore facilmente identificabile. Al contrario, gli animali che provano dolore possono tipicamente essere distratti e calmati ricorrendo all’interazione o alle manipolazioni. La somministrazione di dosi ripetute o aumentate di oppiacei sembra utile e

La misurazione del dolore in ambito clinico Molti ricercatori veterinari hanno studiato i trattamenti analgesici utilizzando alcune forme di valutazione comportamentale per giudicare gli effetti degli analgesici sul dolore acuto. Scale di classificazione del dolore basate su quelle in uso nei bambini sono state impiegate con livelli di successo variabili. Parole come lieve, moderato, grave, eccessivo, atroce, localizzato, netto, sordo, bruciante vengono utilizzate come descrizioni verbali dai pazienti umani che descrivono il proprio dolore. Tuttavia, tali descrizioni sono difficili da applicare al dolore animale. La cosiddetta Visual Analogue Scale o VAS è una linea di 100 mm, ancorata a sinistra al numero 0 o a parole come “nessun dolore” e a destra al numero 100 o a parole come “il peggior dolore possibile” o “il peggior dolore possibile per questa procedura”. Il valutatore osserva il paziente per un periodo di tempo predeterminato, si serve del giudizio clinico dell’intensità del dolore e traccia una linea che interseca quella della VAS da 100 mm. Si misura quindi (in millimetri) la distanza fra questa intersezione e l’estremità sinistra della linea, ottenendo un numero che corrisponde al valore di VAS. il peggior dolore possibile

nessun dolore

0 cm

Distanza misurata

10 cm

Per la valutazione del dolore sono state anche utilizzate le scale di classificazione numerica (NRS, Numerical Rating Scales). Il valutatore traccia un segno circolare intorno ad un numero (da 0 a 10) che corrisponde alla propria stima. Negli studi in ambito veterinario, queste scale non sono state sviluppate sistematicamente, ma piuttosto realizzate dai ricercatori applicando definizioni arbitrarie agli intervalli considerati. Metodi verbali, numerici, numerici classificati, VAS o basati su una combinazione di due o più di queste scale sono stati usati per la valutazione del comportamento del cane in almeno 32 studi relativi all’analgesia ed al dolore in medicina veterinaria. Tutte queste scale sono caratterizzate dal fatto di basarsi su una valutazione soggettiva di comportamenti la cui correlazione con altri indicatori comportamentali o fisiologici del dolore e dello stress non è stata confermata. La natura soggettiva di questi strumenti viene rivelata dalla presenza di una significativa variabilità dei punteggi del dolore assegnati dai vari osservatori (Holton et al. 1998b). Ad esempio, le parole possono significare cose differenti per persone diverse e possono essere impossibili da definire con precisione sufficiente a garantire un buon accordo fra gli osservatori. È stato sviluppato un approccio più formalizzato alla terminologia del dolore. (Holton et al. 2001). Si tratta di una 114


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ziali. Il punteggio massimo per le 6 categorie è di 24, o 20 se la mobilità è impossibile da valutare. Il punteggio totale CMPS-SF si è dimostrato un utile indicatore del fabbisogno analgesico e il livello raccomandato per l’intervento terapeutico è di 6/24 o 5/20. © University of Glasgow

scala verbale composita che è stata raffinata e validata in altri ambienti clinici (Murrell et al. 2008) e condensata per renderla pratica e adatta all’impiego sia in ambito clinico che di ricerca. Attualmente, costituisce probabilmente il metodo più utile per la valutazione del dolore acuto nel cane. La short form composite measure pain score (CMPS-SF) CMPS può venire applicata in modo rapido ed affidabile in ambito clinico ed è stata studiata come uno strumento atto a prendere decisioni cliniche sviluppato per l’impiego nei cani con dolore acuto. È formata da 30 opzioni descrittive all’interno di 6 categorie comportamentali, compresa la mobilità. All’interno di ciascuna categoria, i parametri descrittivi sono classificati numericamente in relazione all’intensità del dolore ad essi associata e la persona che effettua la valutazione sceglie quello di ciascuna categoria che si adatta meglio al comportamento/condizione del cane. È importante condurre la procedura di valutazione nel modo descritto nel questionario, attenendosi strettamente al protocollo. Il punteggio del dolore è la somma dei singoli punteggi par-

Bibliografia Murrell JC, Psatha, EP, Scott M et al. (2008) Application of a modified form of the Glasgow pain scale in a veterinary teaching centre in the Netherlands Veterinary Record 162:403-408. Holton L, Reid J, Scott EM, Pawson P, Nolan A. (2001). Development of a behaviour-based scale to measure acute pain in dogs. Vet Rec 148:525-531. University of Glasgow Faculty of Veterinary Medicine. Glasgow Pain Scale. 2005:www.gla.ac.uk/faculties/vet/ research/cascience/painandwelfare/cmps.htm. http://www.aahanet.org/PublicDocuments/PainManagementGuidelines.pdf http://www.gla.ac.uk/faculties/vet/smallanimalhospital/ourservices/painmanagementandacupuncture/ http://www.link.vet.ed.ac.uk/animalpain/Pages/Assessprinciples.htm

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Acute pain in dogs: how to identify it? Louise Clark DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, London, UK

Systematic attempts to evaluate clinical pain in animals were rare before the 1980s, and most relevant work in this area has been performed since 1990. Some attempts have been made to objectively quantify an animal`s pain response. These include measurements of physiological, biochemical and behavioural responses, including responses of the animal to standard tests such as quantitatively controlled noxious and non-noxious stimulation of the skin. Thermal threshold testing has been successfully employed in canines in the research environment but it is not easily transferable to clinical practice. In an attempt to further evaluate pain objectively physiological responses to pain have been studied. These may include; dilatation of the pupils and/or wide opening of the eyelids; changes in blood pressure and heart rate; increased respiration rate and/or depth; changes in skin and body temperature; increased muscle tone; sweating; increased defaecation and urination. Whilst these changes can occur where pain is present, because they are non- specific and tend to simply reflect the activation of the sympathoadrenal or hypothalamic pituitary systems, they are very non-specific and may occur in anxious or fearful states. Changes in plasma or cerebro-spinal fluid levels of biochemical substances (other than corticosteroids) have been measured experimentally in attempts to find useful indices of pain. As yet, evidence that any of these provide practical indices is not available. Therefore, because it has not proven possible to measure pain objectively in animal species, subjective assessment must be undertaken. This involves a human assessor imposing a value judgement. A distinction should be made between what pain the animal may be feeling and what the human assessor is feeling. Ideally, assessment of pain should not be influenced by the emotional state of the assessor. Most humans have a highly developed capacity for appreciating and sharing the feelings of other humans. However, this capacity is not only used appropriately to appreciate the feelings of other humans (when it may work well), but it is also applied to animals, when it may not be appropriate. Although it is possible to make assumptions about the general nature of pain based on the similar physiology and pharmacology of nociception across a wide range of animal species, it may be a mistake to attempt to attach a human definition of pain to their experience. This is an inherent problem when humans assess animal pain! Animals may adopt one or more of the following strategies in their behavioural response to pain: • Responses which lead to changes in the animal’s behaviour and which enable the animal to reduce or avoid

recurrence of the pain experience. These responses involve emotional experiences and learning, for which high-level central nervous functions are required. Responses, often automatic, which protect parts or the whole of the animal. These reflex responses and reactions include withdrawal from the source of the stimulus, removal of the stimulus or attempts to achieve these results. Withdrawal reflexes may be regarded as minimal responses and they may be extended to the whole animal running away, alternatively the animal may try to remove or reduce the noxious stimulus by licking, biting or attacking its source. Responses which minimise pain and assist healing, the animal may reduce activity by lying down, standing very still or by adopting some other characteristic posture. The animal may move away or hide. Responses designed to elicit help or to stop another animal (including man) from inflicting more pain e.g. communication by vocalisation, posture etc. Under evolutionary pressures, where predators could detect and use such responses to pick out their prey, it might be expected that such responses would be suppressed whereas in young, maternally dependent, animals and at least some social species such responses may be well developed to elicit help from the mother or fellow members of the social group. Failure to carry out well established behavioural responses due to domination of ongoing experience by the pain. This includes failure of social interactions, unresponsiveness to commands and inattention. © University of Edinburgh

Subjective assessment of pain behaviour can prove challenging. The hospital environment imposes stress on the animal and this may complicate pain assessment. The dog has lost its social hierarchy, it may be fearful of noisy neighbours and confused, in addition to being painful. The effect of injury on observable behaviour in humans correlates poorly with patient self-reports or assessments, this may also apply in dogs. For example, the most severely injured dogs in our intensive care unit routinely show little attention getting behaviour they might show their owners during times of good health. In animals the intensity of the pain experience may be greater than that predicted solely on the basis of casual observation of behaviour. It is imperative that the dog is not just observed, but that physical interaction with it also takes place. This should include wound palpation and asking the dog to get up and move about if ambulatory and not sleeping! 116


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Nurses are often much better at pain assessment than vets because they spend more time with the animals. It is important to get to know what normal behaviour is for that individual before surgery. A questionnaire that owners complete before their animal is admitted to hospital is a useful reference. Is it a sociable dog? Does it like people? Does it sleep curled up/upside down? Does it vocalise a lot? Other factors such as deafness or blindness must be considered! Expression of pain varies with age and amongst individuals. A lack of outward evidence does not necessarily indicate patients are not experiencing the negative consequences of pain. Anecdotal evidence suggests that certain breeds appear more sensitive to painful stimuli than others. Whether this reflects actual pain perception is not known. Individual animals undergoing the same procedure may experience or express their pain differently. An individual animal can experience more than one type of pain at any given time. For example, older animals with osteoarthritis that undergoe surgery may experience musculoskeletal pain due to positioning during the procedure, in addition to the pain associated with the surgery itself. If a question persists regarding the presence of pain, administer an analgesic and assess the patient’s response. Response to therapy is an appropriate and important tool in pain assessment. When pain management is needed, formulate a plan, note it and update the plan as needed. Differentiating dysphoria from pain can be challenging, especially in traumatic or surgical cases. Pain and dysphoria can occur simultaneously, complicating the picture. Dysphoric animals are often difficult to distract or calm by interaction or handling. Administering more opioids does not help the situation, and a source of pain is not readily identifiable. In contrast, animals in pain typically can be temporarily distracted and calmed by interaction or handling. Increased or repeateddoses of opioids seem to help, and a source of pain can be identified. Frequency of pain assessment depends on the presenting problem. In patients with surgical or traumatic pain, pain assessment is recommended at least every 2 hours.

scales have not been developed systematically but rather were creations of the investigator applying arbitrary definitions to the intervals. Verbal, numerical, categorized numerical, VAS, or a combination of two or more of these scales have been used to evaluate behavior in dogs in at least 32 studies investigating analgesia and pain in veterinary medicine. All of these scales are characterized by reliance on subjective evaluation of behaviours whose correlation with other behavioural or physiological indicators of pain and distress has not been confirmed. The subjective nature of these instruments is revealed by the presence of significant variability of pain scores between observers (Holton et al. 1998b). For example, words may mean different things to different people and be impossible to define with enough precision to ensure good inter-observer agreement. A more formalized approach to pain terminology has been developed. (Holton et al. 2001). It is a composite verbal scale that has been refined and validated in other clinical environments ( Murrell et al. 2008) and condensed to make it practical and sueable in the clini as well as in research. It currently forms probably the most useful method of assessing acute pain in dogs. The short form composite measure pain score (CMPS-SF) CMPS can be applied quickly and reliably in a clinical setting and has been designed as a clinical decision making tool which was developed for dogs in acute pain. It includes 30 descriptor options within 6 behavioural categories, including mobility. Within each category, the descriptors are ranked numerically according to their associated pain severity and the person carrying out the assessment chooses the descriptor within each category which best fits the dog’s behaviour/condition. It is important to carry out the assessment procedure as described on the questionnaire, following the protocol closely. The pain score is the sum of the rank scores. The maximum score for the 6 categories is 24, or 20 if mobility is impossible to assess. The total CMPS-SF score has been shown to be a useful indicator of analgesic requirement and the recommended analgesic intervention level is 6/24 or 5/20. © University of Glasgow

Measuring pain in a clinical setting Many veterinary researchers have studied analgesic treatments using some form of behavior assessment to assess analgesic effects on acute pain. Pain rating scales based on those used in children have been used with variable success. Words such as mild, moderate, severe, excessive, excruciating, localised, sharp, dull, burning are used as verbal descriptors by humans describing their own pain. However, such descriptors, are difficult to apply to animal pain. The Visual Analogue Scale or VAS is a 100-mm line, anchored on the left by either the number 0 or wording such as “no pain” and on the right by either the number 100 or wording such as “worst possible pain” or “worst possible pain for this procedure.” The observer watches the patient for a predetermined time period, uses clinical judgment about the severity of pain, and draws a line that intersects the 100-mm VAS. The distance from the left end of the line to the intersect is then measured (in millimetres) and this number is the VAS. Numerical Rating Scales (NRS) have also been used in pain assessment. The assessor circles a number (0-10) that represents their assessment. In veterinary studies, these numerical

Bibliography Murrell JC, Psatha, EP, Scott M et al. (2008) Application of a modified form of the Glasgow pain scale in a veterinary teaching centre in the Netherlands Veterinary Record 162:403-408. Holton L, Reid J, Scott EM, Pawson P, Nolan A. (2001). Development of a behaviour-based scale to measure acute pain in dogs. Vet Rec 148:525-531. University of Glasgow Faculty of Veterinary Medicine. Glasgow Pain Scale. 2005:www.gla.ac.uk/faculties/vet/ research/cascience/painandwelfare/cmps.htm. http://www.aahanet.org/PublicDocuments/PainManagementGuidelines.pdf http://www.gla.ac.uk/faculties/vet/smallanimalhospital/ourservices/painmanagementandacupuncture/ http://www.link.vet.ed.ac.uk/animalpain/Pages/Assessprinciples.htm

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Il dolore acuto nel gatto: il gatto non è un piccolo cane Louise Clark DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, Londra, UK

Il gatto è stato a lungo il “parente povero” in termini di somministrazione degli analgesici. Numerosi studi (Lascelles et al 1995) hanno dimostrato che le probabilità che venga attuato un trattamento per il controllo del dolore sono maggiori nei cani che nei gatti sottoposti alla medesima procedura chirurgica. Fortunatamente, l’impiego degli analgesici è in aumento – uno studio condotto in Sud Africa ha dimostrato che fra i gatti sottoposti ad intervento chirurgico nel 2000 solo il 13% aveva ricevuto un’analgesia perioperatoria, mentre nel 2005 questo valore era salito al 56% (Joubert 2006). Non c’è dubbio che restano comunque ampi spazi di miglioramento. Al fine di attuare un’analgesia efficace nei felini è necessario in primo luogo prendere in considerazione numerosi problemi, come il numero limitato dei mezzi validati per la valutazione del dolore, le caratteristiche esclusive del metabolismo del gatto e la mancanza di prodotti analgesici registrati per l’impiego in questa specie animale. È importante rendersi conto che, sebbene non siano in grado di comunicare verbalmente come gli esseri umani, i gatti sono comunque capaci di provare dolore e che fra i singoli individui sembrano esistere variazioni nella risposta all’intervento analgesico. Il fatto che sia la valutazione del dolore che la somministrazione degli analgesici dipendano dall’uomo fa sì che, qualora l’uno o l’altro di questi atti risulti inefficace, l’animale continuerà a soffrire. Quindi, è indispensabile che il dolore venga valutato e trattato efficacemente. Per il gatto, non esiste alcun sistema verificato di valutazione del dolore mediante assegnazione di un punteggio. La valutazione obiettiva del dolore mediante determinazione della soglia termica viene ampiamente ed efficacemente usata in ambito di ricerca quando si effettuano test sugli analgesici, ma è uno strumento difficile da impiegare in campo clinico. Per la valutazione dell’efficacia di questi farmaci nei gatti con zoppia è stata anche usata la valutazione dell’andatura su apposite piattaforme. Le misurazioni dei parametri fisiologici come la frequenza cardiaca e quella respiratoria sono di valore limitato, come è già stato ricordato, perché sono semplicemente dei marcatori dell’attivazione del sistema simpatico-surrenalico e possono anche venire influenzati da stress, farmaci o alterazioni fisiologiche come l’ipovolemia. Sperimentalmente, nel tentativo di trovare utili indicatori del dolore, è stata effettuata la misurazione delle variazioni dei livelli di alcune sostanze biochimiche a livello del plasma e del liquido cefalorachidiano, ma non ne è stata dimostrata la specificità.

È chiaro che i sistemi sopracitati non sono utili per la valutazione pratica del dolore. Il risultato è che a questo scopo, nella maggior parte dei casi, attualmente vengono utilizzati metodi soggettivi e potenzialmente inaccurati basati su giudizi comportamentali. È stato dimostrato nel cane, ed è ampiamente accettato nel gatto, che i sistemi più affidabili sono quelli che prevedono l’interazione con il soggetto in esame attraverso la palpazione di ogni ferita chirurgica presente. Numerosi fattori rendono la valutazione comportamentale molto difficile all’interno dell’ambiente ospedaliero. Molti gatti sono palesemente stressati (spaventati ed ansiosi) per il solo fatto di essere confinati molto vicini agli altri e di non riuscire a “nascondersi” e inoltre possono opporre un rifiuto alla sola presenza di bendaggi, anche quando non sono dolorosi. Per distinguere il dolore dalla paura/ansietà può essere utile adottare delle misure volte a ridurre i livelli complessivi di stress, come usare dei feromoni spray, tenere i gatti isolati dai cani, lasciare a loro disposizione dei giocattoli, utilizzare la loro lettiera preferita ed offrire loro musica dolce (evitare i rumori forti) e un posto per nascondersi. Sul sito web FAB si trovano consigli utili per far sì che i felini si sentano maggiormente a proprio agio in una struttura veterinaria. La compilazione di un questionario da parte dei proprietari dei gatti ricoverati nell’ospedale permette al personale infermieristico di sapere cosa può essere considerato normale/preferito per ogni singolo individuo. Da questo punto di vista sono utili l’interazione con il gatto e la sua osservazione prima dell’intervento chirurgico; se quando viene ricoverato nel periodo preoperatorio l’animale mostra un normale comportamento di toelettatura, arrampicata o gioco, la perdita di questo comportamento dopo l’intervento è fortemente indicativa della presenza di dolore. Quando si sospetta che un animale soffra, spesso risulta utile la risposta ad una dose di prova di analgesico. I problemi possono insorgere quando si trovano delle difficoltà nel differenziare la disforia dal dolore; l’ulteriore somministrazione di oppiacei può esacerbare i segni della disforia. Spesso il personale infermieristico ha una conoscenza più dettagliata di ciò che è normale per ogni singolo individuo e più quindi effettuare una valutazione del dolore “migliore” di quella del veterinario. Waran et al (2007) hanno dimostrato che l’assunzione di determinate posizioni (animale “piegato in due” o rannicchiato) è correlata alla presenza di dolore addominale. Altri segni ritenuti indicativi sono la tendenza a leccarsi o mordersi le ferite, le risposte aggressive alle manipolazioni, la testa tenuta bassa e l’atteggiamento antalgico a spalle incur118


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caratteristiche farmacocinetiche non sono state ben stabilite. Secondo l’esperienza dell’autrice, dosaggi multipli portano all’eccitazione un numero elevato di gatti. Ciò di solito si risolve quando si sostituisce il trattamento con la buprenorfina! Il butorfanolo si è dimostrato dotato di un’azione di durata abbastanza breve e di efficacia limitata per il dolore somatico e viscerale. Le autorizzazioni alla commercializzazione degli oppiacei per l’impiego nel gatto variano da un Paese all’altro. Il tramadol viene eliminato più lentamente nel gatto che nel cane, suggerendo la necessità di impiegare dosaggi più bassi ed intervalli fra le somministrazioni più prolungati che nel cane. I farmaci antinfiammatori non steroidei sono stati recentemente oggetto di un’ampia rassegna (Lascelles 2007). I FANS hanno generalmente un margine di sicurezza più basso di quello degli oppiacei ed i gatti sembrano essere particolarmente suscettibili ai loro effetti collaterali a livello renale. Nel Regno Unito, il carprofen è registrato per l’impiego come singola dose preoperatoria, il melociam è anch’esso registrato per il solo uso preoperatorio ed il ketoprofen per il trattamento solo pre- e postoperatorio. La maggior parte degli studi condotti indica scarse differenze di efficacia dei FANS disponibili nel trattamento del dolore chirurgico acuto (Slingsby e Waterman-Pearson 2002). Il meloxicam è registrato anche per l’impiego cronico alla dose di 0,05 mg/kg/die, benché spesso siano efficaci anche dosi inferiori o a giorni alterni; i dosaggi più bassi possono servire a ridurre l’incidenza degli effetti collaterali. Anche la compliance è buona, dal momento che la maggior parte dei gatti accetta il meloxicam per os o nel cibo. Nel trattamento del dolore perioperatorio del gatto, gli anestetici locali sono sottoutilizzati. La maggior parte delle tecniche locali e regionali applicabili nel cane può trovare impiego anche nel gatto. La somministrazione epidurale è leggermente più impegnativa che nel cane – dato che nel gatto il rischio di penetrare nello spazio subaracnoideo è da ritenere più probabile a causa delle differenze anatomiche e delle minori dimensioni. L’inserimento di cateteri nelle ferite può essere utile in particolare nei casi di rimozione di fibrosarcomi (Davis et al 2007). Nelle tecniche di analgesia regionale è prudente non superare i 4 mg/kg di lidocaina ed i 2 mg/kg di bupivacaina. I gatti possono essere più sensibili agli effetti tossici degli anestetici locali. Gli studi sull’infusione di lidocaina hanno dimostrato più effetti collaterali nei gatti che nei cani sottoposti alle stesse infusioni. Sono stati osservati depressione cardiovascolare ed aumento delle concentrazioni di lattati. L’autrice pertanto non utilizza la lidocaina CRI in gatti svegli o anestetizzati fino a che non saranno stati condotti ulteriori studi. Si può utilizzare la crema EMLA per facilitare l’inserimento di un catetere senza alcuna significativa captazione delle componenti. Gli agonisti degli α-2 adrenocettori sono un’utile aggiunta alla premedicazione nei gatti sani. La medetomidina a basse dosi (5-15 µg/kg) accentua la sedazione degli oppiacei (± ACP) ed offre un’analgesia addizionale. Si può impiegare anche l’infusione a velocità costante, clinicamente i gatti richiedono dosi leggermente più elevate di quelle dei cani (3-6 µg/kg/ora di medetomidina contro 1-2 µg/kg/ora nel

vate in avanti. È importante rendersi conto che il comportamento algico non è sempre palese e che un gatto tranquillamente seduto in fondo alla gabbia può provare dolore, anche se non lo dimostra fino a che non viene toccato. Il Colorado State University Veterinary Teaching Hospital offre sul proprio sito web un’utile (anche se non validata) Scala del Dolore Acuto nei Felini (Feline Acute Pain Scale). Si possono usare anche altri metodi, basati su valori numerici, analogie visive e semplici parametri descrittivi. È importante che, qualunque sia, il sistema adottato risulti semplice e di facile attuazione, affidabile e sensibile. Attualmente, è in corso un gran numero di lavori sulla valutazione del dolore nei felini, che dovrebbero migliorare la nostra capacità di riconoscerlo. Nel frattempo, l’applicazione sensibile ed accurata delle informazioni attualmente disponibili migliorerà la nostra capacità di valutare le percezioni algiche del gatto. Il metabolismo dei farmaci nel gatto è marcatamente diverso da quello del cane. Nei felini, la capacità di glucuronidazione epatica è bassa. Ciò può esitare in una tossicità se il dosaggio e la frequenza di somministrazione dei farmaci non vengono modificati; è anche possibile che, nei casi in cui la glucuronidazione è necessaria per formare una molecola attiva, il farmaco sia inefficace. Robertson (2008) ha pubblicato un’eccellente rassegna della farmacologia degli analgesici. Nella presente relazione ne vengono evidenziati solo i principali punti salienti. Per molti anni, gli oppiacei sono stati scarsamente utilizzati nel gatto, a causa della preoccupazione relativa alla “morfinomania”, un concetto errato derivante da studi nei quali erano state utilizzate dosi eccessive. Gli oppiacei possono e devono essere usati nei felini. Si possono osservare delle modificazioni comportamentali e di solito si rileva midriasi – che può far sì che urtino contro degli oggetti – per cui ci si deve avvicinare loro lentamente e tenendo la luce bassa; gli animali fanno le fusa, si rotolano su se stessi e si torcono. Il vomito di solito si osserva solo con la morfina. In genere, gli oppiacei sono stati implicati nella comparsa di ipertermia quando vengono utilizzati a dosi superiori a quelle cliniche. È stata dimostrata una marcata variazione individuale alla risposta analgesica agli oppiacei (Lascelles and Robertson 2004). Per determinare gli effetti degli specifici farmaci e le attività dose-correlate e per stabilire la sequenza dei recettori degli oppiacei felini saranno necessari ulteriori lavori. È improbabile che un qualsiasi analgesico ad un dosaggio specifico riesca a determinare l’analgesia in tutti i gatti! Ha suscitato molto interesse l’applicazione dei farmaci per via transdermica al fine di ridurre le manipolazioni, soprattutto nel caso di pazienti difficili. Tuttavia, benché siano disponibili cerotti a base di buprenorfina o fentanyl, occorre tenere presente che la captazione del farmaco varia da un soggetto all’altro e può anche non riuscire a raggiungere concentrazioni terapeutiche in un numero significativo di casi – per cui è essenziale continuare a valutare il dolore. La buprenorfina è risultata efficace in seguito alla somministrazione per via transmucosa. Questo metodo è anche ben tollerato. La morfina può essere usata nel gatto, ma la sua efficacia può essere ridotta in confronto a quella riscontrata nel cane perché i felini non sono in grado di produrre il metabolita attivo morfina-6-glucuronide. Anche il metadone è un analgesico efficace, ma può causare eccitazione – le 119


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cane). La dexmedetomidina può essere usata in maniera simile (metà dose). È anche possibile ricorrere alla somministrazione buccale ed orale nei gatti difficili. La ketamina viene comunemente utilizzata per infusione a velocità costante alla dose di 2-10 µg/kg/minuto sia in sede intra- che postoperatoria. Nonostante ciò, praticamente non ci sono dati a sostegno del suo impiego. Questo farmaco viene escreto per via renale e si può accumulare nei gatti con nefropatia. Nel gatto sono stati usati altri antagonisti dei recettori NMDA (Amantadina 3-5 mg/kg PO), ma i dati farmacocinetici a loro sostegno sono limitati. Il dolore neuropatico è stato trattato con gabapentin (3-10 mg/kg PO ogni 8-24 ore), anche in questo caso con un dosaggio empirico! È chiaro che “il gatto non è un piccolo cane”. Grazie alla buona conoscenza del metabolismo e del comportamento dei felini, oggi è possibile stimare e trattare la sofferenza anche in questa specie animale. Tuttavia, per ottimizzare la valutazione del dolore e sviluppare farmaci analgesici che non dipendano dalla via della glucuronidazione saranno necessarie ulteriori ricerche specifiche nel gatto.

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Acute pain in the cat: cats are not small dogs Louise Clark DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, London, UK

The feline patient has for a long time been the poor relation in terms of analgesic administration. Numerous studies (Lascelles et al 1995) have demonstrated that dogs are more likely than cats to receive analgesia when undergoing the same surgical procedure. Fortunately, analgesic use is increasing – a South African study demonstrated that of cats undergoing surgical procedures in 2000, only 13% received peri-operative analgesia, by 2005 this had increased to 56% (Joubert 2006). It remains clear that there is much room for improvement. In order to provide effective analgesia to felines we must first address a number of problems which include limited validated pain assessment tools, the cats` unique metabolism and the lack of licensed analgesic products for felines. It is important to realise that even though cats are unable to communicate verbally as humans do, they are still able to experience pain, and that there seems to be inter-individual variation in the response to analgesic intervention. The fact that humans are responsible for both pain assessment and analgesic administration means that if either is ineffective, the animal will continue to suffer pain. Thus, it is imperative that we assess and treat pain effectively. There is no well tested pain scoring system for cats. Objective pain assessment by thermal threshold testing is widely and effectively used in the research setting when testing analgesics but is a difficult tool to use clinically. Platform gait assessments have also been used when assessing analgesic effectiveness in lame cats. Physiological measurements such as heart rate and respiratory rate are of limited value, as discussed previously because they are simply markers of the activation of the sympatho-adrenal system and can also be affected by stress, drugs or physiological derangements such as hypovolaemia. Changes in plasma or cerebro-spinal fluid levels of biochemical substances have been measured experimentally in attempts to find useful indices of pain but have not been shown to be specific. It is clear that the above systems are not useful for practical pain assessment. The result is that subjective, potentially inaccurate behaviourally based systems are currently most commonly used in the clinical assessment of pain. It has been shown in dogs, and is widely accepted in cats, that systems that involve interaction with the individual including palpation of any surgical wound are the most reliable. Many factors make behavioural assessment very difficult in a hospital environment. Many cats are overtly stressed (fearful and anxious) by being confined in close proximity to others and being unable to “hide”, they may also object to the pres-

ence of dressings or bandages even if these are not painful. Steps to reduce overall stress levels by using pheromone sprays; keeping cats isolated from dogs; providing toys; their preferred litter; soothing music (avoiding loud noises) and somewhere to hide may help distinguish pain from fear/anxiety. There is advice on “cat friendly” practice at the FAB website. The completion of a questionnaire by owners when their cats are admitted to hospital allows nursing staff to focus on what is normal/ preferred for that individual. Interaction with and observation of the cat before surgery is useful, if a cat exhibits normal grooming, climbing or playful behaviour when hospitalised before surgery, loss of this behaviour after surgery is strongly suggestive of the presence of pain. Where pain is suspected, response to a test dose of analgesic is often useful. Problems may occur when there is difficulty differentiating dysphoria from pain further opioid administration may exacerbate dysphoria signs. Nursing staff are often more aware of what is normal for each individual so are “better” at pain assessment than veterinary surgeons. Waran et al (2007) have demonstrated that “half tucked up” and crouching postures are correlated with abdominal pain. Other signs that have been suggested include liking or biting wounds, aggression on being handled, low head carriage and hunched avoidance posturing. It is important to realise that pain behaviour is not always overt and a cat sitting quietly at the back of the cage may be painful but might not demonstrate this until handled. Colorado State University Veterinary Teaching Hospital provides a useful if unvalidated Feline Acute Pain Scale on its website. Other scales including numerical rates scales, visual analogue scales and simple descriptive scales can also be used. It is important that whatever system is adopted, it must be simple and easy to perform, reliable and sensitive. There is a large amount of ongoing work on feline pain assessment which should improve our ability to recognise pain. In the interim, sensible thoughtful application of the information currently available will enhance our ability to assess feline pain. Drug metabolism in the feline is markedly different from that in the canine. Cats have low glucuronidation capacity in the liver. This may result in toxicity if drug dose and frequency are not altered, or where glucuronidation is required to create an active molecule, the drug may be ineffective. Robertson (2008) provides an excellent review of analgesic pharmacology. This abstract highlights only the most salient points. Opioids were for many years little used in cats due to worried about” morphine mania”, this is a misconception arising 121


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from studies where excessive doses were used. Opioids can and should be used in the cat. Behavioural changes can be seen and usually include mydriasis – which can cause them to bump into things – approach them slowly and keep the lights dimmed; purring, rolling and kneading. Vomiting is usually only seen with morphine. Opioids have been implicated in hyperthermia usually when used at greater than clinical doses. Marked individual variation in analgesic response to opioids has been demonstrated (Lascelles and Robertson 2004). More work is required to determine specific drug and dose related effects and to sequence feline opioid receptors. One analgesic at a specific dose is unlikely to provide analgesia in all cats! There has been much interest in transdermal drug delivery to reduce handling especially of difficult individuals. However, whilst buprenorphine and fentanyl patches are available, drug uptake varies between individuals and may not reach therapeutic concentrations in a significant number – therefore continuing pain assessment is essential. Buprenoprhine has been found to be effective when delivered transmucosally. This method is also well tolerated. Morphine can be used in cats but efficacy may be reduced compared to dogs because cats are unable to produce the active metabolite morphine-6-glucuronide. Methadone is also an effective analgesic but may cause excitement – the pharmacokinetics are not well established. In the authors practice, multiple doses lead to excitement in a number of cats. This usually resolves when buprenorphine is substituted! Butorphanol has been shown to be fairly short acting and of limited efficacy for somatic and visceral pain. Market authorisation for opioid use in cats varies from country to country. Tramadol is more slowly eliminated in cats compared to dogs, suggesting that the doses should be lower and the dosing interval longer than in dogs. Non-steroidal anti- inflammatory drugs have recently been extensively reviewed (Lascelles 2007) NSAIDS generally have a lower safety margin than opioids and cats seem to be particularly susceptible to their adverse renal effects. In the UK, carprofen has a single dose pre-operative licence, melociam is also licensed for pre-operative use, ketoprofen has a post –op only licence. Most studies suggest little difference in the efficacy of the available NSAIDS in the treatment of acute surgical pain (Slingsby and Waterman-Pearson 2002). Meloxicam also has a licence for chronic use at 0.05mg/kg/day, although lower doses or every other day dosing is often effective, the lower doses may help reduce the incidence of side effects. Compliance is also good with most cats accepting meloxicam orally or in food. Local anaesthetic drugs are underutilised in the management of peri-operative pain in the cat. Most local and regional techniques that are applicable to dogs can be employed in the cat. Epidural administration is slightly more challenging than in the dog - entering the subarachnoid space is more likely in the cat due to their differing anatomy and small size. Wound catheters may be useful particularly in fibroscarcoma removal cases (Davis et al 2007) It is prudent

not to exceed 4mg/kg lidociane and 2mg/kg bupivacaine in regional analgesia techniques. Cats may be more sensitive to the toxic effects of local anaesthetics. Lidocaine infusion studies have demonstrated more side effects in the cat than in dogs receiving similar infusions. Cardiovascular depression and increased lactate concentrations have been observed. The author would therefore not use lidocaine CRI in conscious or anaesthetised cats until further studies have been undertaken. EMLA cream may be used to aid catheter placement without significant systemic uptake of the components. 〈-2 adrenoceptor agonists are a useful addition to premedication in healthy cats. Medetomidine at low doses (515mcg/kg) enhances opioid (± ACP) sedation and provides additional analgesia. Constant rate infusions can also be used, clinically cats require slightly higher doses than dogs (3-6 mcg/kg/hour medetomidine cf 1-2mcg/kg/hour in the dog) Dexmedetomidine can be used in a similar manner (half the dose). Buccal and oral administration to fractious cats is also possible. Ketamine is popular as a constant rate infusion at 210mcg/kg/minute during surgery and post operatively. Despite this, there is virtually no data to support its use. Ketamine is renally excreted and may accumulate in cats with renal disease. Other NMDA receptor antagonists have been used in the cat (Amanatadine 3-5mg/kg PO), limited pharmacokinetic data to support this. Neuropathic pain has been treated with gabapentin (3-10 mg/kg PO q8-24hr), again the dose is empirical! It is clear that “cats are not small dogs”. A good understanding of feline behaviour and metabolism mean that pain assessment and management are now possible. However further feline specific research is required to optimise pain assessment and develop analgesic drugs that do not depend on the glucuronidation pathway.

Bibliography Davis KM, Hardie EM, Martin FR, Zhu J, Brownie C.(2007)Correlation between perioperative factors and successful outcome in fibrosarcoma resection in cats.Vet Rec. Aug 11; 161(6):199-200. Joubert KE (2006) Anaesthesia and analgesia for dogs and cats in South Africa undergoing sterilisation and with osteoarthritis—an update from 2000.J S Afr Vet Assoc. Dec; 77(4):224-8. Lascelles BD, Capner C, Waterman AF (1995) Survey of perioperative analgesic use in small animals Vet Rec. Dec 23-30; 137(26):676. Lascelles BD, Robertson SA (2004) Use of thermal threshold response to evaluate the antinociceptive effects of butorphanol in cats.Am J Vet Res. Aug; 65(8):1085-9. Lascelles BD (2007) Court MH, Hardie EM, Robertson SA.Nonsteroidal anti-inflammatory drugs in cats: a review. Vet Anaesth Analg. Jul; 34(4):228-50. Robertson SA.(2008) Managing pain in feline patients.Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008 Nov; 38(6):1267-90, vi. Slingsby LS, Waterman-Pearson AE (2002) Comparison between meloxicam and carprofen for postoperative analgesia after feline ovariohysterectomy.Small Anim Pract. Jul; 43(7):286-9. Waran NK et al (2007) A preliminary study of behaviour-based indicators of pain in cats. Anim Welf 16(S):105-8.

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La gestione del dolore nel paziente non ospedalizzato Louise Clark DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, Londra, UK

Sotto questa voce rientra un enorme spettro di interventi terapeutici, dal paziente con un’osteoartrite cronica lievemente dolorosa con una speranza di vita normale che richiederà un’analgesia di parecchi anni a quello con una neoplasia in stadio terminale, nel quale l’analgesia potrà essere necessaria solo per qualche giorno o settimana. In tutti i casi in cui il dolore viene trattato al di fuori dell’ambiente ospedaliero, spetta al proprietario, o comunque a chi si prende cura dell’animale, valutare la sofferenza da questo percepita. Molti proprietari sono osservatori eccezionali e, dato che conoscono bene i loro compagni, riescono ad individuare eventuali cambiamenti sin dagli stadi iniziali, mentre altri hanno bisogno di una certa guida. La compilazione dei diari del dolore da parte proprietari è uno strumento utile per monitorare i progressi degli animali. La valutazione su base regolare, eventualmente anche per telefono, può servire a rifinire la terapia. Al primo posto si devono sempre porre le considerazioni etiche e di benessere animale ed il proprietario va guidato per ottenere questo risultato. La gamma dei farmaci e delle tecniche analgesiche all’interno dell’ambito ospedaliero varia notevolmente e permette di affrontare il problema ragionevolmente bene, ma abbiamo bisogno di sviluppare metodi analgesici che possano essere somministrati come aggiunta alle cure palliative nell’ambiente domestico dell’animale. Per alleviare il dolore cronico è necessario soddisfare determinati prerequisiti • la tecnica di somministrazione dei farmaci non deve richiedere nozioni di tipo veterinario. • Deve poter essere applicata facilmente nell’ambiente domiciliare dell’animale da coloro che se ne prendono cura • Non deve essere pericolosa per chi si occupa del paziente, per la società o per l’animale. • Se richiede abilità veterinarie, l’effetto deve durare giorni e non ore, in modo da richiedere solo delle visite periodiche alla clinica. • Deve risultare accettabile per chi si occupa dell’animale, per il veterinario e per l’animale.

• • •

interrompere quello intraoperatorio, e non sono davvero applicabili al controllo del dolore cronico. Tuttavia, nell’uomo si utilizza occasionalmente l’impianto di dispositivi che consentono un’analgesia controllata del paziente. La somministrazione epidurale cronica si può usare in ospedale per alleviare il dolore per parecchi giorni, ma non è pratica per l’impiego domiciliare. Somministrazione rettale. Rilascio prolungato. Somministrazione transdermica di fentanyl. Il vantaggio di questi cerotti è che possono venire applicati in clinica ad intervalli di alcuni giorni, richiedono una scarsa manutenzione da parte del proprietario ed assicurano l’analgesia attraverso un oppiaceo. Tuttavia, esiste il rischio che il cerotto venga ingerito accidentalmente dall’animale stesso o dai figli piccoli del proprietario. Come per tutti gli oppiacei puri, esiste poi anche il potenziale rischio di abuso.

OSTEOARTRITE (OA) L’argomento è stato oggetto di una rassegna estremamente valida pubblicata in altra sede (Johnston 2008, Papich 2008, Lascelles et al 2007) e nella presente relazione verranno evidenziati solo i punti salienti. Il trattamento dell’OA è generalmente volto a determinare un’azione palliativa sui segni clinici piuttosto che alla terapia della patologia sottostante. Recentemente, è stato ipotizzato che l’OA possa riconoscere una componente di dolore neuropatico. La gestione del dolore è generalmente incentrata su agenti farmacologici, ma non si devono sottovalutare i benefici effetti della riduzione del peso e della modificazione dello stile di vita e dei livelli di esercizio (regolare attività fisica a basso impatto). Gli interventi fisioterapici che possono risultare utili sono rappresentati da: • Crioterapia • Calore umido • Esercizi di escursione articolare passiva • Esercizi di stiramento ed equilibrio • Massoterapia • Impiego terapeutico degli ultrasuoni • Laser • TENS In tutti i casi in cui si preveda il ricorso ad una qualsiasi di queste modalità terapeutiche, è importante instaurare una stretta relazione con gli specialisti della riabilitazione.

FARMACI Mezzi di somministrazione: • Per via orale o transmucosa. • Per via sottocutanea. • Le iniezioni intramuscolari ed endovenose in genere sono riservate al rapido controllo del dolore acuto, ad es., per 123


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Anche l’agopuntura può svolgere un ruolo utile nella gestione del dolore. Il trattamento farmacologico dell’OA nel cane e nel gatto è generalmente incentrato sull’impiego dei FANS. La loro farmacologia è stata oggetto di una rassegna approfondita in un’altra sede (Papich 2008, Lascelles et al 2007). Fra quelli comunemente impiegati per la gestione dell’OA nel cane rientrano il carprofen, il meloxicam, il tepoxalin ed il firocoxib. In molti animali i FANS non sono tollerati a causa dei loro effetti collaterali gastroenterici, non possono essere prescritti a causa di una patologia concomitante o non determinano una sufficiente attenuazione del dolore. È logico pensare che nei casi refrattari sia probabilmente utile un trattamento analgesico multimodale. Le opzioni da prendere in considerazione sono rappresentate da: (si noti che la maggior parte di questi farmaci non è registrata in queste specie animali, almeno nel Regno Unito) • Tramadol, un debole agonista OP3 che è stato utilizzato insieme al ketoprofen (nel cane, 2-5 mg/kg BID-QID), ma può causare una certa sedazione ed altri effetti collaterali comportamentali, specialmente quando il dolore non è intenso. Può essere prudente evitare la somministrazione del tramadol con qualsiasi inibitore della ricaptazione della serotonina (ad es., antidepressivi triciclici), a causa del rischio della sindrome serotoninica che è stata osservata nell’uomo. • Gabapentin (cane/gatto 5-10 mg/kg BID aumentando fino a 20 mg/kg BID; in alcuni gatti la dose richiesta è minore). Questo farmaco ha un’efficacia dimostrata nel dolore neuropatico dell’uomo ed è stato raccomandato per l’OA del cane (Karas 2009), anche se mancano dati clinici. Le dosi nelle specie domestiche sono empiriche ed occasionalmente si può avere una sedazione. • Per il trattamento dell’OA è stata raccomandata anche l’amantadina e gli antagonisti dei recettori NMDA (Karas 2009, Johnston 2008) ed uno studio (Lascelles et al. 2008) ha dimostrato i benefici effetti di questa somministrazione (3-5 mg/kg SID) insieme al meloxicam. • I glicosaminoglicani polisolforati ed il pentosanpolifosfato sono classificati come farmaci modificatori di malattia nell’osteoartrite ed esistono alcuni dati clinici che depongono a favore del loro uso. Anche gli integratori nutrizionali possono essere utili, ma le prove cliniche a sostegno del loro impiego sono limitate • Cozze verdi • P45FP • Diete a base di acidi grassi omega-3

La riduzione della massa delle cellule neoplastiche è generalmente uno dei metodi principali per determinare un’analgesia immediata. Questo risultato si può ottenere mediante chirurgia, chemioterapia e radioterapia, tenendo presente che un’imponente morte cellulare in situ può esitare una risposta infiammatoria sistemica generalizzata che coinvolge l’intero organismo e può progredire fino all’insufficienza di più organi ed alla morte (sindrome di lisi tumorale). Per migliorare la qualità della vita di questi pazienti è essenziale effettuare una sufficiente analgesia a lungo termine. Le linee guida della WHO (OMS) raccomandano di adottare un approccio basato su farmaci non oppiacei per il dolore lieve o moderato (con un adiuvante analgesico se necessario), per poi passare ad una combinazione di oppiacei e non oppiacei per un dolore più intenso. I diari del dolore e la valutazione delle percezioni algiche sono estremamente importanti perché il dolore neoplastico è associato alla decisione di porre fine alla vita del soggetto. Può sembrare segno di scarsa sensibilità consigliare a qualcuno di acconsentire all’eutanasia di un suo animale come opzione migliore quando un parente sta soffrendo per la stessa condizione. Ma come veterinari dobbiamo anche ricordare che la nostra responsabilità è nei confronti dell’animale e non del proprietario. Si tratta di una distinzione importante. Tutte le seguenti classi di farmaci sono applicabili al trattamento dei pazienti neoplastici. • Oppiacei come la codeina, la buprenorfina per via transmucosa (nel gatto; nel cane i dati sono limitati) ed il fentanyl transdermico. • Nel Regno Unito, risultano talvolta ben tollerate le combinazioni a base di codeina/paracetamolo per uso orale (nel cane). La morfina a rilascio protratto per via orale è utile, ma spesso associata a sedazione. • Farmaci antinfiammatori non steroidei. • Paracetamolo (nel cane) (in aggiunta ai FANS) • Corticosteroidi • Tramadol • Amantadina (?dolore neuropatico) • Antidepressivi triciclici (dolore neuropatico) • Tecniche di anestesia locale? Cerotti dermici alla lidocaina • Gabapentin (dolore neuropatico) • I farmaci contenenti bifosfonato sono in grado di prevenire efficacemente la perdita di osso che si verifica dalle lesioni metastatiche, ridurre il rischio di fratture e diminuire il dolore inibendo il riassorbimento osseo. Si ritiene che i bifosfonati inibiscano gli osteoclasti e ne inducano l’apoptosi (morte cellulare), riducendo efficacemente l’impatto dannoso degli elementi neoplastici sulla densità ossea. Nei casi in cui un FANS non è tollerato, esistono delle controindicazioni al suo impiego o non offre un’adeguata analgesia, spesso risulta ben tollerato il paracetamolo (cane), anche se può causare epatotossicità. Il gabapentin può essere un utile adiuvante nei casi in cui è presente un dolore neuropatico, così come i triciclici. Il tramadol può offrire una buona analgesia, ma con una minore sedazione degli oppiacei. Quando questi ultimi vengono inclusi in un protocollo analgesico, si possono osservare forme significative di sedazione e costipazione che possono compromettere marcatamente la qualità della vita dell’animale. Di conseguenza,

DOLORE NEOPLASTICO Il dolore neoplastico può essere estremamente debilitante e negli stadi finali della vita dell’animale la prevenzione della sofferenza è quella più frequentemente citata fra le preoccupazioni del proprietario. Gaynor (2008) ha pubblicato un’eccellente rassegna del trattamento del dolore neoplastico nel cane e nel gatto. Il dolore dovuto ai tumori ossei può essere particolarmente difficile da controllare a causa dello stiramento periostale e dell’anomala attività osteoclastica. 124


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• Il coinvolgimento del proprietario è essenziale, così come la regolare comunicazione, per contribuire a rifinire la terapia.

questi farmaci vanno riservati soltanto ai casi in cui le altre opzioni farmacologiche e terapeutiche hanno fallito. Tutti gli analgesici hanno degli effetti collaterali, ma le tossicità a lungo termine possono essere di scarsa importanza quando è probabile che la somministrazione durerà solo per qualche giorno/settimana.

Bibliografia Gaynor JS (2008) Control of cancer pain in veterinary patients. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008 Nov; 38(6):1429-48, viii. Gunew MN, Menrath VH, Marshall RD. (2008) Long-term safety, efficacy and palatability of oral meloxicam at 0.01-0.03 mg/kg for treatment of osteoarthritic pain in cats. J Feline Med Surg. 2008 Jul; 10(3):235-41. Johnston SA, McLaughlin RM, Budsberg SC (2008) Nonsurgical management of osteoarthritis in dogs.Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008 Nov; 38(6):1449-70, viii. Karas A ( 2009) Proceedings of AVA meeting, Helsinki 2009. Lamont LA. (2008) Adjunctive analgesic therapy in veterinary medicine.Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008 Nov; 38(6):1187-203. Lascelles BD, Court MH, Hardie EM, Robertson SA (2007) Nonsteroidal anti-inflammatory drugs in cats: a review.Vet Anaesth Analg. 2007 Jul; 34(4):228-50. Lascelles BD et al (2008) Amantadine in a multimodal analgesic regimen for alleviation of refractory osteoarthritis pain in dogs.J Vet Intern Med. Jan-Feb; 22(1):53-9. Papich MG (2008) An update on nonsteroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs) in small animals. Vet Clin North Am Small Anim Pract. Nov; 38(6):1243-66, vi. Review.

TECNICHE FISICHE • • • • •

Neurectomia sensoriale. Chirurgia terapeutica. Analgesia indotta da stimolazione Agopuntura Radioterapia palliativa.

CONCLUSIONI • Se un animale non risponde ad un protocollo analgesico, provare a cambiarlo. • Animali diversi rispondono in modo diverso. • Non tutti i dolori sono uguali.

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Pain management at home Louise Clark DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, London, UK

• Transdermal administration of fentanyl. The advantage of these patches is that they can be applied in the veterinary surgery every few days, require little owner maintenance and provide analgesia by an opioid. However there is a risk of the patch being eaten by accident either by the animal or owners’ children. There is also the abuse potential as with all pure opioids.

This covers a huge spectrum of disease management, from the chronically, mildly painful osteoarthritic patient with a normal life expectancy that requires analgesia over several years to the terminally ill cancer patient who may need analgesia for only days to weeks. Whenever pain is being managed out of the hospital environment, it is the owner or carer that becomes responsible for assessing the animal`s pain. Many owners are exceptionally observant, and as they know their animals well are able to detect changes at an early stage, others will require some guidance. Pain diaries that owners complete are useful tools to help monitor their pet`s progress. Assessment on a regular basis including by telephone is useful to refine therapy. Ethical and welfare considerations must always come first and the owners must be counselled to this effect. The range of analgesic techniques and drugs within the hospital setting very wide and reasonably well addressed however as an adjunct to palliative care we need to develop analgesic methods which can be given within the animal’s home setting. There are certain pre-requisites for chronic pain relief • the technique for drug administration should not require veterinary knowledge. • It should be easily applied in the animal`s home surroundings by the carer. • It should not be dangerous for the carer, society or the animal. • If requiring veterinary skills, the effects should last days and not hours, thus only needing periodic attendance at the veterinary surgery. • It should be acceptable to carer, veterinary surgeon and the animal.

OSTEOARTHRITIS (OA) This subject is extremely well reviewed elsewhere (Johnston 2008, Papich 2008, Lascelles et al 2007) and this abstract will serve to highlight salient points only. The treatment of OA is generally aimed at the palliation of clinical signs rather than treating the underlying pathology. It has recently been suggested that OA may have a neuropathic pain component. Pain management is generally centred around pharmacological agents but the benefits of weight reduction, lifestyle and exercise modification (regular low impact exercise) and physical rehabilitation must not be under-estimated. Physical therapy that may be beneficial includes: • Cryotherpay • Moist heat • Passive range of motion exercises • Stretching and balance exercises • Massage therapy • Therapeutic ultrasound • Laser • TENS Close liason with rehabiliation specialists is important should any of these treatment modalities be contemplated:. Acupuncture may also play a useful part in pain management. Pharmacological management in OA in dogs and cats is generally centred around NSAIDS. Their pharmacology has been extensively reviewed elsewhere (Papich 2008, Lascelles et al 2007). NSAIDS in common use for OA management in the dog include carprofen, meloxicam, tepoxalin and firocoxib. Many animals either do not tolerate NSAIDS due to GI side effects, can not be prescirbed them due to concommitant pathology or do not gain sufficient pain relief from them. It is logical that multi-modal analgesic management is likely to be of benefit in refractory cases. Options to consider include: (Note that most of these drugs are not licensed in these species at least in the UK) • Tramadol, a weak OP3 agonist that has been used alongside ketoprofen (dogs 2-5mg/kg bid-QID) but may cause some sedation and other behavoural side effects especially where pain is not severe. It may be prudent to avoid giving

DRUGS Means of administration: • Oral or transmucosal dosing • Subcutaneous administration • Intramuscular and intravenous injections are generally reserved for rapid control of acute pain e.g intra-operative pain breakthrough and are not really applicable to control of chronic pain. However in people chronically implanted devices are occasionally used to allow patient controlled analgesia. • Chronic epidural administration may be used in a hospital for pain relief for several days but is impractical in a home setting. • Rectal administration. • Sustained release. 126


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• • • •

Tricyclic antidepressants (neuropathic pain) Local anaesthetic techniques? Lidocaine dermal patches Gabapentin (neuropathic pain) Bisphosphonate drugs can effectively prevent loss of bone that occurs from metastatic lesions, reduce the risk of fractures, and decrease pain by inhibiting bone resorption, It is thought that bisphosphonates inhibit osteoclasts and induce apoptosis (cell death) in these cells,effectively reducing the detrimental impact that cancer cells have on bone density. Where an NSAID is not tolerated, there are contra-indications to its use or it does not provide adequate analgesia, paracetamol is often well tolerated (dogs) although it can cause hepatotoxicty. Gabapentin may be a useful adjuvant where neuropathic pain is present, as may tricyclics. Tramamdol can provide good analgesia but with less sedation than opioids. Where opioids are included in an analgesic regimen, significant sedation and constipation may occur which may markedly compromise the animals quality of life. Therefore they should be reserved for cases where other pharmacological and therapeutic options have failed. All analgesics have side effects but longer term toxicites may not be relevant when administration is likely to be for only days/weeks.

tramadol with any serotonin reuptake inhibitors ( eg tricyclic antidepressants) because of the risk of serotonin syndrome which been seen in people. • Gabapentin (dog/cat 5-10mg/kg bid increasing up to 20mg/kg bid, some cats require less). This drug is demonstrably effective in neuropathic pain in people and has been recommended for OA in the dog (Karas 2009) although clinical data is lacking. The doses in domestic species are empirical and occasionally sedation can occur. • Amantadine and NMDA receptor antagonist has also be recommended in OA (Karas 2009, Johnston 2008 ) and one study (Lascelles et al 2008) has shown benefit when administered (3-5mg/kg SID) with meloxicam. • Polysulphated glyocaminoglycan and pentosan polysulphate are classified as disease modifying drugs in osteoarthritis and have some clinical evidence to support their use. Nutritional supplments may also be of benefit, but the clinical evidence to support their use is limited • Green lipped mussel • P45FP • Omega 3 based diets

CANCER PAIN PHYSICAL TECHNIQUES

Cancer pain can be extremely debilitating, and in the final stages of the animal’s life - preventing suffering is the most commonly cited concern of owner. Gaynor (2008) provides an excellent review of the management of cancer pain in dogs and cats. Bone cancer pain can be particularly difficult to control because of periosteal stretch and abnormal osteoclast activity. Reduction of cancer cell mass is generally a major means of providing immediate analgesia. This can be achieved by surgery, chemotherapy and radiation with the caveat that in situ massive cell death can result in a whole body generalised systemic inflammatory response that may progress to multiple organ failure and death (tumour lysis syndrome). Sufficient longer-term analgesia is essential to enhance the quality of life of these patients. The WHO guidelines recommend an approach based on non-opioids for mild to moderate pain (with adjuvant analgesics if necessary), increasing to a combination of opioids and non-opioids for more severe pain. Pain diaries and assessment are extremely important as cancer pain is associated with end of life decision making. It may seem insensitive to advise someone to allow euthanasia for their pet as the kindest option when a relative is suffering from the same condition. But as veterinary surgeons we should also remember that our responsibility is to the animal and not the owner. This is an important distinction. The following classes of drugs may all be applicable for use in the cancer patient. • Opioids including codeine, transmucosal buprenorphine (cats, limited data in dogs) and transdermal fentanyl. In the UK oral codeine/paracetamol combinations (dogs) are sometimes well tolerated. Oral sustained release morphine is useful but often associated with sedation. • Non-steroidal anti-inflammatory drugs. • Paracetamol (dogs) (in addition to NSAIDS) • Corticosteroid • Tramadol • Amantadine (?neuropathic pain)

• • • • •

Sensory neurectomy. Therapeutic surgery. Stimulation induced analgesia Acupuncture Palliative radiation therapy.

CONCLUSIONS • If an animal doesn’t respond to one analgesic regime, try changing. • Different animals will respond differently. • Not all pain is the same. • Owner involvement is essential as is regular communication to help refine therapy.

References Gaynor JS (2008) Control of cancer pain in veterinary patients. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008 Nov; 38(6):1429-48, viii. Gunew MN, Menrath VH, Marshall RD. (2008) Long-term safety, efficacy and palatability of oral meloxicam at 0.01-0.03 mg/kg for treatment of osteoarthritic pain in cats. J Feline Med Surg. 2008 Jul; 10(3):235-41. Johnston SA, McLaughlin RM, Budsberg SC (2008) Nonsurgical management of osteoarthritis in dogs.Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008 Nov; 38(6):1449-70, viii. Karas A ( 2009) Proceedings of AVA meeting, Helsinki 2009. Lamont LA. (2008) Adjunctive analgesic therapy in veterinary medicine.Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008 Nov; 38(6):1187-203. Lascelles BD, Court MH, Hardie EM, Robertson SA (2007) Nonsteroidal anti-inflammatory drugs in cats: a review.Vet Anaesth Analg. 2007 Jul; 34(4):228-50. Lascelles BD et al (2008) Amantadine in a multimodal analgesic regimen for alleviation of refractory osteoarthritis pain in dogs.J Vet Intern Med. Jan-Feb; 22(1):53-9. Papich MG (2008) An update on nonsteroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs) in small animals. Vet Clin North Am Small Anim Pract. Nov; 38(6):1243-66, vi. Review.

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Epatopatie primitive e secondarie: un possibile algoritmo diagnostico e alcune strategie terapeutiche Tiziana Cocca Med Vet, Napoli

La diagnosi delle patologie epatiche è spesso complessa per diverse ragioni: 1. Il ruolo centrale che il fegato svolge nel metabolismo, sia nei processi di sintesi (proteine, carboidrati, lipidi, vitamine, ecc.), che di elaborazione e degradazione (nutrienti, farmaci, tossine) 2. L’ampia capacità di riserva funzionale dell’organo, con comparsa di sintomi specifici solo in una fase molto avanzata dell’epatopatia (ittero, ipoglicemia, encefalopatia epatica, ascite) 3. Sintomi clinici inizialmente vaghi ed aspecifici (disoressia, letargia, PU/PD, V/D ecc) 4. L’elevata frequenza con cui si manifestano epatopatie secondarie, cioè danni epatici secondari a patologie di natura diversa, che devono essere individuate e gestite. Già durante la visita clinica è importante considerare una possibile epatopatia in diversi casi: predisposizioni di razza o sesso in soggetti che mostrano sindromi cliniche associabili a patologie epatobiliari: sintomi neurologici possono correlarsi a shunt in golden retriever, Labrador, maltese, schnauzer, yorkshire terrier, bassotto; ulcere intestinali; alterazione congenita del metabolismo del rame nel bedlington terrier con conseguente accumulo del metallo e flogosi secondaria, ecc. Fondamentali sono anche i riscontri anamnestici: ingestione di sostanze o farmaci notoriamente epatotossici, intolleranza all’anestesia o ai farmaci in soggetti giovani appartenenti a razze predisposte a shunt. Più spesso però si arriva a prendere in considerazione la possibile esistenza di una epatopatia quando, valutando il profilo biochimico di un soggetto che mostra sintomi vaghi, si notano alcune alterazioni riferibili. L’elevazione degli enzimi markers di epatopatia (AST, ALT, gGT, PA) è un dato molto sensibile ma poco specifico ai fini della diagnosi di una epatopatia 1; questi enzimi infatti si elevano nel siero in numerose condizioni non direttamente correlabili a patologie epatocellulari:

Insufficienza cardiaca congestizia FARMACI Anticonvulsivanti Anestetici Corticosteroidi Chemioterapici CONDIZIONI VARIE Febbre Enteriti Neoplasie Infezioni In assenza di evidenze cliniche o analitiche che consentano di diagnosticare l’esistenza di una patologia extraepatica, è necessario ricorrere a test che consentano di valutare la funzionalità del fegato e quindi l’esistenza di una patologia epatica primaria; allo stato attuale valore discriminante si attribuisce al test della bilirubinemia e a quello degli acidi biliari, serici o urinari. Molteplici sono però i limiti interpretativi e diagnostici di tali test, primo fra tutti l’impossibilità di effettuare una diagnosi etiologica, che si può raggiungere solo attraverso una valutazione istologica del parenchima epatico. Anche l’istologia però comporta dei possibili errori diagnostici2 e principalmente errori di campionamento, che possono derivare da una tecnica non opportunamente condotta o dalla distribuzione non uniforme delle lesioni anche in quella con le tecniche di diagnostica per immagini può essere evidenziata come una epatopatia diffusa o problemi di interpretazione da parte di patologi diversi. Ciò sottolinea l’importanza di uno scambio costante di informazioni tra il clinico ed il patologo. Il giudizio definitivo è una responsabilità del clinico, che deve valutare la diagnosi morfologica formulata dal patologo alla luce del quadro clinico mostrato dal paziente. Di conseguenza, internisti e patologi devono essere disposti ad accettare i limiti della biopsia epatica e, se necessario, essere pronti a ripeterla. Sebbene le epatopatie secondarie guariscano generalmente con la risoluzione del problema primario, non devono essere sottovalutate, perché possono evolvere in primitive attraverso vari meccanismi patogenetici, il principale dei quali è la reazione infiammatoria nell’ambito del parenchima epatico e conseguente fibrosi 3. Questa evenienza è dovuta in genere alla persistenza del problema primitivo perché non risolvibile o perché non individuato correttamente, oppure perché come spesso accade si tratta di pazienti anziani o comunque ammalati, le cui riserve funzionali sono già all’origine meno efficienti.

ENDOCRINOPATIE: Diabete mellito Iperadrenocorticismo Ipertiroidismo Ipotiroidismo IPOSSIA/IPOTENSIONE Chirurgia Shock Emorragia Epilessia 128


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7. ANTIFIBROTICI La fibrosi è spesso la inevitabile sequela di una patologia epatica cronica. Allo stato attuale, la colchicina è l’antifibrotico di più comune uso; l’effetto si svolge attraverso l’attivazione dell’enzima collagenasi. Notevoli ma rari gli effetti collaterali (vomito, diarrea, segni neurologici). La reale attività clinica non è dimostrata né in medicina umana né veterinaria. 8. ANTIRAME L’accumulo di rame è piuttosto frequente in veterinaria sia come problema primario (dalmata, WHWT, bedlington terrier) sia come evento conseguente a diminuzione dell’escrezione biliare secondaria a colestasi (dobermann, Labrador). L’unica razza nella quale il meccanismo (genetico) è ben conosciuto è il bedlington. Il rame in eccesso viene stoccato nei lisosomi e qui non può essere raggiunto dai chelanti. Il danno è causato dal rame libero nel citoplasma, ed è di tipo ossidativo. I chelanti sono indicati solo nelle patologie in cui l’accumulo è primario mentre quelle in cui è secondario vanno trattate in base alla etiologia. Tra i farmaci antirame: i chelanti (penicillamina e trientene), che legano il rame libero extracellulare favorendone l’escrezione renale e creando così un gradiente con quello intracellulare; inibitori dell’assorbimento intestinale del rame (zinco), che funzionano soprattutto in prevenzione; antiossidanti, che trattano però le conseguenze dell’accumulo del metallo.

La terapia delle epatopatie si basa sull’utilizzo di pochi principi terapeutici, generalmente mutuati dalla medicina umana e sui quali esistono pochi studi in medicina veterinaria: 1. CORTICOSTEROIDI Indicati solo in un piccolo gruppo di epatopatie a patogenesi autoimmune. Considerati la scelta elettiva nel trattamento per l’epatite cronica idiopatica nel cane. Hanno inoltre effetti antinfiammatori, coleretici e antifibrotici. È fondamentale utilizzarli solo se non sono note cause infettive. 2. AZATIOPRINA Seconda scelta rispetto ai corticosteroidi a causa degli effetti mielosoppressivi e tossici. Si può associare ai corticosteroidi se gli effetti collaterali di questi ultimi risultano inaccettabili. 3. A.URSIDESOSSICOLICO (UDCA) Previene il danno mitocondriale e l’apoptosi e aumenta il flusso di bile con conseguente rimozione degli acidi biliari tossici dal circolo ed ha effetto colagogo. Quest’ultimo è dovuto al fatto che aumentando la concentrazione di acidi biliari nella bile aumenta anche la secrezione di acqua nei canalicoli biliari per osmosi, con conseguente aumento del flusso biliare. Controindicato nelle ostruzioni biliari. Aumenta inoltre la produzione di glutatione ed ha effetto immunomodulante. 4. ANTIOSSIDANTI Alcune condizioni patologiche provocano, tra gli altri effetti metabolici, stress ossidativi cellulari, attivando alcune catene enzimatiche, i mitocondri epatocitari e i macrofagi di kuppfer che producono radicali liberi; questi captano elettroni, che ossidano le molecole lipidiche e proteiche4. Le difese dell’organismo sono la superossidodesmutasi, catalasi e GSH perossidasi, ma talvolta non sono sufficienti. Tra gli Antiossidanti ricordiamo le vit C ed E. Funzione antiossidante hanno anche la silimarina, adenosilmetionina, lo zinco e l’UDCA. 5. S-ADENOSILMETIONINA (SAME) Aumenta la disponibilità di cisteina, aminoacido del GSH perossidasi. La teoria per la somministrazione è quindi quella di favorire il ripristino dei livelli di GSH. Non esistono però studi che dimostrino con chiarezza effetti positivi del trattamento con SAME. 6. SILIMARINA Utilizzata da secoli, è un forte eliminatore di radicali liberi attraverso l’incremento della SOD cellulare. È fortemente protettiva nei confronti degli agenti dannosi mediante ossidazione. Esistono studi nel cane sugli effetti protettivi della silimarina in avvelenamenti da tossici fungini. È inoltre in grado di stimolare le sintesi proteiche, di aumentare la disponibilità di glutatione ed ha un moderato effetto colagogo5.

Bibliografia 1. 2.

3. 4. 5.

Ettinger SP, Feldmann EC. (2008), Clinica Medica Veterinaria. Elsevier Masson, Milano., Vol 2, 1454-1472. WSAWA Liver Standardization Group (2006), Standards for Clinical and Histological Diagnosis of Canine and Feline Liver Diseases. Saunders Elsevier,P Philadelphia, USA, 5-14. Levine J. (1990), Ascertainment of side effects in psychopharmacologic clinical trials. Psychopharmacol Ser.,Vol. 8,130-135. Feher J, Lengyel G, Blazovics A. (1998), Oxidative stress in the liver and biliary tract diseases. Scand. J Gastroenterol Suppl. 228:38-46. Gazàk R, Walterovà D, Kren V. (2007), Silybin and silymarin-new and emerging applications in medicine. Curr Med Chem.,14(3):315318.

Indrizzo per la corrispondenza: Tiziana Cocca Cl. Napolivet, Via Miseno, 13, Napoli E-mail: tizianacocca@libero.it - Tel. 0812303174

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Diagnosi avanzate, biologia molecolare e malattia minima residua Stefano Comazzi Med Vet, PhD, Dipl ECVCP, Milano

Tra le tecniche utili per rifinire la diagnosi delle malattie linfo-mieloproliferative dei piccoli animali vanno ricordate le tecniche di immunofenotipizzazione e quelle di biologia molecolare. L’utilizzo di metodiche quali la citometria a flusso, la PCR sia convenzionale che quantitativa (real-time) è ormai entrata a pieno titolo nel pannello indispensabile per il corretto inquadramento clinico dei linfomi alla luce anche dei numerosi lavori che definiscono la stretta correlazione tra l’immunofenotipo e i tempi di sopravvivenza (Ponce et al., 2004). Per immunofenotipizzazione di una neoplasia si intende la definizione del pattern di antigeni presente sulla membrana (o più raramente nel citoplasma) delle cellule tumorali mediante l’utilizzo di anticorpi monoclonali. Questo risultato può essere perseguito con tecniche di immunoistochimica, molto adatte alle lesioni solide carcinomatose o sarcomatose, o con metodiche citofluorimetriche o immunocitochimiche, su tessuti liquidi o cellule in sospensione dopo biopsia ad ago sottile. L’immunofenotipizzazione citofluorimetrica si presta molto bene alla determinazione del fenotipo delle cellule di leucemie o dei tumori rotondocellulari, quali linfomi, neoplasie istiocitarie o mastocitomi, in quanto da un lato il sangue è una sospensione “naturale” di cellule, dall’altro le cellule rotonde sono scarsamente coesive e quindi possono facilmente essere aspirate e sospese in appositi terreni liquidi di coltura. Tra i vantaggi di questa tecnica rispetto all’immunoistochimica vi è la facilità di prelievo che non richiede sedazione né approccio chirurgico e l’estrema rapidità di esecuzione che permette di ottenere risultati clinicamente rilevanti già in 24 ore dal prelievo, a fronte di un costo piuttosto contenuto. Un ulteriore vantaggio risiede nella possibilità di evidenziare la contemporanea espressione di due o più antigeni sulla membrana delle cellule neoplastiche e di acquisire rapidamente un numero molto elevato di cellule (almeno 10.000) il che permette di risolvere anche le popolazioni cellulari meno rappresentate nel campione. In medicina umana l’utilizzo di tecniche citofluorimetriche ha permesso di rifinire l’approccio diagnostico alle patologie linfo-mieloproliferative e di definire in modo preciso l’insieme delle positività caratteristiche di ogni singola entità neoplastica. La determinazione dell’immunofenotipo caratteristico della popolazione di cellule neoplastiche linfomatose è utile da un punto di vista prognostico, alla luce della più favorevole prognosi delle neoplasie B rispetto alle T, e per

la determinazione più corretta della stadiazione, grazie alla possibilità di tracciare le cellule neoplastiche nel sangue e nel midollo con una precisione molto maggiore rispetto alla semplice determinazione citologica. Lavori recenti (Marconato et al., 2008) hanno indicato come i tempi di sopravvivenza fossero profondamente differenti tra i linfomi senza e con infiltrazione emato-midollare (stadio V) e come in quest’ultimi si debba spesso considerare l’utilizzo di farmaci specifici in aggiunta al normale protocollo chemioterapico. La determinazione dell’immunofenotipo neoplastico permette talvolta anche di distinguere tra le forme di linfoma con infiltrazione ematomidollare e le vere e proprie leucemie acute, a partenza principale midollare. In particolare, nel cane, l’espressione dell’antigene CD34 è da considerarsi riconducibile alle leucemie acute, sia linfoidi che mieloidi, in quanto nella stragrande maggioranza dei linfomi, anche leucemici, è assente tale positività. Un aspetto di particolare interesse consiste poi nell’evidenziazione dei cosiddetti fenotipi aberranti cioè espressioni di antigeni generalmente considerati non compatibili nell’ambito della normale popolazione non neoplastica (per esempio la coespressione di antigeni mieloidi o linfoidi o di antigeni della linea B e T) (Wilkerson et al., 2005; Gelain et al., 2007). L’evidenziazione di questi antigene qualitativamente o quantitativamente espressi in modo aberrante permette da un lato di confermare la natura neoplastica della cellula interessata (pseudoclonalità) e dall’altro di tracciare in modo assolutamente preciso il livello di infiltrazione dei differenti organi (stadiazione) e di valutare la percentuali di cellule rimaste nei tessuti dopo protocollo chemioterapico (malattia minima residua o MDR). La valutazione dell’origine neoplastica delle cellule si effettua dimostrando l’origine delle stesse da un’unica cellula che si replica in modo afinalistico. Tale aspetto, definito clonalità, può essere dimostrato con tecniche di immunofenotipizzazione o di biologia molecolare. In medicina umana la determinazione citofluorimetrica delle catene leggere degli anticorpi (denominate kappa e lambda) è spesso utilizzata per definire l’origine clonale delle neoplasie B in quanto in condizioni non neoplastiche le cellule B sono caratterizzate da un misto di entrambe le forme e l’evidenziazione di una netta prevalenza di una delle due va considerato come segno di neoplasia. L’utilizzo di tecniche di biologia molecolare per la determinazione del riarrangiamento dei recettori per le 130


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immunoglobuline o del T cell receptor (TCR) è stato recentemente introdotto sia in medicina canina che felina (Burnett et al., 2003). Tali tecniche, condotte generalmente mediante PCR qualitativa, seppur in grado di svelare in modo piuttosto efficace l’origine neoplastica della maggior parte delle neoplasie, non vanno tuttavia considerate esami conclusivi e vanno sempre utilizzate a completamento del normale iter diagnostico ed immunofenotipico. Infatti, da un lato non tutte le neoplasie mostrano segni di riarrangiamento evidente e segni di clonalità possono essere riscontrati anche in patologie non neoplastiche, dall’altro queste tecniche non sono spesso efficaci per determinare il fenotipo delle cellule tumorali che risulta spesso contraddittorio con quello ottenuto mediante altre tecniche di laboratorio. L’utilizzo di sistemi di PCR qualitativa può, almeno in linea teorica, permettere la determinazione del grading e della malattia minima residua nei differenti tessuti e, se opportunamente sviluppato, aiutare a prevedere le recidive precoci.

Bibliografia essenziale Burnett RC, Vernau W, Modiano JF, Olver CS, Moore PF, Avery AC (2003). Diagnosis of canine lymphoid neoplasia using clonal rearrangements of antigen receptor genes. Vet Pathol 40:32. Gelain ME, Mazzilli M, Riondato F, Marconato L, Comazzi S (2008). Aberrant phenotypes and quantitative antigen expression in different subtypes of canine lymphoma by flow cytometry. Vet Immunol Immunopathol 121: 79. Marconato L., Bonfanti U, Stefanello D, Lorenzo MR, Romanelli G, Comazzi S., Zini E. (2008) Cytosine Arabinoside in addition to VCAA based protocols for the treatment of canine lymphoma with bone marrow involvement: does it make the difference? Veterinary and Comparative Oncology, 6: 80. Ponce F, Magnol JP, Ledieu D, Marchal T, Turinelli V, Chalvet-Monfray, K, Fournel-Fleury C (2004) Prognostic significance of morphological subtypes in canine malignant lymphomas during chemotherapy. Vet J Diagn Invest 15: 330. Vernau W Moore PF (1999) An immunophenotipic study of canine leukemias and preliminary assessment of clonality by PCR Vet Immunol Immunopathol 69:145. Wilkerson MJ, Dolce K, Koopman T, Shuman W, Chun R., Garret L., Barber, L, Avery A. (2005) Lineage differentiation of canine lymphoma/leukemia and aberrant expression of CD molecules. Vet Immunol Immunopathol, 106: 179.

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Valutare il dolore cronico: la nuova sfida Federico Corletto DVM, CertVA, Dipl ECVAA, MRCVS, Cambridge, UK

La valutazione del dolore cronico e dell’efficacia degli interventi terapeutici presenta notevole difficoltà in algologia umana ed è un argomento relativamente nuovo in medicina veterinaria. È, innanzitutto, fondamentale stabilire cosa si intenda per dolore cronico: il dolore cronico propriamente detto è il dolore che perdura dopo la risoluzione della sua causa. Nel dolore cronico manca, pertanto, il rapporto causa/effetto e non è evidente un danno tessutale o un meccanismo di stimolazione dei nocicettori. Il dolore cronico è sostenuto da una modificazione stabile dei circuiti neuronali centrali che risulta nella sensazione di dolore sia dopo stimoli nocicettivi che stimoli non nocicettivi. Si tratta della cosiddetta “memoria del dolore”. In medicina veterinaria, tuttavia, spesso si intende cronico il dolore associato a patologie croniche, utilizzando come criterio diagnostico la durata del processo che causa dolore, piuttosto che la patogenesi del meccanismo che lo sostiene. La differenza tra il dolore cronico vero ed il dolore persistente (dolore associato a patologie croniche con continua stimolazione dei meccanismi nocicettivi o disnocicettivi) è fondamentale dal punto di vista prognostico e terapeutico: il dolore cronico, considerato il meccanismo patogenetico, non è curabile, mente il dolore persistente ed il dolore neuropatico rispondono agli analgesici e sono curabili risolvendo il problema sottostante. Dal punto di vista pratico, l’identificazione del dolore cronico vero e proprio è difficile, mentre è più semplice sospettare ed identificare il dolore persistente, per esempio associato a patologie degenerative osteoarticolari. Nonostante la maggior parte dei pazienti con patologie degenerative osteoarticolari presenti dolore persistente, piuttosto che cronico, è probabile che alcuni pazienti siano realmente affetti da dolore cronico. In quest’ultimo caso, la correzione chirurgica della patologia potrebbe non determinare un significativo miglioramento del quadro clinico, in assenza di complicazioni e dopo un intervento chirurgico riuscito perfettamente. Dal punto di vista prognostico, potrebbe essere interessante cercare di identificare tali pazienti. Relativamente più semplice è l’identificazione del dolore neuropatico, che non è, strettamente parlando, dolore cronico, ma molto spesso è considerato tale per la mancanza di un’evidente lesione tessutale. In questo caso, la disestesia o l’alterata funzione del sistema nervoso può essere identificata attraverso una attenta visita clinica. L’identificazione della lesione del sistema nervoso periferico e centrale è quindi

possibile, soprattutto ricorrendo all’aiuto di un neurologo e di test specifici. Il primo passo nell’approccio al paziente in cui si sospetti dolore cronico è rappresentato da un esaustivo colloquio con il proprietario. Il motivo della presentazione non necessariamente è il sospetto di dolore cronico: zoppia, deficit neurologici, alterazioni delle abitudini alimentari non sono rari motivi per cui il paziente affetto da dolore cronico è presentato al medico veterinario. Le alterazioni comportamentali indotte dal dolore cronico e persistente sono più sottili di quelle identificabili in caso di dolore acuto. Lo stressante ambiente della clinica è spesso sufficiente a mascherare tali alterazioni, che influenzano la sfera comportamentale piuttosto che indurre alterazioni di pressione arteriosa, frequenza cardiaca, temperatura. In animali anziani, inoltre, è possibile che il medico veterinario interpreti le alterazioni comportamentali riportate dal proprietario come semplici e normali effetti del processo d’invecchiamento. Ciò è molto comune nel gatto. L’attitudine del paziente nei confronti del proprietario, di altri esseri umani, e di altri animali può essere influenzata dal dolore cronico. Irritabilità, aggressività, apatia possono essere indice di dolore cronico. La risposta a precedenti terapie rappresenta un’utile informazione: in caso di risposta positiva alla somministrazione di FANS od oppioidi, è probabile che il dolore sia sostenuto da un danno tessutale persistente. La completa assenza di risposta ad analgesici ed anti-infiammatori potrebbe suggerire la possibilità di trovarsi realmente di fronte ad un dolore cronico. Sono stati proposti schemi di valutazione del dolore da osteoartrosi nel cane, che identificano comportamenti positivi e negativi, risultando in questionari composti da domande per il proprietario. In algologia umana, la diagnosi di dolore cronico è emessa dopo un complesso iter, che inizia con un’accurata descrizione del dolore da parte del paziente: in particolare come il dolore influenza i ritmi quotidiani del paziente, che tipo di dolore è (il questionario di McGill utilizza 20 classi, con 35 termini disponibili per ciascuna classe!) con che frequenza si presenta, per quanto tempo, dove si presenta, come influenza la sfera emotiva e come varia nel tempo. Ciò non è possibile in medicina veterinaria, considerata l’impossibilità di comunicare con il paziente. Ciononostante è possibile compiere una visita clinica e algologica atta a: • Localizzare l’area dolorosa, e descriverne estensione e distribuzione (metamerica, articolare, distrettuale, diffusa). • Valutazione della postura, del tono e della simmetria muscolare, della mobilità, presenza di trigger points. 132


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• Valutazione neurologica dell’area interessata, per identificare deficit sensori e motori. • Valutazione della sensibilità (normale, diminuita/assente, allodinia, iperestesia); utile può essere il paragone con altre parti del corpo. L’utilizzo di filamenti di Von Frey può facilitare l’oggettivizzazione della sensibilità cutanea. Allo stato attuale delle nostre conoscenze ed esperienze, la diagnosi di dolore cronico rappresenta ancora una diagnosi per esclusione, pertanto molto difficile. Il primo aspetto da considerare è il comportamento del paziente nell’ambiente abituale, la cui valutazione dipende esclusivamente dal proprietario; il medico veterinario, quindi, deve identificare la distribuzione del dolore e cercare di escludere o confermare la presenza di alterazioni della sensibilità o motorie. L’iter diagnostico successivamente deve escludere o confermare la presenza di lesioni ortopediche, neurologiche o oncologiche

e quindi cercare di mettere insieme in un contesto logico ed esplicativo le informazioni raccolte. La risposta agli analgesici, inoltre, può risultare utile, per esempio valutare la risposta alla somministrazione di oppioidi, FANS, ketamina, sedativi o lidocaina per via sistemica. Risulta, infine, evidente come il processo diagnostico nel paziente affetto da dolore, soprattutto cronico, non sia prerogativa di un’unica disciplina, bensì richieda un approccio multidisciplinare, in cui figure con differente specializzazione possono interagire nell’interesse del paziente.

Indirizzo per la corrispondenza Federico Corletto Dick White Referrals - Station Farm London Road - Six Mile Bottom • Suffolk • CB8 0UH

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La gestione del dolore perioperatorio Federico Corletto DVM, CertVA, Dipl ECVAA, MRCVS, Cambridge, UK

Il dolore perioperatorio è probabilmente il tipo di dolore che il medico veterinario è chiamato a controllare più frequentemente. La disponibilità di farmaci veterinari, la possibilità dell’uso improprio di farmaci umani, nonché lo sviluppo e diffusione di metodi relativamente semplici e rapidi per valutare il dolore nel cane e nel gatto, hanno sicuramente avuto un impatto positivo sulla gestione del dolore pei operatorio in queste specie. Per una ottimale gestione del dolore perioperatorio è necessario considerare quanto segue: • Dolore preoperatorio: la presenza di danno tissutale e dolore precedentemente all’intervento chirurgico determina un aumento della sensibilità del sistema nocicettivo ed influenza anche la componente corticale e limbica del dolore, rendendo considerevolmente più difficile, ma non impossibile, la gestione del dolore stesso. • Attitudine del paziente: pazienti ansiosi e nervosi rendono più difficile il riconoscimento del dolore, inoltre lo stress e l’ansia possono in parte diminuire l’efficacia dell’intervento analgesico. L’utilizzo di sedativi e tranquillanti può essere, in questo caso, di notevole aiuto. • Tipo di procedura ed invasività: l’effetto dell’esperienza del chirurgo sul dolore perioperatorio è spesso considerato poco rilevante, mentre viene dato più peso al tipo di procedura effettuata. Entrambi possono influenzare significativamente il danno tessutale, la risposta infiammatoria, la stimolazione dei nocicettori, il processo di guarigione e quindi il fabbisogno analgesico. È difficile “misurare” l’invasività del chirurgo, tale aspetto può essere facilmente considerato nella gestione del dolore ricorrendo a sistemi di valutazione i più oggettivi possibili e quindi valutando l’effettivo consumo di analgesici nel postoperatorio. • Analgesia intraoperatoria: il controllo della nocicezione intraoperatoria sembra influenzare il dolore postoperatorio, spesso è possibile notare come pazienti con marcata risposta emodinamica causata da inadeguata antinocicezione presentino un notevole challenge per quanto riguarda la gestione del dolore postoperatorio. È possibile speculare, tuttavia, che la maggiore richiesta di analgesici possa essere ricondotta alla notevole invasività della procedura, e quindi ad una maggiore nocicezione, con marcata risposta emodinamica di difficile controllo. L’analgesia intraoperatoria, quindi, deve essere commisurata all’invasività della procedura e del chirurgo. • Tipo di dolore: l’identificazione del meccanismo patogenetico che mantiene il dolore rappresenta un passo fondamentale nella pianificazione di una adeguata analgesia

perioperatoria. Per esempio, nella prima giornata postoperatoria il dolore ha una notevole componente mediata dalla stimolazione nocicettiva e dal danno tessutale diretto, mentre si sta sviluppando una risposta infiammatoria che diventa importante diverse ore dopo l’insulto. In alcuni casi il dolore può originare direttamente nel sistema nervoso, oppure da visceri toracici ed addominali. Gli analgesici disponibili sono relativamente selettivi nel trattare solo alcuni tipi di dolore. Il tipico esempio è rappresentato dal dolore infiammatorio e dai FANS, dal dolore neurogenico e dalla gabapentina/lidocaina, etc. • Durata del dolore, frequenza della valutazione: la durata della terapia perioperatoria deve essere adeguata alla durata della nocicezione. È eticamente scorretto, inutile e costoso utilizzare complessi protocolli antalgici per periodi più brevi della durata del processo algico stesso. Risulta fondamentale, quindi, valutare frequentemente il dolore nell’immediato periodo postoperatorio, quindi ridurre la frequenza della valutazioni secondo la necessità di interventi analgesici, fino alla completa cessazione della valutazione del dolore e la dimissione del paziente. Considerati questi aspetti, è necessario pianificare un approccio logico all’analgesia perioperatoria, cercando di ottenere il massimo beneficio per il paziente con il minimo costo ed effetti indesiderati. I farmaci e le tecniche utilizzabili sono, in questo caso: • FANS: sono fondamentali nel controllare la componente infiammatoria del dolore, tuttavia il loro uso è limitato dalle controindicazioni e dai possibili effetti collaterali. L’utilizzo preoperatorio sembra essere più efficace, tuttavia comporta il maggior rischio in termini di possibili complicazioni (renali, epatiche), in caso di ipotensione o ipovolemia. I moderni farmaci COX-2 selettivi risolvono in parte il problema della tollerabilità gastroenterica, tuttavia permangono i possibili effetti indesiderati sulla perfusione renale. • Oppioidi: rappresentano ancora il fondamento dell’analgesia perioperatoria. Il margine di sicurezza nel gatto e, soprattutto, nel cane è notevole. La moltitudine di farmaci e formulazioni consente di adattare il protocollo analgesico alle necessità del paziente. Sono potenti analgesici, efficaci nel controllo del dolore sostenuto da diversi meccanismi patogenetici, tuttavia in alcuni casi è necessario ricorrere alla somministrazione di dosi relativamente elevate ad intervalli frequenti per un efficace controllo del dolore. In questo caso l’animale sarà sedato e richiederà maggiore attenzione, con il relativo aumento dei costi e 134


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dei rischi legati al decubito ed alla possibile depressione ventilatoria. Tecniche locoregionali: qualora possano essere impiegate, sono molto efficaci nel controllo del dolore senza indurre gli effetti collaterali tipici di oppioidi e FANS. Le principali limitazioni sono legate alla relativamente breve durata di azione (possono essere, tuttavia, impiegati cateteri per somministrare infusioni di anestetico sia a livello periferico che neurassiale) ed alla paralisi motoria (può essere controllata ricorrendo a basse concentrazioni di farmaci con maggiore selettività nei confronti delle fibre sensorie). Il profondo blocco sensorio intraoperatorio ottenibile solo con l’utilizzo di tecniche locoregionali ha un effetto benefico sul dolore postoperatorio che si estende ben oltre la durata di azione dell’anestetico stesso. L’utilizzo di morfina nelle anestesie neurassiali, inoltre, consente di estendere significativamente l’analgesia nel postoperatorio. Anestetici locali per via sistemica (infusine di lidocaina): agendo sui canali per il sodio, diminuiscono la reattività al danno tessutale, stabilizzano le membrane cellulari, riducono la risposta emodinamica, diminuiscono la concentrazione minima alveolare degli anestetici inalatori. Sono particolarmente indicati nel controllo del dolore neuropatico periferico e neurogeno. Ketamina: l’attivazione del recettore NMDA per il glutammato sembra essere un evento fondamentale per promuovere l’instaurazione dell’iperalgesia e della resistenza agli oppioidi. L’approccio più semplice per evitare l’attivazione di tale recettore consiste nel ridurre gli stimoli nocicettivi che raggiungono il corno dorsale del midollo spinale (anestesia loco regionale, oppioidi). La ketamina è un antagonista relativamente specifico nei confronti di tale recettore, pertanto è utilizzata in infusione nel perioperatorio per facilitare il controllo del dolore che risponde scarsamente ai soli oppioidi. L’utilizzo di ketamina in questo scenario, tuttavia, non sempre dà risultati soddisfacenti e può causare effetti indesiderati di tipo comportamentale. Gabapentina: la gabapentina è un antiepilettico che presenta un notevole margine di sicurezza e la cui efficacia nel trattamento di alcuni tipi di dolore (neurogenico, neuropatico) è stata dimostrata. In alcuni casi è utilizzata anche per il trattamento del dolore cronico vero e come coadiuvante nella terapia del dolore persistente legato all’osteoartrosi. Sedativi e tranquillanti: hanno un ruolo importante nel controllo del dolore perioperatorio in animali particolarmente ansiosi, nervosi o aggressivi. Le dosi somministrate sono basse e mirano non alla sedazione, bensì a bilanciare l’aumentata eccitabilità corticale che facilita la percezione del dolore e antagonizza l’effetto analgesico.

• Benzodiazepine: possono essere utili per controllare la componente del dolore derivante dallo spasmo muscolare successivamente, per esempio, alla chirurgia della colonna vertebrale. • Farmaci antidepressivi: poiché il dolore, soprattutto se persistente può influenzare profondamente il comportamento del paziente, l’utilizzo di farmaci antidepressivi dopo valutazione comportamentale può migliorare la qualità della vita del paziente. I farmaci antidepressivi, inoltre, attivano vie serotoninergiche inibitorie che possono migliorare il controllo del dolore. In base a queste considerazioni ed alla disponibilità di personale e mezzi, ciascuno deve sviluppare un approccio logico al dolore. Il mio approccio è il seguente: 1. Utilizzo di oppioidi agonisti puri in premedicazione, eventualmente associati a basse dosi di dexmedetomidina in animali ansiosi o nervosi. 2. Implementazione di tecniche locoregionali quando possibile ed indicato. 3. Utilizzo di oppioidi intraoperatori (infusione o boli, secondo la durata della procedura). 4. In alcuni tipi di intervento (chirurgia della colonna vertebrale, TECA, addome acuto), utilizzo di lidocaina in infusione. Nel caso dell’addome acuto e di dolore neuropatico periferico, l’infusione è continuata anche nel postoperatorio. 5. Somministrazione di FANS se non controindicato al termine dell’intervento, in assenza di episodi ipotensivi significativi o ipovolemia. Solitamente sono continuati, in assenza di controindicazioni od effetti collaterali, per 3-5 giorni, secondo il tipo di intervento. 6. Valutazione del dolore postoperatorio ogni 2 ore nella prima giornata postoperatoria, cominciando quando il paziente è sveglio, somministrazione di rescue analgesia (metadone) quando indicato, anche ogni 2 ore. 7. Valutazione del consumo di analgesico e dell’intervallo di somministrazione della rescue analgesia in seconda giornata, quindi personalizzazione dell’intervallo di valutazione del dolore e del farmaco somministrato nell’intervento analgesico. 8. Gabapentina e diazepam sono utilizzati nel postoperatorio della chirurgia a carico della colonna vertebrale. È importante ribadire che tale protocollo è stato sviluppato considerando la casistica della struttura, la disponibilità di personale on-site 24 ore al giorno, e la notevole capacità dei chirurghi di lavorare rapidamente limitando il danno tessutale al minimo indispensabile.

Indirizzo per la corrispondenza Federico Corletto Dick White Referrals - Station Farm London Road - Six Mile Bottom • Suffolk • CB8 0UH

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Cane e gatto durante la stagione estiva: quadro clinico delle patologie più frequenti e possibili soluzioni. Prevenzione e terapia delle malattie dermatologiche da esposizione ai raggi solari Luisa Cornegliani Med Vet, Dipl ECVD, Milano

ta e bull terrier con l’addome glabro, gatti bianchi o nudi corrono un rischio maggiore di sviluppare ustioni, dermatite solare e tumore squamocellulare. La cute adotta numerosi meccanismi per difendersi dall’esposizione ai raggi UV: sintetizza enzimi, antiossidanti e “stress protein” che proteggono le cellule epidermiche dai danni ossidativi. Altri enzimi consentono di riparare il DNA cellulare eventualmente danneggiato. Inoltre, tramite la produzione di melanina, da parte dei melanociti dello strato basale dell’epidermide, le radiazioni ultraviolette sono assorbite con relativa diminuzione del danno cellulare.

Gli animali sono protetti dal mantello, scudo naturale agli agenti fisici esterni; quelli a pelo corto e/o con cute non pigmentata possono esserlo in modo insufficiente.

LE RADIAZIONI ULTRAVIOLETTE (UV) La radiazione ultravioletta (UV o raggi ultravioletti) è una radiazione elettromagnetica con lunghezza d’onda inferiore alla luce visibile, ma maggiore dei raggi X. Il nome significa “oltre il violetto” (dal latino ultra, “oltre”), perché il violetto è il colore visibile con la lunghezza d’onda più corta. I raggi ultravioletti sono radiazioni più piccole e più rapide della luce visibile colorata, che ha una lunghezza d’onda da 400 a 700 nm (nanometri), e costituiscono meno del 5% della radiazione solare. Quando viene considerato l’effetto dei raggi UV sulla salute umana, la gamma delle lunghezze d’onda UV viene suddivisa in: UVA (400-320 nm), UVB (320-290 nm) e UVC (inferiore a 290 nm). La maggior parte dei raggi nocivi è assorbita dallo strato d’ozono, dalle impurità atmosferiche e dai vetri delle finestre. L’esposizione ai raggi solari aumenta al crescere dell’altitudine e per ogni 1000 metri si ha un incremento del 1012%. Da qui la necessità di proteggersi, oltre che al mare, anche durante le passeggiate in montagna.

Malattie dermatologiche foto-indotte La dermatite solare è una malattia che interessa gli animali a pelo corto e cute chiara. La sua gravità dipende dal tempo d’esposizione ai raggi UV ed è una reazione fototossica. Causa la formazione di cheratinociti vacuolizzati dell’epidermide superficiale, cheratinociti apoptotici, dilatazione dei vasi, incremento dei componenti vasoattive, delle citochine infiammatorie e dell’ossigeno reattivo. Questa serie di eventi provoca una progressiva alterazione del DNA con possibile trasformazione cellulare neoplastica (cheratosi attinica vs carcinoma squamocellulare). Negli animali le lesioni sono localizzate al dorso della canna nasale ed alle estremità (orecchie ed arti). Con l’esposizione ripetuta, dopo l’iniziale eritema, si formano croste ed ulcere, anche profonde. Nel gatto bianco, le lesioni croniche sono rappresentate da una dermatite attinica su orecchie, dorso del naso, ecc. Nei casi più gravi la malattia progredisce in carcinoma squamocellulare. Nel cane si possono sviluppare follicoliti e cisti follicolari attiniche su tronco ed arti, soprattutto se le esposizioni agli UV sono ripetute nel tempo. Le complicanze batteriche (piodermite), peggiorano i sintomi clinici e prolungano la risoluzione delle lesioni dermatologiche.

ALTERAZIONI DERMATOLOGICHE INDOTTE DALL’ECCESSIVA ESPOSIZIONE AI RAGGI UV Danni strutturali del mantello Il mantello rappresenta la prima barriera fisica ai raggi solari impedendone il contatto diretto con la cute. I raggi UV possono indurre un cambiamento nella composizione chimica del pelo, tramite un effetto di foto-ossidazione. L’alterazione della struttura cuticolare comporta la diminuzione e/o perdita di coesione tra le lamelle cornee. Ne consegue un indebolimento del pelo, perdita di lucidità ed opacamento del colore. Questi eventi sono abbastanza rari in dermatologia veterinaria, ma frequenti in quella umana vista l’abitudine di fare bagni di sole per l’abbronzatura.

Malattie dermatologiche foto-aggravate L’esposizione eccessiva ai raggi solari è un fattore di peggioramento di malattie immunomediate. In particolare modo è da evitare in corso di lupus eritematoso discoide e/o sistemico, lupus vescicolare dello Sheltie Sheep dog, dermatomiosite, pemfigo complex e penfigoide. In queste malattie, l’esposizione agli UV può aumentare la liberazione di antigeni, generare alcune molecole di DNA alterato dai cheratinociti epidermici e creare numerose citochine e molecole di adesione. Le molecole di DNA alterato fissandosi alla mem-

Danni strutturali della cute Gli animali a pelo corto, glabri o a pelo bianco sono maggiormente esposti agli effetti dannosi degli UV. Cani dalma136


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no 20-30 minuti prima dell’esposizione ai raggi solari e 1530 dopo.

brana basale dell’epidermide, alla presenza di autoanticorpi, formano nuovi immunocomplessi e causano la recrudescenza della malattia.

Terapia

Altri effetti dei raggi UV

Il trattamento farmacologico consiste, per i casi meno gravi, nella sola protezione dai raggi solari e l’idratazione cutanea; alcuni autori suggeriscono anche beta-carotene a 30 mg/kg/die per os. Se presenti lesioni dermatologiche di maggiore gravità è preferibile aggiungere corticosteroidi per via sistemica a dosi antinfiammatorie (prednisolone 1 mg/kg/ die) per 7-10 giorni; in alcuni casi può essere utile somministrare acitretina 0.5-1 mg/kg/die nel cane e 5-10 mg/gatto. Negli animali con infezione batterica si utilizzano antibiotici ad ampio spettro (durata della terapia differente secondo la gravità dell’infezione). Alla presenza di neoplasie cutanee è meglio consultare il veterinario oncologo per la scelta terapeutica più idonea. Negli animali con malattie immunomediate è necessario evitare l’esposizione solare diretta, precludendo l’accesso al giardino e/o l’esposizione agli UV nelle ore più calde. In questi casi l’impiego di protettivi solari può diminuire i rischi di recidiva. Vista la gravità di queste malattie, qualora si verifichino peggioramento o recrudescenza della sintomatologia, è utile consultare il veterinario dermatologo per modificare la terapia.

Animali in terapia con alcuni antibiotici, come per esempio le tetracicline, devono evitare l’esposizione ai raggi solari: questi possono causare una reazione dermatologica di foto-tossicità e foto-allergia per i “cataboliti” dei farmaci. L’eccessiva esposizione ai raggi UV, altera la normale azione delle cellule di Langerhans influenzando la produzione di citochine, la normale protezione nei confronti degli antigeni estranei inducendo una diminuita protezione nei confronti di infezioni virali ed aumentando la suscettibilità nei confronti dei tumori cutanei.

Prevenzione Bisognerebbe evitare lunghe passeggiate nelle ore più calde e nella stagione estiva tra le 10 e le 16. Inoltre, la corretta applicazione di un protettivo solare potrebbe contribuire a diminuire la possibilità d’esposizione incontrollata, la dove non è possibile limitare le attività del cane o del gatto (animali con accesso al giardino). I protettivi solari sono divisi in fisici e chimici. I primi sono pigmenti organici che proteggono la cute impedendo ai raggi solari di penetrarla grazie alla formazione di una barriera opaca che li riflette, mentre gli altri assorbono i raggi UV. I protettivi solari fisici sono l’ossido di zinco ed il diossido di titanio. Entrambi forniscono una protezione totale e non sono state segnalate reazioni avverse alla loro applicazione. I protettivi chimici sono una famiglia di prodotti a base di acido aminobenzoico (PABA) e derivati del benzofenone. Il PABA è un buon assorbente degli UVB, ma sono state segnalate reazioni allergiche all’applicazione e non protegge la cute già lesionata. Negli ultimi anni sono stati introdotti nuovi prodotti con maggiori capacità di assorbimento (UVB ed UVA-II) e limitati effetti collaterali. È importante ricordare che vanno riapplicati ogni 2-3 ore, soprattutto se si dilavano con il bagno o/e con il sudore. Si ottiene una migliore protezione applicando il prodotto alme-

Bibliografia Bensignor E, (1999), Soleil et peau chez les carnivores domestique, 1effects des raynnements solaires sur les structures cutanées, Le Point Veterinaire, 30: 225-228. Bensignor E, (1999), Soleil et peau chez les carnivores domestique. 2Affections photo-induites et photo-aggravées, Le Point Veterinaire, 30: 229-236. Calmont JP, (2002), Dermatoses solaires (1re partie): photodermatoses et dermatoses photo-aggravées. Prat Méd Chir Anim Comp, 37: 185-193. Noli C, Scarampella F, (2004), Malattie ambientali, in Dermatologia del cane e del gatto, ed Poletto, 327-330. Scott DW, Miller WH, Griffin CE, (2001), enviromental skin diseases, in Muller and Kirk’s small animal dermatology. WB Saunders, Filadelfia, XXX.

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Malattia renale felina: una panoramica Stephen P. DiBartola DVM, Dipl ACVIM, Ohio USA

I proprietari di gatti possono non accorgersi dei segni clinici precoci della nefropatia cronica (CRD) come poliuria e polidipsia, ed i gatti con CRD e insufficienza renale cronica (CRF) sono portati spesso dal veterinario in un grave stato di disidratazione. Il giudizio sulla prognosi a lungo termine non va emesso sulla base dell’aspetto clinico dell’animale e dei riscontri di laboratorio alla presentazione alla visita. Spesso, il gatto ed i suoi risultati di laboratorio mostrano dei netti miglioramenti dopo due o tre giorni di coscienzioso sforzo per reidratare l’animale. Quando questo è stato totalmente reidratato, si può effettuare un giudizio clinico sulla fattibilità di un trattamento medico conservativo della CRF. Alla presentazione iniziale, l’iperazotemia della maggior parte dei gatti con CRF riconosce una sostanziale componente prerenale, causata da una grave disidratazione che deve essere risolta mediante somministrazione di fluidi endovenosi. Dopo reidratazione completa, nei gatti con concentrazioni di creatinina sierica (SCr) comprese nell’intervallo di 2,0-5,0 mg/dl si otterranno probabilmente buoni risultati con una terapia medica conservativa della CRF. Anche animali con SCr > 5,0 mg/dl possono essere trattati in questo modo, ma la loro qualità di vita e la prognosi di sopravvivenza a lungo termine non sono altrettanto buone. La disidratazione viene stimata utilizzando caratteristiche cliniche come il turgore della cute e la valutazione della perfusione periferica (ad es., frequenza e caratteri del polso, tempo di riempimento capillare). Sfortunatamente, la marcata perdita di grasso sottocutaneo ed elastina nei gatti anziani con CRF può rendere impegnativa e poco accurata la stima clinica della disidratazione. Non è raro che i gatti con CRF siano colpiti, al momento della presentazione alla visita, da una disidratazione del 10-12%. Quindi, un gatto di 3 kg con CRF che sia disidratato al 10% necessita di 300 ml di fluido per correggere la sua disidratazione (0,1 x 3 = 300). I clinici spesso utilizzano un valore di 60 ml/kg/die per stimare il fabbisogno di mantenimento dei fluidi nei piccoli animali. Questo approccio tuttavia sottostima marcatamente il fabbisogno idrico di mantenimento negli animali che pesano meno di 15 kg. Tale fabbisogno può essere valutato più accuratamente mediante una formula che correla le necessità idriche alla superficie corporea (cioè 132 x kg0,75). Per esempio, utilizzare 60 ml/kg per stimare le necessità di liquido di mantenimento richieste in un gatto di 3 kg porta ad un risultato di 180 ml, ma impiegando 132 x kg0,75 si ottiene un valore di 300 ml. Quindi, la “regola pratica” dei 60 ml/kg comporta una sottovalutazione del 40% dei fabbisogni idrici di mantenimento. Di conseguenza, per stimare questo fabbiso-

gno nei gatti con CRF deve essere utilizzata la formula 132 x kg0,75. La componente finale da considerare per formulare le necessità di fluidi nelle perdite continue che possono comprendere la dispersione aggiuntiva di liquidi per via urinaria è rappresentata dalla poliuria. I gatti con CRF devono essere trattati con fluidi cristalloidi alcalinizzanti, come la soluzione di Ringer lattato. Nel corso della fluidoterapia, pesare ripetutamente l’animale (utilizzando la stessa bilancia) fornisce un’indicazione approssimativa con la quale giudicare il successo della reidratazione. Ci si deve ricordare di rivalutare l’ematocrito e la concentrazione sierica di proteine durante questo periodo, perché un’eventuale anemia non rigenerativa talvolta si rende evidente solo dopo la reidratazione. Nel corso di un trattamento a lungo termine, è possibile insegnare ad alcuni proprietari ad effettuare la fluidoterapia percutanea a domicilio e in alcuni casi si può inserire una sonda da gastrostomia percutanea (PEG) per consentire una somministrazione più agevole di farmaci e liquidi al gatto con CRF in fase avanzata. Uno studio effettuato da Barber ed Elliott ha dimostrato che l’85% dei gatti con CRF presentava un iperparatiroidismo secondario renale (RSHP, renal secondary hyperparathyroidism), che era più comune nei gatti con CRF in stadio avanzato e meno in quelli con CRF lieve. In generale, l’RSHP nei gatti con CRF può essere trattato mediante una restrizione di fosforo nella dieta nel 67% circa dei casi, ma richiede un’integrazione di leganti del fosfato nel restante 33% dei casi. Se il gatto è affetto da CRF avanzata ed iperfosfatemia, la sua risposta clinica può essere monitorata utilizzando la concentrazione di fosforo sierico a digiuno mirando ad ottenere un intervallo di 2,5-5,0 mg/dl. Invece, nei gatti con CRF lieve o moderata e concentrazione di fosforo sierico normale, la valutazione seriale del paratormone sierico (PTH) è un modo più affidabile per monitorare il trattamento della RSHP. Tuttavia, può essere difficile trovare un laboratorio diagnostico che offra un dosaggio del PTH che sia stato validato per il gatto. I leganti del fosfato usati comunemente comprendono composti contenenti alluminio e calcio, come l’idrossido d’allume e il carbonato di calcio. L’intervallo di dosaggio è compreso fra 90 e 120 mg/kg/die, ma questo dosaggio deve essere aggiustato monitorando la risposta clinica con l’impiego del fosforo sierico o della concentrazione di PTH. I leganti del fosforo devono essere somministrati entro 2 ore dal pasto, e il gatto deve essere monitorato accuratamente per rilevare l’eventuale comparsa di ipercalcemia se si sta usando carbonato di calcio combinato con calcitriolo. L’epakitina è un prodotto in 138


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combinazione che contiene carbonato di calcio e chitosano. Al dosaggio di 1 grammo per 5 kg di peso corporeo due volte al giorno, fornisce 20 mg/kg di carbonato di calcio. Alcuni degli effetti del leganti del fosforo dell’epakitina probabilmente sono dovuti al carbonato di calcio, ma il chitosano può determinare alcuni benefici aggiuntivi, agendo come adsorbente di urea ed ammoniaca. Il carbonato di lantano è un nuovo legante del fosforo che risulta essere più potente, e può essere provato al dosaggio di 10-40 mg/kg/die. Nei gatti con CRF, le concentrazioni di calcio totale sierico possono essere basse, normali o elevate. Le alterazioni nel calcio complessato rendono difficile da prevedere la concentrazione sierica di quello ionizzato, ma spesso gli aumenti del calcio complessato fanno sì che la concentrazione di calcio sierico totale sia normale, malgrado la presenza di un’ipocalcemia ionizzata. Nello studio condotto da Barber ed Elliott, basse concentrazioni di calcio ionizzato sierico vennero riscontrate soltanto nei gatti con CRF in stadio avanzato, ed elevate concentrazioni di calcio ionizzato sierico risultarono meno comuni indipendentemente dallo stadio della CRD. L’interpretazione della calcemia nei gatti con CRF è ulteriormente complicata dalla comune comparsa, in questa specie animale, dell’ipercalcemia idiopatica. La concentrazione di calcitriolo sierico viene ridotta negli animali con CRF avanzata, ma di solito è normale in quelli con malattia lieve o moderata. Fino al 20-30% dei gatti con CRF è ipokalemico per gli effetti combinati di anoressia, perdita di massa muscolare, poliuria e (occasionalmente) vomito. La deplezione di potassio può essere dannosa per il rene felino e l’alimentazione a lungo termine con diete carenti di questo elemento può comportare nefrite interstiziale linfoplasmocitaria. L’integrazione è chiaramente indicata nei gatti ipokalemici con CRF, ma è più controversa in quelli normokalemici con CRF nei quali si sospetti una deplezione del potassio corporeo totale. Più del 95% delle riserve di potassio organico è intracellulare, e l’equilibrio di questo ione non può essere valutato facilmente sulla base della sua sola concentrazione sierica. In uno studio, i gatti normokalemici con CRF dimostrarono una deplezione muscolare del potassio e furono trattati con gluconato di potassio o gluconato di sodio. In 6 mesi, tra i due gruppi non vennero dimostrate differenze nella velocità di filtrazione glomerulare e nella perfusione renale, ma lo studio fu limitato a piccoli numeri di gatti in ciascun gruppo. Quindi, il problema circa l’integrazione con potassio negli animali normokalemici con CRF resta, ma molti ritengono che possa essere utile e che non sia probabilmente dannosa a condizione che il volume di urina sia adeguato. Tipicamente, l’integrazione con potassio viene attuata alla dose di 2-5 mEq/die sotto forma di gluconato o citrato di potassio. La risposta iperventilatoria all’acidosi metabolica sembra essere attenuata nei gatti rispetto ai cani, ed è possibile che i felini non aumentino l’ammoniogenesi renale con la stessa

efficienza riscontrata nell’acidosi metabolica. Inoltre, molti alimenti commerciali destinati a questa specie animale sono formulati per essere acidificanti. Quindi, i gatti con CRF sembrerebbero predisposti allo sviluppo di acidosi metabolica. Malgrado questo, l’acidosi metabolica sembra essere un riscontro tardivo nei gatti con CRF. Elliott valutò 59 soggetti con CRF, 20 con forma lieve (SCr 2,0-2,8 mg/dl), 20 con forma moderata (SCr 2,9-4,5 mg/dl) e 19 con forma grave (SCr > 4,5 mg/dl) e riscontrò acidemia nel 53% dei gatti del gruppo con la forma grave, ma solo nel 15% di quelli con la forma moderata ed in nessuno di quelli con la forma lieve. La pCO2 media dei gatti con CRF in questo studio variava fra 33 e 35 mm Hg, supportando l’impressione che la compensazione respiratoria sia minima nei gatti con acidosi metabolica. Quest’ultima nei soggetti con CRF è una forma con elevato gap anionico (cioè, la concentrazione di bicarbonato è bassa e quella di cloro è normale o bassa). Il gap anionico elevato insorge perché gli anioni si accumulano in modo spropositato, principalmente il fosfato. Si può considerare la sostituzione degli alcali se il bicarbonato sierico < 12-14 mEq/l. Fonti potenziali di alcali sono bicarbonato di sodio, gluconato di potassio e citrato di potassio. Quando gli anioni organici come gluconato o citrato sono metabolizzati nell’organismo, compare un netto incremento di bicarbonato perché l’ADP viene convertito ad ATP nel ciclo dell’acido citrico, un processo che consuma ioni idrogeno. Non è chiaro se il trattamento precoce dell’acidosi sia di qualche utilità nei gatti con CRF moderata, ma l’apporto di 2-5 mEq di potassio sotto forma di gluconato di potassio o citrato di potassio (vedi sopra) dovrebbe anche determinare un effetto alcalinizzante. In alternativa, si possono diluire 84 g di NaHCO3 in 1 l di acqua per ottenere una soluzione di 1 mEq/ml che può essere conservata in frigorifero ed utilizzata alla dose di 1 ml per 5 kg di peso due volte al giorno.

Letture consigliate Barber PJ and Elliott J: Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in 80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract 39:108-116, 1998. DiBartola SP, Rutgers HC, Zack PM, Tarr MJ: Clinicopathologic findings associated with chronic renal disease in cats: 74 cases (1973-1984). J Am Vet Med Assoc 190:1196-1202, 1987. Helps CR, Tasker S, Barr FJ, Wills SJ, Gruffydd-Jones TJ: Detection of the single nucleotide polymorphism causing feline autosomal dominant polycystic kidney disease in Persians from the UK using a novel realtime PCR assay. Mol Cell Probes 21:31-34, 2007. Kyles AE, Hardie EM, Wooden BG, Adin CA, Stone EA, Gregory CR, Mathews KG, Cowgill LD, Vadin S, Nyland TG, Ling GV: Management and outcome of cats with ureteral calculi: 153 cases (19842002). J Am Vet Med Assoc 226:937-944, 2005. Syme HM, Markwell PJ, Pfeiffer D, Elliott J: Survival of cats with naturally occurring chronic renal failure is related to severity of proteinuria. J Vet Int Med 20:528-535, 2006.

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Overview of chronic renal disease in cats Stephen P. DiBartola DVM, Dipl ACVIM, Ohio USA

Chronic renal disease (CRD) is commonly observed in older cats (those > 7 years of age), and it has been estimated to have a prevalence of between 1 and 3% in the geriatric cat population. On histopathologic examination of the kidneys, slightly more than half of older cats with CRD have chronic tubulointerstitial nephritis of unknown etiology characterized by interstitial infiltration of lymphocytes and plasma cells, interstitial fibrosis, tubular atrophy, tubular dilatation and glomerular sclerosis. This diagnosis is relatively non-specific and may include a number of different diseases that are difficult to distinguish histopathologically from one another. For example, chronic pyelonephritis and chronic glomerulonephritis are two renal diseases of cats that can have endstage renal lesions that are difficult to distinguish from chronic tubulointerstitial nephritis of unknown etiology. Acute glomerulonephritis is relatively uncommon in cats, but is relatively easy to recognize clinically due to the presence of severe proteinuria, hypoalbuminemia, hypercholesterolemia and often ascites or subcutaneous edema. Most cases of acute glomerulonephritis in cats are idiopathic, but a search for underlying infectious, inflammatory or neoplastic diseases associated with chronic immune complex production is recommended. Clinically, acute pyelonephritis is readily suspected by the presence of fever, normal-sized but painful kidneys, a high white blood cell count, pyuria and a positive urine culture. Chronic pyelonephritis however can be much more challenging to identify because many of the clinical features of acute pyelonephritis are lacking, and the situation is complicated by the fact that many cats with CRD due to chronic tubulointerstitial nephritis of unknown etiology also have lower urinary tract infection (UTI). Reactive amyloidosis is a relatively uncommon renal disease of cats that affects primarily the Abyssinian, Siamese, and Oriental shorthair breeds. This disorder is characterized by the deposition of amyloid AA fibrils in the kidneys and many other tissues including the thyroid gland, adrenal glands, heart, liver, gastrointestinal tract, pancreas, and spleen. Although amyloid deposits are not restricted to the kidneys, chronic renal failure (CRF) is the main clinical presentation of amyloidosis in the Abyssinian cat. In Oriental shorthair and Siamese cats however severe hepatic deposition of amyloid can result in liver rupture and acute hemoabdomen. Amyloid deposits in cats with renal amyloidosis predominantly are found in the medullary interstitium, and less consistently in the glomeruli. Thus, the absence of marked proteinuria and even a negative renal cortical biopsy do not necessarily out the diagnosis. The medullary intersti-

tial amyloid deposits can interfere with medullary blood flow by compressing the vasa recta and lead to papillary necrosis, a gross necropsy finding that should prompt suspicion of amyloidosis. Congo red staining should be requested on the collected renal tissue to allow a conclusive diagnosis to be made. Polycystic kidney disease is inherited as an autosomal dominant trait in Persian cats, and it has been reported to affect approximately 25-30% of Persian cats. It is caused by a mutation in the gene for polycystin 1 (PKD1), and the mutation can be identified by a PCR test that identifies a single nucleotide polymorphism in exon 29 of the feline PKD1 gene. From a clinical perspective, renal ultrasound examination is highly sensitive and specific for this disease if performed when the suspected cat is at least 9 months of age or older. Renal lymphoma and feline infectious peritonitis (FIP) are two systemic diseases of cats that can involve the kidneys to a sufficient extent to cause CRF. Normal cat kidneys are approximately 4 cm in length, and although many cats with CRD have small irregular firm kidneys, cats with polycystic kidney disease, renal lymphoma and occasionally those with granulomatous interstitial nephritis due to FIP often have enlarged kidneys on presentation. Potassium depletion nephropathy in cats is of historical interest because it was observed during a time when commercial cat foods were high in protein and acid content but deficient in potassium (< 0.4% on a dry matter basis). Potassium depletion nephropathy was characterized by lymphoplasmacytic interstitial nephritis with vacuolar degeneration of tubular cells. Clinical signs were primarily related to muscle severe weakness and rhabdomyolysis associated with potassium depletion and characterized by marked hypokalemia (< 3.0 mEq/L) and increased serum creatine kinase activity. The prevalence of nephrolithiasis in cats has increased dramatically in the past 25 years. During this time, there also was a shift in the type of uroliths observed in cats (in all locations) from struvite to calcium oxalate. CRD occurs in approximately 75% of cats with nephrolithasis and persists after resolution of obstruction by surgery in 50% of affected cats. Progressive renal damage by nephroliths may occur as calculi move back and forth between the renal pelvis and ureter causing chronic intermittent renal obstruction. Normal urine flow tends to propel calculi into the ureter causing obstruction whereas the calculi may move retrograde into the renal pelvis and spontaneously relieve obstruction when the cat jumps down from high places. This sequence of events may contribute to so-called “big 140


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kidney–little kidney” syndrome in which one kidney is enlarged from obstruction and the other is small and irregular from chronic interstitial nephritis. The most common clinical findings in cats with CRF are anorexia, lethargy, and weight loss. Owners frequently do not recognize polyuria and polydipsia, and vomiting is less common in cats with CRF than in dogs. Common findings on physical examination are dehydration and poor body condition. Depending on the stage of disease at presentation, laboratory findings in cats with CRF include nonregenerative anemia, azotemia, hyperphosphatemia, and metabolic acidosis. The severity of anemia may not be appreciated on presentation due to the effect of dehydration. Between 20 and 30% of cats with CRF have hypokalemia, which contrasts with approximately 5 to 10% of older dogs with CRF. Mild hypercholesterolemia occurs in many cats with CRF and does not correlate well with the presence of glomerular disease. Urine specific gravity typically is in the isosthenuric range in cats with CRF. Some cats (10-15%) with CRF however retain substantial concentrating ability, which can cause confusion with pre-renal azotemia. Mild proteinuria (urine protein/creatinine ratio < 1.0) is common in cats with CRD and has been correlated with survival. Proteinuria however may be a marker of severity of CRD rather than a causative factor in its progression. The urine sediment of cats with CRF should be examined carefully for pyuria and bacteriuria because approximately 30% of cats with CRF have UTI, and most of these do not have clinical signs of lower urinary tract disease. The most commonly cultured organism is E. coli. Approximately 30% of cats with CRD are non-azotemic and have International Renal Interest Society (IRIS) stage 1 disease with serum creatinine concentrations (SCr) < 1.6 mg/dl, 40% have IRIS stage 2 disease (SCr 1.6-2.8 mg/dl), 15% have IRIS stage 3 disease (SCr 2.9-5.0 mg/dl), and 15% have IRIS stage 4 disease with SCr > 5.0 mg/dl. Overall, approximately 85% of cats with CRD have renal secondary hyperparathyroidism based on serum parathyroid hormone concentration, and the presence of hyperparathyroidism is correlated with the severity of the CRD. The prevalence of hypertension in cats with CRD is unclear, and may be between 20% and 30%. Ocular (e.g., retinal hemorrhage, retinal edema, retinal detachment, vascular tortuosity) or cardiac (e.g., gallops, murmurs, arrhythmias) indicate morbidity. Although it is difficult to judge the clinical relevance

of systolic blood pressure between 140 and 150 mmHg (due to “white coat artifact”), systolic blood pressure > 175 mmHg warrants treatment. Hyperthyroidism and CRD often occur concurrently in older cats. The presence of CRD makes hyperthyroidism more difficult to diagnose because it acts as a non-thyroidal illness that decreases serum total T4 concentration. Clinicians should trust their identification of a thyroid nodule on physical examination in making the diagnosis of hyperthyroidism. The effect of hyperthyroidism on renal function also is a concern in diagnosis and treatment. Hyperthyroidism increases renal blood flow and glomerular filtration rate (GFR), making renal function (based on SCr) look better than it actually is. When hyperthyroidism is treated, azotemia can become apparent and the cat may deteriorate. Hence a “methimazole challenge” (in which the cat is treated with 2.5 mg methimazole once a day and SCr monitored as the dose is slowly increased over several weeks) is recommended before more definitive treatment of hyperthyroidism is carried out. If renal function remains stable, more definitive therapy may be safe. There also is concern that hyperfiltration associated with increased GFR may predispose the cat to additional renal injury and progression of renal disease. Thus, although unproven, hyperthyroidism itself may be injurious to the cat’s kidneys.

Selected References Barber PJ and Elliott J: Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in 80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract 39:108-116, 1998. DiBartola SP, Rutgers HC, Zack PM, Tarr MJ: Clinicopathologic findings associated with chronic renal disease in cats: 74 cases (1973-1984). J Am Vet Med Assoc 190:1196-1202, 1987. Helps CR, Tasker S, Barr FJ, Wills SJ, Gruffydd-Jones TJ: Detection of the single nucleotide polymorphism causing feline autosomal dominant polycystic kidney disease in Persians from the UK using a novel realtime PCR assay. Mol Cell Probes 21:31-34, 2007. Kyles AE, Hardie EM, Wooden BG, Adin CA, Stone EA, Gregory CR, Mathews KG, Cowgill LD, Vadin S, Nyland TG, Ling GV: Management and outcome of cats with ureteral calculi: 153 cases (19842002). J Am Vet Med Assoc 226:937-944, 2005. Syme HM, Markwell PJ, Pfeiffer D, Elliott J: Survival of cats with naturally occurring chronic renal failure is related to severity of proteinuria. J Vet Int Med 20:528-535, 2006.

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Prevalenza di alterazioni acido-base e degli elettroliti nei gatti affetti da CKD Stephen P. DiBartola DVM, Dipl ACVIM, Ohio USA

I proprietari di gatti possono non accorgersi dei segni clinici precoci della nefropatia cronica (CRD) come poliuria e polidipsia, ed i gatti con CRD e insufficienza renale cronica (CRF) sono portati spesso dal veterinario in un grave stato di disidratazione. Il giudizio sulla prognosi a lungo termine non va emesso sulla base dell’aspetto clinico dell’animale e dei riscontri di laboratorio alla presentazione alla visita. Spesso, il gatto ed i suoi risultati di laboratorio mostrano dei netti miglioramenti dopo due o tre giorni di coscienzioso sforzo per reidratare l’animale. Quando questo è stato totalmente reidratato, si può effettuare un giudizio clinico sulla fattibilità di un trattamento medico conservativo della CRF. Alla presentazione iniziale, l’iperazotemia della maggior parte dei gatti con CRF riconosce una sostanziale componente prerenale, causata da una grave disidratazione che deve essere risolta mediante somministrazione di fluidi endovenosi. Dopo reidratazione completa, nei gatti con concentrazioni di creatinina sierica (SCr) comprese nell’intervallo di 2,0-5,0 mg/dl si otterranno probabilmente buoni risultati con una terapia medica conservativa della CRF. Anche animali con SCr > 5,0 mg/dl possono essere trattati in questo modo, ma la loro qualità di vita e la prognosi di sopravvivenza a lungo termine non sono altrettanto buone. La disidratazione viene stimata utilizzando caratteristiche cliniche come il turgore della cute e la valutazione della perfusione periferica (ad es., frequenza e caratteri del polso, tempo di riempimento capillare). Sfortunatamente, la marcata perdita di grasso sottocutaneo ed elastina nei gatti anziani con CRF può rendere impegnativa e poco accurata la stima clinica della disidratazione. Non è raro che i gatti con CRF siano colpiti, al momento della presentazione alla visita, da una disidratazione del 10-12%. Quindi, un gatto di 3 kg con CRF che sia disidratato al 10% necessita di 300 ml di fluido per correggere la sua disidratazione (0,1 x 3 = 300). I clinici spesso utilizzano un valore di 60 ml/kg/die per stimare il fabbisogno di mantenimento dei fluidi nei piccoli animali. Questo approccio tuttavia sottostima marcatamente il fabbisogno idrico di mantenimento negli animali che pesano meno di 15 kg. Tale fabbisogno può essere valutato più accuratamente mediante una formula che correla le necessità idriche alla superficie corporea (cioè 132 x kg0,75). Per esempio, utilizzare 60 ml/kg per stimare le necessità di liquido di mantenimento richieste in un gatto di 3 kg porta ad un risultato di 180 ml, ma impiegando 132 x kg0,75 si ottiene un valore di 300 ml. Quindi, la “regola pratica” dei 60 ml/kg comporta una sottovalutazione del 40% dei fabbisogni idrici di mantenimento. Di conseguenza, per stimare questo fabbiso-

gno nei gatti con CRF deve essere utilizzata la formula 132 x kg0,75. La componente finale da considerare per formulare le necessità di fluidi nelle perdite continue che possono comprendere la dispersione aggiuntiva di liquidi per via urinaria è rappresentata dalla poliuria. I gatti con CRF devono essere trattati con fluidi cristalloidi alcalinizzanti, come la soluzione di Ringer lattato. Nel corso della fluidoterapia, pesare ripetutamente l’animale (utilizzando la stessa bilancia) fornisce un’indicazione approssimativa con la quale giudicare il successo della reidratazione. Ci si deve ricordare di rivalutare l’ematocrito e la concentrazione sierica di proteine durante questo periodo, perché un’eventuale anemia non rigenerativa talvolta si rende evidente solo dopo la reidratazione. Nel corso di un trattamento a lungo termine, è possibile insegnare ad alcuni proprietari ad effettuare la fluidoterapia percutanea a domicilio e in alcuni casi si può inserire una sonda da gastrostomia percutanea (PEG) per consentire una somministrazione più agevole di farmaci e liquidi al gatto con CRF in fase avanzata. Uno studio effettuato da Barber ed Elliott ha dimostrato che l’85% dei gatti con CRF presentava un iperparatiroidismo secondario renale (RSHP, renal secondary hyperparathyroidism), che era più comune nei gatti con CRF in stadio avanzato e meno in quelli con CRF lieve. In generale, l’RSHP nei gatti con CRF può essere trattato mediante una restrizione di fosforo nella dieta nel 67% circa dei casi, ma richiede un’integrazione di leganti del fosfato nel restante 33% dei casi. Se il gatto è affetto da CRF avanzata ed iperfosfatemia, la sua risposta clinica può essere monitorata utilizzando la concentrazione di fosforo sierico a digiuno mirando ad ottenere un intervallo di 2,5-5,0 mg/dl. Invece, nei gatti con CRF lieve o moderata e concentrazione di fosforo sierico normale, la valutazione seriale del paratormone sierico (PTH) è un modo più affidabile per monitorare il trattamento della RSHP. Tuttavia, può essere difficile trovare un laboratorio diagnostico che offra un dosaggio del PTH che sia stato validato per il gatto. I leganti del fosfato usati comunemente comprendono composti contenenti alluminio e calcio, come l’idrossido d’allume e il carbonato di calcio. L’intervallo di dosaggio è compreso fra 90 e 120 mg/kg/die, ma questo dosaggio deve essere aggiustato monitorando la risposta clinica con l’impiego del fosforo sierico o della concentrazione di PTH. I leganti del fosforo devono essere somministrati entro 2 ore dal pasto, e il gatto deve essere monitorato accuratamente per rilevare l’eventuale comparsa di ipercalcemia se si sta usando carbonato di calcio combinato con calcitriolo. L’epakitina è un prodotto in 142


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combinazione che contiene carbonato di calcio e chitosano. Al dosaggio di 1 grammo per 5 kg di peso corporeo due volte al giorno, fornisce 20 mg/kg di carbonato di calcio. Alcuni degli effetti del leganti del fosforo dell’epakitina probabilmente sono dovuti al carbonato di calcio, ma il chitosano può determinare alcuni benefici aggiuntivi, agendo come adsorbente di urea ed ammoniaca. Il carbonato di lantano è un nuovo legante del fosforo che risulta essere più potente, e può essere provato al dosaggio di 10-40 mg/kg/die. Nei gatti con CRF, le concentrazioni di calcio totale sierico possono essere basse, normali o elevate. Le alterazioni nel calcio complessato rendono difficile da prevedere la concentrazione sierica di quello ionizzato, ma spesso gli aumenti del calcio complessato fanno sì che la concentrazione di calcio sierico totale sia normale, malgrado la presenza di un’ipocalcemia ionizzata. Nello studio condotto da Barber ed Elliott, basse concentrazioni di calcio ionizzato sierico vennero riscontrate soltanto nei gatti con CRF in stadio avanzato, ed elevate concentrazioni di calcio ionizzato sierico risultarono meno comuni indipendentemente dallo stadio della CRD. L’interpretazione della calcemia nei gatti con CRF è ulteriormente complicata dalla comune comparsa, in questa specie animale, dell’ipercalcemia idiopatica. La concentrazione di calcitriolo sierico viene ridotta negli animali con CRF avanzata, ma di solito è normale in quelli con malattia lieve o moderata. Fino al 20-30% dei gatti con CRF è ipokalemico per gli effetti combinati di anoressia, perdita di massa muscolare, poliuria e (occasionalmente) vomito. La deplezione di potassio può essere dannosa per il rene felino e l’alimentazione a lungo termine con diete carenti di questo elemento può comportare nefrite interstiziale linfoplasmocitaria. L’integrazione è chiaramente indicata nei gatti ipokalemici con CRF, ma è più controversa in quelli normokalemici con CRF nei quali si sospetti una deplezione del potassio corporeo totale. Più del 95% delle riserve di potassio organico è intracellulare, e l’equilibrio di questo ione non può essere valutato facilmente sulla base della sua sola concentrazione sierica. In uno studio, i gatti normokalemici con CRF dimostrarono una deplezione muscolare del potassio e furono trattati con gluconato di potassio o gluconato di sodio. In 6 mesi, tra i due gruppi non vennero dimostrate differenze nella velocità di filtrazione glomerulare e nella perfusione renale, ma lo studio fu limitato a piccoli numeri di gatti in ciascun gruppo. Quindi, il problema circa l’integrazione con potassio negli animali normokalemici con CRF resta, ma molti ritengono che possa essere utile e che non sia probabilmente dannosa a condizione che il volume di urina sia adeguato. Tipicamente, l’integrazione con potassio viene attuata alla dose di 2-5 mEq/die sotto forma di gluconato o citrato di potassio. La risposta iperventilatoria all’acidosi metabolica sembra essere attenuata nei gatti rispetto ai cani, ed è possibile che i felini non aumentino l’ammoniogenesi renale con la stessa

efficienza riscontrata nell’acidosi metabolica. Inoltre, molti alimenti commerciali destinati a questa specie animale sono formulati per essere acidificanti. Quindi, i gatti con CRF sembrerebbero predisposti allo sviluppo di acidosi metabolica. Malgrado questo, l’acidosi metabolica sembra essere un riscontro tardivo nei gatti con CRF. Elliott valutò 59 soggetti con CRF, 20 con forma lieve (SCr 2,0-2,8 mg/dl), 20 con forma moderata (SCr 2,9-4,5 mg/dl) e 19 con forma grave (SCr > 4,5 mg/dl) e riscontrò acidemia nel 53% dei gatti del gruppo con la forma grave, ma solo nel 15% di quelli con la forma moderata ed in nessuno di quelli con la forma lieve. La pCO2 media dei gatti con CRF in questo studio variava fra 33 e 35 mm Hg, supportando l’impressione che la compensazione respiratoria sia minima nei gatti con acidosi metabolica. Quest’ultima nei soggetti con CRF è una forma con elevato gap anionico (cioè, la concentrazione di bicarbonato è bassa e quella di cloro è normale o bassa). Il gap anionico elevato insorge perché gli anioni si accumulano in modo spropositato, principalmente il fosfato. Si può considerare la sostituzione degli alcali se il bicarbonato sierico < 12-14 mEq/l. Fonti potenziali di alcali sono bicarbonato di sodio, gluconato di potassio e citrato di potassio. Quando gli anioni organici come gluconato o citrato sono metabolizzati nell’organismo, compare un netto incremento di bicarbonato perché l’ADP viene convertito ad ATP nel ciclo dell’acido citrico, un processo che consuma ioni idrogeno. Non è chiaro se il trattamento precoce dell’acidosi sia di qualche utilità nei gatti con CRF moderata, ma l’apporto di 2-5 mEq di potassio sotto forma di gluconato di potassio o citrato di potassio (vedi sopra) dovrebbe anche determinare un effetto alcalinizzante. In alternativa, si possono diluire 84 g di NaHCO3 in 1 l di acqua per ottenere una soluzione di 1 mEq/ml che può essere conservata in frigorifero ed utilizzata alla dose di 1 ml per 5 kg di peso due volte al giorno.

Letture consigliate Barber PJ and Elliott J: Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in 80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract 39:108-116, 1998. DiBartola SP, Rutgers HC, Zack PM, Tarr MJ: Clinicopathologic findings associated with chronic renal disease in cats: 74 cases (1973-1984). J Am Vet Med Assoc 190:1196-1202, 1987. Elliott J, Syme HM, Markwell PJ: Acid base balance of cats with chronic renal failure: effect of deterioration in renal function. J Small Anim Pract 44:261-268, 2003. Elliott J, Syme HM, Reubens E, Markwell PJ: Assessment of acid base status of cats with naturally-occurring chronic renal failure. J Small Anim Pract 44:65-70, 2003. Theisen SK, DiBartola SP, Radin MJ, Chew DJ, Buffington CA, Dow SW: Muscle potassium content and potassium gluconate supplementation in normokalemic cats with naturally-occurring chronic renal failure. J Vet Int Med 11:212-217, 1997.

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Fluid, electrolyte, and acid base abnormalities in cats with chronic renal disease Stephen P. DiBartola DVM, Dipl ACVIM, Ohio USA

by which to judge the success of rehydration. Remember to reassess hematocrit and serum protein concentration during this time because nonregenrative anemia sometimes only becomes apparent after rehydration. During long-term management, some owners can be instructed about administering fluids subcutaneously to the cat at home and in some instances a percutaneous gastrostomy (PEG) tube can be placed to allow easy administration of medications and fluids to the cat with advanced CRF. A study by Barber and Elliott showed that 85% of cats with CRF had renal secondary hyperparathyroidism (RSHP) which was most common in cats with advanced CRF and least common in those with mild CRF. In general, RSHP in CRF cats can be managed by dietary phosphorus restriction alone in approximately 67% of cases but requires addition of phosphate binders in the remaining 33% of cases. If the cat has advanced CRF and hyperphosphatemia, its clinical response can be monitored using fasting serum phosphorus concentration aiming for a range of 2.5 to 5.0 mg/dl. However, in cats with mild or moderate CRF and normal serum phosphorus concentration, serial evaluation of serum parathyroid (PTH) concentration is a more reliable way to monitor treatment of RSHP. However it may be challenging to find a diagnostic laboratory that offers a PTH assay that has been validated for use in cats. Commonly used phosphate binders include aluminum and calcium containing compounds such as aluminum hydroxide and calcium carbonate. The dosage range is 90-120 mg/kg/day, but this dosage must be adjusted by monitoring clinical response using serum phosphorus or PTH concentration. Phosphorus binders should be administered within 2 hours of feeding, and the cat should be monitored carefully for the appearance of hypercalcemia if calcium carbonate is being used in conjunction with calcitriol. Epakitin is a combination product containing calcium carbonate and chitosan. At a dosage of 1 gram per 5 kg body weight twice per day, it supplies 20 mg/kg calcium carbonate. Some of the phosphorus binding effect of Epakitin likely is due to calcium carbonate, but chitosan may have some added benefit as an adsorbent for urea and ammonia. Lanthanum carbonate is a new phosphorus binder that may be more potent, and may be tried at a dosage of 10-40 mg/kg/day. Serum total calcium concentrations may be low, normal or high in cats with CRF. Changes in complexed calcium make prediction of serum ionized calcium concentration difficult, but frequently increases in complexed calcium result in normal serum total calcium concentration despite the presence

Cat owners may not notice early signs of chronic renal disease (CRD) such as polyuria and polydipsia, and cats with CRD and chronic renal failure (CRF) often are presented to veterinarians in a severely dehydrated state. Judgment about the cat’s long-term prognosis should not be made on the basis of the cat’s clinical appearance and laboratory findings at presentation. Often, the cat and its laboratory results show dramatic improvement after a conscientious effort to rehydrate the animal over 2 to 3 days. After the cat has been completely rehydrated, a clinical judgment can be made about the feasibility of conservative medical management of the CRF. At initial presentation, the azotemia in most cats with CRF has a substantial pre-renal component due to severe dehydration that must be resolved by intravenous administration of fluids. After complete rehydration, cats with serum creatinine concentrations (SCr) in the range of 2.0-5.0 mg/dl are likely to fare reasonably well with conservative medial management of their CRF. Cats with SCr > 5.0 mg/dl also can be managed medically, but their quality of life and prognosis for long-term survival are not as good. Dehydration is estimated using physical features such as skin turgor and evaluation of peripheral perfusion (e.g. pulse rate and character, capillary refill time). Unfortunately, the marked loss of subcutaneous fat and elastin in older cats with CRF can make clinical estimation of dehydration challenging and inaccurate. It is not unusual for CRF cats to be 10-12% dehydrated on presentation. Thus, a 3 kg cat with CRF that is 10% dehydrated needs 300 ml of fluid to correct its dehydration (0.1 ? 3 = 300). Clinicians often us a figure of 60 ml/kg/day to estimate maintenance fluid needs in small animals. This approach however markedly underestimates maintenance fluid needs in animals weighing less than 15 kg. Maintenance fluid needs can be more accurately estimated by a formula that relates fluid needs to body surface area (i.e. 132 ? kg0.75). For example, use of 60 ml/kg to estimate maintenance fluid requirements in a 3 kg cat yields 180 ml, but using 132 ? kg0.75 yields 300 ml. Thus, the 60 ml/kg “rule of thumb” results in a 40% underestimation of maintenance fluid needs. Therefore, the formula 132 ? kg0.75 should be used to estimate maintenance fluid needs in cats with CRF. The final component to consider in formulating fluid needs is ongoing losses that could include additional urinary loss of fluid represented by polyuria. Cats in CRF should be treated with alkalinizing crystalloid fluids such as lactated Ringer’s solution. During fluid therapy, serial body weight (assessed using the same scale) becomes a rough guideline 144


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of ionized hypocalcemia. In the study by Barber and Elliott, low serum ionized calcium concentration was only found in cats with advanced CRF, and high serum ionized calcium concentrations were uncommon regardless of the stage of CRD. Interpretation of serum calcium concentrations in cats with CRF is further complicated by the common occurrence of idiopathic hypercalemia in cats. Serum calcitriol concentration is decreased in cats with advanced CRF but usually is normal in those with mild or moderate disease. As many as 20-30% of cats with CRF are hypokalemic due to the combined effects of anorexia, loss of muscle mass, polyuria, and (occasionally) vomiting. Potassium depletion can be harmful to the feline kidney and long-term feeding of potassium deficient diets can result in lymphoplasmacytic interstitial nephritis. Supplementation of hypokalemic cats with CRF clearly is indicated, but this recommendation is more controversial in normokalemic CRF cats that are suspected to have total body potassium depletion. More than 95% of the body’s potassium stores are intracellular, and potassium balance cannot be easily assessed on the basis of serum potassium concentration alone. In one study, normokalemic cats with CRF were shown to have muscle depletion of potassium and were treated with potassium gluconate or sodium gluconate. Over 6 months, differences in glomerular filtration rate and renal blood flow could not be demonstrated between the 2 groups, but the study was limited by small numbers of cats in each of the groups. Thus, the question about potassium supplementation in normokalemic CRF cats remains, but many feel potassium supplementation may be helpful and is not likely to be harmful as long as urine volume is adequate. Typically, potassium supplementation is provided as 2 to 5 mEq per day given as potassium gluconate or potassium citrate. The hyperventilatory response to metabolic acidosis seems to be blunted in cats as compared to dogs, and cats may not increase renal ammoniagenesis as efficiently in metabolic acidosis. Also, many commercial cat foods are formulated to be acidifying. Thus, CRF cats would seem to be predisposed to development of metabolic acidosis. Despite this, metabolic acidosis seems to be a late finding in cats with CRF. Elliott evaluated 59 cats with CRF: 20 with mild (SCr 2.0-2.8 mg/dl), 20 with moderate (SCr 2.9-4.5

mg/dl) and 19 with severe (SCr > 4.5 mg/dl) CRF and found acidemia in 53% of the cats in the severe group, in only 15% of those in the moderate group and in none of those in the mild group. The average pCO2 of the CRF cats in this study ranged between 33 and 35 mmHg, supporting the impression that respiratory compensation is minimal in cats with metabolic acidosis. The metabolic acidosis in CRF cats is a high anion gap acidosis (i.e., bicarbonate concentration is low and chloride concentration is normal or low). The high anion gap arises because of accumulated unmeasured anions, principally phosphate. Alkali replacement can be considered if serum bicarbonate is < 12-14 mEq/L. Potential sources of alkali are sodium bicarbonate, potassium gluconate, and potassium citrate. When organic anions such as gluconate or citrate are metabolized in the body, a net gain of bicarbonate occurs as ADP is converted to ATP in the citric acid cycle, a process that consumes hydrogen ions. It is unclear if early intervention to treat acidosis is of any benefit in cats with moderate CRF, but provision of 2 to 5 mEq of potassium as potassium gluconate or potassium citrate (see above) should also provide an alkalinizing effect. Alternatively, 84 g NaHCO3 can be dissolved in 1 L of water to create a 1 mEq/ml solution that can be stored in the refrigerator and used at a dosage of 1 ml per 5 kg body weight twice a day.

Selected References Barber PJ and Elliott J: Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in 80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract 39:108-116, 1998. DiBartola SP, Rutgers HC, Zack PM, Tarr MJ: Clinicopathologic findings associated with chronic renal disease in cats: 74 cases (1973-1984). J Am Vet Med Assoc 190:1196-1202, 1987. Elliott J, Syme HM, Markwell PJ: Acid base balance of cats with chronic renal failure: effect of deterioration in renal function. J Small Anim Pract 44:261-268, 2003. Elliott J, Syme HM, Reubens E, Markwell PJ: Assessment of acid base status of cats with naturally-occurring chronic renal failure. J Small Anim Pract 44:65-70, 2003. Theisen SK, DiBartola SP, Radin MJ, Chew DJ, Buffington CA, Dow SW: Muscle potassium content and potassium gluconate supplementation in normokalemic cats with naturally-occurring chronic renal failure. J Vet Int Med 11:212-217, 1997.

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Facciamo il punto su: l’Aspergillosi nei falchi Antonio Di Somma Med Vet, SMPA, Dubai, UAE

è sempre affidata all’endoscopia dei sacchi aerei con l’evidenziazione di placche coalescenti e granulomi. Il conseguente esame citologico e colturale dei tessuti prelevati per biopsia è basilare per la diagnosi. Le alterazioni del quadro elettroforetico non sono specifiche e possono essere specialmente utili per monitorare il decorso piuttosto che per la prima diagnosi. Infezioni acute mostrano aumento delle proteine totali e delle betaglobuline mentre quelle croniche mostrano un aumento delle gammaglobuline a volte unito all’aumento anche delle betaglobuline. La titolazione dell’antigene galattomannano, diffusa nella medicina umana, ha dato risultati inattendibili in altro studio effettuato nel nostro ospedale. Spesso la diagnosi clinica si basa su più esami collaterali piuttosto che su un’unico risultato, tanto è vero che anche la coltura da reperto bioptico di una colonia di Aspergillus può insorgere per contaminazione ambientale ed è quindi finanche questa da vedere nel contesto generale diagnostico.

Le infezioni fungine rimangono una causa di significativa mortalità per tutto il mondo animale, nonostante le più recenti ricerche e l’emergenza di nuovi agenti antifungini. L’Aspergillosi aviare è un’opportunistica infezione che occorre in animali immunocompromessi o quando questi vengono a contatto con un grande numero di spore fungine. L’Aspergillosi è anche la più comune delle malattie negli uccelli selvatici mantenuti in cattività. L’Aspergillosi può occorrere in tutte le specie aviari ma ci sono alcuni falchi marcatamente piùpredisposti come gifalchi, astori, giovani poiane codarossa e aquile reali. Fra le cause predisponenti vanno annoverate la scarsa ventilazione dei locali, lo stress legato alle manipolazioni per la falconeria (abbassamento del peso corporeo) ed il caldo-umido (specialmente per girfalchi). Aspergillus fumigatus è l’agente eziologico più comune ma anche A. flavus, A. niger e A. terreus sono frequentemente isolati. Il trattamento più efficace è nelle infezioni localizzate o diagnosticate precocemente mentre casi più gravi sono considerati al di là di ogni possibile terapia con mortalità che si avvicina al 100/100.

TRATTAMENTO SEGNI CLINICI

La diagnosi di Aspergillosi dovrebbe essere sempre confermata dato che il trattamento prevede la somministrazione a medio-lungo termine di farmaci costosi e anche potenzialmente tossici. Il trattamento si dimostra più efficace se la somministrazione sistemica (usando Itraconazolo o Voriconazolo) è accompagnata da nebulizzazione e applicazione del principio attivo sulle lesioni in corso di endoscopia. A volte è necessaria l’asportazione chirugica delle lesioni. Anni fa la mia struttura ha iniziato un approccio terapeutico con il Voriconazolo che è attualmente considerato la terapia di scelta dell’Aspergillosi anche in altre specie aviari. Il Voriconazolo è un triazol-derivato di seconda generazione derivato dall’evoluzione in laboratorio del Fluconazolo. È commercializzato in composizioni per via endovenosa e in compresse da 50 e 200 mg. Da noi viene utilizzato attualmente alla dose di 12,5 mg/ kg BID o di 18 mg/kg SID. Il Voriconazolo è preparato sciogliendo le compresse da 200 mg in 20 ml di soluzione salina e conservando la soluzione non utilizzata in frigorifero. La terapia con Voriconazolo ha un costo di circa un euro al giorno per un falco di 800 grammi (pellegrina). Nei falchi il Voriconazolo è ben tollerato ai dosaggi terapeutici anche quando viene la terapia generale è abbinata a quella locale e alla nebulizzazione. Negli ultimi mesi il mio ospedale sta

I segni clinici sono vari e dipendono dalla gravità della malattia. Possiamo includere perdita di peso, inappetenza, dispnea, stridore inspiratorio, ridotta performance nel volo, tachipnea. Possibile notare anche piumaggio arruffato e, nei casi più gravi, anoressia e biliverdinuria. Sono discretamente frequenti gravi casi di infezioni dei seni paranasali che causano ostruzioni degli stessi e finanche osteolisi.

DIAGNOSI La diagnosi non è mai semplice poiché tali sintomi respiratori possono essere comuni anche ad altre patologie come la Micobatteriosi e la Clamidofilosi. I problemi ematologici comprendono leucocitosi, eterofilia, monocitosi e la presenza di eterofili tossici e linfociti reattivi. Possibile anche l’elevazione degli enzimi epatici. Un quadro ematico normale comunque non esclude la presenza della malattia. Le anomalie radiologiche includono opacità nei sacchi aerei e ispessimento della trama bronchiale ma non sono patognomoniche e quasi sempre tardive rispetto all’insorgenza della malattia. La diagnosi definitiva 146


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kg di peso di falco). Abbiamo utilizzato il Posaconazolo alla dose di 12.5 mg/kg BID in falchi con sicura diagnosi di Aspergillosi e non abbiamo rilevato nessuno degli effetti indesiderati elencati per pazienti umani. Il prodotto è sempre stato utilizzato per somministrazione tramite siringa e tubo metallico direttamente nel gozzo al mattino mentre veniva somministrato nel cibo (inoculazione in quaglia eviscerata) alla sera. Abbiamo sviluppato questo protocollo per evitare lo stress all’animale di essere incappucciato e contenuto per 2 volte al giorno. Dopo la somministrazione al mattino è stato offerto del cibo. Finora le endoscopie di controllo (ancora in corso) si sono mostrate soddisfacenti ma il tasso di successo è risultato uguale o inferiore rispetto a quello del Voriconazolo. Gli aggiornamenti saranno dati durante la comunicazione orale in quanto lo studio è ancora in corso.

mettendo a punto un protocollo per la somministrazione del Posaconazolo nei falchi. Il Posaconazolo (Noxafil-Shering) e un nuovo potente triazol derivato che è un risultato dell’evoluzione in laboratorio della molecola dell’Itraconazolo ed è commercializzato dall’anno 2007 per pazienti umani affetti da Aspergillosi e refrattari al trattamento con Amfotericina o Itraconazolo. Il Posaconazolo inibisce la sintesi dell’ergosterolo che è un componente essenziale della membrana fungina inibendone la crescita. Il suo meccanismo di azione è fondamentalmente lo stesso degli altri triazol derivati ma il suo effetto inibitore è significatamente maggiore. Il Posaconazolo è attivo anche per la terapia e la prevezione di altre specie fungine cone Scedosporium, Candida e Histoplasma. In studi in vitro effettuati da circa un anno su colture fungine da falchi il Posaconazolo ha avuto un’azione sempre uguale o superiore all’Itraconazolo e in alcuni casi superiore anche a quella del Voriconazolo. Questi risultati di MIC 90 si allineano perfettamente a quelli effettuati in studi su casi di Aspergillosi umani. Il prodotto è commercializzato in soluzione orale alla concentrazione di 40 mg/ml ed ha un costo molto elevato (terapia costa 4 euro giornalieri per

Indirizzo per la corrispondenza: Dr Antonio Di Somma E-mail: antonio.disomma@dfh.ae

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Principali patologie dell’anziano e loro cura (cause, terapia e nutrizione): artropatia degenerativa Roberto Elices-Mínguez Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain

Le patologie osteoarticolari rappresentano gran parte delle visite effettuate presso le nostre cliniche. Si stima che il 50% dei cani e dei gatti di età superiore agli 8 anni sia colpito da processi degenerativi progressivi a carico delle articolazioni. L’osteoartrite è una malattia lenta, caratterizzata da perdita della cartilagine articolare, che viene sostituita da osso, con formazione, in alcuni casi, di osteofiti. La conseguenza di tutto questo è lo sviluppo di un processo infiammatorio nella parte interessata, che esita nell’immobilizzazione del paziente a causa del dolore. Quindi, è una patologia che colpisce direttamente la qualità della vita di animale e proprietario. Nel cane queste affezioni sono state studiate approfonditamente, ma nel gatto sono passare inosservate. Tuttavia, di recente sono diventate importanti anche in questa specie animale. Nel complesso, sono caratterizzate da una zoppia che colpisce gli arti quando fa freddo, che migliora con l’esercizio e peggiora dopo il riposo che segue un’attività fisica intensa. La visita clinica può rivelare tumefazione, dolore, crepitii e riduzione dell’estensione dei movimenti. Negli animali da compagnia in età geriatrica l’eziologia è mista, primaria (età) e secondaria (altri fattori), dato che l’accentuazione delle alterazioni ortopediche si somma all’età avanzata del paziente. Un grande numero di queste patologie riconosce una componente genetica, ma per il loro sviluppo sono stati descritti numerosi fattori di rischio: età, appartenenza alle razze di grossa taglia o giganti, sesso (maschio), mancato controllo dell’alimentazione durante l’accrescimento e sovralimentazione nello stadio adulto (obesità). È vero che, nell’ambito di questa classificazione, rientrano lesioni di basso grado che originano come conseguenza di un indebolimento naturale. L’artropatia degenerativa è un circolo vizioso: il danno alla cartilagine provoca rigonfiamento con rilascio di citochine, che danneggiano la cartilagine ancora di più. Alla fine, l’articolazione non viene lubrificata appropriatamente e la cartilagine non è nutrita in modo adeguato. Man mano che il tempo passa, la struttura istologica della cartilagine cambia e si instaura una perdita della sua idratazione e flessibilità. Questo danno cellulare finisce per formare una cicatrice acellulare con un contenuto limitato di proteoglicani. Le articolazioni più colpite sono gomiti, ginocchia ed anche. Di solito questa condizione è bilaterale. Dato che non si dispone di un trattamento specifico per questa patologia, il problema non è facile da risolvere. Innanzi tutto, l’obiettivo primario è ottenere una perdita di peso nei pazienti obesi. D’altra parte, la chirurgia ed i farmaci aiutano a ridurre il dolore ed il gonfiore, ma si devono ancora correggere le cause che predispongono o aggravano

questi segni clinici. Inoltre, è molto interessante l’impiego di integratori nutrizionali che proteggano o sintetizzino la cartilagine (glicosaminoglicani e condroitina), nonché l’uso di elementi attivi con effetti antiossidanti (vitamine E e C) o antinfiammatori (acidi grassi omega 3) e l’introduzione di specifici programmi di allenamento/esercizio, adeguando l’attività al livello di intensità della malattia.

Bibliografia Beale, B.S. Use of nutraceuticals and chondoprotectors in osteoartrictic dogs and cats. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2004; 34:271-289 Bui, L.M. and Taylor, F. Nutritional management of arthritis in dogs. Waltham Focus. Advances in clinical nutrition. 2000; 10: 64-69. Cargill, J. Hip dysplasia in Maine Coons. The Scratch Sheet. 1990. March; 18-21. Curtis, C.L. et al. Effects of n3 fatty acids on cartilage metabolism. Proc Nutr Soc. 2002; 61 (3): 981-389 German, A.J.. The growing problem of obesity in dogs and cats. J. Nutr.; Jul 2006; 136,7S; Academic Research Library pg. 1940S. Hulse, D. Treatment methods for pain in the osteoarthritic patient. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 1998; 28(2):361-75 Kealy, R.D. at al Evaluation of the effect of limited food consumption on radiographic evidence of osteoarthritis in dogs. J Am Vet Med Assoc 2000;217:1678-80 Keller, GG., Reed, Al., Lattimer, JC. and Corley, EA. Hip dysplasia: a feline population study. Veterinary Radiology and Ultrasound. 1999 ; 40: 460-464. Laflamme, DO, Hume, E, Harrison, J. Evaluation of zoometric measures as anassesment of body composition of dog and cats. Compen. Cont. Educ. Pract. Vet. 2001; 23 (Suppl )A): 88. National Research Council of the National Academies (NRC) Nutrient requirements for dogs and cats (2006) The National Academies Press, Washington D.C. Nganvongpanit, K et al. Evaluation of serum chondroitin sulfate and hyaluronan: biomarkers for osteoarthritis in canine hip dysplasia. J Vet Sci. September 2008;9(3):317-25. Power, C. Hips dysplasia in cats. Persian News, June 1992 Reginster J.Y. et al Long term effects of glucosamine sulaphate on osteoarthritis progression: a randomised, pacebo-controlled clinical trial. Lancet. 2001;357:251-256 Runge, J, Biery, D N, Lawlwe, DF, Gregor, TP, Evans, RH Kealy, RD, Szabo, SD, Smith, GK. The effects of lifetime food restriction on the development of osteoarthritis in the canine shoulder. Vet Surg. January 2008;37(1):102-7. Scarlett, JM. and Donoghue, S. Associations between body condition and disease in cats. J Am Vet Med Assoc. 1998; 212:1725-31. Schrader, SC. and Sherding, RG. Disorders of the skeletal system in Sherding RG (editor): The Cat: diseases and clinical management, second edition, WB Saunders, Philadelphia, 1994, p. 1608.

Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Elices-Mínguez Animal Nutrition. Endocrine and Obesity Service Faculty of Veterinary Medicine. U.C.M. (Madrid-Spain) 148


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Degenerative osteoarhritis Roberto Elices-Mínguez Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain

Osteoarticular pathologies represent a great part of the visits to ours clinics. It is estimated that 50% of dogs and cats over 8 years old suffer from progressive degenerative processes in their joints. Osteoarthritis is a slow disease which is characterized by the loss of articular cartilage, being replaced by bone, with formation, in some cases, of osteophytes. The consequence of all this is the development of an inflammatory process in the region which results in immobility provoked by pain to the patient. It is therefore a pathology that affects directly the patient’s and the owner’s quality of life. These diseases are thoroughly studied in dogs, but have gone unnoticed in cats. They have become important recently, though. On the whole, they are characterized by a limp of the affected limb when cold, which gets better through exercise and worse after rest subsequent to intense exercise. Physical examination may reveal tumefaction, pain, crackling and decrease in the extent of movements. In geriatric pets, the aetiology is mixed, primary (age) and secondary (other factors), as growth orthopaedic alterations meet the advanced age of the patient. A large number of these pathologies have a genetic component, but in their development numerous risk factors have been described: age, large or giant breeds, sex (male), lack of feeding control in the growing stage and overfeeding in the adult stage (obesity). It is true that, within this classification, there are low-grade injuries which originate as a consequence of natural weakening. Degenerative arthropathy is a loop; the cartilage injury provokes swelling with release of citokins, which damage the cartilage even more. In the end, the joint does not lubricate properly and the cartilage is not nourished adequately. As time goes by, the histological structure of the cartilage changes: a loss of its hydration and flexibility takes place. This cell damage ends up forming an acellular scar with a limited content of proteoglycans. The most affected joints are elbows, knees and hips. Its condition is usually bilateral. Resulting from not having a specific treatment for this pathology, it is a problem which is not easy to get to grips with. First of all, weight loss in obese patients should be the primary goal. On the one hand, surgery and drugs help decrease pain and swelling, but we still have to correct the causes that predispose or aggravate these symptoms. On the other hand, it is very interesting to use nutritional supplements which protect or synthesize cartilage (glycosaminoglycans and condroitin) as well as the use of active elements with antioxidant effects (vitamins E and C) or anti-inflam-

matory (omega 3 fatty acid), and the introduction of specific training/exercise programmes, matching the activity to the disease intensity level.

References Beale, B.S. Use of nutraceuticals and chondoprotectors in osteoartrictic dogs and cats. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2004; 34:271289 Bui, L.M. and Taylor, F. Nutritional management of arthritis in dogs. Waltham Focus. Advances in clinical nutrition. 2000; 10: 64-69. Cargill, J. Hip dysplasia in Maine Coons. The Scratch Sheet. 1990. March; 18-21. Curtis, C.L. et al. Effects of n3 fatty acids on cartilage metabolism. Proc Nutr Soc. 2002; 61 (3): 981-389 German, A.J.. The growing problem of obesity in dogs and cats. J. Nutr.; Jul 2006; 136,7S; Academic Research Library pg. 1940S. Hulse, D. Treatment methods for pain in the osteoarthritic patient. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 1998; 28(2):361-75 Kealy, R.D. at al Evaluation of the effect of limited food consumption on radiographic evidence of osteoarthritis in dogs. J Am Vet Med Assoc 2000;217:1678-80 Keller, GG., Reed, Al., Lattimer, JC. and Corley, EA. Hip dysplasia: a feline population study. Veterinary Radiology and Ultrasound. 1999 ; 40: 460-464. Laflamme, DO, Hume, E, Harrison, J. Evaluation of zoometric measures as anassesment of body composition of dog and cats. Compen. Cont. Educ. Pract. Vet. 2001; 23 (Suppl )A): 88. National Research Council of the National Academies (NRC) Nutrient requirements for dogs and cats (2006) The National Academies Press, Washington D.C. Nganvongpanit, K et al. Evaluation of serum chondroitin sulfate and hyaluronan: biomarkers for osteoarthritis in canine hip dysplasia. J Vet Sci. September 2008;9(3):317-25. Power, C. Hips dysplasia in cats. Persian News, June 1992 Reginster J.Y. et al Long term effects of glucosamine sulaphate on osteoarthritis progression: a randomised, pacebo-controlled clinical trial. Lancet. 2001;357:251-256 Runge, J, Biery, D N, Lawlwe, DF, Gregor, TP, Evans, RH Kealy, RD, Szabo, SD, Smith, GK. The effects of lifetime food restriction on the development of osteoarthritis in the canine shoulder. Vet Surg. January 2008;37(1):102-7. Scarlett, JM. and Donoghue, S. Associations between body condition and disease in cats. J Am Vet Med Assoc. 1998; 212:1725-31. Schrader, SC. and Sherding, RG. Disorders of the skeletal system in Sherding RG (editor): The Cat: diseases and clinical management, second edition, WB Saunders, Philadelphia, 1994, p. 1608.

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Principali patologie dell’anziano e loro cura: insufficienza cardiaca Roberto Elices-Mínguez Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain

Le affezioni cardiovascolari sono ancora uno dei disordini più comuni nei cani e nei gatti adulti e anziani. Per le malattie cardiovascolari degli animali da compagnia sono stati riportati molti fattori di rischio ed associazioni cliniche. Nella medicina veterinaria dei piccoli animali possiamo riconoscere diverse patologie: i cani di piccola e media taglia sono predisposti alle valvulopatie, mentre in quelli di grossa taglia e nei gatti è stata descritta la miocardiopatia dilatativa. In relazione alla causa primaria ed alla gravità della cardiopatia, i segni clinici possono variare da paziente a paziente e non sono in alcun modo patognomonici di cardiopatia vascolare. Le manifestazioni della malattia possono comprendere debolezza ed intolleranza all’esercizio, tosse, letargia, inappetenza, vomito, diarrea, tachipnea, difficoltà respiratoria, sincope o collasso. Oltre alle somministrazioni di farmaci, il trattamento ottimale prevede anche un’accurata attenzione alla dieta. In passato l’obiettivo della terapia nutrizionale era sintomatico, data la limitata disponibilità di farmaci. Oggi, negli animali da compagnia con cardiopatie la perdita di peso e l’obesità possono essere dei problemi addizionali o meno e possono influire negativamente sulla salute. Quindi, il trattamento nutrizionale si basa su misure volte a fornire la quantità ottimale di calorie, evitare carenze ed eccessi degli altri principi nutritivi (come sodio e cloro) ed aumentare i potenziali benefici di alcuni di essi. Nell’uomo l’obesità è un fattore di rischio di malattia cardiovascolare, ma fra i pazienti umani con insufficienza cardiaca quelli sovrappeso ed obesi presentano una sopravvivenza migliore rispetto ai casi di controllo normali o sottopeso – è il cosiddetto paradosso dell’obesità. Come nell’uomo, nel cane con insufficienza cardiaca le variazioni del peso corporeo sono associate alla sopravvivenza, che risulta più prolungata nei soggetti che aumentano di peso. Ciò può essere dovuto a numerose ragioni, come il ruolo cardioprotettore delle molecole neuroendocrine derivate dal tessuto adiposo, quali le citochine e gli ormoni. I pazienti obesi possono essere portati alla visita a causa di una cardiopatia più precocemente rispetto a quelli non obesi. L’incremento ponderale può anche essere un indicatore di una migliore risposta al trattamento; in altre parole, il fatto che il peso del cane resti costante o diminuisca denota una cattiva risposta alla terapia. Infine, il paradosso dell’obesità può essere più attribuibile alla mancanza di cachessia, dati gli effetti negativi documentati che questa ha nei pazienti umani con insufficienza cardiaca.

Gli scopi della nutrizione non sono più limitati ad una dieta iposodica, dato che la ricerca oggi sta dimostrando che i principi nutritivi possono modulare la malattia ed essere un importante ausilio alla terapia medica. Le carenze di alcuni di essi, come la taurina, l’arginina, i minerali e le vitamine (potassio, magnesio e vitamine del gruppo B), possono contribuire alle miocardiopatie, ma alcuni principi nutritivi particolari come gli acidi grassi n-3, l’L-carnitina e gli antiossidanti possono avere benefici farmacologici specifici. Le modificazioni dell’alimentazione degli animali da compagnia con insufficienza cardiaca vanno attuate caso per caso, su base individuale. In questi pazienti si osservano delle variazioni a carico di molti fattori (segni clinici, parametri biochimici) e questo deve condizionare la scelta della dieta. Occorre valutare tutte queste situazioni e tenere a mente che i proprietari, talvolta, utilizzano integratori dietetici, erbe o nutraceutici che non sono regolati da norme relative alla prescrizione. Gli effetti di alcuni prodotti da erboristeria si possono sommare alle terapie standard con i farmaci cardiaci e bisogna prendere in considerazione le potenziali interazioni farmacologiche.

Bibliografia Azuna J. Heart failure research with taurine in congestive heart failure. In: Huxtable, R, Michalk, DV (eds) Taurine in health and disease. Plen Press; New York; 425-433 Bélanger1, MB, Ouellet, M, Queney, G, Moreau, M. Taurine-deficient dilated cardiomyopathy in a family of golden retrievers. J Am Anim Hosp Assoc. 2005 Sep-Oct;41(5):284-91. Buchanan JW. Prevalence of cardiovascular disorders. In: Fox PR, Sisson D, Moise NS., eds. Textbook of Canine and Feline Cardiology, 2nd ed. Philadelphia, PA: WB Saunders; 1999:457–470. Fascetti1, AJ, Reed, JR, Rogers, QR, Backus, RC. Taurine deficiency in dogs with dilated cardiomyopathy: 12 cases (1997-2001) J Am Vet Med Assoc. October 2003;223(8):1137-41. Freeman LM, Rush JE, Kehayias JJ, et al. Nutritional alterations and the effect of fish oil supplementation in dogs with heart failure. J Vet Intern Med 1998; 12:440–448. Freeman LM, Rush JE. Nutritional management of cardiac disease. In: Ettinger SJ., ed. Textbook of Veterinary Internal Medicine, 6th ed. St Louis, MO: Elsevier; 2005:579–583. Freeman, LM, Rush, JE, Cahalane, AK, Markwell, PJ Dietary patterns of dogs with cardiac disease. J Nutr. June 2002;132(6 Suppl 2):1632S-3S. Freeman, LM, Rush, JE, Cahalane, AK, Kaplan, PM, Markwell, PJ. Evaluation of dietary patterns in dogs with cardiac disease. J Am Vet Med Assoc. November 2003; 223(9):1301-5. Freeman, LM, Rush, JE, Milbury, PE, Blumberg, JB. Antioxidant status and biomarkers of oxidative stress in dogs with congestive heart failure. J Vet Intern Med. 2005 Jul-Aug; 19(4):537-41.

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Freeman, LM, Rush, JE.Nutrition and cardiomyopathy: Lessons from spontaneous animal models. Curr Heart Fail Rep. June 2007; 4(2):84-90. Sanderson, SL. Taurine and carnitine in canine cardiomyopathy. Vet Clin North Am Small Anim Pract. November 2006;36(6):1325-43, vii-viii. Slupe, JL, Freeman, LM, Rush JE. Association of Body Weight and Body Condition with Survival in Dogs with Heart Failure. J Vet Inter Med. 2008. Volume 22, Issue 3, Pages 561-565 Smith1, CE, Freeman, LM, Meydani, M, Rush, JE. Myocardial concentrations of fatty acids in dogs with dilated cardiomyopathy. Am J Vet Res. September 2005; 66(9):1483-6.

Tôrres1, CL, Backus, RC, Fascetti, AJ, Rogers, QR. Taurine status in normal dogs fed a commercial diet associated with taurine deficiency and dilated cardiomyopathy. J Anim Physiol Anim Nutr (Berl). October 2003; 87(9-10):359-72.

Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Elices-Mínguez Animal Nutrition. Endocrine and Obesity Service Faculty of Veterinary Medicine. U.C.M. (Madrid-Spain)

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Cardiovascular diseases: heart failure Roberto Elices-Mínguez Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain

Cardiovascular disease is still one of the most common life disorders in adult and older dogs and cats. Many risk factors and clinical associations have been reported for cardiovascular diseases in pets. In small animal veterinary medicine we can recognize different diseases: small and medium dogs are predisposed to valvular diseases, while dilated cardiomyopathy has been describe in large breed dogs and cats. Depending on the primary cause and severity of the cardiac disease, clinical signs can vary from patient to patient and are by no means pathognomonic for cardiovascular disease. Clinical signs may include weakness and exercise intolerance, cough, lethargy, inappetence, vomiting, diarrhea, tachypnea, respiratory distress, syncope, or collapse. In addition to medications, optimal treatment also includes careful attention to the diet. In the past, the goal of nutrition management was symptomatic, due to the limited drugs available. Now, weight loss and obesity can be additional problems, or not, in animals with cardiac disease, and can adversely affect the pet’s health. So, providing the optimal number of calories, avoiding deficiencies and excesses (i.e. sodium and chloride) in other nutrients, and increasing potential benefits of certain special nutrients are the basis in the nutritional management. Obesity is a risk factor for cardiovascular disease in people, but overweight and obese human heart failure patients have improved survival compared with normal- or underweight controls—the obesity paradox. As in humans, body weight changes are associated with survival in dogs with heart failure, with dogs gaining weight having the longest survival time. There are a number of possible reasons: i.e. cardioprotective role of adipose tissue-derived neuroendocrine molecules, including cytokines and hormones. Obese patients may present earlier for their heart disease than nonobese patients. Weight gain also may be an indicator of better response to treatment; ie, if dogs maintain or lose weight, they had a poor response to therapy. Finally, the obesity paradox may be more attributable to the lack of cachexia, given the adverse effects documented for cachexia in human heart failure patients. The goals of nutrition are no longer limited to a low-sodium diet, as research is now showing that nutrients can modulate disease and be an important adjunct to medical therapy. Deficiencies of certain nutrients can contribute to cardiomyopathies, as with taurine, arginine, minerals and vitamins (potassium, magnesium and B vitamins) but some special nutrients-such as n-3 fatty acids, L-carnitine, and antioxidants-may have specific pharmacologic benefits. Feeding modification in pets with HF needs to be individualized. These patients vary in terms of many factors

(clinical signs, biochemical parameters…) and this should affect to the diet selection. We must evaluate all of these situations and keep in mind that owners, sometimes, use dietary supplements, herbs or nutraceuticals not regulated by law. Some herbal therapies can have additive effects to standard cardiac drug therapy and potential drug interactions need to be considered.

References Azuna J. Heart failure research with taurine in congestive heart failure. In: Huxtable, R, Michalk, DV (eds) Taurine in health and disease. Plen Press; New York; 425-433 Bélanger1, MB, Ouellet, M, Queney, G, Moreau, M. Taurine-deficient dilated cardiomyopathy in a family of golden retrievers. J Am Anim Hosp Assoc. 2005 Sep-Oct;41(5):284-91. Buchanan JW. Prevalence of cardiovascular disorders. In: Fox PR, Sisson D, Moise NS., eds. Textbook of Canine and Feline Cardiology, 2nd ed. Philadelphia, PA: WB Saunders; 1999:457–470. Fascetti1, AJ, Reed, JR, Rogers, QR, Backus, RC. Taurine deficiency in dogs with dilated cardiomyopathy: 12 cases (1997-2001) J Am Vet Med Assoc. October 2003;223(8):1137-41. Freeman LM, Rush JE, Kehayias JJ, et al. Nutritional alterations and the effect of fish oil supplementation in dogs with heart failure. J Vet Intern Med 1998; 12:440–448. Freeman LM, Rush JE. Nutritional management of cardiac disease. In: Ettinger SJ., ed. Textbook of Veterinary Internal Medicine, 6th ed. St Louis, MO: Elsevier; 2005:579–583. Freeman, LM, Rush, JE, Cahalane, AK, Markwell, PJ Dietary patterns of dogs with cardiac disease. J Nutr. June 2002;132(6 Suppl 2):1632S-3S. Freeman, LM, Rush, JE, Cahalane, AK, Kaplan, PM, Markwell, PJ. Evaluation of dietary patterns in dogs with cardiac disease. J Am Vet Med Assoc. November 2003; 223(9):1301-5. Freeman, LM, Rush, JE, Milbury, PE, Blumberg, JB. Antioxidant status and biomarkers of oxidative stress in dogs with congestive heart failure. J Vet Intern Med. 2005 Jul-Aug; 19(4):537-41. Freeman, LM, Rush, JE.Nutrition and cardiomyopathy: Lessons from spontaneous animal models. Curr Heart Fail Rep. June 2007; 4(2):84-90. Sanderson, SL. Taurine and carnitine in canine cardiomyopathy. Vet Clin North Am Small Anim Pract. November 2006;36(6):1325-43, vii-viii. Slupe, JL, Freeman, LM, Rush JE. Association of Body Weight and Body Condition with Survival in Dogs with Heart Failure. J Vet Inter Med. 2008. Volume 22, Issue 3, Pages 561-565. Smith1, CE, Freeman, LM, Meydani, M, Rush, JE. Myocardial concentrations of fatty acids in dogs with dilated cardiomyopathy. Am J Vet Res. September 2005; 66(9):1483-6. Tôrres1, CL, Backus, RC, Fascetti, AJ, Rogers, QR. Taurine status in normal dogs fed a commercial diet associated with taurine deficiency and dilated cardiomyopathy. J Anim Physiol Anim Nutr (Berl). October 2003; 87(9-10):359-72.

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Principali patologie dell’anziano e loro cura: insufficienza renale cronica Roberto Elices-Mínguez Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain

Col termine di insufficienza renale cronica (CRF, chronic renal failure) si indica la perdita irreversibile delle capacità funzionali dei reni in seguito ad una riduzione del numero di nefroni funzionanti. Nel primo stadio, i nefroni residui aumentano le proprie dimensioni ed il proprio carico di lavoro per compensare la perdita di nefroni. Nonostante questo effetto cronico, la distruzione dei nefroni innesca un’ulteriore compensazione e promuove un ciclo di adattamento, che progredisce sino ad insufficienza renale, sindrome uremica e morte. Lo stadio terminale della nefropatia è definito come l’insufficienza quasi completa della funzione renale o una distruzione irreversibile ed è caratterizzato da sclerosi glomerulare estesa, atrofia tubulare, infiammazione interstiziale e fibrosi. La fibrosi renale è una delle vie che portano comunemente all’insufficienza dell’organo. Nella fibrogenesi renale sono coinvolti immunociti infiltranti nel rene in stadio terminale e diversi fattori correlati. L’insufficienza renale cronica è un problema clinico comune che compare nel 2-5% dei cani sopra i 6,5 anni. È al terzo posto fra le principali cause di morte nel cane. Nel gatto, la prevalenza è del 2-10%, fino al 53% nei soggetti di età superiore ai 7 anni. L’insorgenza della condizione tende ad essere insidiosa, dato che la funzione renale generalmente va incontro ad un declino che si sviluppa nell’arco di un periodo di mesi od anni. La perdita della funzione renale ha effetti a diversi livelli: sistema endocrino, equilibrio elettrolitico ed acido-basico, metabolismo del calcio e sintesi degli eritrociti. D’altra parte si riscontrano le conseguenze di elevate concentrazioni di urea in sangue e tessuti. Il trattamento medico è mirato a ridurre il lavoro della quota funzionalmente ancora attiva dei reni, attenuare la condizione uremica, compensare i disordini metabolici ed in ultimo rallentare il decorso del processo patologico. La terapia nutrizionale è il punto di forza del controllo di questa malattia. Gli interventi sono finalizzati ad agire su anoressia, perdita di peso, appropriata filtrazione glomerulare, tossine uremiche ed anomalie scheletriche. La nutrizione gioca un ruolo chiave nel migliorare la qualità della vita e la speranza di vita di questi pazienti, ritardando la progressione della malattia. Gli interventi nutrizionali tipici comprendono la modificazione delle concentrazioni di proteine, fosforo e lipidi. I livelli di proteine sono molto importanti per il contenimento di iperazotemia ed uremia. Il controllo precoce delle alterazioni del fosforo può aumentare la sopravvivenza del paziente. Questo minerale è stato messo in relazione alla progressione della malattia. Alcune prove condotte con livel-

li diversi di fosforo e proteine sono giunte a suggerire che i pazienti traggano beneficio da bassi livelli di questi principi nutritivi. La terapia nutrizionale, tuttavia, non consiste semplicemente in un cambiamento della dieta: bisogna anche accertarsi che venga garantita un’assunzione calorica adeguata e valutare il metodo di somministrazione degli alimenti. È anche di importanza cruciale monitorare gli effetti della terapia dietetica, per assicurare che i pazienti rispondano appropriatamente alle modificazioni nutrizionali stabilite. Per il successo a lungo termine della terapia, è necessario coordinare la gestione della nutrizione con quella dei trattamenti medici. Lo stress ossidativo può contribuire alla progressione dell’insufficienza renale cronica. Inoltre, l’incorporazione di alcuni principi nutritivi specifici come gli antiossidanti (quali gli integratori contenenti vitamina E, C e beta-carotene, acidi grassi omega-3 e -6) esercita effetti protettivi sull’animale. In ogni caso, data la dinamica e la natura progressiva di questa malattia, il trattamento non è efficace quando si è allo stadio IV, in cui i proprietari richiedono l’eutanasia per ragioni umanitarie. La diagnosi ed il trattamento precoci assicurano un’alternativa accettabile.

Bibliografia Acierno, MJ., Maeckelbergh, V. Continuous renal replacement therapy. Compend Contin Educ Pract Vet. May 2008;30(5):264-72. 37 Refs Barber P, Elliot. J: Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in 80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small An Pract 1998; 39:108-116. Barber P, Rawlings J, Markwell P, et al: Effect of dietary phosphate restriction on renal secondary hyperparathyroidism in the cat. J Small Anim Pract 1999; 40:62-70. Bauer, J, Crocker, R, Markwell, PJ. Dietary n6 fatty acid supplementation improves ultrafiltration in spontaneous canine chronic renal disease. J Vet Inter Med 1997; 126:126. Bauer, J, Crocker, R, Markwell, PJ. Effects of dietary fat an polyunsaturated fatty acids in dogs with naturally developing chronic renal failure. J Am Vet Med Assoc 1999; 215:158-1591. Brown S, Brown C, Crowell W, et al: Effects of dietary polyunsaturated fatty acid supplementation in early renal insufficiency in dogs. J Lab Clin Med 135:275-286, 2000. Dow S, Fettman M, LeCouteur R, et al: Potassium depletion in cats: Renal and dietary influences. J Am Vet Med Assoc 191:1569-1575, 1987. Elliot J, Rawlings J, Markwell P, et al: Survival of cats with naturally occurring chronic renal failure: effect of dietary management. J Small Anim Pract 41:235-242, 2000. Jacob F, Polzin D, Osborne C, et al: Clinical evaluation of dietary modification for treatment of spontaneous chronic renal failure in dogs. J Am Vet Med Assoc 220:1163-1170, 2002.

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chidonic acid in plasma cholesteryl esters. Vet Res Commun. May 2005;29(4):281-6. Polzin DJ, Osborne CA and Ross S: Chronic Kidney Disease. In, Ettinger, S.J. and Feldman, E., (eds.), Textbook of Veterinary Internal Medicine, 6th edition, Philadelphia, PA, WB Saunders Co., 2004. Pratt, A.Effect of commercial diets on cats with chronic renal insufficiency. Vet Rec. October 2005;157(15):455-6. Pugliese, A, Grupillo, A. Di Pietro, S. Clinical nutrition in gerontology: chronic renal disorders of the dog and cat. Vet Res Commun. August 2005;29 Suppl (0):57-63.

Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Elices-Mínguez Animal Nutrition. Endocrine and Obesity Service Faculty of Veterinary Medicine. U.C.M. (Madrid-Spain)

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Chronic renal failure Roberto Elices-Mínguez Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain

Chronic renal failure represents the irreversible loss of functional capacities of the kidneys as a result of a reduction in the number of functioning nephrons. In the first stage, the remaining nephrons increase their size and their work load to compensate for nephron loss. Nevertheless this chronic effect, with nephron destruction initiates further compensation, promotes a cycle of adaptation, who progress into renal failure, uremic syndrome and death. The end-stage of renal disease is defined as the almost complete failure of renal function or irreversible destruction and is characterized by extensive glomerular sclerosis, tubular atrophy, interstitial inflammation, and fibrosis. Renal fibrosis is a common pathway leading to kidney failure. Infiltrating immunocytes in the end-stage kidney and several related factors are involved in renal fibrogenesis. CRF is a common clinical problem occurring in 2-5% of dogs over 6.5 years. It is the third leading cause of death in dogs. In cats, the prevalence is 2-10%, up to 53%, over 7 years old. The onset of renal failure tends to be insidious as renal function generally declines over a period of months to years. Renal function loss has effects over different levels: endocrine system, electrolyte acid-base balance, calcium metabolism and the synthesis of erythrocytes. On the other hand, we have the consequences of high urea concentrations in blood and tissues. Medical treatment has supported to reduce the work of the functional kidneys, to reduce uremic status, to compensate metabolic disorders, and ultimately slow down the disease. The nutritional therapy is the mainstay of control this disease. The objectives are determined by anorexia, weight loss, proper glomerular filtration, uremic toxins and skeletal abnormalities. Nutrition plays a key role in improving quality of life and life expectancy of these patients retarding progression of the disease. Typical nutritional interventions include modifying the protein, phosphorus, and lipid concentrations. Protein levels are very important for control of azotemia and uremia. The premature control of phosphorus alterations can increase the survival of the patient. This mineral has correlated with disease progression. Some conducted trials have done with different levels of phosphorus and protein, and as conclusion suggests that patients benefit from low levels of these nutrients. Nutritional therapy, however, does not simply mean changing the diet; consideration must also be given to ensuring adequate caloric intake and to the method of feeding. Monitoring the effects of the dietary therapy is also crucial to ensure that the patients are respond-

ing appropriately to the selected nutritional modifications. Nutritional management must be coordinated with medical management for long term successful treatment. Oxidative stress may contribute to the progression of chronic renal failure. Moreover, the incorporation of some specific nutrients such as antioxidants, i.e. supplements of vitamins E and C and beta-carotene, omega 3 and 6 fatty acids exert protective effects on the animal. Anyway, as the dynamic and progressive nature of this disease, the treatment is not efficient when we are at stage IV, so that the owners requested euthanasia for humanitarian reasons. Earliest diagnosis and treatment assures an acceptable alternative.

References Acierno, MJ., Maeckelbergh, V. Continuous renal replacement therapy. Compend Contin Educ Pract Vet. May 2008;30(5):264-72. 37 Refs. Barber P, Elliot. J: Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in 80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small An Pract 1998; 39:108-116. Barber P, Rawlings J, Markwell P, et al: Effect of dietary phosphate restriction on renal secondary hyperparathyroidism in the cat. J Small Anim Pract 1999; 40:62-70. Bauer, J, Crocker, R, Markwell, PJ. Dietary n6 fatty acid supplementation improves ultrafiltration in spontaneous canine chronic renal disease. J Vet Inter Med 1997; 126:126 Bauer, J, Crocker, R, Markwell, PJ. Effects of dietary fat an polyunsaturated fatty acids in dogs with naturally developing chronic renal failure. J Am Vet Med Assoc 1999; 215:158-1591. Brown S, Brown C, Crowell W, et al: Effects of dietary polyunsaturated fatty acid supplementation in early renal insufficiency in dogs. J Lab Clin Med 135:275-286, 2000. Dow S, Fettman M, LeCouteur R, et al: Potassium depletion in cats: Renal and dietary influences. J Am Vet Med Assoc 191:1569-1575, 1987. Elliot J, Rawlings J, Markwell P, et al: Survival of cats with naturally occurring chronic renal failure: effect of dietary management. J Small Anim Pract 41:235-242, 2000. Jacob F, Polzin D, Osborne C, et al: Clinical evaluation of dietary modification for treatment of spontaneous chronic renal failure in dogs. J Am Vet Med Assoc 220:1163-1170, 2002. Cowgill, LD. Advanced therapeutic approaches for the management of uraemia—’the met and unmet needs’J Feline Med Surg. February 2003;5(1):57-67. Laflamme, D. P. Pet food safety: dietary protein Top Companion Anim Med. August 2008;23(3):154-7. Langston, C. Managing fluid and electrolyte disorders in renal failure. Vet Clin North Am Small Anim Pract. May 2008;38(3):677-97, xiii. Lawler, DF., Ballam JM, Meadows, Larson, BT, Qinhong L, Stowe, HD and Kealy, RD. Influence of lifetime food restriction on physiological variables in Labrador retriever dogs. Exp Gerontol. March 2007; 42(3):204-14.

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Nagode L, Chew D, Podell M: Benefits of calcitriol therapy and serum phosphorus control in dogs and cats with chronic renal failure: Both are essential to prevent or suppress toxic hyperparathyroidism. Vet Clin North Amer 26:1293-1330, 1996. Plantinga, EA, Hovenier, R, Beynen, AC. Qualitative risk assessment of chronic renal failure development in healthy, female cats as based on the content of eicosapentaenoic acid in adipose tissue and that of arachidonic acid in plasma cholesteryl esters. Vet Res Commun. May 2005;29(4):281-6. Polzin DJ, Osborne CA and Ross S: Chronic Kidney Disease. In, Ettinger, S.J. and Feldman, E., (eds.), Textbook of Veterinary Internal Medicine, 6th edition, Philadelphia, PA, WB Saunders Co., 2004.

Pratt, A.Effect of commercial diets on cats with chronic renal insufficiency. Vet Rec. October 2005;157(15):455-6. Pugliese, A, Grupillo, A. Di Pietro, S. Clinical nutrition in gerontology: chronic renal disorders of the dog and cat. Vet Res Commun. August 2005;29 Suppl (0):57-63.

Address for correspondence: Roberto Elices-MĂ­nguez Animal Nutrition. Endocrine and Obesity Service Faculty of Veterinary Medicine. U.C.M. (Madrid-Spain)

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Come possiamo riconoscere la CKD felina in fase iniziale? Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK

gressione. In 14 dei gatti in cui è stato riscontrato un andamento progressivo si è rilevato uno scadimento per tappe della funzione renale (>50% di aumento della concentrazione della creatinina plasmatica), mentre nei restanti 7 casi la progressione è stata di tipo lineare. Altri studi volti a stabilire gli effetti della dieta sulla sopravvivenza dei gatti con CKD avevano rilevato che la percentuale degli animali venuti a morte a causa della malattia sul totale di quelli presi in considerazione era compresa tra il 25% ed il 54% (Ross et al., 2006; Elliott et al., 2000), anche se definire la causa di morte non è sempre facile.

INTRODUZIONE La nefropatia cronica è una delle sindromi più comuni del gatto che invecchia e causano una morbilità e mortalità significativa. Malgrado molto interesse e molte ricerche, la ragione della predisposizione dei felini alla CKD non è emersa. È stato suggerito che si tratti di un naturale fenomeno di invecchiamento di questi animali quando si trovano in un ambiente che consente loro di vivere molto più a lungo che nella condizione di quelli selvatici (Lawler et al., 2006). Anche se si tratta di un’ipotesi interessante, questa sindrome è senza dubbio eterogenea e non v’è dubbio che in alcuni gatti la durata della vita venga abbreviata da un progressivo deterioramento della funzione renale, che porta a segni clinici insopportabili e cattiva qualità della vita.

IDENTIFICARE LA NEFROPATIA CRONICA FELINA AD UNO STADIO PRECOCE

PREVALENZA DELLA NEFROPATIA CRONICA FELINA

Misurazione della velocità di filtrazione glomerulare - il test risolutivo della massa renale funzionale

Sfortunatamente, i dati epidemiologici attendibili sulla prevalenza della CKD nel gatto sono scarsi e molti di quelli pubblicati sono aneddotici e non correlati ad una ben definita popolazione di gatti a rischio. Recentemente, abbiamo riportato uno studio clinico nel corso del quale sono stati raccolti gatti sani di età superiore a 9 anni che risultavano normali alla visita clinica ed agli esami biochimici di routine. Questi casi sono stati seguiti per 12 mesi e dei 98 gatti sottoposti ad un follow-up di questa durata, 29 (29,6%) presentavano delle concentrazioni di creatinina plasmatica al di fuori dei limiti di riferimento del nostro laboratorio e corrispondevano ai criteri diagnostici di un’affezione da CKD (Jepson 2008). Ciò venne confrontato dalla prevalenza del 9,2% (9/98) di gatti dello stesso gruppo che avevano sviluppato ipertiroidismo durante lo stesso periodo. Quindi, non v’è dubbio che la CKD sia una condizione comune. Altro interrogativo è come questa spesso progredisca in un’“uremia” grave e debilitante. La condizione non è stata esaminata molto frequentemente in modo sistematico. In uno studio relativo a 55 gatti reclutati presso alcune strutture veterinarie di primo livello della zona centrale di Londra, 21 casi (38%) mostrarono le prove di una progressione, mentre gli animali restanti presentavano concentrazioni di creatinina plasmatica stabili (variazioni di meno del 20% con un peso corporeo stabile) in un periodo di almeno 365 giorni (Elliott et al., 2003). In questo studio, sono stati osservati due diversi quadri di pro-

La concentrazione di creatinina plasmatica è un indicatore poco sensibile ed indiretto della velocità di filtrazione glomerulare (GFR, glomerular filtration rate). Questo per due principali ragioni. In primo luogo, la velocità di formazione della creatinina è correlata alla massa muscolare dell’animale, che è variabile (tendendo a ridursi con l’età). Secondariamente, esiste una relazione esponenziale fra creatinina plasmatica e GFR, per cui modificazioni relativamente ampie della GFR (rispetto all’intervallo normale) si riflettono in alterazioni relativamente piccole nella concentrazione della creatinina plasmatica. Le misurazioni seriali di quest’ultima, tuttavia, forniscono informazioni valide nell’ambito di un singolo gatto ed in una popolazione di gatti con valori di creatinina compresi nell’intervallo di riferimento di laboratorio, quelli con livelli di creatinina ai limiti superiori della norma (stadio IIa della classificazione IRIS) hanno maggiori probabilità di diventare iperazotemici di quelli con valori ai limiti inferiori della norma (stadio I della classificazione IRIS) (Jepson 2008). I metodi pratici per misurare la GFR che comportano una strategia di campionamento limitata richiedono un’ulteriore standardizzazione prima di poter essere consigliati per un impiego di routine nella pratica clinica. Un approccio alternativo sarebbe quello di “coreggere” il valore della concentrazione della creatinina plasmatica tenendo conto di massa muscolare, età ed altri fattori non renali che influenzano questo parametro, in modo da riflettere meglio la GFR. 157


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Marker urinari di fibrosi interstiziale e danno tubulare

Per esempio, è stato ipotizzato un ruolo della cauxina come proteina urinaria che riflette la massa dei tubuli funzionanti e si è ipotizzato che la sua escrezione urinaria diminuisca con la perdita dei nefroni funzionanti. La N-acetil-β-D-glucosaminidasi è un enzima rilasciato dalle cellule tubulari quando sono danneggiate o sottoposte a stress. La proteina legante il retinolo è una proteina a basso peso molecolare che viene filtrata liberamente e di norma viene totalmente riassorbita dalle cellule tubulari prossimali, per cui la sua comparsa nell’urina è indicativa di un danno tubulare. Sembra probabile che la misurazione di un quadro proteico urinario consenta di ottenere il maggior numero di informazioni sulla salute renale e sulla probabilità di sviluppo e progressione della CKD nel gatto. Saranno necessari ulteriori lavori in questa area e, se si vogliono ottenere progressi significativi in questo campo, pare auspicabile l’impiego di moderni approcci proteomici per identificare nuovi biomarker specifici per il gatto.

Comprendere i meccanismi coinvolti nella promozione della fibrosi interstiziale e dell’infiammazione nella nefropatia felina è la chiave per individuare nuovi biomarker utili per rilevare precocemente la CKD ed identificare i casi in cui è probabile una rapida progressione, che quindi trarrebbero il maggior beneficio da questi trattamenti. Sono stati fatti alcuni progressi nell’area dei biomarker. Da studi epidemiologici è chiaro che, benché la CKD felina sia prevalentemente una patologia interstiziale, un basso livello di proteinuria è predittivo di tutte le cause di mortalità (Syme et al., 2006). Questo studio non cerca di separare la progressione renale da altre cause di deterioramento della salute e di mortalità. Tuttavia, la proteinuria è anche predittiva di sviluppo di iperazotemia in gatti apparentemente sani di età avanzata (Jepson 2008). La correlazione tra i due casi è lineare, con un aumento della proteinuria associato all’incremento del rischio di morte o sviluppo di iperazotemia. La difficoltà è definire valori soglia clinicamente utili che forniscano validi criteri prognostici. I fattori di rischio per la proteinuria nel gatto con CKD comprendono la pressione arteriosa sistemica e lo stadio della malattia, nonostante il fatto che l’ipertensione di per sé non sembri essere un fattore di rischio indipendente per la mortalità nei gatti con nefropatia cronica (Syme et al., 2006) o con ipertensione (Jepson et al., 2007), né per lo sviluppo dell’iperazotemia in un normale gatto anziano (Jepson, 2008). Queste osservazioni supportano l’ipotesi che la proteinuria in molti casi di CKD sia probabilmente spinta da iperfiltrazione ed aumento della pressione capillare glomerulare. Ciò è causato da vasodilatazione arteriolare afferente, che espone il letto capillare glomerulare alla pressione arteriosa sistemica, e vasocostrizione arteriolare efferente causata da attivazione locale della concentrazione reninaangiotensina-aldosterone, un fenomeno che sembra aumentare con l’incremento della perdita dei nefroni funzionanti. Sia i livelli di proteine totali che l’albumina nell’urina sono marker utilizzati correntemente, che riflettono l’incremento del carico proteico che sfugge al filtro glomerulare e supera la capacità delle cellule tubulari di riassorbire le proteine. Quelle a basso peso molecolare possono essere utilizzate come marker più specifici di disfunzione tubulare (incapacità di riassorbire proteine a basso peso molecolare che normalmente vengono filtrate) o marker di danno tubulare.

Bibliografia Elliott J & Watson ADJ (2008) Chronic kidney disease: staging and management. In: Kirk’s Current Veterinary Therapy XIV. Ed Bonagura JD. WB Saunders & Co, Philadelphia. Chapter 192, pp. 883-892. Elliott J, Syme HM, Markwell PJ. Acid base balance of cats with naturally occurring chronic renal failure: effect of deterioration in renal function. J Small Anim Pract 2003; 44: 261-268. Elliott J, Rawlings JM, Markwell PJ, et al. Survival of cats with naturally occurring renal failure: effect of conventional dietary management. J Small Anim Pract 2000; 41: 235-242 Jepson RE (2008) PhD Thesis, University of London. Jepson RE, Elliott J, Brodbelt D, et al. Evaluation of the effects of control of systolic blood pressure on survival in cats with systemic hypertension. J Vet Intern Med 2007; 3:402-409. Lawler DF, Evans, RH, Chase K et al., The aging feline kidney: a model mortality antagonist? J Feline Med & Surg 2006; 8: 363-371. Ross SJ, Osborne CA, Kirk CA, Lowry, et al. Clinical evaluation of dietary modification for treatment of spontaneous chronic kidney disease in cats. J Am Vet Med Assoc 2006; 229 (6): 949-957 Syme HM, Markwell PJ, Pfeiffer DU, et al. Survival of cats with naturally occurring chronic renal failure is related to severity of proteinuria. J Vet Intern Med 2006; 20(3): 528-35.

Indirizzo per la corrispondenza: Jonathan Elliott The Royal Veterinary College, University of London, Londra (UK)

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How can we recognise kidney disease at an early stage? Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK

INTRODUCTION

identified between 25 and 54% of cats entered into these studies have died of because of CKD (Ross et al., 2006; Elliott et al., 2000) although defining the cause of death is not always easy.

Chronic kidney disease is one of the most common disease syndromes afflicting the aging cat and causes significant morbidity and mortality. Despite much interest and research, the reason(s) for the propensity of the cat to develop CKD have not been revealed. The suggestion has been made that this is a natural aging phenomenon of cats when they are placed in an environment which allows them to live much longer than they would in their wild state (Lawler et al., 2006). Whilst this suggestion is an interesting one, this syndrome is definitely a heterogeneous one and there is no doubt that in some cats their lifespan is curtailed by progressive deterioration in renal function leading to intolerable clinical signs and poor quality of life.

IDENTIFYING FELINE CHRONIC KIDNEY DISEASE AT AN EARLY STAGE Measurement of glomerular filtration rate – the ultimate test of functional renal mass Plasma creatinine concentration is an insensitive and indirect indicator of glomerular filtration rate (GFR). This is for two main reasons. Firstly, the rate of creatinine formation is related to the muscle mass of the animal which varies (tending to decrease with age). Secondly, there is an exponential relationship between plasma creatinine and GFR with relatively large changes in GFR (around the normal range) being reflected in relatively small changes in plasma creatinine concentration. Serial plasma creatinine measurements are, however, informative within an individual cat and in a population of cats with creatinine in the laboratory reference range, those with high end of normal creatinine (IRIS stage IIa) are more likely to become azotaemic than those with low end of normal creatinine (IRIS stage I) (Jepson 2008). Practical methods to measure GFR which involve a limited sampling strategy require further standardisation before they can be recommended for routine use in clinical practice. An alternative approach would be to adjust plasma creatinine concentration to take account of muscle mass, age and other non-renal factors that influence creatinine so that it better reflects GFR.

PREVELANCE OF FELINE CHRONIC KIDNEY DISEASE Good epidemiological data defining the prevalence of CKD in cats are sadly lacking and much of the published data referring to prevalence is anecdotal and not related to a defined population of cats at risk. We recently reported on a prospective clinical study where we recruited healthy cats over the age of 9 years that were normal on physical examination and routine clinical biochemistry testing. These cases were followed for 12 months and of the 98 cats with this length of follow-up, 29 (29.6%) had plasma creatinine concentrations outside of our laboratory reference range and met the diagnostic criteria of having CKD (Jepson 2008). This compared to a prevalence of 9.2% (9/98) of the same group of cats that developed hyperthyroidism over the same period. Thus, there is no doubt CKD is a common condition. How often it progresses to severe and debilitating ‘uraemia’ is another question. This has not been systematically studied very often. In a study of 55 cats recruited from primary care practices in central London 21 cases (38%) showed evidence of progression with the remaining cats having stable plasma creatinine concentrations (changes of less than 20% with stable body weight) over a period of at least 365 days (Elliott et al, 2003). There were two different patterns of progression in this study. Step-wise decrements in renal function (>50% increase in plasma creatinine concentration) in 14 of the cats that progressed whereas linear progression was detected in the remaining 7 cases. Other prospective studies assessing the the effects of diet on survival of cats with CKD have

Urinary markers of interstitial fibrosis and tubular damage Understanding the mechanisms involved in promoting interstitial fibrosis and inflammation in the diseased feline kidney is key to devising new biomarkers for early detection of CKD and identifying those cases that are likely to progress rapidly and therefore would benefit most from such treatments. Some progress is being made in the biomarker area. From epidemiological studies it is clear that although feline CKD has predominantly an interstitial pathology, low level proteinuria is predictive of all cause mortality (Syme et al., 2006). This study did not attempt to separate out renal progression from other causes of deteriorating health and 159


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is freely filtered and normally completely reabsorbed by the proximal tubular cells to its appearance in urine is indicative of tubular damage. It seems likely that measurement of a panel of urinary proteins will provide the most information about renal health and likelihood of the development and progression of CKD in the cat. Further work in this area is warranted and the use of modern proteomic approaches to identify novel biomarkers specific to the cat seems desirable if significant progress is to be made in this area.

mortality. However, proteinuria is also predictive of development of azotaemia in apparently healthy aged cats (Jepson 2008). The relationship in both instances is a linear one with increasing proteinuria being associated with increasing risk of death or development of azotaemia. The challenge is to define clinically useful cut-points which provide robust prognostic criteria. Risk factors for proteinuia in cats with CKD include systemic arterial blood pressure and the stage of the disease although hypertension per se does not appear to be an independent risk factor for mortality in the CKD feline patient (Syme et al., 2006), in the hypertensive feline patient (Jepson et al., 2007) nor for the development of azotaemia in the normal aged feline (Jepson 2008). These observations support the hypothesis that proteinuria in many CKD cases is probably driven by hyperfiltration and raised glomerular capillary pressure. This is caused by afferent arteriolar vasodilation exposing the glomerular capillary bed to systemic arterial blood pressure and efferent arteriolar vasoconstriction, caused by local activation of the renninangiotensin-aldosterone concentration, a phenomenon that appears to increase with increasing loss of functioning nephrons. Both total protein and albumin in the urine are markers currently used, reflecting the increased load of protein escaping across the glomerular filter and exceeding the capacity of tubular cells to reabsorb protein. Low molecular weight proteins can be used as more specific markers of tubular dysfunction (inability to reabsorb low MW proteins that are normally filtered) or markers of tubular damage. For example, cauxin has been suggested as a urinary protein that reflects mass of functioning tubules and it has been hypothesised urinary excretion of this protein decreases with loss of functioning nephrons. N-acetyl-®-D-glucosaminidase is an enzyme released from tubular cells when they are damaged or stressed. Retinol binding protein is a low MW protein that

Rerefences Elliott J & Watson ADJ (2008) Chronic kidney disease: staging and management. In: Kirk’s Current Veterinary Therapy XIV. Ed Bonagura JD. WB Saunders & Co, Philadelphia. Chapter 192, pp. 883-892. Elliott J, Syme HM, Markwell PJ. Acid base balance of cats with naturally occurring chronic renal failure: effect of deterioration in renal function. J Small Anim Pract 2003; 44: 261-268. Elliott J, Rawlings JM, Markwell PJ, et al. Survival of cats with naturally occurring renal failure: effect of conventional dietary management. J Small Anim Pract 2000; 41: 235-242 Jepson RE (2008) PhD Thesis, University of London. Jepson RE, Elliott J, Brodbelt D, et al. Evaluation of the effects of control of systolic blood pressure on survival in cats with systemic hypertension. J Vet Intern Med 2007; 3:402-409. Lawler DF, Evans, RH, Chase K et al., The aging feline kidney: a model mortality antagonist? J Feline Med & Surg 2006; 8: 363-371. Ross SJ, Osborne CA, Kirk CA, Lowry, et al. Clinical evaluation of dietary modification for treatment of spontaneous chronic kidney disease in cats. J Am Vet Med Assoc 2006; 229 (6): 949-957 Syme HM, Markwell PJ, Pfeiffer DU, et al. Survival of cats with naturally occurring chronic renal failure is related to severity of proteinuria. J Vet Intern Med 2006; 20(3): 528-35.

Address for correspondence: Jonathan Elliott The Royal Veterinary College University of London, London UK

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Iperfosfatemia e malattia renale cronica nel gatto Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK

Iperfosfatemia e danno renale progressivo

da questo studio non sia possibile concludere che la restrizione con fosfato sia stata direttamente responsabile delle differenze nella sopravvivenza, molti dei dati pubblicati che coinvolgono studi sperimentali su animali supportano il ruolo della restrizione del fosfato nel rallentamento del danno renale progressivo.

In presenza di una perdita dei nefroni funzionanti la ritenzione di fosfato è inevitabile, se la sua assunzione con la dieta resta stabile. La velocità di escrezione del fosfato dal rene è limitata dalla velocità di filtrazione glomerulare (GFR). I tubuli renali non sono in grado di secernere fosfato e la regolazione della sua escrezione urinaria si manifesta con l’alterazione dell’apporto del carico filtrato che viene riassorbito, un processo che è regolato dall’ormone paratiroideo (PTH), che ha un effetto fosfaturico. Ciò può aumentare la frazione del carico filtrato del fosfato che compare nell’urina fino al 70-80% circa. L’evidenza suggerisce che il sovraccarico di fosfato dell’intero organismo, derivante dall’incapacità di attuarne l’escrezione, è associato ad un danno renale progressivo. L’iperparatiroidismo secondario renale compare come conseguenza della ritenzione di fosfato – una risposta maladattativa che rende l’organismo incapace di effettuare l’escrezione di una maggior quantità di fosfato. Il PTH è in grado di aumentare l’escrezione di fosfato renale solo quando esiste una massa definita di nefroni funzionanti. Una volta che la massa renale è al di sotto del livello critico, aumenti della secrezione di PTH in risposta all’iperfosfatemia esitano soltanto in una mobilizzazione di calcio e fosfato dall’osso e portano a mineralizzazione dei tessuti molli, finendo per determinare un progressivo danno renale mediante nefrocalcinosi. Le concentrazioni di PTH plasmatico sono elevate in molti gatti normofosfatemici con CKD ad insorgenza spontanea (Barber & Elliott, 1998) e l’iperparatiroidismo è evidente prima della comparsa di iperazotemia (osservazioni non pubblicate). Le diete caratterizzate da una restrizione alimentare di fosfato portano ad una riduzione della concentrazione di PTH plasmatico, che può continuare a diminuire per molti mesi in presenza di una restrizione continuativa del fosforo della dieta (Barber et al., 1999b). Nei gatti sottoposti a riduzione chirurgica della massa renale, diminuire l’assunzione di fosfato rallenta il danno progressivo a carico dell’organo (Ross et al., 1982). Uno studio clinico controllato in cui l’obiettivo era il controllo della concentrazione di PTH plasmatico attraverso la restrizione del fosfato della dieta, anche mediante l’uso di chelanti intestinali in caso di necessità (Elliott et al., 2000), dimostrò che il controllo di iperfosfatemia e iperparatiroidismo risultava associato ad un miglioramento della sopravvivenza. Questo studio non era randomizzato e la dieta a ridotto tenore di fosfati venne offerta sin dall’inizio a tutti i gatti presi in esame. Sebbene

Quale valore del fosfato plasmatico si deve cercare di raggiungere con la terapia? Il controllo dell’iperparatiroidismo renale deve essere un protocollo a stadi per adattare il trattamento ad adeguarsi al caso individuale. Il grado di restrizione del fosfato per ottenere un controllo ed una stabilizzazione di ciascun gatto dipenderà dalla gravità della CKD e dalla sua precedente assunzione di fosfato. La procedura a stadi seguita nella nostra clinica è: 1. Valutare la stabilità della CKD sulla diagnosi iniziale prelevando due campioni di plasma (separatamente, a distanza di almeno due settimane) prima di effettuare ogni variazione delle modalità di gestione degli animali. 2. Se il fosfato plasmatico è superiore a 4,5 mg/dl (casi IRIS allo stadio II) o a 5 mg/dl (IRIS stadio III), introdurre un’adeguata dieta per pazienti nefropatici – rivalutare dopo 4-6 settimane. Se la collaborazione da parte dei proprietari è scarsa, addizionare chelanti del fosfato alla dieta standard. 3. Se il fosfato plasmatico resta al di sopra del valore prefissato anche quando il gatto viene alimentato con la dieta terapeutica, addizionare a quest’ultima dei chelanti intestinali del fosfato o, se già impiegati, aumentarne la dose. 4. In tutti i casi sottoposti a restrizione del fosfato, bisogna monitorare la concentrazione plasmatica di calcio – se questa aumenta al di sopra di 3,0 mmol/l, il grado di restrizione del fosfato deve essere ridotto. 5. L’ipofosfatemia (< 2,5 mg/dl) è dannosa e deve essere evitata. I valori bersaglio specifici per il fosfato plasmatico sopra citati non sono basati su un riscontro definitivo, ma sono empirici e si fondano sull’esperienza di trattamento di gatti con CKD negli ultimi 10 anni e sul monitoraggio di ciò che accade al loro fosfato plasmatico (ed alle concentrazioni di PTH) quando vengono sottoposti ad una restrizione del fosfato stesso. Riflettono fortemente le raccomandazioni applicate in medicina umana, per pazienti in stadi predialisi di CKD (K/DOKI 2003). Per il veterinario pratico, l’idrossido di alluminio era il principale chelante del fosfato. Oggi 161


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potrà essere trattato l’iperparatiroidismo in futuro sono potenzialmente rappresentati dallo sviluppo di inibitori dei recettori sensibili al calcio sulla ghiandola paratiroide e/o di agenti mimetici della via della fosfatonina (FGF23 – un altro ormone fosfaturico). Per determinare se questi siano approcci razionali alla gestione dell’iperparatiroidismo renale felino è necessario un ulteriore lavoro per comprendere la fisiologia di base di questi processi nel gatto.

sono stati introdotti calcio e carbonato di lantano, che e possono presentare vantaggi in quanto sono più appetibili per il gatto. In questi animali, il calcio contenente agenti chelanti del fosfato deve essere utilizzato con cautela. In alcuni gatti, già la sola restrizione del fosfato nella dieta può determinare la comparsa di ipercalcemia (Barber et al., 1998) ed è presumibile che l’impiego di chelanti del fosfato contenenti calcio aumenti il rischio di quest’evenienza indesiderabile, anche se ad oggi non si sono ancora condotti studi in questo senso su un gran numero di casi.

Bibliografia Si deve misurare l’ormone paratiroideo? Barber, P.J., Elliott, J. Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in 80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract 1998; 39: 108-116. Barber, PJ, Rawlings, JM, Markwell, PJ & Elliott, J (1998) Hypercalcaemia in naturally occurring feline chronic renal failure. J. Vet. Intern. Med. 1998; 12: 223 (abstract 102). Barber P.J., Rawlings J.M., Markwell P.J. and Elliott J. Effect of dietary phosphate restriction on secondary renal hyperparathyroidism in the cat. J Small Anim Pract, 1999; 40: 62-70. Elliott, J, Rawlings, JM, Markwell, PJ & Barber, PJ Survival of cats with naturally occurring renal failure: effect of conventional dietary management. J Small Anim Pract 2000; 41 235-242. K/DOKI Clinical practice guidelines or bone metabolism and disease in chronic kidney disease. Am. J. Kidney Dis. 2003; 43: [Suppl 3] S1S201. Polzin DJ. Clinical benefit of calcitriol in canine chronic kidney disease. J Vet Int Med 2005;19:122(A). Ross LA, Finco, DR, Crowell, WA Effect of dietary phosphorus restriction on the kidneys of cats with reduced renal mass. Am J Vet Res, 1982; 43: 1023-1026.

La valutazione dell’ormone paratiroideo dovrebbe fornire informazioni aggiuntive nel monitoraggio della risposta alla restrizione del fosfato nei gatti con CKD. La concentrazione di fosfato plasmatico non riflette necessariamente in modo accurato lo status del fosfato stesso nell’intero organismo e il PTH plasmatico può essere elevato malgrado una fosfatemia al di sotto dei valori bersaglio menzionati sopra. Il fosfato intracellulare sembra essere il fattore che guida la secrezione di PTH e che verrà gradualmente depleto se quello plasmatico viene mantenuto persistentemente al di sotto di 4,5 mg/dl. La misurazione del PTH nella pratica clinica è problematica poiché esistono relativamente pochi laboratori che offrono questo esame e l’ormone è instabile nel plasma; i campioni quindi devono essere effettivamente portati al laboratorio in stato di congelamento. Teoricamente, se il PTH plasmatico non fosse controllato dalla sola restrizione con fosfato, si potrebbe utilizzare la terapia con basse dosi di calcitriolo per inibire sintesi e secrezione di PTH. Questo approccio richiede la misurazione del PTH per determinare se sia necessaria e se ci sia una risposta al trattamento e viene impedito dalla mancanza di formulazioni appropriate di calcitriolo adatte all’impiego nei gatti. I metodi con i quali

Indirizzo per la corrispondenza: Jonathan Elliott The Royal Veterinary College, University of London, Londra (UK)

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Hyperphosphataemia and feline chronic kidney disease? Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK

Hyperphosphataemia and progressive renal injury

What target value of plasma phosphate should be achieved with therapy?

With loss of functioning nephrons, retention of phosphate is inevitable if dietary phosphate intake remains stable. The rate of phosphate excretion by the kidney is limited by the glomerular filtration rate (GFR). Renal tubules are unable to secrete phosphate and regulation of urinary phosphate excretion occurs by altering the amount of the filtered load which is reabsorbed, a process which is regulated by parathyroid hormone (PTH), which has a phosphaturic effect. This can increase the fraction of the filtered load of phosphate appearing in the urine to about 70 or 80%. Evidence suggests that whole body overload with phosphate, resulting from inability to excrete phosphate, is associated with progressive renal injury. Secondary renal hyperparathyroidism occurs as a result of phosphate retention - a mal-adaptive response to enable the body to excrete more phosphate. PTH is only able to increase renal phosphate excretion when there is a finite mass of functioning nephrons. Once renal mass is below a critical level, increases in PTH secretion in response to hyperphosphataemia merely result in mobilizing calcium and phosphate from bone and leading to soft tissue mineralization, leading to progressive renal injury through nephrocalcinosis. Plasma PTH concentrations are elevated in many normophosphataemic cats with naturally occurring CKD (Barber & Elliott 1998) and hyperparathyroidism is evident before the onset of azotaemia (unpublished observations). Feeding phosphate restricted diets results in reduced plasma PTH concentration which may continue to fall for many months with continued dietary phosphate restriction (Barber et al., 1999b). Reducing phosphate intake slows progressive renal injury in cats with surgically reduced renal mass (Ross et al., 1982). A prospective controlled clinical study where the goal was to control plasma PTH concentration by dietary phosphate restriction, including the use of intestinal phosphate binders if necessary (Elliott et al., 2000), showed control of hyperphosphataemia and hyperparathyroidism was associated with improved survival. This study was not randomized and all cats were offered a phosphate-restricted diet at entry. Although it is not possible to conclude from this study that phosphate restriction was directly responsible for the difference in survival, much of the published data involving experimental animal studies would support the role of phosphate restriction in slowing progressive renal injury.

The control of renal hyperparathyroidism should be a staged procedure to tailor treatment to suit the individual case. The degree of phosphate restriction to achieve control and stabilization of each cat will depend on the severity of CKD and their prior phosphate intake. The staged procedure followed in our clinic is: 1. Assess the stability of CKD on initial diagnosis by taking two plasma samples (separated by at least 2 weeks) before any change in management is made. 2. If plasma phosphate is above 4.5 mg/dl (IRIS stage II cases) or 5 mg/dl (IRIS stage III), introduce a suitable clinical renal diet - reassess after 4 to 6 weeks. If compliance is poor, add phosphate binders to standard diet. 3. If plasma phosphate remains above the target when the cats is consuming a clinical diet, add intestinal phosphate binders to clinical diet or increase dose of phosphate binder. 4. In all cases undergoing phosphate restriction, plasma calcium concentration must be monitored - if plasma calcium concentration increases above 3.0 mmol/l, the degree of phosphate restriction should be reduced. 5. Hypophosphataemia (<2.5 mg/dl) is determental and should be avoided. The precise target figures for plasma phosphate mentioned above are not based on definitive evidence but are empirical and based on experience of treating cats with CKD over the last 10 years and monitoring closely what happens to their plasma phosphate (and PTH concentrations) when subjected to phosphate restriction. They mirror closely the recommendations in human medicine, for patients in the pre-dialysis stages of CKD (K/DOKI 2003). Aluminium hydroxide was the mainstay of phosphate binders for veterinary practice. Calcium and lanthanum carbonate have now been introduced and may have advantages in that they are more palatable to cats. The calcium containing phosphate binding agents should be used with caution in cats. Hypercalcaemia occurs in some cats when subjected to dietary phosphate restriction alone (Barber et al., 1998) and presumably, the use of calcium containing phosphate binders would increase the risk of this undesirable occurrence although this has not been studied in a large number of cases to date. 163


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mine whether these are rational approaches to the management of feline secondary renal hyperparathyroidism.

Should you measure parathyroid hormone? Measurement of parathyroid hormone would provide additional information in monitoring the response to phosphate restriction in cats with CKD. Plasma phosphate concentration does not necessarily accurately reflect the whole body phosphate status and plasma PTH can be elevated despite a plasma phosphate concentration below the targets mentioned above. Intracellular phosphate seems to be the factor that drives PTH secretion and this will gradually be depleted if plasma phosphate is maintained below 4.5 mg/dl persistently. Measurement of PTH from clinical practice is problematic as there are relatively few laboratories offering this assay and PTH is unstable in plasma so samples really should be delivered to the laboratory in a frozen state. Theoretically, if plasma PTH could not be controlled by phosphate restriction alone, low dose calcitriol therapy could be used to inhibit PTH synthesis and secretion. This approach requires measurement of PTH to determine the need for and response to treatment and is hampered by lack of appropriate formulations of calcitriol that are suitable for administration to cats. Future development of inhibitors of calcium sensing receptors on the parathyroid gland and/or mimetics of the phosphotonin pathway (FGF23 – another phosphaturic hormone) are potentially future methods by which hyperparathyroidism may be treated. Further work to understand the basic physiology of these pathways in the cat is warranted to deter-

References Barber, P.J., Elliott, J. Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in 80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract 1998; 39: 108-116. Barber, PJ, Rawlings, JM, Markwell, PJ & Elliott, J (1998) Hypercalcaemia in naturally occurring feline chronic renal failure. J. Vet. Intern. Med. 1998; 12: 223 (abstract 102). Barber P.J., Rawlings J.M., Markwell P.J. and Elliott J. Effect of dietary phosphate restriction on secondary renal hyperparathyroidism in the cat. J Small Anim Pract, 1999; 40: 62-70. Elliott, J, Rawlings, JM, Markwell, PJ & Barber, PJ Survival of cats with naturally occurring renal failure: effect of conventional dietary management. J Small Anim Pract 2000; 41 235-242. K/DOKI Clinical practice guidelines or bone metabolism and disease in chronic kidney disease. Am. J. Kidney Dis. 2003; 43: [Suppl 3] S1S201. Polzin DJ. Clinical benefit of calcitriol in canine chronic kidney disease. J Vet Int Med 2005;19:122(A). Ross LA, Finco, DR, Crowell, WA Effect of dietary phosphorus restriction on the kidneys of cats with reduced renal mass. Am J Vet Res, 1982; 43: 1023-1026.

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Ipertensione felina: un aggiornamento Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK

INTRODUZIONE

valori compresi fra 130 e 170 mm Hg, quasi indipendentemente dai valori di SABP prima del trattamento.

L’ipertensione arteriosa sistemica viene sempre più riconosciuta come un problema importante nel gatto che invecchia. In medicina umana, è ritenuta un fattore di rischio indipendente per la progressione della nefropatia (Klag et al. 1996) e per l’ipertrofia ventricolare sinistra, l’ictus ed altri eventi cardiovascolari. Nei gatti con malattia renale cronica l’ipertensione è un fattore di rischio per proteinuria, presumibilmente dovuta a incapacità del rene malato di autoregolarsi, portando alla trasmissione ai capillari glomerulari di una pressione sistemica aumentata. Inoltre, poiché i gatti vengono comunemente portati alla visita a causa di problemi riferibili ad un danno oculare e del SNC, riconoscere e trattare efficacemente l’ipertensione felina prima che si verifichi un danno finale irreversibile dell’organo deve essere uno degli obiettivi della pratica clinica.

Protocollo di trattamento standard con amlodipina Il nostro approccio, dopo aver diagnosticato un’ipertensione, prevede di iniziare con una somministrazione di 0,625 mg di amlodipina una volta al giorno e ricontrollare il caso dopo 7-14 giorni per valutare la risposta al trattamento. Nei gatti che mostrano segni di insorgenza acuta di problemi neurologici o cecità causata da distacco retinico, può essere consigliabile monitorare quotidianamente la SABP, per valutare più attentamente la risposta. Nei casi di routine, se dopo 7-14 giorni la pressione sistolica è ancora al di sopra di 160 mm Hg, aumentiamo la dose di amlodipina a 1,25 mg e rivalutiamo dopo altri 7-14 giorni. La maggior parte dei casi risponderà a questo trattamento e la SABP misurata 24 ore dopo l’ultima somministrazione sarà tra 130 e 160 mm Hg. L’ipotensione è un problema raro, ma potenzialmente in grado di insorgere in seguito a questo protocollo di dosaggio per l’amlodipina. La SABP al di sotto di 110 mm Hg dovrebbe essere un motivo di preoccupazione ed un’indicazione per ridurre la dose. La nostra pratica di routine prevede il monitoraggio di questi casi ogni 6 settimane, una volta che sono stabili nel trattamento. Nel gatto, i dati pubblicati sugli effetti a lungo termine del trattamento con amlodipina sono relativamente scarsi. Sembra che il controllo della SABP con amlodipina fino a portarla al di sotto di 160 mm Hg svolga un’azione protettiva nei confronti del danno oculare e del SNC, ed in questi casi la nostra impressione clinica è che ciò migliori la qualità della vita. Resta da dimostrare in modo definitivo se questo trattamento da solo sia sufficiente a far regredire l’ipertrofia ventricolare sinistra che accompagna l’ipertensione felina, anche i risultati pubblicati suggeriscono una sua regressione (Snyder et al., 2001).

TRATTAMENTO DELL’IPERTENSIONE SISTEMICA Gli obiettivi della gestione dell’ipertensione sono: 1. proteggere gli organi bersaglio, come il cervello e l’occhio, da potenziali danni catastrofici; 2. far regredire l’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica che accompagna l’ipertensione cronica; 3. proteggere i nefroni funzionanti restanti nel rene, abbassando la pressione capillare glomerulare e riducendo la gravità della proteinuria. Anche se sulla base dell’osservazione clinica sembra ovvio raggiungere come primo obiettivo un determinato valore di pressione sistolica, non è ancora stato studiato quale sia tale valore per prevenire il danno glomerulare e tubulare derivante da un’ipertensione sistemica. È difficile separare l’ipertensione come fattore eziologico di un danno renale progressivo da molti altri fattori che sono stati implicati in questo fenomeno. Di fronte ad un gatto con grave ipertensione e segni clinici iniziali di danno oculare, la riduzione della pressione arteriosa a circa 160 mm Hg sembra svolgere un ruolo protettivo e prevenire ulteriori danni oftalmici o del SNC (Elliott et al., 2001). Nel gatto, il farmaco che si è dimostrato capace di raggiungere efficacemente questo obiettivo è l’amlodipina. La risposta comunemente riscontrata con la somministrazione di 0,625 o 1,25 mg di questo farmaco una volta al giorno è una caduta della pressione arteriosa sistolica (SABP, systolic arterial blood pressure) a

Presupposti per l’uso concomitante di ACE-inibitori Anche gli effetti nefroprotettivi della monoterapia con amlodipina restano incerti. I dati dei nostri studi personali suggeriscono che la sopravvivenza dei gatti trattati con questo farmaco sia determinata dal loro rapporto proteine:creatinina nell’urina (UPC) pre- e post-trattamento (Jepson et al., 2007). Empiricamente, mantenere l’UPC al di sotto di 0,4 è un obiettivo terapeutico logico. Quando si interpretano i valori di UPC, è importante assicurarsi che gli animali non 165


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sione ematica di per sé. Sembra che gli effetti della pressione sanguigna sulla sopravvivenza siano mediati dall’aumento dell’escrezione di proteine e che l’UPC post-trattamento sia predittiva di sopravvivenza, mentre i valori pressori posttrattamento influenzino la sopravvivenza soprattutto mediante i loro effetti sull’UPC.

siano colpiti da un’infiammazione del tratto urinario. L’uso di una monoterapia può costituire un trattamento subottimale, poiché la riduzione della pressione ematica con un calciobloccante può anche comportare l’attivazione del sistema renina-angiotensina, generando mediatori profibrotici (angiotensina II e aldosterone). Avrebbe senso abbinare abitualmente la terapia con amlodipina ad una con un ACE-inibitore, ma quando questi farmaci vengono somministrati utilizzando compresse separate la collaborazione da parte del proprietario per il rispetto delle prescrizioni può costituire un problema. Quindi, il nostro protocollo standard consiste nel riservare la terapia con più farmaci ai gatti che restano ipertesi nonostante il trattamento con amlodipina (1,25 mg al giorno) ed agli animali ipertesi con UPC > 0,4 dopo un trattamento con amlodipina. Il benazepril, che in Europa è un farmaco autorizzato per l’impiego nel gatto ad un valore di dosaggio di 0,5-1 mg/kg una volta al giorno, si è dimostrato capace di abbassare la pressione capillare glomerulare nei felini sottoposti sperimentalmente ad una riduzione della massa renale (Brown et al., 2001). La diminuzione della SABP in questi animali risultò moderata (10-20 mm Hg). L’esperienza clinica suggerirebbe che nei gatti gravemente ipertesi gli ACEinibitori da soli siano inadeguati a controllare la SABP mantenendola ad un livello protettivo per gli occhi ed il cervello. Tuttavia, in combinazione con l’amlodipina nel trattamento del gatto iperteso refrattario o in quello che resta proteinurico dopo trattamento con amlodipina, l’impiego di ACE-inibitori è logico. Dato che questi due farmaci hanno differenti modalità d’azione antiipertensiva, è possibile che possa comparire una risposta sinergica che esita in un’ipotensione significativa. Secondo quanto suggerito da osservazioni preliminari nella nostra clinica, una risposta di questo tipo sembrerebbe essere rara. Tuttavia, dopo l’introduzione degli ACE-inibitori sarebbe consigliabile un attento monitoraggio sia della SABP che della creatinina plasmatica. Una riduzione del UPC sarebbe una risposta auspicabile all’introduzione di un ACE-inibitore nel protocollo di trattamento.

Cosa si può imparare dalla medicina umana? In medicina umana, sono disponibili molti più dati relativi agli effetti a lungo termine del controllo della SABP sulla progressione della nefropatia. Il valore desiderato di SABP in un paziente umano con CKD dipende dalla gravità della perdita renale di proteine (Peterson et al., 1995). Per i soggetti con gradi più elevati di proteinuria vengono fissati come traguardo dei valori più bassi. Questo approccio è giustificato dal riscontro che la velocità della perdita progressiva della funzione renale è rallentata più efficacemente abbassando ulteriormente la pressione sanguigna in presenza di una marcata proteinuria. Un approccio sofisticato come questo alla gestione dell’ipertensione renale felina richiede una quantità notevolmente maggiore di dati provenienti da studi controllati. Per dare una risposta a queste domande in medicina felina sono necessarie ulteriori ricerche.

Bibliografia Brown, S.A., Brown, C.A., Jacobs, G., Stiles, J., Hendi, R.S., Wilson, S. Effects of the angiotensin converting enzyme inhibitor benazepril in cats with induced renal insufficiency. Am J Vet Res, 2001; 62: 375383. Elliott, J., Barber, P.J., Syme, H.M., Rawlings, J.M., Markwell, P.J. Feline hypertension: clinical findings and response to antihypertensive therapy in 30 cases. J Small Anim Pract, 2001; 42: 122-129. Jepson RE, Elliott J, Brodbelt D, et al. Evaluation of the effects of control of systolic blood pressure on survival in cats with systemic hypertension. J Vet Intern Med 2007; 3:402-409. Klag, M.J., Whelton, P.K., Randall, B.L., et al., Blood pressure and endstage renal disease in men. New Engl J Med, 1996; 334: 13-18. Peterson, J.C., Alder, S., Burkart, J.M., et al., Blood pressure control, proteinuria, and the progression of renal disease. The modification of diet in renal disease study. Annals Int Med, 1995; 123: 754-762. Snyder, P.S., Sadek, D., Jones, G.L. Effect of amlodipine on echocardiographic variables in cats with hypertension. J Vet Int Med, 2001; 15: 52-56.

Il caso della monoterapia con benazepril Ad oggi, non trattiamo con amlodipina gatti con SBP < 170 mmHg in assenza di lesioni oculari o altri segni clinici di danno degli organi terminali derivante da ipertensione. I gatti con CKD che sono classificati in categorie di rischio di danno degli organi terminali da basso a moderato (SBP compresa fra 150 e 170 mm Hg) sono trattati con benazepril (0,5-1,0 mg/kg una volta al giorno). La decisione se iniziare o meno la terapia è attualmente basata sul grado di proteinuria (UPC > 0,4) piuttosto che sulla misurazione della pres-

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Feline hypertension - an update Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK

INTRODUCTION

Standard treatment protocol with amlodipine

Systemic arterial hypertension has been increasingly recognized as an important problem of the aging cat. In human medicine, hypertension is recognized as an independent risk factor for progression of renal disease (Klag et al., 1996) and for left ventricular hypertrophy, stroke and other cardiovascular events. Hypertension in cats with chronic kidney disease is a risk factor for proteinuria, presumably due to the inability of the diseased kidney to autoregulate leading to the transmission of raised systemic arterial pressure to the glomerular capillaries. In addition, presenting problems relating to ocular and CNS damage are common in feline practice, hence recognition and effective treatment prior to irreversible end organ damage must be a goal in veterinary practice.

Our approach, having diagnosed hypertension, would be to start the cat on 0.625 mg amlodipine once daily and to recheck the case in 7 to 14 days to assess response to treatment. In cats showing signs of acute onset of neurological problems or blindness due to retinal detachment, it may be advisable to monitor the SABP daily to assess the response more closely. In routine cases, if after 7 to 14 days the systolic blood pressure is still above 160 mm Hg, we increase the amlodipine dose to 1.25 mg and re-assess in 7 to 14 days. Most cases will respond to this treatment and SABP measured 24 hours after the last dose will be between 130 and 160 mmHg. Hypotension is a rare but potential problem following this dosing regimen for amlodipine. SABP below 110 mmHg would be a concern and an indication for reducing the dose. Our routine practice is to monitor these cases every 6 weeks once they are stable on treatment. In the cat, published data on the long-term effects of amlodipine treatment are relatively sparse. It seems to be the case that control of SABP below 160 mm Hg with amlodipine protects against ocular and CNS damage and clinically our impression is that this improves the quality of life of these cases. Whether this treatment alone is sufficient to reverse the left ventricular hypertrophy that accompanies feline hypertension remains to be definitively demonstrated, although published results do suggest left ventricular hypertrophy does regress (Snyder et al., 2001).

TREATMENT OF SYSTEMIC ARTERIAL HYPERTENSION The goals in managing hypertension are: 1. to protect target organs, such as the brain and the eye from potentially catastrophic damage 2. to reverse the concentric left ventricular hypertrophy that accompanies chronic hypertension 3. to protect the remaining functioning nephrons in the kidney, lowering glomerular capillary pressure and decreasing the severity of proteinuria. Whilst the target systolic blood pressure to achieve the first goal seems obvious from clinical observation, the target blood pressure to prevent glomerular and tubular damage resulting from systemic hypertension has not been studied. It is difficult to separate hypertension as a factor causing progressive renal injury from the many other factors that have been implicated in this phenomenon. When faced with a cat with severe hypertension and the early signs of ocular damage, reducing the systolic arterial blood pressure to around 160 mm Hg seems to be protective and prevents further ocular or CNS damage (Elliott et al., 2001). The drug that has been proven to reliably achieve this aim in the cat is amlodipine. The usual response seen to the administration of 0.625 or 1.25 mg of this drug once daily is a fall in systolic arterial blood pressure (SABP) to between 130 and 170 mm Hg, almost regardless of the SABP prior to treatment.

The rationale for concomitant use of ACE inhibitors The renoprotective effects of monotherapy with amlodipine also remain uncertain. Data from our own studies suggests that survival of cats we treat with amlodipine is determined both by their pre- and post-treatment urine protein to creatinine ratio (UPC) (Jepson et al., 2007). Empirically, maintaining a UPC below 0.4 is a logical treatment goal. It is important to ensure animals are free from inflammatory disease of the urinary tract when interpreting UPCs. Use of monotherapy may provide sub-optimal management since reduction of blood pressure with a calcium channel blocker may well lead to activation of the renin-angiotensin system, generating pro-fibrotic mediators (angiotensin II and aldosterone). Routinely combining amlodipine therapy with an ACE inhibitor would make sense but compliance is an issue when these drugs have to be given as separate tablets. 167


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Thus, our standard protocol is to reserve multiple drug therapy for cats which remain hypertensive despite amlodipine treatment (1.25 mg daily), and for those hypertensive animals with UPCs >0.4 following amlodipine treatment. Benazepril, a drug that is authorized in Europe for cats at a dose rate of 0.5 to 1 mg/kg once daily, has been shown to lower glomerular capillary pressure in experimental cats with reduced renal mass (Brown et al., 2001). The decrease in SABP in these animals was moderate (10 to 20 mmHg). Clinical experience would suggest that ACE inhibitors alone in severely hypertensive cats are inadequate to control SABP to a level that is protective of the eyes and brain. However, in combination with amlodipine in the management of the refractory hypertensive cat or in the hypertensive cat that remains proteinuric following amlodipine treatment, the use of ACE inhibitors is logical. As these two drugs have different modes of antihypertensive action, there is a possibility that a synergistc response might occur resulting in significant hypotension. Preliminary observations in our clinic would suggest that such a response, seems to be rare. However, close monitoring of both SABP and plasma creatinine would be advisable following the introduction of the ACE inhibitor. A reduction in the UPC would be a desirable response following the introduction of an ACE inhibitor to the treatment regimen.

What can we learn from human medicine? In human medicine, many more data are available concerning the long-term effects of SABP control on progression of renal disease. The target SABP of a hypertensive human CKD patient depends on the severity of renal protein loss (Peterson et al., 1995). Lower targets are set for patients with higher degrees of proteinuria. This approach is justified by the evidence that rate of progressive loss of renal function is slowed more effectively by lowering blood pressure further in the face of marked proteinuria. Such a sophisticated approach to the management of feline renal hypertension requires a great deal more data from controlled prospective studies. Further prospective studies are necessary addressing these questions in feline medicine.

References Brown, S.A., Brown, C.A., Jacobs, G., Stiles, J., Hendi, R.S., Wilson, S. Effects of the angiotensin converting enzyme inhibitor benazepril in cats with induced renal insufficiency. Am J Vet Res, 2001; 62: 375383. Elliott, J., Barber, P.J., Syme, H.M., Rawlings, J.M., Markwell, P.J. Feline hypertension: clinical findings and response to antihypertensive therapy in 30 cases. J Small Anim Pract, 2001; 42: 122-129. Jepson RE, Elliott J, Brodbelt D, et al. Evaluation of the effects of control of systolic blood pressure on survival in cats with systemic hypertension. J Vet Intern Med 2007; 3:402-409. Klag, M.J., Whelton, P.K., Randall, B.L., et al., Blood pressure and endstage renal disease in men. New Engl J Med, 1996; 334: 13-18. Peterson, J.C., Alder, S., Burkart, J.M., et al., Blood pressure control, proteinuria, and the progression of renal disease. The modification of diet in renal disease study. Annals Int Med, 1995; 123: 754-762. Snyder, P.S., Sadek, D., Jones, G.L. Effect of amlodipine on echocardiographic variables in cats with hypertension. J Vet Int Med, 2001; 15: 52-56.

The case for monotherapy with benazepril At the present time we do not treat cats with SBP <170 with amlodipine in the absence of ocular lesions or other signs of end organ damage resulting from hypertension. In cats with CKD which are categorised at low to moderate risk of end organ damage (SBP 150 to 170 mmHg) are treated with benazepril (0.5 to 1.0 mg/kg once daily). The decision as to whether to start treatment is currently based on the degree of proteinuria (UPC ?0.4) rather than on the blood pressure measurement per se. It seems that the effects of blood pressure on survival are mediated through increasing protein excretion and that post-treatment UPC is predictive of survival whereas post-treatment blood pressure influences survival mainly through its effects on UPC.

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Proteinuria e lesioni renali progressive: non si verificano nel gatto? Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK

INTRODUZIONE

PROGRESSIONE DELLA MALATTIA AD INSORGENZA SPONTANEA NEL GATTO

La malattia renale che porta a deficit ed insufficienza dell’organo è un riscontro estremamente comune nei gatti anziani. Mancano validi studi epidemiologici per determinare la vera prevalenza della nefropatia cronica (CKD, chronic kidney disease), ma le stime suggeriscono che 1 gatto sopra i 12 anni di età su 3 presenti qualche forma di insufficienza renale. Abbiamo recentemente riportato uno studio clinico nel corso del quale sono stati presi in considerazione gatti sani di oltre 9 anni di età, che risultavano normali all’esame clinico ed ai test biochimici di routine. Questi casi vennero seguiti per 12 mesi e in 29 dei 98 gatti sottoposti a questo periodo di follow-up (pari al 29,6%) sono state riscontrate concentrazioni di creatinina plasmatica al di fuori dei limiti di riferimento del nostro laboratorio e corrispondenti ai criteri diagnostici di una CKD (Jepson, 2008). Secondo le nostre stime, per raggiungere questo stadio di deficit (capacità di concentrazione delle urine non iperazotemica, ma inadeguata; stadio I della classificazione IRIS) o insufficienza lieve (lievemente iperazotemica; concentrazione della creatinina plasmatica compresa fra 140 e 250 µmol/l; stadio II della classificazione IRIS) si deve essere verificata una perdita del 66-75% dei 400.000 nefroni funzionanti. Secondo l’ipotesi del nefrone intatto (Brenner et al., 1982) si potrebbe prevedere che un maladattamento intrarenale alla perdita di questo numero di nefroni funzionali porterebbe ad ipertrofia glomerulare, iperfiltrazione, ipertensione capillare glomerulare, proteinuria e danno renale progressivo, in assenza di un trauma continuato derivante dai processi patologici primari.

La presentazione alla visita di una grave CKD “in fase terminale” nel gatto non è inusuale nella pratica clinica, suggerendo la comparsa di un danno renale progressivo. Tuttavia, i quadri della progressione sono altamente variabili. Alcuni gatti restano per anni in uno stato lievemente iperazotemico “compensato” della CKD e muoiono di un’altra malattia più che di nefropatia cronica progressiva. Altri animali restano in una condizione di CKD compensata stabile per un certo periodo e poi manifestano un peggioramento apparentemente improvviso, secondo un andamento “per tappe”, fino a sviluppare una crisi uremica, che suggerisce una recidiva di un processo patologico estrinseco responsabile di una perdita dei nefroni funzionali restanti. Tuttavia, esiste un sottogruppo di gatti in cui si ha una perdita graduale e progressiva dei nefroni funzionanti, per cui si osserva la cosiddetta progressione lineare della CKD. In uno studio longitudinale su 55 gatti con CKD ad insorgenza spontanea, il 60% non mostrò alcuna evidenza della progressione, il 25% una progressione per tappe e il 15% una progressione lineare (Elliott et al., 2003). Parte dell’incapacità di individuare un danno renale progressivo intrinseco può derivare dal fatto di basarsi su misurazioni seriali della concentrazione della creatinina plasmatica più che su rilievi ripetuti della GFR per individuare la progressione funzionale.

RUOLO DELLA PROTEINURIA NEL DANNO RENALE PROGRESSIVO

STUDI SPERIMENTALI NEL GATTO

Nei pazienti umani con CKD ad insorgenza spontanea, la proteinuria è un fattore di rischio indipendente per la perdita progressiva della funzione renale. Questo è stato meglio documentato nei pazienti diabetici in cui gli interventi volti a ridurre la perdita di proteine dell’urina rallentano efficacemente la progressione della nefropatia diabetica, una delle indicazioni principali per il trapianto renale. Ulteriori studi hanno documentato un effetto benefico del controllo della pressione arteriosa media (MABP, mean arterial blood pressure) sino a portarla a livelli più bassi di quelli dei valori che in precedenza si consigliava di raggiungere nei pazienti con CKD. Nel rallentamento del declino della GFR mediante la riduzione della MABP sino a raggiungere nuovi livelli più bassi, il beneficio aggiuntivo ottenuto è tanto maggiore quanto più è elevato il grado di proteinuria.

L’ipotesi del nefrone intatto è stata fondata su ratti nefrectomizzati sperimentalmente, in cui il danno renale progressivo è prevedibile e rapido. La situazione sembra essere differente per i gatti, in cui il processo è lento, per cui le diminuzioni della velocità di filtrazione glomerulare (GFR, glomerular filtration rate) non sono rilevabili nei gatti parzialmente nefrectomizzati fino a 12 mesi dopo la riduzione della massa renale. Ciò nonostante, gatti sottoposti ad indagini sperimentali hanno presentato iperfiltrazione glomerulare, ipertensione capillare glomerulare e aumentata perdita delle proteine urinarie (Brown & Brown, 1995). Inoltre, nel modello di rene residuo si osservano lesioni istopatologiche compatibili con un danno renale progressivo. 169


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2006). Questa ricerca dimostrò una correlazione inversa fra il rapporto iniziale dell’UPC e il tempo di sopravvivenza nel gruppo placebo.

Oggi si considera che questa perdita di proteine attraverso il glomerulo possa scatenare una sequenza di eventi che portano a danno tubulointerstiziale (Remuzzi & Bertani, 1998). Se il carico filtrato delle proteine travolge i meccanismi di riassorbimento del tubulo prossimale, si ha l’attivazione delle cascate dell’infiammazione, con conseguente danno tubulare e infiammazione e fibrosi interstiziali. Al momento, si stanno svelando i meccanismi cellulari e subcellulari coinvolti in questi processi. Ciò nonostante, questa risposta alla proteinuria può essere ridotta da trattamenti farmacologici che inibiscono la perdita di proteine glomerulari.

TRATTAMENTO DEI GATTI CON FARMACI AD EFFETTO ANTI-PROTEINURICO SULLA SOPRAVVIVENZA Sulla base di quanto illustrato più sopra, sembrano esistere ragionevoli prove del fatto che una lieve proteinuria sia predittiva di una riduzione del tempo di sopravvivenza nei gatti con CKD. Parrebbe logico che una riduzione della proteinuria possa essere protettiva nei confronti di un danno renale progressivo, anche quando la proteinuria sia molto lieve. Ad oggi, non sono stati prodotti dati definitivi per supportare questa assunzione. Gli inibitori dell’enzima angiotensina convertente sono risultati in grado di diminuire la pressione capillare glomerulare nei gatti sottoposti a riduzione chirurgica della massa renale [Brown et al., 2001]. Lo studio BENRIC ha dimostrato che il benazepril, ad una velocità di somministrazione di 0,5-1,0 mg/kg, riduceva il rapporto UPC in tutti i gatti trattati con il farmaco attivo, qualunque fosse il valore iniziale del loro rapporto UPC al momento dell’inserimento nello studio. Ciò nonostante, nel corso di questa indagine non è stato osservato alcun ulteriore effetto significativo del trattamento con benazepril sulla sopravvivenza [King et al., 2006]. Quindi, si deve prendere in considerazione la possibilità che la proteinuria sia un marcatore della CKD progressiva, più che una causa.

FATTORI DI RISCHIO PER LA PROTEINURIA IN GATTI CON NEFROPATIA Nelle pratica clinica, molti gatti con CKD stabile che si trovano allo stadio II o III della IRIS (creatinina sierica 140440 µmol/l), saranno non proteinurici (rapporto proteine/creatinina nell’urina [UPC] < 0,2) o ai limiti della proteinuria (rapporto UPC 0,2-0,4), mentre la minoranza è proteinurica (UPC > 0,4). I fattori di rischio per la proteinuria comprendono la concentrazione della creatinina sierica (più elevata è la creatinina più è probabile che il gatto sia proteinurico) e la pressione arteriosa sistemica (più è elevata, più è probabile che il gatto sia proteinurico) [Syme et al., 2006]. Inoltre, la proteinuria, valutata mediante UPC, peggiora con le riduzioni della funzionalità renale che si verificano nel tempo, anche se non è stata trovata alcuna prova di un peggioramento della proteinuria che preceda il deterioramento della funzione renale. Tuttavia, l’interpretazione delle alterazioni della UPC in relazione alla perdita di nefroni funzionali è complessa, poiché la tendenza ad aumentare della perdita di proteine sarà compensata dalla riduzione del numero dei nefroni. Infine, la proteinuria preannuncia anche lo sviluppo di iperazotemia in gatti anziani apparentemente sani (Jepson, 2008).

Bibliografia Brenner, BM, Meyer TW, Hostetter TH. Dietary protein intake and the progressive nature of kidney disease. N Engl J Med 1982; 307: 652-659. Brown, S.A., Brown, C.A. (1995) Single-nephron adaptations to partial renal ablation in cats. Amercian Journal of Physiology, 269: R1002R1008. Brown SA, Brown CA, Jacobs G, et al. Effects of the angiotensin converting enzyme inhibitor benazepril in cats with induced renal insufficiency. Am J Vet Res 2001; 62: 375-383. Elliott J, Syme HM, Markwell PJ. Acid base balance of cats with naturally occurring chronic renal failure: effect of deterioration in renal function. J Small Anim Pract 2003; 44: 261-268. King JN, Gunn-Moore DA, Tasker S et al., Tolerability and efficacy of benazepril in cats with chronic kidney disease. J Vet Intern Med. 2006;20(5):1054-64. Remuzzi G, Bertani T. Pathophysiology of progressive nephropathies. N Engl J Med, 1982; 307 (11): 652-659. Syme HM, Markwell PJ, Pfeiffer DU, et al. Survival of cats with naturally occurring chronic renal failure is related to severity of proteinuria. J Vet Intern Med 2006; 20(3): 528-35.

INFLUENZA DELLA PROTEINURIA SULLA SOPRAVVIVENZA DI GATTI CON NEFROPATIA Due studi sulla CKD ad insorgenza spontanea nel gatto hanno dimostrato che la proteinuria è un indicatore predittivo di sopravvivenza a lungo termine [Syme et al., 2006; King et al., 2006]. Nel primo studio, che coinvolgeva 117 gatti, venne dimostrato che l’UPC era un fattore predittivo indipendente di sopravvivenza, quando era valutato mediante un’analisi di regressione logistica multivariata, in combinazione con l’età e la concentrazione della creatinina sierica [Syme et al., 2006]. Questo studio utilizzò la mortalità da qualsiasi causa come punto terminale, che venne raggiunto dal 47% dei gatti compresi nella ricerca. Il secondo studio era una prova clinica controllata e randomizzata che coinvolse 193 gatti, raccolti per esaminare l’effetto del benazepril sulla progressione della CKD (King et al.,

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Proteinuria and progressive renal injury does it occur in the cat? Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK

INTRODUCTION

PROGRESSION OF NATURALLY OCCURRING RENAL DISEASE IN CATS

Renal disease leading to renal insufficiency and failure is an extremely common finding in ageing cats. Good epidemiological studies are lacking to determine the true prevalence of chronic kidney disease (CKD) but estimates suggest 1 in 3 cats over the age of 12 have some form of renal insufficiency. We recently reported on a prospective clinical study where we recruited healthy cats over the age of 9 years that were normal on physical examination and routine clinical biochemistry testing. These cases were followed for 12 months and of the 98 cats with this length of follow-up, 29 (29.6%) had plasma creatinine concentrations outside of our laboratory reference range and met the diagnostic criteria of having CKD (Jepson 2008). To reach this stage of insufficiency (non-azotaemic but inadequate urinary concentrating ability; IRIS stage I) or mild failure (mildly azotaemic; plasma creatinine concentration 140 to 250 umol/l; IRIS stage II) we would estimate a loss of 66 to 75% of the 400 000 functioning nephrons has occurred. The intact nephron hypothesis (Brenner et al., 1982) would predict that intra-renal mal-adaptation to the loss of this number of functioning nephrons would lead to glomerular hypertrophy, hyperfiltration, glomerular capillary hypertension, proteinuria and progressive renal injury in the absence of continued insult from the primary disease process(es).

The clinical presentation of severe ‘end-stage’ CKD in cats is not uncommon in clinical practice suggesting that progressive renal injury does occur. However, the patterns of progression are highly variable. Some cats remain in a mildly azotaemic ‘compensated’ state of CKD for years and die of another disease rather than progressive CKD. Other cats remain in stable compensated CKD for a period and then apparently suddenly deteriorate in a step-wise fashion to develop a uremic crisis, suggestive of recurrence of an extrinsic disease process causing loss of remaining functioning nephrons. Nevertheless, there is a sub-group of cats where gradual progressive loss of functioning nephrons occurs and so-called linear progression of CKD is observed. In a longitudinal study of 55 cats with naturally occurring CKD, 60% showed no evidence of progression, 25% showed stepwise progression and 15% showed linear progression [Elliott et al., 2003]. Part of the inability to detect intrinsic progressive renal injury may result from the reliance on serial measurement of plasma creatinine concentration rather than repeated measurement of GFR to detect functional progression.

ROLE OF PROTEINURIA IN PROGRESSIVE RENAL INJURY In human patients with naturally occurring CKD, proteinuria is an independent risk factor for progressive loss of renal function. This has been best documented in diabetic patients where interventions to reduce urinary protein loss effectively slow progression of diabetic nephropathy, a leading indication for renal transplantation. Further studies have documented a beneficial effect of controlling mean arterial blood pressure (MABP) to lower levels than the previously recommended targets in CKD patients. The higher the degree of proteinuria, the greater the additional benefit obtained, in slowing the rate of decline in GFR, by reducing MABP to new lower target levels. It is now appreciated that leakage of protein across the glomerulus can trigger a sequence of events that leads to tubulointerstitial injury [Remuzzi & Bertani 1998]. If the filtered load of protein overwhelms the proximal tubular reabsorptive mechanisms, activation of inflammatory cascades occurs, resulting in tubular injury and interstitial inflamma-

EXPERIMENTAL STUDIES IN THE CAT The intact nephron hypothesis was based on experimentally nephrectomised rats where progressive renal injury is predictable and rapid. The same does not appear to be true in cats, where the process is slow such that decrements in glomerular filtration rate (GFR) can not be detected in partially nephrectomised cats up to 12 months after reduction in renal mass. Nevertheless, experimental cats do demonstrate glomerular hyperfiltration, glomerular capillary hypertension and increased urinary protein loss (Brown & Brown 1995). Furthermore, histopathological lesions compatible with progressive renal injury are seen in remnant kidneys from this model. 171


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tion and fibrosis. The cellular and sub-cellular mechanisms involved in these processes are being unraveled. Nevertheless, this response to proteinuria can be reduced by drug treatments that inhibit glomerular protein leakage.

TREATMENT OF CATS WITH ANTI-PROTEINURIC DRUGS – EFFECT ON SURVIVAL From the above discussion there appears to be reasonable evidence that mild proteinuria is predictive of reduced survival time in cats with CKD. It would seem logical that a reduction in proteinuria might be protective of progressive renal injury, even when proteinuria is very mild. At the present time definitive data to support this assumption have not been produced. Angiotensin converting enzyme inhibitors have been shown to reduce glomerular capillary pressure in cats with surgically reduced renal mass [Brown et al., 2001]. The BENRIC study showed that benazepril at a dose rate of 0.5 to 1.0 mg/kg reduced UPC ratio in all cats receiving the active drug regardless of their initial UPC ratio at entry to the study. Nevertheless, no overall significant beneficial effect of benazepril treatment on survival was observed in this study [King et al., 2006]. Thus, the possibility that proteinuria is a marker of progressive CKD, rather than the cause, needs to be considered.

RISK FACTORS FOR PROTEINURIA IN CATS WITH RENAL DISEASE In our clinical practice, many cats with stable CKD, which are IRIS stage II or III (serum creatinine 140 to 440 umol/l), will be non-proteinuric (urine protein to creatinine (UPC) ratio of <0.2) or borderline proteinuric (UPC ratio of 0.2 to 0.4) and the minority are proteinuric (UPC>0.4). Risk factors for proteinuria include serum creatinine concentration (the higher the creatinine the more likely the cat is to be proteinuric) and systolic arterial blood pressure (the higher the blood pressure the more likely the cat is to be proteinuric) [Syme et al 2006]. Furthermore, proteinuria, as assessed by UPC, worsens with decrements in renal function over time although no evidence has been found for a worsening of proteinuria preceding the deterioration in renal function. However, the interpretation of changes in UPC in the face of loss of functioning nephrons is complex as the tendency for protein loss to increase will be offset by the reduced number of nephrons. Finally, proteinuria is also predictive of development of azotaemia in apparently healthy aged cats (Jepson 2008).

REFERENCES Brenner, BM, Meyer TW, Hostetter TH. Dietary protein intake and the progressive nature of kidney disease. N Engl J Med 1982; 307: 652-659. Brown, S.A., Brown, C.A. (1995) Single-nephron adaptations to partial renal ablation in cats. Amercian Journal of Physiology, 269: R1002R1008. Brown SA, Brown CA, Jacobs G, et al. Effects of the angiotensin converting enzyme inhibitor benazepril in cats with induced renal insufficiency. Am J Vet Res 2001; 62: 375-383. Elliott J, Syme HM, Markwell PJ. Acid base balance of cats with naturally occurring chronic renal failure: effect of deterioration in renal function. J Small Anim Pract 2003; 44: 261-268. King JN, Gunn-Moore DA, Tasker S et al., Tolerability and efficacy of benazepril in cats with chronic kidney disease. J Vet Intern Med. 2006;20(5):1054-64. Remuzzi G, Bertani T. Pathophysiology of progressive nephropathies. N Engl J Med, 1982; 307 (11): 652-659. Syme HM, Markwell PJ, Pfeiffer DU, et al. Survival of cats with naturally occurring chronic renal failure is related to severity of proteinuria. J Vet Intern Med 2006; 20(3): 528-35.

INFLUENCE OF PROTEINURIA ON SURVIVAL OF CATS WITH RENAL DISEASE Two studies of naturally occurring CKD in cats have demonstrated that proteinuria is a predictive indicator of long-term survival [Syme et al., 2006; King et al., 2006]. In the first study involving 117 cats, UPC proved to be an independent predictor of survival when assessed by multivariate logistic regression analysis in combination with age and serum creatinine concentration [Syme et al., 2006]. This study used all-cause mortality as the end point and 47% of the cats included in the study reached this end point. The second study was a randomised controlled clinical trial involving 193 cats designed to examine the effect of benazepril on progression of CKD (King et al., 2006). This study showed an inverse correlation between initial UPC ratio and survival time in the placebo group.

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Infezioni batteriche delle vie urinarie: sono importanti nella CKD? Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK

INTRODUZIONE

SCELTA DI UNA TERAPIA FARMACOLOGICA PER LE INFEZIONI DEL TRATTO URINARIO

L’urina iperosmotica ostacola la crescita dei batteri, anche uropatogeni. La perdita della capacità di concentrare l’urina è un segno precoce di insufficienza renale e spesso compare prima dell’inizio dello stadio iperazotemico della nefropatia cronica (CKD). Anche se la ridotta capacità di concentrare l’urina non è il solo fattore coinvolto nella suscettibilità alla UTI (Bayliff et al., 2008), i nostri dati clinici suggeriscono la necessità di effettuare il monitoraggio delle infezioni urinarie nei gatti con CKD.

Nel selezionare un protocollo terapeutico appropriato per trattare la UTI, dobbiamo considerare: • l’estensione dell’infezione nel tratto urinario • la sensibilità dell’agente eziologico (è prevedibile o imprevedibile?) • la concentrazione del farmaco antibatterico che viene raggiunta nella sede dell’infezione • la sicurezza del farmaco per la somministrazione al gatto con CKD Molti farmaci antibatterici idrosolubili sono altamente concentrati nell’urina, dove raggiungono livelli 100-300 volte più elevati di quelli riscontrati nel plasma testato negli animali normali. Quindi, nei casi non complicati spesso ha successo il trattamento empirico della UTI con farmaci antibatterici betalattamici.

INFEZIONI DEL TRATTO URINARIO (UTI) – UNA CAUSA POTENZIALE DI DANNO RENALE PRIMARIO Un potenziale insulto renale primario che viene spesso rilevato nei casi di CKD che vengono portati alla visita per la prima volta o che hanno appena iniziato a deteriorarsi è una UTI di tipo batterico. Un piccolo studio ha determinato la prevalenza e l’incidenza delle infezioni del tratto urinario nei gatti con CKD (Berber et al., 1999). Per essere inserito in questa indagine ogni gatto doveva essere affetto da una CKD stabile ed essere stato seguito per almeno 4 mesi con un minimo di 4 campioni di urina prelevati mediante cistocentesi. Tutti i campioni sono stati sottoposti a coltura aerobica quantitativa. Nello studio sono stati compresi 51 gatti. In totale vennero raccolti 407 campioni di urina. In questa popolazione la prevalenza della UTI fu del 7,1% e l’incidenza del 29%, con il riscontro di più di un episodio in oltre il 50% dei gatti infettati. Non è chiaro se questi episodi ripetuti rappresentino reinfezioni o ricadute di infezioni preesistenti che non erano state del tutto eliminate dal trattamento. Dati recenti hanno suggerito che l’impiego degli antibiogrammi per differenziare queste due situazioni non è attendibile (Freitag et al.,2006). Uno studio retrospettivo più ampio condotto su 3000 campioni di urina raccolti da gatti presentati presso la nostra clinica per malattie geriatriche o renali ha confermato una prevalenza simile, con il 5% circa di UTI batterica. I principali microrganismi coinvolti erano Escherichia coli (80% circa) ed Enterococcus faecalis (20% circa).

RACCOMANDAZIONI PER IL TRATTAMENTO DELLA UTI NEI GATTI CON CKD I gatti con CKD, tuttavia, non sono casi semplici quando sono colpiti da UTI. Spesso, saranno stati sottoposti ad un trattamento antibatterico nei precedenti 2-3 mesi, il che significa che le loro probabilità di essere colpiti da infezioni batteriche resistenti sono più elevate. Inoltre, i clinici devono probabilmente: • presumere che l’infezione abbia seguito un percorso ascendente fino a causare una pielonefrite • eseguire degli antibiogrammi • continuare il trattamento per 4-6 settimane e documentare una guarigione batteriologica • scegliere un farmaco antibatterico che sia sicuro da usare in pazienti con funzionalità renale compromessa, evitando i farmaci nefrotossici • se l’infezione ricompare rapidamente dopo l’interruzione del trattamento (entro due mesi), condurre ulteriori ricerche per determinare se esista una causa predisponente (ad es., uroliti o tumori della vescica). La suscettibilità di un farmaco antibatterico è probabilmente variabile – l’impiego della tecnica di diluizione in brodo fornisce maggiori informazioni perché consente di 173


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di trattare i gatti per via orale per 4-6 settimane. L’introduzione di una nuova cefalosporina, il cefovecin, nella pratica veterinaria in Europa può offrire un’altra opzione per il trattamento della UTI batterica nei gatti con CKD (Stegmann et al., 2006). La sua sicurezza in questi pazienti deve però ancora essere stabilita.

stabilire il valore della concentrazione minima inibente (MIC, minimum inhibitory concentration) per il microrganismo. Dati recenti del nostro laboratorio hanno valutato la sensibilità di circa 50 E. coli isolati dal tratto urinario dei gatti con CKD ed hanno dimostrato che i valori di MIC90 da essi ottenuti erano ben al di sotto delle concentrazioni del farmaco che si sarebbero raggiunte nell’urina del gatto normale, anche se molti corrispondono al valore limite fra la resistenza e la sensibilità per questi farmaci sulla base delle concentrazioni plasmatiche. Tuttavia, la concentrazione dei farmaci antibatterici betalattamici nell’urina del gatto con CKD non è stata studiata. Abbiamo recentemente preso in considerazione le concentrazioni di amossicillina/acido clavulanico raggiunte nell’urina dopo 7 giorni di dosaggio a 50 mg due volte al giorno mediante somministrazione per via orale. Nell’urina di 10 gatti trattati con questo protocollo sono state rilevate concentrazioni di amossicillina (misurate mediante prova microbiologica) comprese fra 3 e 30 volte il valore di MIC90 che era stato calcolato da isolati recenti dei nostri casi clinici, il che suggerisce che, anche nel campione di urina meno concentrata, le concentrazioni di antibiotici erano ben al di sopra di quelle richieste per uccidere i batteri più comunemente coinvolti in queste infezioni nel Regno Unito. Tuttavia, nel mondo probabilmente esistono differenze nei quadri di sensibilità agli antibiotici e nella virulenza degli uropatogeni (Freitag et al., 2005).

CONCLUSIONI Le infezioni del tratto urinario sono un evento relativamente comune nei gatti con CKD. Possono essere associate a malattia generalizzata più che a segni clinici specifici delle basse vie urinarie. Devono essere trattate come se si fossero estese al rene ed avessero causato una pielonefrite. Si raccomanda di utilizzare farmaci antimicrobici battericidi con ampi indici terapeutici, e la scelta dell’antibiotico deve basarsi sulla coltura in brodo e sugli antibiogrammi, nonché sui conseguenti dati relativi alla MIC. Spesso è necessario un ciclo prolungato di trattamento per prevenire ricadute ed è consigliabile il monitoraggio per una guarigione batteriologica.

Bibliografia Barber, PJ, Rawlings, JM, Markwell, PJ, Rycroft, AN & Elliott, J (1999) Incidence and prevalence of bacterial urinary tract infections in cats with chronic renal failure. J. Vet. Intern. Med., 13, 251 (abstract no 101). Bailiff NL, Westropp JL, Nelson RW, Sykes JE, Owens SD, Kass PH. (2008) Evaluation of urine specific gravity and urine sediment as risk factors for urinary tract infections in cats. Vet Clin Pathol.; 37(3):317-22. Gelatt KN, van der Woerdt A, Ketring KL, Andrew SE, Brooks DE, Biros DJ, Denis HM, Cutler TJ. (2001) Enrofloxacin-associated retinal degeneration in cats. Vet Ophthalmol. 4; 99-106. Freitag T, Squires RA, Schmid J, Elliott J. (2005) Feline uropathogenic Escherichia coli from Great Britain and New Zealand have dissimilar virulence factor genotypes. Vet Microbiol. 106:79-86. Freitag T, Squires RA, Schmid J, Elliott J. Rycroft, A. (2006) Antibiotic Sensitivity Profiles are Unreliably in Distinguishing Relapsing Infections from Reinfections in Cats with Chronic Renal Failure and Recurrent Escherichia coli Urinary Tract Infection. J. Vet. Intern. Med., 20(2):245-249. Stegemann MR, Passmore CA, Sherington J, Lindeman CJ, Papp G, Weigel DJ, Skogerboe TL. (2006) Antimicrobial activity and spectrum of cefovecin, a new extended- spectrum cephalosporin, against pathogens collected from dogs and cats in Europe and North America. Antimicrob Agents Chemother., 50(7):2286-92.

SICUREZZA DEI FARMACI ANTIBATTERICI NEI GATTI CON CKD Nella CKD, il margine di sicurezza delle dosi convenzionali dei farmaci eliminati dal rene può essere ridotto. Quindi, è importante evitare agenti potenzialmente tossici, in particolare quelli con nefrotossicità. Usiamo le penicilline (amossicillina semplice o potenziata con acido clavulanico) come farmaci antibatterici di prima linea nell’attesa dei risultati degli esami colturali e degli antibiogrammi. Come farmaci di seconda linea, il nostro gruppo d’elezione sarebbe rappresentato dai fluorochinoloni, per le infezioni ricorrenti. Tendiamo ad evitare l’enrofloxacin, perché questo farmaco sembra essere interessato da segnalazioni di casi di cecità retinica nei gatti (Gellatt et al., 2001). Abbiamo utilizzato il marbofloxacin al dosaggio terapeutico standard (2 mg/kg una volta al giorno per via orale) senza effetti avversi nei gatti con CKD. Nei felini con nefropatia cronica trattati con un fluorochinolone non è consigliabile superare la frequenza della dose terapeutica raccomandata ed il peso corporeo deve sempre essere accuratamente misurato, più che stimato. Esistono indicazioni pratiche che suggeriscono

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Urinary tract infections in cats with chronic kidney disease Jonathan Elliott MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK

INTRODUCTION

• sensitivity of the causative organism (is it predictable or unpredictable?) • concentration of antibacterial drug achieved at the site of infection • safety of the drug for administration to a cat with CKD Many water soluble antibacterial drugs are highly concentrated within urine and achieve concentrations in urine which are 100 to 300 times higher than those found in plasma provided the normal animals. Thus, empirical treatment of UTIs with beta-lactam antibacterial drugs is often successful in uncomplicated cases.

Hyperosmotic urine is hostile to the growth of bacteria, even uropathogens. Loss of urinary concentrating ability is an early sign of renal insufficiency and is often seen prior to the onset of the azotaemic stage of chronic kidney disease (CKD). Although reduced urine concentrating ability is not the only factor involved in susceptibility to UTIs (Bayliff et al., 2008), our clinical data suggest monitoring cats with CKD for UTIs is warranted.

URINARY TRACT INFECTIONS – A POTENTIAL CAUSE OF PRIMARY KIDNEY DAMAGE

RECOMMENDATIONS FOR MANAGEMENT OF UTIS IN CATS WITH CKD

One potential primary renal insult we often recognize in cases of CKD at first presentation for or when they have just deteriorated is a bacterial UTI. A small prospective study determined the prevalence and incidence of urinary tract infections in cats with CKD (Barber et al., 1999). To enter the study each cat had to have stable CKD and be followed for at least 4 months with a minimum of 4 urine samples collected by cystocentesis. All samples were subjected to quantitative aerobic bacterial culture. Fifty-one cats were recruited to the study. A total of 407 urine samples were collected. The prevalence of UTIs was 7.1% in this population and the incidence was 29% with more than 50% of infected cats having more than one episode. It is not clear whether repeated episodes represent re-infections or relapses of existing infections that were incompletely cleared by treatment. Recent data has suggested that use of antibiograms to differentiate between these two situations is unreliable (Freitag et al., 2006). A larger retrospective study of over 3000 urine samples collected from cats attending our geriatric and kidney disease clinics has confirmed a similar prevalence of about 5% with bacterial UTI. The main organisms involved were Escherichia coli (c80%) and Enterococcus faecalis (c20%).

Cats with CKD, however, are not simple cases when they have UTIs. Often, they will have had antibacterial drug treatment in the previous 2-3 months meaning the chances of them having resistant bacterial infections are higher. In addition practitioners should probably: • Assume the infection has ascended to cause pyelonephritis • Test sensitivity of organisms • Treat for 4 to 6 weeks and document a bacteriological cure • Choose an antibacterial drug that is safe to use in patients with compromised renal function, avoiding nephrotoxic drugs • If the infection recurs quickly after treatment has stopped (within 2 months), investigate further to determine whether there is a predisposing cause (e.g. urolith or bladder tumour) Antibacterial drug susceptibility is likely to vary – the use of the broth dilution technique provides most information since this gives the minimum inhibitory concentration (MIC) value for the organism. Recent data from our laboratory evaluated the sensitivity of about 50 E coli isolates from the urinary tract of cats with CKD showed that the MIC90 values obtained from are well below the drug concentrations that would be achieved in normal feline urine although many are at the break-point between resistance and sensitivity for both these drugs based on plasma concentrations. However, the urine concentration of beta-lactam antibacterial drugs in urine of cats with CKD has not been studied. We have recently studied the concentrations of amoxycillin

CHOICE OF DRUG THERAPY FOR URINARY TRACT INFECTIONS In selecting an appropriate treatment protocol to treat a UTI, you should consider the: • extent of the infection within the urinary tract 175


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/ clavulanic acid achieved in urine after 7 days of dosing at 50 mg twice daily by the oral route. Amoxycillin concentrations (measured by microbiological assay) of between 3 and 30 times the MIC90 value calculated for recent isolates from our clinic were detected in urine in 10 cats treated with this protocol, suggesting that even in the least concentrated urine sample, antibiotic concentrations are well above those required to kill the most common bacteria involved in these infections in the UK. However, differences in the patterns of antibiotic sensitivity and virulence of uropathogens are likely to exist throughout the world (Freitag et al., 2005).

CONCLUSIONS Urinary tract infections are a relatively common occurrence in cats with CKD. They may be associated with general malaise rather than specific lower urinary tract signs. They should be treated as though they have extended to the kidney and caused a pyelonephritis. Use of bactericidal antibacterial drugs with wide therapeutic indices is recommended and the choice of antibiotic should be based on broth culture and sensitivity testing and resulting MIC data. A prolonged course of treatment is often necessary to prevent recurrence and monitoring for a bacteriological cure is advisable.

SAFETY OF ANTIBACTERIAL DRUGS IN CATS WITH CKD References The safety margin of conventional doses of drugs eliminated by the kidney may be reduced in CKD. Thus it is important to avoid potentially toxic drugs, particularly those with nephrotoxicity. We use penicillins (amoxycillin or clavulanate potentiated amoxycillin) as the first line antibacterial drug whilst awaiting culture and sensitivity test results. Our second line group of choice would the fluoroquinolones for recurrent infections. We tend to avoid is enrofloxacin because of the reports of retinal blindness in cats seem to involve enrofloxacin (Gellatt et al, 2001). We have used marbofloxacin at the standard therapeutic dose rate (2 mg/kg once a day orally) without adverse effects in cats with CKD. Exceeding the recommended therapeutic dose rate would not be advisable in cats with CKD whatever fluoroquinolone prescribed and body weights should be always obtained accurately rather than estimated. There are practical issues in dosing cats orally for 4 to 6 weeks. The introduction of the new cephalosporin, cefovecin, into veterinary practice in Europe may provide another option in the management of bacterial UTI in cats with CKD (Stegmann et al., 2006). Its safety in cats with CKD has yet to be determined however.

Barber, PJ, Rawlings, JM, Markwell, PJ, Rycroft, AN & Elliott, J (1999) Incidence and prevalence of bacterial urinary tract infections in cats with chronic renal failure. J. Vet. Intern. Med., 13, 251 (abstract no 101). Bailiff NL, Westropp JL, Nelson RW, Sykes JE, Owens SD, Kass PH. (2008) Evaluation of urine specific gravity and urine sediment as risk factors for urinary tract infections in cats. Vet Clin Pathol.;37(3):31722. Gelatt KN, van der Woerdt A, Ketring KL, Andrew SE, Brooks DE, Biros DJ, Denis HM, Cutler TJ. (2001) Enrofloxacin-associated retinal degeneration in cats. Vet Ophthalmol. 4; 99-106. Freitag T, Squires RA, Schmid J, Elliott J. (2005) Feline uropathogenic Escherichia coli from Great Britain and New Zealand have dissimilar virulence factor genotypes. Vet Microbiol. 106:79-86. Freitag T, Squires RA, Schmid J, Elliott J. Rycroft, A. (2006) Antibiotic Sensitivity Profiles are Unreliably in Distinguishing Relapsing Infections from Reinfections in Cats with Chronic Renal Failure and Recurrent Escherichia coli Urinary Tract Infection. J. Vet. Intern. Med., 20(2):245-249. Stegemann MR, Passmore CA, Sherington J, Lindeman CJ, Papp G, Weigel DJ, Skogerboe TL. (2006) Antimicrobial activity and spectrum of cefovecin, a new extended- spectrum cephalosporin, against pathogens collected from dogs and cats in Europe and North America. Antimicrob Agents Chemother., 50(7):2286-92.

Address for correspondence: Jonathan Elliott - The Royal Veterinary College - University of London, London UK

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Presentazione e primo trattamento del paziente con versamento toracico. Clinica, ossigenoterapia, toracentesi e toracostomia Gary W. Ellison DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA

- Stridore = rumore di tono elevato, aspro, vibratorio causato da un’ostruzione parziale delle vie aeree superiori - Crepitii = suoni discontinui di gorgoglio/scoppiettio dovuti al fatto che l’aria passa attraverso il liquido o forza le vie aeree collassate/le pareti alveolari aprendole - Sibili = suoni di fischi continui causati da una turbolenza dell’aria nelle vie aeree ristrette - Grugniti tele-espiratori, sfregamenti pleurici, linee di fluidi, aree di ottusità..

SEGNI CLINICI ALLA PRESENTAZIONE I versamenti pleurici lievi sono quasi impossibili da rilevare, dato che la maggior parte dei pazienti non mostra alcun segno clinico. È soltanto quando si accumulano più di 60 ml/kg di fluido che le manifestazioni della malattia diventano evidenti. Il paziente può mostrare qualsiasi combinazione di tachipnea, ortopnea, dispnea (inspiratoria), respirazione a bocca aperta, riduzione del volume tidalico e cianosi. La dispnea inspiratoria può comparire anche negli animali con affezioni delle vie aeree superiori. Gli animali colpiti spesso presentano suoni polmonari aumentati riferiti dalle vie aeree superiori, mentre gli animali con malattia dello spazio pleurico presenteranno suoni polmonari ridotti e nessun rumore significativo delle vie aeree superiori. L’esame obiettivo di un animale con versamento pleurico moderato o grave spesso rivela un’attenuazione dei suoni polmonari nelle regioni ventrali, permettendo di identificare una “linea dei fluidi” rilevabile mediante auscultazione e percussione. Altri riscontri non specifici comprendono ascite, aritmie, disidratazione, depressione, febbre, linfoadenopatia, soffi cardiaci, pallore delle mucose, perdita di peso ed inappetenza. Il cane può tollerare quantità imponenti di liquidi, fino a due volte e mezza il suo volume residuo, attraverso l’aumento dell’espansione del torace. Tuttavia, man mano che il versamento pleurico progredisce, questi meccanismi compensatori vengono meno, la CO2 arteriosa aumenta e la grave acidosi può essere fatale.

Tentiamo di effettuare una emogasanalisi o una pulsossimetria per cercare di misurare quanto sia buona la ventilazione del paziente. Se l’animale sta saturando al 90% od oltre, o presenta una pO2 al di sopra degli 80 mmHg dell’aria ambiente, non lo consideriamo non ossigeno-dipendente ed effettuiamo delle radiografie. Se l’animale è ossigeno-dipendente, viene fornito ossigeno attraverso una maschera o mediante l’applicazione di insufflazioni nasali. Gli studi condotti hanno dimostrato che queste ultime producono dei risultati simili ai valori di O2 ottenuti con la somministrazione in gabbia. Radiografie: Occorre ottenere almeno due proiezioni ortogonali del torace. Nella maggior parte dei casi, vengono effettuate le riprese in proiezione laterolaterale destra e dorso-ventrale. Il liquido ristagna nella parte ventrale del torace e delinea il profilo cardiaco in presenza di volumi di fluido molto più piccoli che nella proiezione ventro-dorsale. Se si sospetta una malattia cardiaca, occorre anche ottenere una proiezione dorsoventrale o ventrodorsale. Se il paziente presenta difficoltà respiratoria, una singola proiezione dorsoventrale fornisce le principali informazioni e richiede un minore contenimento. Nei pazienti con versamento pleurico, i riscontri radiografici sono rappresentati da: • Linee delle fessure pleuriche • Silhouette del cuore e del diaframma • Atelettasia dei polmoni • Arrotondamento dei lobi polmonari • Cronicità • Versamenti reattivi (chilo/pus) • Le alterazioni possono essere • Bilaterali - Ad es., trasudati, trasudati modificati, essudati, emorragie

VALUTAZIONE CLINICA E TERAPIA CON O2 Auscultazione e suoni respiratori • Suoni normali - Bronchiali (Tracheali) – tono intermedio/elevato, “tubulare”/“cavo”, suono prodotto da flusso d’aria turbolento nella trachea. - Vescicolare – tono basso, “di fruscio leggero”, suono derivante da un flusso d’aria turbolento nei grossi bronchi - Broncovescicolare – suono combinato di tono intermedio. • Suoni anomali: - Stertore = suono russante prodotto dall’ostruzione parziale delle vie aeree superiori 177


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• Monolaterali - Ad es., chilo, pus, neoplasie, emorragie • Sacche fisse • Ad es., ascessi, neoplasie

Sonda da toracostomia (inserimento di un drenaggio toracico) La toracostomia mediante sonda consiste nell’inserimento di un drenaggio toracico. Questo viene utilizzato per evacuare l’aria o il liquido dallo spazio pleurico o per consentire l’accesso allo spazio stesso per l’infusione di un energico lavaggio terapeutico. Le indicazioni per la toracostomia mediante sonda sono rappresentate da pneumotorace, emotorace, piotorace, chilotorace e versamenti pleurici che compromettono la funzione respiratoria. Le sonde da toracostomia sono anche utilizzate nella chirurgia intratoracica per rimuovere l’aria che penetra nello spazio pleurico durante la procedura. Il liquido o l’aria nello spazio pleurico riducono la compliance polmonare e la capacità dei polmoni di ventilare gli alveoli. Il risultato è una riduzione del volume di riserva dei polmoni, il volume dello spazio alveolare utilizzato quando l’animale è stressato. Quando il versamento pleurico o lo pneumotorace riducono la compliance polmonare sino al punto che l’animale diventa ipossico (cianotico) durante lo stress, occorre inserire un drenaggio toracico. Questo può anche venire utilizzato per consentire il lavaggio periodico dello spazio pleurico. Ciò viene fatto in caso di piotorace, e spesso sono necessari dei drenaggi bilaterali. I drenaggi toracici possono essere inseriti con un’anestesia minima; spesso, nel paziente moribondo è sufficiente soltanto un anestetico locale. L’anestesia locale viene praticata a livello della sede di penetrazione del drenaggio e lungo la via percorsa dallo stesso a livello sottocutaneo. Generalmente, la pleura è l’area più difficile da bloccare e il piano tissutale più doloroso da attraversare. L’anestesia da narcolessi riduce la necessità di contenimento fisico, e di solito consente di eseguire la procedura più dolcemente. Le indagini di laboratorio preliminare ed i parametri acidobasici contribuiscono a valutare lo stato del paziente. In alcuni casi è necessaria la terapia con ossigeno mediante maschera o intubazione. Se l’animale è moribondo, si può effettuare la toracentesi impiegando un catetere butterfly di piccolo calibro (22-20 gauge) per rimuovere il fluido o l’aria, usando soltanto l’anestesia locale. Questa procedura può essere salvavita, e spesso esita in una diagnosi clinica precoce se è presente pneumotorace o se si esegue l’esame del liquido di risulta. Dopo la rimozione del fluido o dell’aria, e quando la condizione dell’animale migliora, si può inserire un drenaggio toracico. Uno degli aspetti più importanti quando si collocano i drenaggi toracici è essere preparati al peggio. Gli animali sotto lieve sedazione spesso collassano durante l’inserimento del drenaggio toracico e, quando possibile, l’autore preferisce avere dei pazienti anestetizzati ed intubati durante l’operazione. Come minimo deve essere stato applicato un catetere permanente e si deve avere a disposizione un’apparecchiatura da anestesia e tubi orotracheali di diverse dimensioni, nel caso di collasso respiratorio durante l’inserimento. La toracostomia mediante sonda viene generalmente effettuata attraverso un’incisione di punta praticata tra l’8° ed il 12° spazio intercostale. Con una pinza di Carmalt si scollano i tessuti realizzando un tunnel sopra due spazi intercostali procedendo in direzione craniale. La sonda, afferrata con le pinze, viene quindi spinta mediante dissezione per via

Toracentesi: Il torace del cane viene esaminato mediante auscultazione e percussione per rilevare la presenza di linee di fluidi. Se devono essere rimossi ampi volumi di liquido, si deve raccordare al catetere una valvola a tre vie. La sola controindicazione per la toracentesi è la presenza di una coagulopatia nota. Negli animali stabili, prima della toracentesi si deve esaminare lo status della coagulazione. Tuttavia, dato che la maggior parte dei pazienti si presenta in condizioni gravemente compromesse, a meno non che sia presente un’evidente emorragia si deve comunque tentare la toracentesi. L’impiego di un ago di piccolo calibro, un catetere ad ago interno o butterfly collegato ad una valvola a tre vie e ad un deflussore riduce i rischi di indurre uno pneumotorace o un emotorace dovuto alla lacerazione di un lobo di un polmone o della pleura viscerale. Introducendo l’ago cranialmente alla costola si evita la lacerazione di vasi e nervi intercostali. Occorre rimuovere quanto più liquido possibile. Nella maggior parte dei casi, la toracentesi unilaterale è tutto quanto è necessario per fornire un sollievo significativo al paziente. Se il liquido appare grossolanamente suppurativo (piotorace) o cremoso (chilotorace), o se se ne ottiene una quantità molto scarsa o nulla, si deve effettuare la toracentesi anche dalla parte controlaterale. Le ragioni dell’esito negativo della toracentesi sono rappresentate da: • Assenza totale di liquidi Ricercare un’altra malattia (radiografie, emogasanalisi, ecc..) • Liquido racchiuso in una tasca o nella parte controlaterale del torace Aspirazione sotto guida ecografica o radiografica Esecuzione della toracentesi dall’altra parte del torace • Liquido molto denso Inserimento di un drenaggio toracico • Liquido più ventrale dell’ago o più profondo di quanto l’ago possa raggiungere Riposizionamento del paziente o dell’ago Citologia: L’analisi citologica del liquido ottenuto deve SEMPRE essere parte di una valutazione diagnostica. L’analisi deve comprendere la misurazione delle proteine totali ed il conteggio cellulare totale, nonché la valutazione quantitativa delle singole cellule (microscopio). Ciò aiuterà a classificare il liquido nell’ambito di uno dei seguenti gruppi: • Trasudati • Trasudati modificati • Essudati non settici • Essudati settici • Versamenti chilosi • Versamenti emorragici • Versamenti neoplastici 178


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tuata in modo intermittente. Si deve esercitare soltanto un’aspirazione delicata, perché se lo stantuffo della siringa viene tirato troppo vigorosamente si può verificare un danno del parenchima. Il drenaggio toracico deve essere protetto dall’automutilazione da parte dell’animale. Spesso per questo scopo è necessario un collare di Elisabetta in combinazione con un bendaggio protettivo. Lo pneumotorace che si verifica quando l’animale arriva al drenaggio può essere potenzialmente letale, quindi è ideale che questi pazienti vengano tenuti in un’unità di terapia intensiva. La presenza della sonda causa di per se stessa una risposta infiammatoria pleurica, per cui solitamente vengono prodotti 5-10 ml/kg di liquido finché il tubo è in posizione. Quindi, il drenaggio del torace non deve mai essere lasciato in sede fino a che il versamento non si sia arrestato del tutto, perché ciò non accadrà mai!

smussa fino nello spazio pleurico. Dopo aver ritirato le pinze, si inserisce il drenaggio toracico nella parte craniale del torace. Una sutura a borsa di tabacco viene legata intorno alla sonda e quest’ultima viene assicurata al torace con un nastro butterfly o una sutura antiscivolo. Dopo l’aspirazione del contenuto pleurico, la sonda viene chiusa con un tappo da catetere sterile e si applica un morsetto di chiusura. Per il pneumotorace, sono utili delle speciali valvole ad una via (valvole di Heimlich), che però vengono spesso occluse dal sangue o da essudati e non servono per i versamenti pleurici. Un altro sistema, più complicato, utilizza un’aspirazione continua con un sistema a tenuta idraulica. Questo sistema drena efficacemente sia i fluidi che l’aria, ma è scomodo e non mobile. I più recenti sistemi Plerivac7 utilizzano gli stessi principi e sono compatti, per cui possono essere comodamente fissati alla porta della gabbia dell’animale. L’aspirazione manuale dello spazio pleurico può anche essere effet-

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The patient with thoracic effusion: presentation and first aid, clinical assessment, oxygen therapy, thoracocentesis and thoracic drainage Gary W. Ellison DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA

- Wheezes = continuous whistling sounds caused by air turbulence in narrowed airways - End-expiratory Grunts, Plural rubs, Fluid lines, Dull regions… We attempt to obtain a blood gas or pulse oximeter reading to gauge how well the animal is ventilating. If the animal is saturating at 90% or above or the animal is has a p02 above 80mm/hg room air we do not consider it not oxygen dependent and take radiographs. If the animal is Oxygen dependent O2 is provided via mask or via use of nasal insufflations. Studies have shown that nasal insufflations yields similar results to cage delivered O2 values.

PRESENTING SIGNS Mild pleural effusions are almost impossible to detect, as most patients show no clinical signs. It is only when more than 60ml/kg of fluid accumulates that clinical signs become apparent. The patient may exhibit any combination of tachypnea, orthopnea, dyspnea (inspiratory), open mouth breathing reduced tidal volume and cyanosis. Inspiratory dyspnea can also occur in animals with upper airway disease. Animals with upper airway disease will often have increased lung sounds referred from the upper airway, whereas animals with pleural space disease have decreased lung sounds and no significant upper airway noise. Physical examination of an animal with moderate to severe pleural effusion often reveals decreased lung sounds ventrally with an auscultable and percussable “fluid line” Other non specific findings include ascites, arrhythmias, dehydration, depression, fever, lymphadenopathy, heart murmurs, pallor, weight loss and inappetence. The dog can tolerate massive amounts of fluid of up to two and one-half times its residual volume by increasing its chest expansion. However, as the pleural effusion progresses these compensatory mechanisms fail, arterial CO2 rises, and severe acidosis may be fatal.

Radiographs: At least two orthogonal views of the thorax should be obtained. Most commonly, a right lateral and a dorso-ventral view are obtained. Fluid will pool in the ventral chest and cause silhouetting with the heart with much smaller fluid volumes than with a ventro-dorsal view. If heart disease is a concern, a DV or VD view should also be obtained. If the patient is in respiratory distress, a single DV view provides the most information and requires the least amount of restraint. Radiographic findings in patients with pleural effusion include: • Pleural fissure lines • Silhouetting of heart and diaphragm • Atelectasis of lungs • Rounding of lung lobes • Chronicity • Reactive effusions (chyle/pus) • Changes may be • Bilateral - e.g. Transudates, modified transudates, exudates, hemorrhage • Unilateral - e.g. Chyle, pus, neoplasia, hemorrhage • Fixed pockets - e.g. Abscess, neoplasia

CLINICAL ASSESSMENT AND O2 THERAPY Auscultation and Respiratory sounds • Normal sounds: - Bronchial (Tracheal) – intermediate/high pitch, “tubular/”hollow”, sound produced by turbulent airflow in the trachea. - Vesicular – low pitch, “soft rustling”, sound from turbulent airflow in large bronchi - Bronchovesicular – intermediate pitch combination sound. • Abnormal sounds: - Stertor = snoring sound produced by partial obstruction of upper airway - Stridor = high pitched, harsh, vibratory noise caused by partial upper airway obstruction - Crackles = discontinuous bubbling/popping sounds as air passes through fluid or forces collapsed airway/alveolar walls open

Thoracocentesis: The dog’s chest is ausculted and percussed for the presence fluids lines. If large volumes of fluid are to be removed a three way stopcock and fluid line are attached to the catheter. The only contraindication for thoracocentesis is the presence of a known coagulopathy. In stable animals the status of coagulation should be tested before thoracocentesis. However, since most animals pres180


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ent in severely compromised condition, unless there is obvious hemorrhage, thoracocentesis should be attempted. The use of a small gauge needle, over the needle catheter or butterfly catheter with a three-way stopcock and extension set, reduces the risk of creating a pneumothorax or hemothorax from laceration of a lung lobe or visceral pleura. Introducing the needle cranial to the rib prevents laceration of the intercostal vessels and nerves. As much fluid as possible should be removed. In most cases unilateral thoracocentesis is all that is needed to provide significant relief to the patient. If the fluid appears grossly suppurative (pyothorax) or creamy (chylothorax), or no/minimal fluid is obtained by thoracocentesis, the contralateral side should be tapped too.

lavage of the pleural space. This is done in pyothorax, and bilateral chest drains are often necessary. Chest drains can be inserted with minimal anesthesia; often, only a local anesthetic in the moribund patient. Local anesthesia is used at the site of drain penetration and throughout the subcutaneous path of the drain. Generally, the pleura is the most difficult area to block and the most painful tissue plane penetrated. Alternatively, intercostal nerves may be blocked to provide anesthesia. Narcoleptic anesthesia reduces the requirement for physical restraint, and generally allows the procedure to proceed more smoothly. Preliminary laboratory work and acid-base parameters, will aid evaluation of the state of the patient. Oxygen therapy by mask or intubation is necessary in some patients. If the animal is moribund, thoracocentesis using a small bore butterfly catheter (22-20 gauge) can be utilized to remove fluid or air with only local anesthesia. This procedure can be life saving, and it often results in an early clinical diagnosis if pneumothorax is present, or upon examination of fluid obtained. After removal of fluid or air, and when the condition of the animal improves, a chest drain may be inserted. One of the most important items when placing chest drains is to be prepared for the worst scenario. Animals under little sedation often will collapse during chest drain insertion and where possible I prefer to have the patients anesthetized and intubated during insertion. At the very least the animal should have an indwelling catheter and an anesthesia machine and several sizes of endotracheal tubes should be available in the event of a respiratory collapse during insertion. Tube thoracostomy is generally done through a stab incision between 8th and 12th intercostal spaces. Carmalt forceps are used to undermine a tunnel over two intercostal spaces in a cranial direction. The tube, grasped by the forceps is then pushed bluntly into the pleural space. After the forceps are withdrawn, the chest drain is inserted into the cranial aspect of the thorax. A pursestring suture is tied around the tube and the tube secured to the thorax with a tape butterfly or a Chinese finger snare. After aspiration of the pleural contents the tube is occluded with a sterile catheter plug and a tube clamp is applied. Special one-way valves (Heimlich valves) are useful for pneumothorax, but are often occluded by blood or exudates and are not useful for pleural effusions. Another more complicated system utilizes continuous suction with an underwater seal. This system effectively drains both fluid and air but is cumbersome and non-mobile. Newer Pleurivac7 systems utilize the same principles and are compact so they can be conveniently attached to the animal’s cage door. Manual aspiration of the pleural space may also be done intermittently. Only gentle suction should be applied, because if the syringe plunger is pulled too vigorously, parenchymal damage may occur. The chest drain must be protected from self mutilation by the animal. An Elizabethan collar in combination with a protective bandage is often necessary to protect the drain. Pneumothorax that occurs when the animal does get to the drain can be life-threatening thus it is ideal that these patients are kept in an intensive care unit. The tube itself causes a pleural inflammatory response and the typically 5-10 ml/kg of fluid is produced with the tube in place. Therefore he chest drain should be not be left in until all effusion stops because it never will!

Reasons for a negative tap include: • No fluid present - Go look for another disease (radiographs, blood gas etc) • Fluid in walled off pocket or on contralateral side of chest - Ultrasound or radiograph guided aspirate - Tap other side of chest • Fluid very thick - Place chest tube • Fluid more ventral than needle or deeper than needle can reach - Reposition cat or needle Cytology: Cytological analysis of fluid obtained should ALWAYS be part of the diagnostic evaluation. Analysis should include measurement of total protein and total cell count, as well as a qualitative assessment of individual cells (microscope). This will help classify the fluid into one of the following groups: • Transudates • Modified transudates • Non septic exudates • Septic exudates • Chylous effusions • Hemorrhagic effusions • Neoplastic effusion

TUBE THORACOSTOMY (CHEST DRAIN INSERTION) Tube thoracostomy is chest drain placement. The drain is used to evacuate air or fluid from the pleural space or to allow access to the pleural space for infusion of therapeutic ravage. Indications for tube thoracostomy include: pneumothorax, hemothorax, pyothorax, chylothorax, and pleural effusions that compromise respiratory function. Tube thoracostomies are also utilized in intra-thoracic surgery to remove air that enters the pleural space during the procedure. Fluid or air in the pleural space reduces pulmonary compliance and reduces the capability of the lungs to ventilate alveoli. The result is a reduction in the reserve volume of the lungs, the volume of alveolar space utilized when the animal is stressed. When pleural effusion or pneumothorax reduces pulmonary compliance to the extent that the animal becomes hypoxic (cyanotic) during stress, a chest drain should be inserted. Chest drains may also be placed to allow periodic 181


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Empiema toracico: controversie terapeutiche. Gestione medica vs. chirurgica Gary W. Ellison DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA

DIAGNOSI DIFFERENZIALI DEL PIOTORACE Trasudati e trasudati modificati (Idrotorace) I trasudati sono fluidi con basse concentrazioni di proteine (< 2,5-3 g/dl) ed un basso conteggio di cellule nucleate (< 500-1000/μl). I tipi cellulari primari sono rappresentati da elementi mononucleati, che comprendono macrofagi, linfociti e cellule mesoteliali. I trasudati modificati hanno contenuti proteici lievemente più elevati (fino a 3,5 g/dl) e conteggi delle cellule fino a 5000/μl. Anche i neutrofili possono far parte della componente cellulare. I trasudati ed i trasudati modificati di solito si formano come un risultato delle forze di Starling: PRESSIONE IDROSTATICA AUMENTATA: • ad es., insufficienza cardiaca congestizia destra, pericardiopatia • I riscontri all’esame fisico che possono deporre a favore di queste malattie sono rappresentati da soffio cardiaco, tachicardia, anomalie del polso giugulare, suoni di galoppo, suoni cardiaci attutiti ed aritmie. • Radiografie toraciche, ecografia ed ECG sono indicati quando il paziente è stabile. PRESSIONE ONCOTICA DIMINUITA: • Grave ipoalbuminemia (< 1,5 g/dl)(ad es., nefropatie/ enteropatie proteino-disperdenti [PLN/PLE], disfunzione epatica) • Riscontri all’anamnesi ed all’esame fisico che possono supportare l’ipotesi di queste malattie comprendono: diarrea, poliuria/polidipsia (PU/PD), edema sottocutaneo nelle aree declivi del corpo. • Il contenuto proteico del versamento, estremamente basso • Analisi dell’urina (UA) (±UP:UC), parametri chimici, proteasi fecale α-1, quando il paziente è stabile ALTERATA PERMEABILITÀ VASCOLARE: • Ad es., vasculite (può anche causare essudato se il grado di permeabilità è maggiore) • Si possono riscontrare segni di edema in altre aree, possono essere presenti fattori predisponenti noti • È probabile che il contenuto proteico del versamento sia relativamente elevato

Qf = velocità di filtrazione del liquido: Kf = coefficiente di filtrazione vascolare; Pc = pressione idrostatica capillare; Pπ = pressione idrostatica interstiziale; σ = coefficiente di riflessione oncotica; πc = pressione capillare colloidoosmotica; πif = pressione interstiziale colloido-osmotica

• Quando il paziente è stato stabilizzato, indagine per evidenziare sottostanti malattie infiammatorie, infettive o immunomediate. OSTRUZIONE LINFATICA: • Neoplasie (è raro che causino un trasudato puro) • Ernia diaframmatica (può anche causare essudati nei casi cronici) 182


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con i neutrofili degenerati che costituiscono il tipo cellulare predominante. Batteri possono essere osservati sia all’interno della cellula (con macrofagi e neutrofili) che all’esterno. Se sono presenti anaerobi, gli essudati settici possono avere un odore molto sgradevole.

• I riscontri anamnestici e clinici che possono deporre a favore di queste malattie sono rappresentati da traumi e precedenti neoplasie • Radiografie ed ecografie toraciche (± addome) quando il paziente è stabile. 2) Essudati settici e non settici

Il piotorace può comparire nelle seguenti situazioni: • SPONTANEAMENTE (IDIOPATICO) • FERITE PENETRANTI • Parete toracica, esofago, vie aeree • CORPI ESTRANEI MIGRANTI DI ORIGINE VEGETALE • Ariste di graminacee (soprattutto California) • ESTENSIONE DI POLMONITI BATTERICHE

Gli essudati hanno un contenuto proteico (> 3 g/dl) e un conteggio cellulare (> 5000/μl) più elevati dei trasudati. Su tutti gli essudati pleurici si devono effettuare gli esami colturali aerobici ed anaerobici e gli antibiogrammi, nonché la colorazione di Gram. Sono comuni le infezioni batteriche miste, e solitamente si isolano microrganismi anaerobi. I batteri più frequentemente riscontrati nel gatto sono Bacteroides (anaerobio), Fusobacterium (anaerobio) e Pasteurella multocida (aerobio). Quelli più comunemente isolati dai cani sono Fusobacterium (anaerobio), Actinomyces (anaerobio), Nocardia (aerobio), Streptococcus (anaerobio facoltativo) e Pasteurella multocida (aerobio).

TRATTAMENTO MEDICO O CHIRURGICO? In letteratura sono state pubblicate molte segnalazioni di successo della terapia medica del piotorace. Questa di solito consiste nell’inserimento di sonde toraciche per drenare il pus, con o senza l’impiego di un lavaggio periodico del torace. In un recente lavoro pubblicato in Gran Bretagna è stato dimostrato un eccellente risultato in 15 cani trattati con anestesia generale, toracentesi monolaterale e soministrazione combinata di ampicillina alla dose di 33 mg/kg tre volte al giorno e metronidazolo alla dose di 25 mg/kg due volte al giorno per un minimo di 6 settimane. Tuttavia, questo è il solo lavoro in cui vengono riferiti risultati di questo tipo senza l’uso combinato di sonde da toracostomia permanenti, lavaggio e chirurgia e non era disponibile il follow-up a lungo termine. Quando si cerca di trattare il piotorace per via medica, l’inserimento delle sonde toraciche deve essere effettuato subito dopo la diagnosi. Questo è il trattamento più importante perché consente il drenaggio del versamento. Inizialmente, l’autore inserisce una sonda monolaterale, drena il pus e poi valuta radiograficamente se sia indicata una seconda sonda. Nelle condizioni a carattere infiammatorio, talvolta il mediastino diventa impervio, per cui è necessaria una seconda sonda sull’altro lato. L’aspirazione continua con un sistema a tenuta idraulica è lo standard aureo nell’uomo, ma non è disponibile in tutte le strutture veterinarie ospedaliere. Un’aspirazione frequente (ogni 2 ore, 24 ore al giorno) ed intermittente rappresenta una ragionevole alternativa. Il lavaggio del torace con 10 ml/kg di soluzione fisiologica sterile riscaldata due volte al giorno è controverso. È raccomandato da alcuni autori, perché può contribuire a fluidificare le secrezioni e favorire l’aspirazione del pus. Altri non lo raccomandano, perché può aumentare il rischio di introduzione e diffusione dell’infezione. L’autore preferisce servirsene se ha un paziente che presenta pus molto addensato o focale che non risponde alla terapia standard. Presso la University of Florida i risultati che abbiamo ottenuto con la sola terapia medica sono stati piuttosto sfavorevoli e abbiamo la sensazione che il trattamento del piotorace debba essere più aggressivo. Abbiamo rilevato che trattare il paziente con antibiotici, da soli o abbinati ad altri agenti, di solito non è sufficiente. Spesso si verifica inizialmente un notevole miglioramento della condizione clinica,

Gli essudati non settici presentano cellule come neutrofili, macrofagi, eosinofili e linfociti. I macrofagi ed i linfociti possono essere attivati, ma i neutrofili sono di tipo non degenerativo e non si osservano microrganismi. Le diagnosi differenziali per gli essudati non settici comprendono (senza essere limitate ad esse): PERITONITE INFETTIVA FELINA (FIP) • I gatti possono avere febbre, corioretinite ed ascite in aggiunta ai segni clinici respiratori • Le proteine dei fluidi spesso sono ESTREMAMENTE elevate (quasi quanto le proteine del siero). Nel liquido si possono anche riscontrare filamenti di fibrina o coaguli. NEOPLASIE • Possono anche causare idrotorace/chilotorace/emotorace TORSIONE DI UN LOBO POLMONARE (Può anche causare chilotorace/emotorace) • Può essere sia la causa che l’effetto di un versamento pleurico! • Si riscontrano delle forme spontanee principalmente nei cani con torace stretto e profondo (predisposto il Levriero afgano). ERNIA DIAFRAMMATICA CRONICA • Può anche causare idrotorace ESSUDATI SETTICI IN VIA DI RISOLUZIONE • Gli animali con infezioni pleuriche (piotorace, empiema) che sono stati trattati con antibiotici possono presentare versamenti che sembrano essudati non settici. Quindi, è importante cercare di stabilire una diagnosi prima di iniziare il trattamento. Negli essudati settici spesso il conteggio delle cellule nucleate è ESTREMAMENTE elevato (50.000-100.000/μl), 183


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ma quando si interrompe il trattamento le manifestazioni della malattia recidivano. Inoltre, è più probabile che l’animale soffra delle conseguenze di un’infezione a lungo termine, come fibrosi o ascessi. Benché sia ancora un argomento controverso, sembra che l’esplorazione chirurgica con introduzione di sonde toraciche per stabilire un drenaggio sia l’opzione terapeutica più appropriata per i casi di piotorace. Ciò richiede un chirurgo capace e un ospedale attrezzato per maneggiare i pazienti malati in condizioni postoperatorie critiche. Presso la University of Florida effettuiamo tipicamente la sternotomia mediana, la toracotomia esplorativa completa e la lacerazione delle aderenze fibrose, nonché la rimozione degli ascessi dei lobi polmonari. In fase iniziale si devono impiegare antibiotici endovenosi, attendendo i risultati delle prime colture. L’ampicillina è un vlido farmaco di prima scelta perché è efficace contro molti aerobi ed anaerobi. Un più ampio spettro di batteri è suscettibile all’ampicillina potenziata con sulbactam (UnaSyn). Se sono coinvolti i microrganismi Gram-negativi, si deve prendere in considerazione l’enrofloxacin. Si possono anche valutare gli aminoglicosidi, che però non sono altrettanto efficaci per determinare la morte dei batteri nel pus. Una volta che l’animale inizi a migliorare, la somministrazione degli antibiotici per via endovenosa può essere sostituita da quella per os. La valutazione clinica e le colorazioni di Gram del liquido devono essere effettuate ogni 48 ore per rilevare i miglioramenti. Le sonde toraciche sono lasciate in sede fino a che il liquido raccolto ha un volume < 2 ml/kg/die e non è più

suppurativo e settico. I neutrofili potranno ancora essere presenti, ma non devono apparire degenerati. Le radiografie non devono mostrare sacche residue di liquido. L’antibioticoterapia viene continuata per 8-12 settimane. Prima di interrompere gli antibiotici e circa due settimane dopo la loro sospensione, si devono effettuare le radiografie del torace. La toracoscopia video assistita (VATS) è stata utilizzata in alcuni centri come ponte tra la terapia chirurgica e quella medica. Si può utilizzare per ottenere dei campioni, sbrigliare le aderenze e visualizzare la pleura per una collocazione accurata delle sonde toraciche. Pur essendo una tecnica promettente, non ci sono lavori attuali che delineino una sua efficacia a lungo termine nel trattamento del piotorace.

Riassunto Il trattamento del piotorace resta molto controverso, con tassi di mortalità dello 0-42%. Tuttavia, molti cani muoiono o sono sottoposti ad eutanasia senza un trattamento per l’elevato costo della terapia e la variabilità dei risultati con o senza intervento chirurgico. La nostra struttura clinica tende ad esaminare casi in cui il trattamento medico è già fallito e per questo siamo portati ad assumere un approccio più aggressivo. La toracoscopia videoassistita sembra promettente come terapia per certi tipi di piotorace.

Bibliografia 1. 2.

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Johnson MS Martin MWS, Gill PJ. Successful medical management of 15 dogs with pyothorax. J Sm Anim Pract 200748,12-16. MacPhail CM. Medical and surgical management of pyothorax. Vet Clin Small Anim 37(2007) 975-988.


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Pyothorax therapeutic controversies. Medical vs. surgical treatment Gary W. Ellison DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA

DIFFERENTIALS FOR PYOTHORAX 1) Transudates and Modified Transudates (Hydrothorax) Transudates are fluids with low protein concentrations (<2.5-3g/dl) and low nucleated cell counts (<500-1000/ml.) The primary cell types are mononuclear cells, comprised of macrophages, lymphocytes and mesothelial cells. Modified transudates have slightly higher protein contents (up to 3.5g/dl) and cells counts up to 5000/ml. Neutrophils can also form part of the cell component. Transudates and modified transudates usually form as a result of alterations in Starling forces: INCREASED HYDROSTIC PRESSURE: • e.g. right-sided congestive heart failure, pericardial disease • Physical examination findings that might support these diseases include: heart murmur, tachycardia, abnormal jugular pulses, gallop sounds, muffled heart sounds and arrhythmias. • Thoracic radiographs, ultrasound and ECG are indicated when patient is stable DECREASED ONCOTIC PRESSURE: • Severe hypoalbuminema (<1.5g/dl) (e.g. PLN/PLE, hepatic dysfunction) • Historical and physical examination findings that might support these diseases include: diarrhea, PUPD, SQ edema in dependent areas of body. • Protein content of effusion extremely low • UA (+/- UP:UC), Chem, fecal 〈-1 protease... when patient is stable. • Diaphragmatic hernia (can also cause exudates in chronic cases) • Historical and physical examination findings that might support these diseases include: trauma, and previous neoplasia. • Thoracic radiographs and ultrasound (+/- abdomen) when the patient is stable.

ALTERED VASCULAR PERMEABILITY: • e.g. Vasculitis (could also cause exudate if greater degree of permeability) • Might see evidence of edema in other areas, might have known predisposing factors. • Protein content of effusion likely to be relatively high • Work up for underlying inflammatory, infectious, or immune-mediated diseases when patient is stabilized.

2) Septic and Non-septic Exudates

LYMPHATIC OBSTRUCTION: • Neoplasia (uncommonly causes pure transudate)

Exudates have a higher protein content (>3g/dl) and cell count (>5000/ml) than transudates. 185


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Gram staining and both aerobic and anaerobic cultures with susceptibility testing should be performed on all pleural exudates. Mixed bacterial infections are common, and anaerobes are commonly isolated. Common bacterial isolates from cats are Bacteroides (anaerobic), Fusobacterium (anaerobic) and Pasteurella multocida (aerobic). Common bacterial isolates from dogs are Fusobacterium (anaerobic), Actinomyces (anaerobic), Nocardia (aerobic), Streptococcus (facultatively anaerobic) and Pasteurella multocida (aerobic).

MEDICAL VS. SURGICAL MANAGEMENT? There are numerous reports of successful medical treatments of pyothorax. These usually entail the placement of thoracic tubes to drain the pus with or without the use of periodic thoracic lavage. A recent publication out of Britain showed excellent result in 15 dogs who were treated with general anesthesia, unilateral thoracocentesis and a combination of ampicillin at 33mg/kg three times daily and Metronidazole at 25mg/kg twice for a minimum of 6 weeks. This however is the only paper giving these types of results without either a combination of indwelling thoracostomy tubes, lavage or surgery and long term follow-up was not available. When attempting to treat pyothorax medically, chest tubes should be placed as soon as the diagnosis is made. This is the most important treatment as it allows drainage of the effusion. Initially I place a unilateral tube, drain the pus and then radiographically assess whether a second tube is indicated. In inflammatory conditions, sometimes the mediastinum becomes impervious and then a second tube is needed on the other side. Continuous water seal suction of the tubes is the gold standard in humans, but is not available in all veterinary hospitals. Frequent (every 2 hours, 24 hours a day), intermittent aspiration is a reasonable alternative. Lavage of the chest with 10ml/kg warm sterile saline twice daily is controversial. It is recommended by some authors, because it may aid in loosening up secretions and aid in the aspiration of pus. Others do not recommend it, because it may increase the risk of introducing and spreading infection. I might use it if I had a patient with very inspissated or focal pus that was no responding to standard therapy. At the University of Florida our results have been rather poor with medical management alone and we feel that treatment of pyothorax should be aggressive. We have found that treating the patient with antibiotics alone or with is usually not enough. There is often a remarkable improvement in clinical condition initially, but clinical signs recur when treatment is stopped. Also the animal is more likely to suffer the consequences of long tem infection, such as fibrosis or abscesses. Although there is still some controversy, it appears that surgical exploration with placement of chest tubes to establish drainage is the most appropriate therapeutic option for pyothorax cases. This requires a skilled surgeon and a hospital that is equipped to handle critically ill post-operative patients. At the University of Florida we typically do a median sternotomy, do a full exploratory thoracotomy and break down fibrous adhesions as well as remove abscessed lung lobes lung lobes or Intravenous antibiotics should initially be used, pending results of initial culture. Ampicillin is a good first choice as it is effective against many aerobes and anaerobes. A broader spectrum of bacteria is susceptible to Ampicillin potentiated with Sulbactam (UnaSyn). If gram negatives are involved, Enrofloxacin should be considered. Aminoglycosides can also be considered, however they are not as effective at killing bacteria in pus. Once the animal starts to improve, intravenous antibiotics can be replaced with oral antibiotics.

Nonseptic exudates have cell types consisting of neutrophils, macrophages, eosinophils and lymphocytes. Macrophages and lymphocytes may be activated, but neutrophils are non-degenerate and no organisms are seen. Differentials for non-septic exudates include (but are not limited to): FELINE INFECTIOUS PERITONITIS (FIP) • Cats may have fever, chorioretinitis and ascites in addition to respiratory signs • Fluid protein often EXTREMELY elevated (almost as high as serum protein). May also see fibrin strands or clots in fluid. NEOPLASIA • May also cause hydrothorax / chylothorax / hemothorax LUNG LOBE TORSION (May also cause chylothorax / hemothorax) • May cause pleural effusion or be caused by pleural effusion! • Spontaneous form seen mainly in dogs with deep narrow chest (Afghan Hound predisposed) • May be secondary to chronic lung disease. • Thoracic radiographs, and possible ultrasound and bronchoscopy can be used to confirm torsion when animal is stable. CHRONIC DIAPHRAGMATIC HERNIA • May also cause hydrothorax RESOLVING SEPTIC EXUDATES • Animals with pleural infections (pyothorax, empyema) that have been treated with antibiotics may have effusions that resemble Nonseptic exudates. Thus it is important to try to establish a diagnosis before initiating treatment. Septic exudates often have EXTREMELY elevated nucleated cell counts (50,000-100,000/ml), with degenerate neutrophils being the predominant cell type. Bacteria may be observed intracellularly (within macrophages and neutrophils) and extracellularly. Septic exudates may have a foul odor if anaerobes are present. Pyothorax can occur in the following situations: • SPONTANEOUSLY (IDIOPATHIC) • PENETRATING WOUNDS Thoracic wall, esophagus, airways • MIGRATING GRASS FOREIGN BODIES Grass awns (esp. California) • EXTENSION OF BACTERIAL PNEUMONIA 186


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Cytological evaluation and gram stains of the fluid should be performed every 48 hours to look for improvement. Chest tubes are left in place until the volume of fluid recovered is <2ml/kg/day and the fluid is no longer suppurative and septic. Neutrophils will still be present but should not appear degenerate. Radiographs should show no remaining pockets of fluid. Antibiotic therapy is continued for 8-12 weeks. Before discontinuing antibiotics and about 2 weeks after discontinuing antibiotics, chest radiographs should be obtained. Video Assisted Thoracoscopy (VATS) has been used in some centers as a bridge between medical and surgical therapy. It can be used to obtain samples, break down adhesions and visualize the pleura for accurate placement of chest tubes. Although it holds great promise there are no current papers out delineating its long term efficacy in the management of pyothorax..

Summary The treatment of pyothorax remains highly controversial with mortality rates of 0-42% reported. However many dogs die or are euthanized without treatment due to the high costs of therapy and variable results with and without surgery. Our clinical practice tends to see cases in which medical management has failed and as such we tend to take more aggressive approach. Video assisted thoracoscopy shows new promise as a treatment for certain type of pyothorax

References Johnson MS Martin MWS, Gill PJ. Successful medical management of 15 dogs with pyothorax. J Sm Anim Pract 200748,12-16. MacPhail CM. Medical and surgical management of pyothorax. Vet Clin Small Anim 37(2007) 975-988.

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Pneumotorace: quando la chirurgia? Gary W. Ellison DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA

Pneumotorace

Fisiopatologia

Per definizione, lo pneumotorace è l’accumulo di aria o gas liberi nello spazio pleurico. L’aria può entrare in quest’ultimo attraverso una qualsiasi di queste tre fonti: il polmone stesso, attraverso una fuoriuscita pleuropolmonare, l’atmosfera, mediante una comunicazione pleurocutanea, pleuroesofagea o pleurobronchiale, o per la presenza di microrganismi gas-produttori nello spazio pleurico. Lo pneumotorace viene classificato in relazione alla sua eziologia e fisiopatologia ed all’entità del collasso polmonare. Lo pneumotorace può essere di origine traumatica o spontanea. Quello traumatico è stato riportato nel 47% di tutti i casi di trauma toracico nei piccoli animali e più spesso è il risultato di incidenti automobilistici. Quello spontaneo viene definito come uno pneumotorace chiuso in cui il parenchima polmonare è all’origine della fuga di aria e compare in assenza di un trauma antecedente. Lo pneumotorace spontaneo viene ulteriormente classificato in primario e secondario. La definizione di pneumotorace spontaneo primario denota l’assenza di segni clinici riferibili ad una malattia polmonare sottostante preesistente. Lo pneumotorace spontaneo secondario descrive una coesistenza clinicamente riconoscibile di anomalie strutturali o funzionali nel polmone. Tutti i casi di pneumotorace spontaneo secondario insorgono come conseguenza di alcuni processi di malattie polmonari sottostanti.

Quando entra nello spazio pleurico, l’aria separa la pleura parietale da quella viscerale e causa il collasso del polmone e l’espansione del torace. Quando il mediastino è intatto, lo pneumotorace è unilaterale; se è distrutto, lo pneumotorace può essere bilaterale. L’aria può continuare ad accumularsi nello spazio pleurico anche dopo che un polmone è interamente collassato, facendo sì che il volume di aria intrappolata sia maggiore di quello dell’emitorace colpito. Il paziente può sviluppare una pressione intrapleurica positiva all’espirazione e, occasionalmente, durante l’inspirazione. Ciò è noto come pneumotorace iperteso ed è una situazione immediatamente pericolosa per la vita. Lo pneumotorace iperteso si sviluppa quando compare un effetto a valvola ad una via, in cui l’aria entra nello spazio pleurico (durante l’inspirazione) ma non ne fuoriesce.

Segni clinici Il paziente con pneumotorace presenta segni clinici correlati a ventilazione inadeguata, riduzione del volume tidalico e capacità funzionale residua, e conseguente ipossiemia ed acidosi respiratoria. La tachipnea è spesso la prima risposta respiratoria a piccoli volumi di aria pleurica libera. Inizialmente, questa ventilazione incrementata abbassa i livelli di biossido di carbonio arterioso ed aumenta il pH ematico. Man mano che l’apporto di aria pleurica libera aumenta, la

CLASSIFICAZIONE DELLO PNEUMOTORACE Pneumotorace

Spontaneo

Traumatico

Primario – nessuna patologia parenchimale ferita penetrante

Secondario – patologia parenchimale

Eziologia sconosciuta

Infettivo Neoplastico Parassitario Pneumopatia cronica ostruttiva Cisti polmonari congenite Tromboembolico

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Trauma toracico da corpo contundente o

Iatrogeno


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risposta progredisce verso l’iperventilazione. Ciò riduce lo spazio morto fisiologico nel polmone e migliora l’efficienza dello scambio gassoso. Il cane può tollerare uno pneumotorace imponente, fino a due volte e mezzo il suo volume residuo, incrementando la propria espansione toracica. Tuttavia, man mano che lo pneumotorace progredisce, questi meccanismi compensatori vengono meno, la CO2 arteriosa aumenta e una grave acidosi può essere fatale. Il grado di squilibrio funzionale in caso di pneumotorace dipende dal grado di collasso e dalla funzione polmonare presente prima del collasso stesso. Negli individui normali, possono essere ben tollerati pneumotoraci con collasso del 50% del polmone, mentre nei pazienti con pneumopatia sottostante e compromissione respiratoria, un piccolo pneumotorace può evocare alterazioni funzionali devastanti.

di sangue intero o somministrazione di emazie concentrate. Nelle situazioni di emergenza, si può impiegare l’autotrasfusione come mezzo per ripristinare rapidamente gli eritrociti quando il sangue intero non è immediatamente disponibile. Quando un sanguinamento attivo continua e la terapia dello shock diventa refrattaria può essere richiesta una toracotomia esplorativa d’emergenza utilizzando una tecnica di sternotomia mediana.

Pneumotorace spontaneo La patogenesi dello pneumotorace spontaneo è multifattoriale; molti casi derivano dalla formazione di spazi cistici sottopleurici associati a fibrosi interstiziale diffusa o enfisema. La condizione concomitante più comunemente riportata nei pazienti canini è la pneumopatia ostruttiva (COPD, chronic obstructive pulmonary disease). La fuoriuscita dell’aria intrappolata attraverso le pareti indebolite degli spazi aerei dilatati è probabilmente aiutata dalle elevate pressioni intrabronchiali durante la tosse. Può anche contribuire un’ostruzione locale delle vie aeree causata da tappi di muco e infiammazione. Il risultato è un’infiammazione polmonare, un indebolimento della normale elasticità della pleura ed una progressiva distruzione delle pareti alveolari, che porta alla formazione di bolle. Nei cani, è anche stato riportato uno pneumotorace spontaneo secondario come rara complicazione della polmonite batterica o virale, rotture di cisti congenite, e rottura di ascessi polmonari formati da corpi estranei vegetali aspirati. Le eziologie parassitarie come la rottura di cisti parassitarie da distomi o cestodi nel polmone sono state descritte come causa di pneumotorace, così come è stato osservato un tromboembolismo polmonare arterioso secondario a filariosi cardiopolmonare. La neoplasia può distruggere il parenchima polmonare normale comportando una cavitazione del polmone e una necrosi della pleura viscerale, con conseguente pneumotorace spontaneo.

Diagnosi di pneumotorace I riscontri radiografici classici dello pneumotorace sono rappresentati da 1) aumento della larghezza dello spazio pleurico ripieno di aria, 2) collasso polmonare parziale e retrazione dei margini polmonari dalla parete del torace e 3) sollevamento dell’ombra cardiaca dallo sterno nelle proiezioni laterolaterali. Con un concomitante pneumotorace traumatico sono comuni l’accumulo di liquido e le contusioni polmonari. Si può riscontrare una pneumopatia evidente in caso di pneumotorace spontaneo secondario. La malattia parenchimale può essere localizzata ad un lobo, come nella neoplasia polmonare primaria o nella polmonite lobare, o si può riscontrare diffusamente nei casi di metastasi tumorali, malattia tromboembolica o polmonite generalizzata. Lo pneumotorace spontaneo è spesso più difficile da diagnosticare mediante radiografia, perché può essere presente bilateralmente senza un’evidenza radiografica di malattia parenchimale. Nell’uomo, soltanto il 10-20% dei casi mostrerà vescicole o bolle polmonari nelle radiografie toraciche senza mezzo di contrasto. Le lesioni cavitarie, le bolle o le vescicole possono essere visibili, il che rende inutili gli ulteriori accertamenti diagnostici, ma sono state descritte nuove tecniche per aumentare l’efficacia della localizzazione radiografica della fistola broncopleurica, compreso l’impiego di mezzo di contrasto o scintigrafia.

Trattamento dello pneumotorace L’obiettivo del trattamento dello pneumotorace è la riespansione del polmone, per ristabilire il contatto fra la pleura parietale e quella viscerale, con la minore morbilità possibile. Il trattamento dello pneumotorace traumatico dipende dal grado di collasso polmonare, dall’entità della contusione dell’organo e dai segni clinici di pneumotorace dimostrati dall’animale. Come regola pratica, i casi con meno del 25% stimato di perdita della capacità vitale non richiedono una riespansione polmonare. La maggior parte degli episodi di pneumotorace traumatico si risolve in 3-7 giorni, senza alcun trattamento. I casi più gravi possono richiedere una terapia con O2 e l’introduzione di sonde da toracostomia con un’aspirazione continua o intermittente. I cani con pneumotorace spontaneo spesso presentano una significativa patologia polmonare sottostante. Questi pazienti vengono tipicamente presentati alla visita per una grave dispnea o tachipnea. Radiograficamente, spesso dimostrano pneumotorace bilaterale e un numero significativo può di fatto presentare uno pneumotorace iperteso. Questi soggetti richiedono un intervento immediato, aggressivo. Spesso la toracentesi non sarà sufficiente, e si raccomanda una sonda da toracostomia. L’accumulo di aria pleurica libera può quindi essere così rapido che è necessaria una continua aspi-

Emotorace La presenza di sangue libero nello spazio pleurico spesso accompagna il trauma toracico. Un sanguinamento secondario alla distruzione dei vasi principali in genere risulta fatale, mentre un’emorragia secondaria al danno polmonare parenchimale o una lacerazione dei vasi intercostali può di solito essere trattata con la terapia medica. La diagnosi di emotorace viene effettuata mediante toracentesi e confronto dell’ematocrito del liquido con quello del sangue periferico. Se il sanguinamento intrapleurico è terminato e l’ematocrito resta al di sopra del 25%, di solito non è necessaria una reintegrazione di eritrociti. Nel caso di un sanguinamento intrapleurico attivo di solito esistono segni clinici addizionali di shock ipovolemico generalizzato. I pazienti inizialmente vengono supportati con soluzioni cristalloidi, seguite dall’impiego di soluzione ipertonica di NaCl o componenti del plasma per mantenere un’adeguata pressione sanguigna. Se il sanguinamento attivo continua, sono richieste trasfusioni 189


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razione per mantenere la ventilazione. Se lo pneumotorace persiste per più di 48 ore ed i segni clinici sono ancora evidenti, o se esistono prove radiografiche dell’origine della perdita, è indicata una toracotomia esplorativa. In letteratura veterinaria, l’efficacia ed il momento più opportuno per l’esecuzione dell’intervento chirurgico per il trattamento dello pneumotorace spontaneo sono oggetto di una notevole controversia; tuttavia i cani che sono stati trattati chirurgicamente hanno una frequenza di recidiva più bassa e una sopravvivenza a lungo termine maggiore di quelli sottoposti alla terapia medica. L’intervento chirurgico nei casi di pneumotorace spontaneo nel cane consiste nella toracotomia esplorativa e nella resezione parziale o completa del tessuto polmonare colpito. La sternotomia mediana è l’approccio preferito nella maggior parte dei casi di pneumotorace spontaneo, perché consente l’ispezione completa di entrambi gli emitoraci e permette un’eccellente esposizione degli apici del polmone, dove le lesioni vengono identificate più frequentemente. La lobectomia parziale è un’alternativa accettabile a quella completa quando le lesioni sono focali, dato che consente di preservare la massima funzionalità polmonare. I dispositivi per la chiusura dei polmoni mediante graffatura1 (TA30, TA55, TA90) hanno eliminato il lungo e noioso compito di effettuare individualmente la dissezione e successiva legatura dei diversi vasi polmonari e dei bronchi. Vengono utilizzati di routine in questi casi per la rapidità e facilità di applicazione, sicurezza ed efficacia.

pedici. Le alterazioni fisiologiche associate al torace a valvola comprendono la riduzione della capacità vitale, la diminuzione della compliance, il calo della capacità funzionale residua e l’aumento della resistenza delle vie aeree. Queste alterazioni esitano in ipoventilazione e un maggior incremento nel lavoro di espansione durante la respirazione. Le lesioni non ortopediche più comuni che si riscontrano nel trauma da torace a valvola sono le contusioni polmonari. Queste possono comportare ipoventilazione da riduzione della compliance ed aree di danno alveolare. Si possono anche verificare uno shunt arterovenoso ed un disaccoppiamento fra ventilazione e perfusione che esitano in un’ipossiemia di grado estremo. La ventilazione meccanica è stata impiegata con successo nei pazienti umani ed oggi è un trattamento standard in molti centri medici per la gestione del torace a valvola. La ventilazione a pressione teleespiratoria positiva (PEEP, positive end-expiratory pressure) contribuisce a superare il disaccoppiamento fra ventilazione e perfusione e riduce lo shunt arterovenoso che accompagna la maggior parte dei casi di contusione polmonare. Tuttavia, questo metodo non è attuabile per una gestione a lungo termine del torace a valvola nei cani perché potrebbe richiedere l’immobilizzazione e la supervisione 24 ore su 24.

Trattamento Il trattamento appropriato del torace a valvola nei piccoli animali coinvolge la stabilizzazione della parete toracica. È stata tentata la fissazione interna delle costole, che però, a causa delle contusioni polmonari presenta un rischio anestetico inappropriato in molti animali d’affezione. Una valida alternativa alla stabilizzazione chirurgica del segmento fluttuante è l’impiego di una stecca esterna a scaletta (ladder splint). Una stecca fatta di bacchette di alluminio viene sagomata in modo da adattarsi alle aree lombare e toracica dorsale del cane. Le estremità della stecca vengono poi collegate con barre orizzontali che passano sull’area instabile della parete toracica. Le facce craniale e caudale della stecca vengono imbottite per ridurre la probabilità di creare piaghe da compressione. Quindi si passa un materiale da sutura in nylon o polipropilene 0 o 1 intorno ai segmenti di costola instabili e lo si assicura alle barre orizzontali. Per applicare la sutura è importante utilizzare un grande ago curvo, fatto passare il più aderente possibile all’osso per evitare di forare i polmoni. Il segmento a valvola viene poi tirato verso l’esterno ed assicurato legando le suture intorno alla barra orizzontale. Ciò consente di eliminare il movimento paradosso della parete toracica. Il supporto a scaletta esterno di solito viene lasciato in sede per 2-3 settimane dopo il trauma. A questa data si è formata una stabilizzazione fibrosa dei capi di frattura sufficiente a consentirne la rimozione senza la ricomparsa di un movimento toracico paradosso.

Prognosi La prognosi per la maggior parte dei casi di pneumotorace traumatico varia da buona ad eccellente. Tuttavia, data la natura spesso generalizzata della pneumopatia nei pazienti in cui è stato diagnosticato uno pneumotorace spontaneo, il tasso di recidiva è elevato. Comunque, esiste un’incidenza molto più alta di recidiva nei cani trattati in modo conservativo rispetto a quelli trattati chirurgicamente. Nei casi di granulomi parassitari, neoplasie, infarti tromboembolici, polmoniti o cisti polmonari ci può essere soltanto un coinvolgimento focale e la resezione può essere risolutiva. Nei casi con sottostante enfisema bolloso, tuttavia, la prognosi è generalmente più riservata, per la natura ricorrente delle malattie di base, e i proprietari di questi pazienti devono essere avvertiti preventivamente dell’eventualità di una recidiva. Tuttavia, a lungo termine i risultati clinici più incoraggianti nel trattamento dello pneumotorace spontaneo sono stati ottenuti ricorrendo alla terapia medica aggressiva ed all’intervento chirurgico precoce.

Trattamento del torace a valvola Il torace a valvola si può riscontrare quando due o più costole adiacenti sono fratturate o dislocate sia prossimalmente che distalmente, creando una sezione segmentale di parete toracica con movimenti paradossi verso l’interno durante l’inspirazione e verso l’esterno durante l’espirazione. La causa più comune di torace a valvola è un trauma da corpo contundente al torace, di solito secondario ad un incidente automobilistico o una ferita toracica da morso. Gli animali con danni da torace a valvola spesso arrivano in una grave condizione di dispnea e possono avere altri danni orto-

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United States Surgical Corporation, Stanford, CT.

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Pneumothorax - When the surgery is indicated Gary W. Ellison DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA

in the pleural space even after one lung has completely collapsed, resulting in a volume of trapped air which is greater than the volume of affected hemithorax. The patient may develop a positive intrapleural pressure during expiration and occasionally during inspiration. This is known as a tension pneumothorax and is an immediately life-threatening situation. A tension pneumothorax develops when a one-way valve effect occurs in which air enters the pleural space (during inspiration) but cannot escape.

Pneumothorax Pneumothorax by definition is the accumulation of free air or gas in the pleural space. Air may enter the pleural space from any of three sources: the lung itself via a pleuropulmonary leak; the atmosphere via a pleurocutaneous, pleuroesophageal or pleurobronchial communication; or due to the presence of gas-forming organisms in the pleural space. Pneumothorax is classified according to its etiology, pathophysiology, or the magnitude of lung collapse. Pneumothorax may be of traumatic or spontaneous origin. Traumatic pneumothorax has been reported in 47% of all cases of chest trauma in small animals and most often is the result of automobile accidents. Spontaneous pneumothorax is defined as a closed pneumothorax in which the lung parenchyma is the source of air leakage and occurs in the absence of antecedent trauma. Spontaneous pneumothorax is further classified as primary or secondary. The term primary spontaneous pneumothorax denotes the absence of clinical evidence of pre-existing underlying pulmonary disease. Secondary spontaneous pneumothorax describes a clinically recognizable coexisting structural or functional abnormality in the lung. All cases of secondary spontaneous pneumothorax occur as the result of some underlying pulmonary disease process.

Clinical Signs The patient with pneumothorax has clinical signs related to inadequate ventilation, reduction of tidal volume and functional residual capacity, and resultant hypoxemia and respiratory acidosis. Tachypnea is often the first respiratory response to small volumes of free pleural air. Initially, this increased ventilation lowers the arterial carbon dioxide and raises the pH of blood. As the amount of free pleural air increases, the response progresses to hyperventilation. This reduces the physiological dead space in the lung and improves the efficiency of gas exchange. The dog can tolerate massive pneumothorax of up to two and one-half times its residual volume by increasing its chest expansion. However, as the pneumothorax progresses these compensatory mechanisms fail, arterial CO2 rises, and severe acidosis may be fatal. The degree of functional derangement with pneumothorax depends on the degree of collapse and the lung function present before collapse. In normal individuals, pneumothoraxes of 50% lung collapse may be well-tolerated, while in patients with underlying lung disease and ventilatory compromise, a small pneumothorax may evoke devastating changes in function.

Diagnosis of Pneumothorax Classic radiographic findings of pneumothorax include: 1) increased width of an air-filled pleural space, 2) partial pulmonary collapse and retraction of lung margins from the chest wall, and 3) the heart shadow elevated off the sternum in the lateral view. With traumatic pneumothorax concurrent fluid accumulation and lung contusions are common. There may be obvious pulmonary disease in cases of secondary spontaneous pneumothorax. Parenchymal disease may be localized to one lobe as in primary lung cancer or lobar pneumonia, or it may be seen diffusely in cases of metastatic cancer, thromboembolic disease, or generalized pneumonia. Spontaneous pneumothorax is often a more difficult diagnosis to make radiographically, as it may be present bilaterally without radiographic evidence of parenchymal disease. In humans, only 10-20% of cases will show evi-

Pathophysiology When air enters the pleural space, it separates the visceral and parietal pleura and results in both collapse of the lung and expansion of the thorax. When the mediastinum is intact the pneumothorax is unilateral, if it is disrupted the pneumothorax may be bilateral. Air may continue to accumulate 191


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dence of pulmonary blebs or bullae on plain thoracic radiographs. Cavitating lesions, bullae or blebs may be visible which make further diagnostics unnecessary, but newer techniques have been described to increase the efficacy of radiographic localization of bronchopleural fistula, including the use of contrast material and scintigraphy.

collapse, the amount of lung contusion and the clinical signs demonstrated by the animal. As a rule of thumb those cases with less than 25% estimated loss of vital capacity will not require lung re-expansion. Most cases of traumatic pneumothorax will resolve in 3-7 days without treatment. More severe cases may require O2 therapy and placement of thoracostomy tubes with either intermittent or continuous suction. Dogs with spontaneous pneumothorax often have significant underlying pulmonary pathology. These patients typically are presented for severe dyspnea or tachypnea. Radiographically they often demonstrate bilateral pneumothorax, and a significant number may actually have a tension pneumothorax. These patients require immediate, aggressive intervention. Often intermittent thoracocentesis will not suffice, and tube thoracostomy is recommended. Accumulation of free pleural air may be so rapid that continuous underwater suction is required to maintain ventilation. If the pneumothorax persists for more than 48 hours and clinical signs are still apparent, or if there is radiographic evidence of a source of leakage, exploratory thoracotomy is indicated. Considerable controversy exists in the veterinary literature regarding the efficacy and timing of operative intervention for spontaneous pneumothorax, however dogs that are treated surgically have lower recurrence rate and better long-term survival than those treated medically. Surgical intervention in cases of spontaneous pneumothorax in dogs consists of exploratory thoracotomy and partial or complete resection of diseased lung tissue. Median sternotomy is the preferred approach in most cases of spontaneous pneumothorax as it allows complete inspection of both hemithoraces and gives excellent exposure to the lung apices, where the lesions are most often identified. Partial lobectomy is an acceptable alternative to complete lobectomy when the lesions are focal, as it allows preservation of maximal functional lung. Lung stapling devices1 (TA30, TA55, TA90) have eliminated the tedious and time-consuming task of individual dissection and ligation of pulmonary vessels and bronchi. They are routinely used in these cases due to the speed and ease of application, safety and efficacy.

Hemothorax Free blood in the pleural space often accompanies thoracic trauma. Bleeding secondary to disruption of major vessels is usually fatal whereas hemorrhage secondary to parenchymal lung damage or tears of the intercostal vessels can usually be managed medically. Diagnosis of hemothorax is made via thoracocentesis and comparison of packed cell volume of the fluid with peripheral blood. If intrapleural bleeding has ceased and peripheral packed cell volume remains above 25% red cell replacement is usually unnecessary. With active intrapleural bleeding there are usually accompanying signs of generalized hypovolemic shock. Patients are initially supported with crystalloid solutions followed by the use of hypertonic saline or plasma compounds to maintain adequate blood pressure. If active bleeding continues whole blood transfusions or administration of packed red cells is warranted. In emergency situations autotransfusion may be used as a means of rapidly restoring red cells when whole blood is not immediately available. When active bleeding continues and shock therapy becomes refractory emergency exploratory thoracotomy using a median sternotomy technique may be warranted.

Spontaneous Pneumothorax The pathogenesis of spontaneous pneumothorax is multifactorial; many cases result from the formation of subpleural cystic spaces associated with diffuse interstitial fibrosis or emphysema. The most commonly reported concurrent condition in canine patients is chronic obstructive pulmonary disease (COPD). The leakage of trapped air through the weakened walls of dilated air spaces is probably assisted by high intrabronchial pressures during coughing. Local airway obstruction caused by mucus plugs and inflammation may also contribute. The result is pulmonary inflammation, weakening of the normal elasticity of the pleura and progressive destruction of alveolar walls leading to bullae formation. In dogs, secondary spontaneous pneumothorax has also been reported as a rare complication of bacterial or viral pneumonia, ruptured congenital cysts, and rupture of pulmonary abscesses formed from aspirated plant foreign bodies. Parasitic etiologies such as rupture of lung fluke or tapeworm cysts in the lungs have been described causing pneumothorax, as has pulmonary arterial thromboembolism secondary to heartworm disease. Neoplastic disease may destroy normal pulmonary parenchyma resulting in pulmonary cavitation and necrosis of visceral pleura resulting in spontaneous pneumothorax.

Prognosis The prognosis for most cases of traumatic pneumothorax is good to excellent. However, due to the often generalized nature of pulmonary disease in patients diagnosed with spontaneous pneumothorax, the recurrence rate is high. However, there is a much higher incidence of recurrence in dogs treated conservatively than those treated surgically. In cases of parasitic granulomas, neoplasia, thromboembolic infarcts, pneumonia or pulmonary cysts there may only be focal involvement and resection may be curative. In cases with underlying bullous emphysema however, the prognosis is generally more guarded due to the recurrent nature of their underlying disease, and the owners of these patients should be warned early of the potential for recurrence. Yet, aggressive medical management and early surgical intervention has demonstrated the most encouraging long-term clinical results in spontaneous pneumothorax.

Treatment of Pneumothorax The objective in treating pneumothorax is reexpansion of the lung to reestablish contact between the visceral and parietal pleura with the least possible morbidity. Treatment of traumatic pneumothorax depends on the degree of lung 192


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Management of Flail Chest

Treatment

Flail chest can occur when two or more adjacent ribs are fractured or dislocated both proximally and distally creating a segmental section of thoracic wall which paradoxically moves inward during inspiration and outward during expiration. The most common cause of flail chest is blunt trauma to the thorax usually secondary to an automobile accident or thoracic bite wound. Animals with flail chest injuries often arrive in a severely dyspneic state and may have other orthopedic injuries. Physiologic changes associated with flail chest include decreased vital capacity, decreased compliance, reduced functional residual capacity and increased airway resistance. These changes result in hypoventilation and a greater increase in the work expanded during breathing. Pulmonary contusions are the most common nonorthopedic lesion found in flail chest injury. Pulmonary contusions may result in hypoventilation by lowering compliance and damaged alveolar areas. Arteriovenous shunting and ventilation profusion mismatch may occur resulting in ultimate hypoxemia. Mechanical ventilation has been used successfully in human patient and is now a standard treatment in many medical centers for the management of flail chest. Positive end expiratory pressure ventilation (PEEP) will help overcome ventilation profusion, mismatches, and reduce AV shunts which accompany most cases of pulmonary contusions. However, this method is impractical for longterm management of flail chest in dogs because of the immobilization and 24 hour supervision that it would require.

Appropriate treatment of flail chest in small animal involves the stabilization of the chest wall. Internal fixation of the ribs has been attempted but because of pulmonary contusions presents an inappropriate anesthetic risk to many small animal patients. A viable alternative to surgical stabilization of the flail segment is the use of an external ladder splint. A splint made of aluminum rod is contoured over the dog’s dorsal thoracic and lumbar areas. The ends of the splint are then connected with horizontal bars which pass over the unstable area of the thoracic wall. The cranial and caudal aspects of the splint are padded to reduce the chance of creating pressure sores. Zero or #1 nylon or polypylene suture material is then passed around the unstable rib segments and is secured to the horizontal bars. While passing the suture it is important to use a large curved needle and pass as close to the bone as possible to avoid puncturing of the lungs. The flail segment is then drawn outward and secured by tying the sutures around the horizontal bar. This will eliminate paradoxical movement of the chest wall. The external ladder support is usually left in place for 23 weeks after injury. At this time there is enough fibrous stabilization of the fracture ends to allow its removal without the reoccurrence of paradoxical thoracic movement.

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United States Surgical Corporation, Stanford, CT.


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Tamponamento cardiaco: quattro chiacchiere sul tema Gary W. Ellison DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA

Herbert Maisenbacher, VMD, Dipl ACVIM (Cardiology), Folrida, USA FISIOPATOLOGIA DEL TAMPONAMENTO CARDIACO

Tumori della base del cuore. La maggior parte dei tumori della base del cuore sono chemodectomi derivanti dai corpi aortici, sebbene in questa sede possano anche insorgere dei carcinomi tiroidei ectopici o altri tumori. Tipicamente, le metastasi compaiono tardi o non compaiono affatto. I tumori sono a lento accrescimento e possono anche costituire dei riscontri incidentali. Nella maggior parte dei casi causano segni clinici producendo un versamento pericardico, ma è possibile un’invasione dei tessuti adiacenti o la compressione delle strutture cardiovascolari. Le razze brachicefale sono predisposte ed i maschi sono colpiti più frequentemente. I segni clinici del tamponamento cardiaco possono essere risolti mediante pericardectomia. Può essere possibile un’escissione della massa, con un alto rischio di emorragia e danneggiamento delle strutture cardiovascolari. L’escissione completa è rara e ci si attende una recidiva locale. Mesotelioma. I mesoteliomi possono colpire il pericardio e/o la pleura. Si tratta generalmente di una neoplasia diffusa, senza alcuna massa isolata, per cui la diagnosi è problematica. La differenziazione delle cellule neoplastiche da quelle mesoteliali reattive all’esame citologico non è possibile. La diagnosi definitiva richiede l’esame istopatologico di biopsie pericardiche o pleuriche. In generale, produce versamento pericardico e/o pleurico con segni clinici associati. La prognosi è estremamente sfavorevole, dato che non è possibile l’escissione chirurgica, anche se, per aumentare la sopravvivenza è stato ipotizzato l’impiego del cisplatino per via intracavitaria. Altri. Altri tumori cardiaci primari o metastatici di quasi qualsiasi tipo possono causare il tamponamento del cuore. Il linfosarcoma può comparire sia nel cane che nel gatto, ma in quest’ultimo costituisce la più comune causa neoplastica di versamento pericardico. Sono possibili sia linfosarcomi miocardici che pericardici. La diagnosi probabilmente si basa sugli esami citologici e la chemioterapia offre una sopravvivenza simile ad altre forme di linfosarcoma. Versamenti pericardici idiopatici. Nel cane, versamento di tipo idiopatico è la seconda causa più comune di versamento pericardico dopo la neoplasia. Non è stato riscontrato nel gatto. La condizione è anche chiamata versamento pericardico emorragico idiopatico, versamento pericardico benigno ed emorragia pericardica idiopatica. La causa non è ben compresa, ma si sospetta che sia infiammatoria, secondaria a cause virali o immunomediate. L’analisi dei liquidi evidenzia un quadro

Si definisce come tamponamento cardiaco la compressione del cuore dovuta a versamento pericardico che riduce lo riempimento ventricolare e quindi la gittata cardiaca. Accumulandosi rapidamente, il versamento acuto produce un elevato aumento nella pressione intrapericardica a volumi relativamente bassi, perché il pericardio non ha tempo per distendersi. Il tamponamento cardiaco cronico tende a produrre segni clinici di bassa gittata cardiaca come segni di insufficienza cardiaca congestizia destra (ascite e/o versamento pleurico). L’insufficienza cardiaca destra si verifica perché, anche se le pressioni capillari sistemiche e polmonari aumentano in ugual misura, i capillari sistemici lasciano fuoriuscire i fluidi a pressioni inferiori rispetto ai capillari polmonari. Il tamponamento cardiaco acuto causa profonde diminuzioni della gittata cardiaca e shock cardiogeno senza segni congestizi sistemici. In risposta alla riduzione della gittata, il tono simpatico va incontro ad un aumento acuto per incrementare la frequenza cardiaca e la contrattilità e mantenere la gittata. Tuttavia, per preservare la pressione sanguigna aumenta anche la resistenza vascolare sistemica, che aumenta il postcarico e riduce la gittata cardiaca. Cronicamente, viene anche attivato il sistema renina-angiotensinaaldosterone che causa un’ulteriore vasocostrizione, mantiene elevato il tono simpatico e causa ritenzione di sodio ed acqua.

EZIOLOGIA Nel cane, la neoplasia è la causa più comune di versamento pericardico. È meno frequente nel gatto. Emangiosarcoma. La maggior parte dei tumori che origina dall’atrio o dall’orecchietta di destra è costituita da emangiosarcomi. Il versamento pericardico viene prodotto da rottura ed emorragia proveniente dal tumore. Un lento sanguinamento causa tamponamento cardiaco cronico, ma un sanguinamento acuto può causare un tamponamento acuto e collasso circolatorio. Sono predisposti Golden retriever e Pastore tedesco. Trattamento e prognosi per l’emangiosarcoma cardiaco sono simili a quelli dell’emangiosarcoma splenico, che ha un esito sfavorevole. Compaiono precocemente delle micrometastasi dato che si tratta di tumori ad elevata malignità. La resezione chirurgica da sola (auriculectomia) non prolunga la sopravvivenza, ma l’aggiunta di una chemioterapia all’intervento consente di protrarla per mesi. 194


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Analisi del liquido. La pericardiocentesi può essere effettuata a scopo diagnostico o anche terapeutico. La maggior parte dei versamenti pericardici è emorragica con un ematocrito molto inferiore a quello del sangue periferico, ma si possono riscontrare anche casi di emorragia con un ematocrito uguale a quello del sangue. I versamenti non coagulano neppure quando sono causati da un’emorragia, a meno che questa non risulti molto acuta. Occasionalmente, il versamento è trasudativo, settico o chiloso. La citologia è importante per identificare le cause dovute a processi infettivi o ad alcune neoplasie (linfosarcoma). Tuttavia, nella maggior parte delle eziologie neoplastiche non è possibile effettuare la differenziazione citologica, perché l’emangiosarcoma ed i tumori della base del cuore non esfoliano e si riscontrano comunemente cellule mesoteliali reattive. Se si sospettano cause infettive, occorre effettuare delle colture batteriche o micotiche. L’uso del pH del versamento per differenziare i versamenti pericardici idiopatici/infiammatori da quelli neoplastici è oggetto di discussione. I versamenti idiopatici/infiammatori tendono ad avere un pH più basso (6,5-7,0), mentre quelli neoplastici pH più elevati (7,0-7,5). Trattamento e prognosi. Quando si sospetta un tamponamento cardiaco è indicata la pericardiocentesi. Il tamponamento viene alleviato riducendo la pressione intrapericardica, migliorando lo riempimento ventricolare ed aumentando la gittata cardiaca. Si verifica immediatamente un miglioramento nella condizione clinica del paziente normalizzando la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa sistemica. Tecnica: L’animale viene collocato in decubito laterale sinistro e si opera a livello della regione precordiale destra per ridurre la probabilità di lacerazione dell’arteria coronaria. L’ECG deve essere monitorato per le aritmie e si deve inserire un catetere IV per il trattamento di emergenza. L’area del 4-6° spazio intercostale vicino alla giunzione costocondrale viene tosata e preparata chirurgicamente. Si può utilizzare l’ecografia per determinare la sede migliore. Può essere somministrata un’anestesia locale con lidocaina. Si collega un catetere ad ago interno da 2-5,5” e 14-18 G al tubo di un deflussore, una valvola a 3 vie ed una siringa. Il catetere viene fatto avanzare attraverso la parete toracica fino all’interno del pericardio. Una volta ottenuto il versamento pericardico, il catetere viene fatto scorrere sull’ago, che viene rimosso. Si connette direttamente il tubo del deflussore al catetere e si rimuove il versamento pericardico. A meno che non coaguli, se ne deve rimuovere la maggior quantità possibile. Bisogna conservare un campione del versamento per l’analisi e la coltura del fluido. Le complicazioni comprendono puntura o lacerazione cardiaca, emorragia, aritmie e disseminazione della neoplasia o infezione; tuttavia, quelle gravi sono rare. Opzioni chirurgiche. La pericardectomia, sia a finestra che subtotale, può essere eseguita attraverso il 5° spazio intercostale destro, mediante una sternotomia mediana, per via transdiaframmatica o mediante toracoscopia. In ogni caso deve essere preservato il nervo frenico. Come alternativa alla chirurgia, è stata descritta una dilatazione mediante palloncino pericardico percutaneo per produrre un difetto pericardico.

emorragico senza aumento delle cellule infiammatorie. Quella di versamento pericardico idiopatico è una diagnosi per esclusione. Inizialmente, si raccomanda un trattamento conservativo mediante pericardiocentesi e, in circa metà dei casi, il versamento è autolimitante. Nell’altra metà si verificano delle recidive e sono indicate delle pericardiocentesi ripetute. L’infiammazione pericardica cronica può portare a pericardite costrittiva. Infezioni. Il versamento pericardico infettivo è raro, ma può essere associato ad infezioni batteriche e micotiche. Le prime possono essere secondarie a corpi estranei, ferite da morso, perforazione esofagea o estensione di un’infezione polmonare. Gli agenti eziologici comprendono Mycobacterium, Actinomyces, Nocardia ed altri batteri. Coccidioides immitis è un micete che causa pericardite riscontrato più frequentemente nel sudovest degli Stati Uniti. Il versamento è essudativo e spesso gli agenti eziologici possono essere identificati mediante citologia. È indicata una coltura batterica o micotica. Il trattamento consiste nella somministrazione a lungo termine di agenti antimicrobici appropriati e nel drenaggio o lavaggio pericardico. Possono essere indicate l’esplorazione chirurgica o la pericardectomia, in particolare se si sospetta la presenza di un corpo estraneo. La FIP può produrre un versamento piogranulomatoso sterile ed è una delle cause più comuni di versamento pericardico nel gatto. La pericardite costrittiva può essere una sequela dell’infezione pericardica.

DIAGNOSI Anamnesi ed esame clinico. I riscontri all’esame clinico sono rappresentati da attenuazione dei toni cardiaci, polso debole, distensione o pulsazione delle vene giugulari (insieme, questi primi tre segni costituiscono la triade di Beck), tachicardia, polso paradosso, reflusso epatogiugulare positivo, epatomegalia, ascite, suoni polmonari ottusi con versamento pleurico, tachipnea, dispnea e cachessia. ECG. Tipicamente, compare una tachicardia sinusale con complessi QRS a basso voltaggio, che però non è sensibile o specifica per il versamento pleurico. L’alternanza elettrica è una variazione da battito a battito dell’ampiezza dei complessi QRS e/o delle onde T. Ciò è dovuto all’oscillazione del cuore all’interno del versamento pericardico. È abbastanza specifica di versamento pericardico. Radiografie. La silhouette cardiaca assume una forma globoide senza una struttura definita. La vena cava caudale spesso è distesa e si osservano epatomegalia ed ascite con insufficienza cardiaca congestizia destra. Può anche essere presente un versamento pleurico. Ecocardiografia. È il modo più semplice ed efficace per diagnosticare un versamento pericardico. Si possono osservare anche versamenti di volumi molto piccoli. L’eziologia della condizione può venire determinata se si rileva una massa cardiaca e le tipiche caratteristiche di localizzazione ed aspetto possono permettere una diagnosi preliminare del tipo di tumore. Se l’animale è stabile, l’ecocardiografia prima della pericardiocentesi consente una visualizzazione ottimale di tutta la struttura cardiaca e migliora la diagnosi delle masse patologiche. 195


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sa (idiopatica, infettiva o neoplastica). Il rilassamento ventricolare e lo riempimento ventricolare iniziali sono normali. Tuttavia, quando i ventricoli raggiungono il limite di estensibilità pericardica, ogni ulteriore riempimento ventricolare cessa bruscamente. La riduzione nello riempimento ventricolare porta a diminuire la gittata cardiaca e l’aumento delle pressioni di riempimento causa una congestione venosa. Si sviluppa un’insufficienza cardiaca congestizia destra dovuta all’aumento delle pressioni venose sistemiche. Quando si verifica un versamento pericardico con costrizione pericardica compare una pericardite costrittiva effusiva. Radiografia. Il profilo cardiaco può essere normale o lievemente ingrossato e globoide. Di solito, la vena cava caudale risulta dilatata e possono essere presenti ascite o versamento pleurico. Trattamento e Prognosi. Il trattamento della pericardite costrittiva è chirurgico, perché la terapia medica con diuretici potrà soltanto peggiorare lo riempimento ventricolare e la gittata cardiaca. Se la fibrosi è limitata al pericardio parietale, può essere risolutiva la pericardectomia subtotale. Tuttavia, se è coinvolto il pericardio viscerale, la chirurgia deve comprendere lo stripping epicardico, che è difficile, può portare a danno miocardico o delle arterie coronarie e produrre dei risultati meno favorevoli.

ALTRE DIAGNOSI DIFFERENZIALI PER IL TAMPONAMENTO CARDIACO Cisti pericardiche. Le cisti pericardiche sono anomalie molto rare nel cane e non sono state descritte nel gatto. Nel cane, sembrano essere degli ematomi cistici e si ritiene che siano conseguenti ad un’incarceramento dell’omento o del legamento falciforme. Compaiono nei cani giovani e possono portare a versamento pericardico e segni clinici di tamponamento. Le cisti pericardiche vengono identificate mediante ecocardiografia. La pericardiocentesi è indicata per il tamponamento cardiaco. Il trattamento definitivo prevede la rimozione della cisti e la pericardectomia mediante toracotomia. Ernia diaframmatica peritoneopericardica (PPDH, peritoneopericardial diaphragmatic hernia). La PPDH si verifica quando il setto trasverso o le pliche pleruroperitoneali laterali non si fondono nello sviluppo fetale. Ciò consente la persistenza di una comunicazione delle cavità pericardiche e peritoneali attraverso un difetto del diaframma tramite il quale gli organi addominali possono erniare nel pericardio. Può essere associato ad ernie ombelicali, difetti sternali ed altre anomalie cardiache congenite. Non è necessario alcun trattamento se la PPDH è un riscontro incidentale e non vi è alcun segno clinico. La riduzione chirurgica dell’ernia e la riparazione del difetto diaframmatico sono indicate quando compaiono segni clinici, ostruzione gastrointestinale e compromissione vascolare degli organi erniati. La prognosi postoperatoria è buona. Pericardite costrittiva. La pericardite costrittiva si può verificare a causa di una pericardite cronica da qualsiasi cau-

Bibliografia 1.

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Cardiac tamponade patho-physiology and therapeutic options Gary W. Ellison DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA

Herbert Maisenbacher, VMD, Dipl ACVIM (Cardiology), Folrida, USA PATHO-PHYSIOLOGY OF CARDIAC TAMPONADE

location. Typically, metastasis occurs late, if at all. The tumors are slow growing and may even be incidental findings. Most commonly the tumor causes clinical signs by producing pericardial effusion, but invasion into adjacent tissues or compression of cardiovascular structures is possible. Brachycephalic breeds are predisposed and males are affected more frequently. Signs of cardiac tamponade may be resolved by pericardiectomy. Mass excision may be possible, with high risk of hemorrhage and damage to cardiovascular structures. Complete excision is rare and local recurrence is expected. Mesothelioma Mesothelioma may affect the pericardium and/or pleura. It is generally a diffuse neoplasm with no discrete masses, so diagnosis is problematic. Differentiation of neoplastic from reactive mesothelial cells on cytology is not possible. Definitive diagnosis requires histopathology from pericardial or pleural biopsies. It generally produces pericardial and/or pleural effusion with associated clinical signs. Prognosis is extremely poor as surgical excision is not possible, although intracavitary cisplatin has been advocated to extend survival. Others Other primary or metastatic cardiac tumors of almost any type may cause cardiac tamponade. Lymphosarcoma may occur in dogs and cats, but is the most common neoplastic cause of pericardial effusion in cats. Both myocardial and pericardial lymphosarcoma are possible. Diagnosis is likely on cytology and chemotherapy offers survival similar to other forms of lymphosarcoma. Idiopathic pericardial effusion Idiopathic is the second most common cause of pericardial effusion in dogs behind neoplasia. It is not recognized to occur in cats. Other terms include idiopathic hemorrhagic pericardial effusion, benign pericardial effusion, and idiopathic pericardial hemorrhage. The cause is not well understood, but is suspected to be inflammatory secondary to viral or immune-mediated causes. Fluid analysis is hemorrhagic without increased inflammatory cells. Idiopathic pericardial effusion is a diagnosis of exclusion. Initially, conservative treatment by pericardiocentesis is recommended and in about half the cases, the effusion is self-limited. In the other half, the effusion recurs and repeat pericardiocentesis is indicated. Chronic pericardial inflammation may lead to constrictive pericarditis. Infectious Infectious pericardial effusion is uncommon, but may be associated with either bacterial or fungal infections. Bacterial infections may be secondary to foreign bodies, bite wounds, esophageal perforation, or extension

Cardiac tamponade is defined as compression of the heart by pericardial effusion which decreases ventricular filling and thus cardiac output. Rapidly accumulating, acute effusion produces large increases in intrapericardial pressure at relatively low volumes since the pericardium does not have time to stretch. Chronic cardiac tamponade tends to produce signs of low cardiac output as well as signs of right-sided congestive heart failure (ascites and/or pleural effusion). Right-sided heart failure occurs because although systemic and pulmonary capillary pressures are equally increased, systemic capillaries leak at lower pressures than pulmonary capillaries. Acute cardiac tamponade causes profound reductions in cardiac output and cardiogenic shock without systemic congestive signs. In response to the reduction in cardiac output, sympathetic tone is increased acutely to increase heart rate and contractility and maintain cardiac output. However, it also increases systemic vascular resistance to maintain blood pressure which increases afterload and reduces cardiac output. Chronically, the renin-angiotensin-aldosterone system is also activated which causes further vasoconstriction, maintains the increased sympathetic tone, and causes sodium and water retention.

ETIOLOGY Neoplasia is the most common cause of pericardial effusion in dogs. It is less common in cats. Hemangiosarcoma Most tumors originating from the right atrium or auricle are hemangiosarcomas. Pericardial effusion is produced by rupture and hemorrhage from the tumor. Slow bleeding causes chronic cardiac tamponade, but acute bleeding may cause acute tamponade and circulatory collapse. Golden retrievers and German shepherds are predisposed. Treatment and prognosis for cardiac hemangiosarcoma is similar to splenic hemangiosarcoma which is poor. Micrometastasis occurs early as they are highly malignant tumors. Surgical resection alone (auriculectomy) does not prolong survival, but chemotherapy in addition to surgery does by months. Heart base tumors Most heart base tumors are chemodectomas arising from the aortic bodies, although ectopic thyroid carcinomas or other tumors may also arise at this 197


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Treatment and Prognosis Pericardiocentesis is indicated whenever cardiac tamponade is suspected. It relieves tamponade by reducing intrapericardial pressure, improving ventricular filling, and increasing cardiac output. There is immediate improvement in the patient’s clinical status with normalization of the heart rate and systemic arterial pressure. Technique: The animal is placed in left lateral recumbency and the right precordium is used to reduce the chance of coronary artery laceration. An ECG must be monitored for arrhythmias and an IV catheter should be in place for emergency treatment. The area of the 4-6th intercostal space near the costochondral junction is clipped and surgically prepared. Ultrasound may be used determine the best site. Local anesthesia with lidocaine may be administered. A 2-5.5 inch 14-18 gauge over-the-needle catheter is connected to extension tubing, a 3-way stopcock, and a syringe. The catheter is advanced through the thoracic wall and into the pericardium. Once pericardial effusion is obtained, the catheter is advanced over the needle and the needle is removed. The extension tubing is connected directly to the catheter and the pericardial effusion is removed. As much as possible should be removed unless it is clotting. A sample of the effusion should be reserved for fluid analysis and culture. Complications include cardiac puncture or laceration, hemorrhage, arrhythmias, and dissemination of neoplasia or infection; however, serious complications are rare. Surgical Options Pericardiectomy whether it be pericardial window or subtotal can be performed thru a right 5th intercostal, via a median sternotomy, transdiaphragmatically or thoracscopically. The phrenic nerve must be preserved in all cases. Percutaneous pericardial balloon dilation to produce a pericardial defect has been described as an alternative to surgery.

of pulmonary infection. Causative organisms include Mycobacterium, Actinomyces, Nocardia, or other bacteria. Coccidioides immitis is a fungal cause of pericarditis more frequently seen in the southwest US. The effusion is exudative and often causative organisms may be identified on cytology. Bacterial or fungal culture is indicated. Treatment involves appropriate antimicrobials long-term and pericardial drainage or lavage. Surgical exploration and pericardectomy may be indicated, particularly if a foreign body is suspected. FIP may produce a sterile pyogranulomatous effusion and is one of the most common causes of pericardial effusion in cats. Constrictive pericarditis may be a sequela to pericardial infection.

DIAGNOSIS History and physical exam Physical exam findings include muffled heart sounds, weak pulses, jugular venous distension or pulsation (these 1st three comprise Beck’s triad), tachycardia, pulsus paradoxis, positive hepatojugular reflux, hepatomegaly, ascites, dull lung sounds with pleural effusion, tachypnea, dyspnea, and cachexia. ECG Sinus tachycardia with low voltage QRS complexes typically occurs, but is not sensitive or specific for pericardial effusion. Electrical alternans is a beat-to-beat variation in the amplitude of the QRS complexes and/or T waves. This is due to swinging of the heart within the pericardial effusion. It is fairly specific for pericardial effusion. Radiography The cardiac silhouette becomes globoid in shape without defined structure. The caudal vena cava is often distended and there is hepatomegaly and ascites with right-sided congestive heart failure. Pleural effusion may also be present. Echocardiography This is the simplest and most effective way to diagnose pericardial effusion. Even very small volume effusions may be observed. Etiology of the effusion may be determined if a cardiac mass is observed and typical location and appearance may allow preliminary diagnosis of the tumor type. If the animal is stable, echocardiography before pericardiocentesis allows optimal visualization of all cardiac structure and improved diagnosis of mass lesions. Fluid analysis Pericardiocentesis may be diagnostic as well as therapeutic. Most pericardial effusions are hemorrhagic with a PCV much lower than the peripheral blood, but hemorrhage is possible with a PCV equal to that of blood. Even effusions caused by hemorrhage do not clot unless the hemorrhage is very acute. Occasionally the effusion is transudative, septic, or chylous. Cytology is important to identify infectious or some neoplastic causes (lymphosarcoma). However, most neoplastic causes cannot be differentiated on cytology as hemangiosarcoma and heart base tumors do not exfoliate and reactive mesothelial cells are commonly seen. If infectious causes are suspected bacterial or fungal cultures should be performed. There is some debate as to whether pH of the effusion may be used to differentiate idiopathic/inflammatory from neoplastic pericardial effusions. Idiopathic/inflammatory effusions tend to be lower pH (6.5-7.0), whereas neoplastic effusions tend to have a high pH (7.0-7.5).

OTHER DIFFERENTIALS FOR CARDIAC TAMPANODE Pericardial Cysts Pericardial cysts are very rare anomalies in dogs and have not been described in cats. In dogs, they appear to be cystic hematomas and are thought to result from incarcerated omentum or falciform ligament. They occur in young dogs and may lead to pericardial effusion and signs of cardiac tamponade. Pericardial cysts are identified by echocardiography. Pericardiocentesis is indicated for cardiac tamponade. Definitive treatment involves cyst removal and pericardectomy via thoracotomy. Peritoneopericardial Diaphragmatic Hernia (PPDH) PPDH results when the septum transversum or lateral pleuroperitoneal folds fail to fuse in fetal development. This allows persistent communication of the pericardial and peritoneal cavities via a defect in the diaphragm and abdominal organs may herniate into the pericardium. It may be associated with umbilical hernias, sternal defects, and other congenital heart defects No treatment is necessary if the PPDH is an incidental finding and there are no clinical signs. Surgical reduction of the hernia and repair of the diaphragmatic defect is indicated when clinical signs, 198


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gastrointestinal obstruction, or vascular compromise of herniated organs occur. Prognosis post-operatively is good. Constrictive Pericarditis Constrictive pericarditis may occur due to chronic pericarditis of any cause (idiopathic, infectious, or neoplastic). Ventricular relaxation is normal and early ventricular filling is normal. However, once the ventricles reach the limit of pericardial distensibility, further ventricular filling abruptly ceases. The reduction in ventricular filling leads to decreased cardiac output and increased filling pressures leads to venous congestion. Right-sided congestive heart failure develops due to increased systemic venous pressures. Constrictive-effusive pericarditis occurs when pericardial effusion occurs with pericardial constriction. Radiography The cardiac silhouette may be normal or mildly enlarged and globoid. The caudal vena cava is usually dilated and ascites or pleural effusion may be present.

Treatment and Prognosis Treatment of constrictive pericarditis is surgical, as medical therapy with diuretics will only worsen ventricular filling and cardiac output. If the fibrosis is limited to the parietal pericardium, subtotal pericardiectomy may be curative. However, if the visceral pericardium is involved, surgery must include epicardial stripping which is difficult, may lead to myocardial or coronary artery damage, and produces less favorable results.

References 1.

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Approccio terapeutico alle discospondiliti batteriche Cristian Falzone Clinica Veterinaria Valdinievole, Monsummano Terme (PT)

Massimo Baroni, Clinica Veterinaria Valdinievole, Monsummano Terme (PT)

Con il termine discospondilite viene indicato un processo infiammatorio delle limitanti vertebrali di due vertebre adiacenti e del relativo disco intervertebrale. I cani soprattutto di grande taglia (molto raramente il gatto) possono esserne affetti. La via di infezione più comunemente implicata nell’instaurarsi delle discospondiliti è quella della diffusione ematogena di germi responsabili di malattia ad altri livelli (apparato genito-urinario, gastroenterico, cavo orale, ecc.). Come causa di discospondilite sono inoltre annoverate le ferite penetranti, la migrazioni di corpi estranei ed in particolare quelli di origine vegetale ed ultime ma non per importanza, sono le discospondiliti iatrogene, secondarie quindi a chirurgia spinale per pre-esistenti patologie (ernie discali, spondilomielopatia cervicale, ecc.) o in rari casi a tecniche di anestesia spinale. Numerosi batteri (Stafilococco spp., Streptococco spp., Escherichia coli, Brucella canis, ecc.) e più raramente alcuni funghi (Aspergillus spp., ecc.) sono stati riportati come agenti causali di discospondiliti. Il sintomo comunemente riscontrato è il dolore spinale ma molto più spesso di quanto si pensa si rilevano in associazione deficit neurologici di gravità variabile, riferibili al tratto del rachide interessato. L’articolazione lombo-sacrale è frequentemente coinvolta seguita per incidenza dall’area toraco-lombare e quindi cervicale. La diagnosi viene formulata, oltre che sulla base dell’esame clinico e degli esami di laboratorio di routine, grazie all’esecuzione di studi radiografici diretti ma soprattutto grazie all’impiego di metodiche di diagnostica per immagine avanzata, quali la tomografia computerizzata (TC) e la risonanza magnetica (RM). L’urinocoltura, l’emocoltura ed ancora di più le colture di campioni direttamente prelevati dal sito affetto, permettono l’identificazione dell’agente causale in una buona percentuale di casi, soprattutto se non precedentemente trattati con terapia antibiotica. La scelta terapeutica, così come la prognosi, sono spesso influenzate da numerosi fattori (la causa, l’estensione focale o multifocale del processo, la sintomatologia al momento della presentazione, ecc.). In generale, per istituire un’idonea terapia si devono in linea teorica conoscere e quindi poter trattare i differenti meccanismi fisiopatologici responsabili dei sintomi della malattia stessa. Questa conoscenza è ad oggi solo parziale per quanto riguarda le discospondiliti; a tal proposito è estremamente importante nella scelta del trattamento avere e seguire delle linee guida tratte dai risultati dell’esame clinico, degli esami ematologici, degli esami colturali e delle metodiche di diagnostica per immagine avanzata. Nella pratica clinica ed ancor più nel decorso naturale delle dis-

cospondiliti, le cose non sono sempre così matematiche e consequenziali come a volte le si vuole rendere per necessità di avere approcci diagnostici e terapeutici il più possibile codificati e standardizzati. Pertanto, il primo aspetto da sottolineare per un’idonea scelta terapeutica è la necessità di raggiungere una diagnosi accurata ed in tempi brevi; il riconoscimento precoce della malattia e la pronta istituzione della corretta terapia sono infatti ritenuti alla base di una prognosi migliore. Nei casi avanzati la diagnosi è spesso lampante e si basa sulla presenza di segni clinici e radiografici ben evidenti e noti. Ci sono però dei casi “border line”, che escono dagli schemi e che rendono estremamente indaginosa e difficoltosa la diagnosi di discospondilite. Quest’ultima è ad oggi considerata in medicina veterinaria così come in quella umana, una sfida diagnostica oltre che terapeutica. Analizzando perciò in primis l’aspetto clinico è possibile affermare come in una buona percentuale di casi, i sintomi clinici possono essere aspecifici e quindi di poco ausilio. A volte l’unico sintomo presente, il dolore, non è sempre localizzabile al rachide o, qualora lo sia, circoscrivibile ad un preciso tratto spinale; altre volte ancora si possono avere alterazioni comuni a tante malattie quali diminuzione dell’appetito, astenia e/o febbre. In questi casi le indagini di laboratorio possono venire in nostro aiuto, anche se ancora una volta non sempre sono presenti segni di risentimento sistemico come la leucocitosi (neutrofilia) o l’aumento dei parametri di flogosi (velocità di eritrosedimentazione e proteina C-reattiva, ecc.). Quanto all’urinocoltura ed all’emocoltura ci sono dati molto contrastanti in letteratura con percentuali di positività che oscillano rispettivamente tra il 25%-50% ed il 45%-75%. Queste percentuali sono però destinate a diminuire drasticamente nella pratica, anche e soprattutto a causa di terapie antibiotiche pre-esistenti al momento dell’esecuzione degli esami colturali. Anche le comuni alterazioni radiografiche in corso di discospondilite, quali il restringimento dello spazio intersomatico ed ancor più la lisi delle limitanti vertebrali, richiedono 2-4 settimane dall’esordio della sintomatologia clinica per rendersi evidenti, ritardandone quindi la diagnosi e compromettendone eventualmente la prognosi. Pertanto, in tutti quei casi in cui si sospetti la presenza di una discospondilite ma ne manchi la forte evidenza clinica, ematologica e radiografica, l’esame di risonanza magnetica (RM) del rachide può giocare un ruolo fondamentale ai fini dell’ottenimento di una diagnosi precoce. Ad oggi l’RM è infatti riconosciuta come la metodica d’elezione nella diagnosi della maggior parte delle 200


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alla terapia antibiotica un trattamento anti-infiammatorio o con farmaci analgesici (es.: oppiacei); tra gli anti-infiammatori i farmaci non steroidei sono di solito preferiti a quelli a base di cortisone. Molto importante per limitare l’instaurarsi di una possibile instabilità/sublussazione o addirittura frattura vertebrale è inoltre la restrizione del movimento dei soggetti affetti, che andrebbero tenuti in piccoli spazi e condotti al guinzaglio solo per brevi passeggiate per l’intero trattamento. Gli obiettivi principali del trattamento chirurgico sono invece nell’ordine quello di rimuovere tutto il tessuto infettonecrotico e la causa quando presente (es.: corpo estraneo vegetale migrante), di decomprimere le strutture neurali e, quando necessario, permettere il riallineamento vertebrale e garantirne la stabilità. La diffusione del processo flogistico nel canale vertebrale e quindi la conseguente compressione delle strutture neurali sono risultati essere, grazie all’impiego della RM, molto più frequenti di quanto prima si pensasse. I sintomi neurologici in corso di discospondilite sono molto probabilmente dovuti oltre che alla diretta compressione del midollo spinale o delle radici nervose, anche ai cambiamenti ischemici secondari alla compressione meccanica stessa, alla presenza a tale livello di sostanze flogistiche vasocostrittrici o di vasculiti indotte dal processo settico. Da qui ne deriva la necessità anche in quei casi con sintomatologia lieve ma con interessamento del canale vertebrale e compressione delle strutture neurali di procedere a curettage chirurgico. Questo infatti, decomprimendo le strutture interessate e ripristinandone la normale vascolarizzazione, ha il vantaggio tra gli altri di migliorare la qualità del risultato finale ed eventualmente di ridurre la durata del trattamento antibiotico. Seppure c’è controversia sull’effettiva efficacia del trattamento chirurgico in relazione soprattutto alla instabilità che può derivarne, ci sono doverose considerazioni da fare in merito ad esempio del numero degli spazi intervertebrali affetti o dell’area interessate. Difatti, una minima invasione del canale vertebrale in distretti del rachide in cui il diametro del canale è relativamente molto ampio, può più verosimilmente essere associata a lievi sintomi neurologici più facilmente controllabili e trattabili con la sola terapia antibiotica. Inoltre, ci sono aree come ad esempio il distretto toracico, comunemente dotate di maggiore stabilità. Quest’ultima è senza dubbio influenzata anche dalla tecnica chirurgica impiegata e dal numero delle vertebre interessate, diminuendo ovviamente con l’aumentare degli spazi intersomatici affetti. In molte circostanze nella nostra esperienza è sufficiente una mini-emilaminectomia associata a fenestrazione, per effettuare un buon debridement chirurgico senza che ne derivi una significativa instabilità. Anche dopo terapia chirurgica, così come descritto per la terapia conservativa, i soggetti devono comunque essere tenuti a riposo per tutta la durata della somministrazione antibiotica. Volendo tirare delle conclusioni in merito a quanto detto fin’ora è possibile affermare che la terapia conservativa è indicata in tutti quei soggetti con solo dolore spinale e/o lievi deficit neurologici, con coinvolgimento di un solo sito intersomatico e con assenza di significative compressioni neurali; l’intervento chirurgico è ovviamente necessario nei casi di fallimento dell’approccio conservativo, in caso di dolore refrattario alla terapia medica ed in tutti i casi in cui ci sia una significativa

patologie spinali, comprese le discospondiliti. Nello studio di queste ultime, secondo alcuni dati tratti dalla medicina umana, l’RM ha una sensibilità del 96% ed una specificità del 92%, trovando così particolare applicazione nelle prime fasi di malattia in cui l’esame radiografico o tomografico possono dar luogo a falsi negativi. Le alterazioni RM di comune riscontro sono la perdita di definizione delle placche vertebrali, ma soprattutto la marcata iperintensità di queste e del disco intervertebrale nelle immagini T2 pesate (“hot disk”) ed il diffuso enhancement di tali aree dopo somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto paramagnetico (gadolinio 0.1 mmol/kg). Inoltre, per meglio evidenziare le alterazioni flogistiche a carico del midollo osseo vertebrale e la presa di contrasto in particolare nelle fasi acute, si possono rispettivamente eseguire con eccellenti risultati le sequenze STIR e quelle a saturazione di grasso. Grazie alla risonanza è inoltre possibile caratterizzare accuratamente il processo flogistico (accuratezza del 94%) definendone l’estensione, l’eventuale concomitante diffusione ai muscoli paravertebrali o all’interno del canale vertebrale stabilendone conseguentemente l’entità della compressione delle strutture neurali, il danno a carico di quest’ultime ed eventualmente la presenza di empiema epidurale. I muscoli paravertebrali possono essere interessati nelle fasi tardive di malattia o primariamente in corso di ferite penetranti o di migrazione di corpi estranei con interessamento secondario del rachide per contiguità. In rare circostanze è possibile evidenziare la presenza del copro estraneo. In ragione della precisa caratterizzazione RM del problema, è infine possibile stabilire la sede o le sedi più idonee da cui prelevare il materiale da sottoporre all’esame colturale; la percentuale di isolare il germe dal focolaio stesso di discospondilite, sale infatti fino al 75-80%. Tale percentuale è tanto più vera quanti più prelievi sia possibile effettuare e quanto più questi provengano da aree rappresentative del problema, così come suggerito dall’ esame RM. A tal proposito, in medicina umana è riportato come in alcune circostanze sia più proficuo l’esame batteriologico effettuato su materiale prelevato da sedi diverse dal disco intervertebrale, come ad esempio dal corpo vertebrale stesso. Questo potrebbe probabilmente riflettere una diversa distribuzione/concentrazione batterica, evidentemente più bassa a livello del disco per la diminuita vascolarizzazione, soprattutto nella sua porzione centrale. Riassumendo, l’esame RM in corso di discospondilite è un valido ausilio nel raggiungimento della diagnosi in tempi rapidi, soprattutto in quei casi prima definiti “border line” e, caratterizzando con precisione tutte le sfaccettature del problema, non solo indica le sedi più idonee da cui prelevare il materiale per gli esami colturali ma guida soprattutto l’orientamento nella scelta della terapia. Le opzioni terapeutiche come spesso accade per le malattie neurologiche sono due: terapia conservativa e terapia chirurgica. La prima consiste nella somministrazione prolungata di antibiotici. Questi, ogni qual volta sia possibile, devono essere scelti in modo mirato sulla base dei risultati dell’antibiogramma. In particolare nei casi più gravi, la somministrazione può essere per via endovenosa per i primi 5-7 giorni, dopodiché si continuerà per via orale per un periodo minimo di 2-3 mesi. Nelle prime fasi, spesso caratterizzate da marcato dolore spinale, è possibile associare 201


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compressione e/o alterazione delle strutture neurali, evidenziate tramite esame di risonanza magnetica. Nei casi in cui ci sia marcata distruzione dei soma vertebrali, si sia effettuato un esteso/distruttivo approccio chirurgico e/o ci sia primariamente l’evidenzia radiografica di instabilità vertebrale, è invece prerogativa assoluta ricorrere alla terapia chirurgica con riduzione e stabilizzazione del rachide. In medicina umana, forse anche per le differenti forze meccaniche che agiscono sulla colonna vertebrale così come per l’elevata incidenza di morbidità e mortalità, è diffusamente considerata buona pratica effettuare la stabilizzazione del rachide dopo ogni chirurgia in corso di discospondilite. In medicina veterinaria sono state descritte numerose tecniche di stabilizzazione vertebrale. Nella nostra esperienza questa è ottenuta, dopo procedura di decompressione e curettage quando necessari, preferibilmente grazie all’impiego di fissatori esterni con diverse configurazioni. Per facilitare la fusione vertebrale si fresano in parte le placche terminali e si possono fare innesti di spongiosa negli spazi intersomatici. Qualora la lisi dei corpi vertebrali non garantisca la stabilità dell’impianto, si includono anche la vertebra craniale e quella caudale. Tali impianti hanno il vantaggio di non essere direttamente impiegati a stretto contatto col focolaio settico ma, seppure in rari casi, possono non essere ben tollerati dall’animale e richiedono comunque attenzioni da parte del proprietario al fine di una buona protezione e disinfezione. Dove non ne risulti anatomicamente possibile l’impiego, si può eccezionalmente ricorrere a mezzi di sintesi interna come placche, chiodi, viti e polimetilmetacrilato. Questi impianti, messi a contatto col processo settico, hanno maggiore probabilità di fallimento e comunque, in tutti i casi in cui sia possibile, è consigliabile fare curettage chirurgico e decompressione da un lato e stabilizzare quindi dal lato opposto. In merito alla durata della terapia antibiotica, si può dire che questa è estremamente variabile da soggetto a soggetto. Questa variabilità riflette l’assenza ad oggi di parametri attendibili nella valutazione della guarigione e quindi dell’efficacia della terapia che suggeriscano la sospensione della stessa. I cambiamenti radiografici da soli non si sono dimostrati attendibili. Valutando la progressione RM delle alterazioni morfologiche, i cambiamenti di segnale nelle differenti sequenze e la captazione di mezzo di contrasto

(progressiva diminuzione dell’iperintensità T2 e dell’impregnazione contrastografica), è possibile monitorizzare in parte l’andamento della malattia ed eventualmente la risposta alla terapia antibiotica. Come regola generale, la durata della terapia antibiotica nelle discospondiliti batteriche va valutata tenendo in considerazione i cambiamenti di tutti gli aspetti presi in esame nel raggiungimento della diagnosi; non deve comunque mai essere di durata inferiore ai 2-3 mesi, non va sospesa se ai successivi controlli clinici è ancora presente dolore alla palpazione spinale e se soprattutto ci sono segni ematologici, radiografici, TC o RM di progressione del processo infiammatorio/infettivo. Due circostanze che rivestono un interesse particolare per il neurologo clinico e chirurgo sono la formazione dell’empiema epidurale e le discospondiliti iatrogene post-operatorie. In quest’ultima evenienza i sintomi insorgono in tempi relativamente brevi dopo la chirurgia e spesso sono drammatici e difficili da trattare perché frequentemente secondari ad infezioni nosocomiali sostenute da batteri dotati di ampia antibiotico-resistenza. Sovente, si riscontrano l’interessamento di più di uno spazio intersomatico e l’instaurarsi di deformità spinali. Per questi motivi è molto importante nella grande maggioranza dei casi di discospondiliti batteriche postoperatorie isolare il germe direttamente dai siti affetti ed intervenire chirurgicamente in tempi rapidi con lo scopo di eliminare il più possibile il tessuto infetto, di decomprimere le strutture neurali prima che si istaurino danni gravi e/o irreversibili e, ove necessario, di ottenere il riallineamento e la stabilità vertebrale. Infine, nel caso in cui la discospondilite sia complicata da empiema epidurale, seppure ci sono dati contrastanti in merito, l’approccio chirurgico va fortemente raccomandato. L’empiema epidurale, sospettato, riconosciuto e ben delineato dall’esame RM (segnale diffusamente/disomogeneamente iperintenso nelle immagini T2 pesate con contrast enhancement variabile da marcato-diffuso ad evidente solo ai margini), è infatti molto spesso associato a rapida progressione dei sintomi, alla presenza di gravi deficit neurologici, di grave compressione e/o danno delle strutture neurali ed è scarsamente rispondente alla sola terapia antibiotica. La prognosi è altresì buona dopo precoce rimozione/decompressione chirurgica e terapia antibiotica.

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La gestione del paziente aggressivo durante la visita comportamentale Franco Fassola Med Vet Comportamentalista, Asti

LA TEORIA

Si evince che il primo consiglio che si può dare, per una gestione sicura del paziente aggressivo, è quello di studiare e conoscere a fondo la teoria della medicina comportamentale.

Per gestire una qualsiasi situazione durante una visita comportamentale, è importante avere una teoria di riferimento, in base alla quale ci si muove. Nel caso in esame, la teoria di riferimento, ovvero le teorie di riferimento sono il Modello Psico-patologico del Dott. Pageat3 e il Modello Sistemico. Il primo modello è importante per la raccolta anamnestica, per la diagnosi, per la prognosi e per la terapia farmacologica o comportamentale. Il secondo modello è utilizzato dal Medico Veterinario Comportamentalista in quanto - durante la visita - si instaura una relazione rilevante anche con il proprietario dell’animale esaminato. La visita comportamentale è, infatti, un intervento complesso, che ha molti attori: l’animale, il padrone e/o altri membri della famiglia di questo e il veterinario comportamentalista, tutti soggetti che si muovono, o possono muoversi, in diversi contesti (la sala visita in clinica o in ambulatorio, la casa dove abitano il soggetto con il suo padrone, il campo d’educazione, la strada o un altro luogo pubblico). Il medico veterinario comportamentista è il regista, che coordina gli attori e organizza i setting e i set, dove si svolgono i colloqui o gli esercizi. Posto quanto sopra, si comprende come sia importante sapere e prevedere le mosse delle persone e dell’animale presente e quanto sia fondamentale avere in ogni momento (motivo in più se trattiamo un animale aggressivo) la situazione sotto controllo. Secondo l’approccio sistemico, il clinico che affronta una problematica deve: – sapere (conoscenza): livello teorico/epistemologico – saper fare: livello professionale – saper essere: livello personale e relazionale.

Saper fare: livello professionale …Competenze, abilità, strumenti e tecniche appartengono al bagaglio di cui un allievo necessita per diventare un professionista. Tramite il tirocinio l’allievo acquisisce tutto ciò. Tuttavia,sono altrettanto importanti le “simulate”, la “supervisione” e la discussione dei casi nel gruppo1. Il saper fare è un altro elemento costitutivo della professionalità e quindi della capacità di gestire situazioni difficili, e si raggiunge con la pratica. La conoscenza teorica per sublimarsi in professionalità deve essere accompagnata dall’esperienza, ovvero dalla pratica, prima sotto la guida di un maestro, poi sotto l’ala protettrice, ma distaccata del supervisore, fino a giungere alla gestione autonoma di un caso, il tutto senza mai rinunciare al confronto attraverso la discussione con i colleghi. Saper essere: livello personale e relazionale Nella relazione d’aiuto (componente questa imprescindibile in ogni visita comportamentale), un professionista deve conoscere se stesso e la propria cultura di appartenenza, deve essere consapevole dei pregiudizi, del bagaglio e dello stile personale… diventa di importanza decisiva il modo in cui interagiamo, comunichiamo e affrontiamo le situazioni conflittuali quotidiane…1 Questo è un punto cruciale, conoscere se stessi e i propri pregiudizi è indispensabile per operare in un contesto di aiuto, e ancor di più avendo davanti un proprietario di un cane che lo ha morsicato, o che ha morsicato un’altra persona, con tutte le implicazioni di tale evento (il dolore fisico e psichico, il rimorso, il senso di colpa e di impotenza di fronte a una circostanza non prevista e difficile da comprendere). Non è possibile, a mio avviso, essere di aiuto, se non riusciamo ad entrare in empatia, perché il nostro pensiero sull’aggressività non ce lo consente, o perché non riusciamo a trasformare un pregiudizio in uno strumento di conoscenza. Conoscere il proprio stile personale, trattando un animale aggressivo, è fondamentale, per evitare un approccio troppo “allegro”, che mette a rischio il professionista, i proprietari e anche l’animale. Anche la paura, emozione legittima, deve essere considerata, se c’è non siamo liberi, non ci comportiamo in modo corretto, un professionista che ha paura è percepito dall’animale, che reagisce di conseguenza. Ignorare il proprio stile, o pensare di essere capaci sempre

Sapere: livello teorico/epistemologico Lavorare in modo sistemico implica adottare un certo ambito di pensiero che dovrebbe integrarsi nella vita quotidiana: osservare i comportamenti in un contesto relazionale, vivere gli eventi in maniera circolare, ipotizzare anziché giudicare, porsi in un atteggiamento di curiosità, formulare domande circolari, meta comunicare raccontarsi… Lavorare in modo sistemico diventa non solo essere sistemici, ma pensare sistemico, e ciò significa conoscere. La conoscenza è uno strumento basilare per essere professionali, per sapere cosa fare…; la conoscenza ci consente di fare scelte consapevoli, di optare per una specifica strategia o tecnica di intervento1. 203


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e in ogni situazione, non serve, anzi può peggiorare una relazione già difficile, UN PROFESSIONISTA NON DEVE LAVORARE CON TUTTI E CERCARE DI RISOLVERE TUTTI I PROBLEMI/PATOLOGIE. La professione di medico veterinario comportamentalista è basata su competenze comunicative e relazionali (competenze indispensabili quando si affronta l’aggressività di un animale in un contesto famigliare e/o sociale), è importante acquisirle e saperle usare in modo corretto. Per concludere questa prima parte della relazione si può affermare che sapere, saper fare e saper essere sono inscindibili1.

taglio le persone e/o gli animali presenti. Naturalmente, dovrà farsi sostare un soggetto aggressivo per un tempo limitatissimo in sala d’attesa, meglio ancora sarebbe evitare tale attesa (se pure molto limitata nel tempo) e far solo transitare il soggetto. Arrivati all’ingresso della “sala visite” l’animale viene introdotto all’interno, in tale caso è possibile entrare per primi e prendere possesso della spazio della stanza (soluzione che preferisco per i cani assertivi e molto agitati e anche per i fobici aggressivi), oppure fermarsi sulla soglia, aprire la porta e introdurlo dentro facendo sfilare il cane e il proprietario (soluzione che preferisco per i cani assertivi, ma calmi). • Gestione dell’animale all’interno della sala visita Introdotto all’interno, il cane è al guinzaglio e/o con museruola, e - in base alle informazioni che sono state raccolte telefonicamente, a quanto osservato all’accoglienza e al comportamento del proprietario - si può chiedere che il soggetto venga lasciato libero, ovvero tenuto al guinzaglio, ovvero che venga tolta la museruola. Suggerisco di tenere in considerazione il parere del proprietario, chiedendogli cosa desidera fare, avvisandolo che sarà responsabile del comportamento dell’animale e che è l’unica persona che può intervenire per fermarlo in caso di aggressione (attenzione alla scelta dei termini, del momento in cui dirlo e del tono che si usa). Nella prima parte della visita consiglio di non interagire con il cane, di non allungare la mano per toccarlo o accarezzarlo, di non giocare con lui, di raccogliere l’anamnesi stando seduti, senza muoversi, di evitare di incrociare lo sguardo con il soggetto. La raccolta dell’anamnesi serve a conoscere i fatti come riportati dal proprietario, ad osservare l’interazione del soggetto con il/i padrone/i e ad osservare il cane, come si muove (se libero) o come si comporta (se legato al guinzaglio). Solo quando si ha un quadro più dettagliato del comportamento del soggetto, dell’interazione con il padrone e delle abilità e paure di quest’ultimo, si hanno gli elementi per interagire con il cane, ci si può alzare e muoversi per la stanza, oppure, rimanendo al proprio posto cercare il contatto con il cane, o ancora, toccarlo e interagire in modo fattivo con lui. È necessario essere attenti al fatto che, con certi soggetti, è sufficiente il movimento ad indurre l’aggressione; con altri, invece, è necessario relazionarsi più a lungo, stimolarli al gioco. Ci sono cani che cercano la sfida, incrociando lo sguardo o avvicinandosi con un oggetto che lasciano a terra, ma che poi difendono, oppure dando dei colpetti con il muso, non accettate la sfida e rimanete immobili, senza guardarli.

LA PRATICA Sezionando la visita comportamentale di un paziente aggressivo gli aspetti che possono essere presi in considerazione per la sua corretta gestione sono i seguenti: 1. La telefonata per fissare l’appuntamento 2. Dove fare la visita e come condurla a) Visita in clinica o ambulatorio b) Visita a domicilio c) Affido del paziente a un educatore

La telefonata per fissare l’appuntamento La telefonata, anche nel limite di tempo legato al mezzo, può essere uno strumento per avere le prime informazioni pratiche che consentono al veterinario comportamentalista di capire come comportarsi di fronte all’animale che andrà a visitare. Le notizie che ci servono sono le seguenti: • Razza del cane, età, sesso, peso. • Ha morsicato un altro cane, un altro animale (con ferite, oppure lo ha ucciso), il proprietario, un famigliare o un estraneo. • La/e ferita/e è stata medicata in casa o ha necessitato l’intervento di un veterinario (se la vittima è un animale) o medico. • L’animale è sotto sequestro a seguito di una denuncia. L’insieme di queste informazioni ci può dare un’idea e ci consente di formare un “pregiudizio”, ovvero di valutare la problematica secondo le informazioni che abbiamo ottenuto, ma va mantenuta ferma la predisposizione mentale a cambiare parere se l’anamnesi raccolta durante la visita lo consentirà. Il colloquio telefonico consente di decidere se eseguire la prima visita in ambulatorio o a domicilio.

Dove fare la visita e come condurla: la visita ambulatoriale

• Gli esercizi L’esercizio, in una ottica sistemica, non ha lo scopo di offrire una visione più chiara del problema e neppure di illuminare il proprietario sul problema, ma quello di creare, nel momento in cui viene eseguito e anche successivamente, dei cambiamenti nella diade. Non si vogliono creare delle abilità specifiche, ma una abilità più generale: la capacità di relazionarsi in modo corretto con il cane e viceversa. Per cui, con un cane aggressivo, consiglio, di valutare bene il momento in cui viene pro-

• Accoglienza e ingresso in sala del cane In base ai dati raccolti con la telefonata si decide se chiedere al proprietario di portare in clinica il cane con o senza la museruola. Se si sospetta un comportamento aggressivo causato da una fobia verso le persone, o se il soggetto è aggressivo verso gli altri cani, o se è di grossa taglia, si può fissare l’appuntamento in un’ora in cui l’ambulatorio è chiuso per le visite e quindi non ci sono uomini o animali, oppure farlo entrare da un ingresso secondario. In questo modo si eviterà di innervosire il paziente e non si metteranno a repen204


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caso l’attenzione del veterinario per la sicurezza di tutti gli attori deve aumentare, perché se ne aggiunge un altro: l’educatore, che opera in un contesto spazio-temporale diverso da quello in cui opera il veterinario, questo richiede una precisa illustrazione del comportamento del cane, un’indicazione dettagliata degli esercizi da eseguire e una comunicazione continua tra veterinario, educatore e anche proprietario, che deve trovarsi bene con l’educatore. L’intesa con una terza persona che si inserisce nella relazione, soprattutto con un cane aggressivo, è importante, perché si lavora con una relazione cane-padrone molto critica, l’intervento del terapeuta ha successo, anche se riesce a creare una buona alleanza, in modo da essere visto come una “guida” autorevole. Quando si inviano a un altro professionista cliente e paziente, questi devono essere accolti e devono “piacersi”. Il veterinario comportamentalista fa da garante e favorisce l’accettazione, quindi è fondamentale nella scelta dell’educatore che esista un ottima relazione tra i due, che siano affiatati e che condividano pienamente le stesse teorie di riferimento.

posto, la modalità con cui viene presentato e la sua esecuzione. È possibile non proporre esercizi nella prima visita, ma impostare una terapia farmacologica, oppure spiegare un semplice esercizio, anche usando un video dimostrativo, chiedendo che questo venga eseguito a casa, o, fare una dimostrazione usando un cane terapeuta (che può anche non essere presente in sala). Nella prima visita può essere sufficiente mostrare al proprietario come muoversi nello spazio con il suo cane, che può anche indossare la museruola (movimenti lenti, mai guardare negli occhi il cane, lasciarsi esplorare mantenendo una postura rilassata). Negli incontri successivi verranno continuati gli esercizi, che potranno essere eseguiti in sala visita, se questa è ampia e il cane non è di grossa taglia, oppure in un campo recintato. L’uso di un campo all’esterno è utile, al di là della taglia del soggetto o delle dimensioni della camera, perché consente maggior mobilità, è un luogo non conosciuto e informale (questo per il proprietario) e non è medicalizzato. Per lavorare in sicurezza con il cane aggressivo dobbiamo considerare il contesto in cui avviene il colloquio, in una sala visita, sia se adibita solo alle visite comportamentali o, se è usata anche per le visite cliniche, ci sono i feromoni della paura, inoltre, può essere percepita la presenza di altri animali attraverso i suoni che emettono (abbai, latrati, gemiti, ecc.), che aumentano l’attenzione dell’animale - in certe situazioni anche del proprietario - e anche l’aggressività del cane, ma anche del gatto che si sta visitando. Va posta attenzione anche nell’utilizzo del giardino della casa dove vive il cane, perché quest’ultimo potrebbe essere più aggressivo nel proprio territorio. L’anamnesi può aiutarci: se le aggressioni sono avvenute sempre in casa, è meglio evitare questo luogo sino a quando non si è sicuri che il proprietario sia in grado di controllare il cane ovvero fino a quando l’animale non sarà meno reattivo. Se l’animale accetta l’interazione, perché il suo comportamento aggressivo è rivolto verso gli animali, o perché è rivolto verso una categoria di persone (che non sia quella dei veterinari), o perché l’aggressione è avvenuta in un contesto tale che al di fuori da quello non si ripeterà (o quanto meno esistono scarse probabilità che ciò avvenga, ad esempio nel caso in cui un estraneo si sia introdotto in casa…), possiamo mostrare direttamente l’esercizio, eseguendolo con il cane e poi lo facciamo ripetere al proprietario. Un’alternativa è quella di avvalersi di un educatore/trice, faccio la differenza perché a volte è meglio affidare il cane a uno o all’altro, dipende da chi è stata vittima dell’aggressione, ma anche dalla abitudine del cane a convivere di più con gli uomini o con le donne. Nella fase iniziale del percorso di cambiamento è importante favorirne l’evoluzione con un intervento che non sia troppo traumatico (ma è anche vero il contrario, cioè rimuovere tutti i riferimenti sicuri può rivelarsi un efficace strumento per ottenere il risultato desiderato, e ciò anche con un cane aggressivo, soprattutto se si tratta di un cane assertivo e che comunica in modo corretto con un proprietario che non conosce le regole relazionali). La collaborazione con un educatore al quale affidare cane e proprietario è molto utile, ma richiede un’ottima intesa tra medico veterinario comportamentalista ed educatore, al fine della piena reciproca comprensione sul problema/patologia dell’animale e sul tipo di intervento da eseguire. In questo

Dove fare la visita e come condurla: la visita domiciliare A mio avviso, non è saggio né utile fare la prima visita comportamentale di un cane aggressivo a domicilio, perché le poche informazioni raccolte al telefono non ci permettono di operare in sicurezza, per noi, per i proprietari, per il cane. Tuttavia se non si può fare altrimenti, consiglio di valutare telefonicamente la dinamica dell’aggressione e il contesto: se l’aggressione è avvenuta all’esterno e, soprattutto, se non ve ne sono mai state all’interno della casa, o se il cane è aggressivo solo verso certe categorie di persone, oppure se lo è solo verso gli animali, o ancora se è di piccola taglia o di giovane età, o se ha avuto un solo episodio e non grave di aggressione, si può azzardare la prima visita a domicilio. Ribadisco poi la necessità di chiedere sempre al proprietario di tenere il cane al guinzaglio, eventualmente anche con la museruola, quando si entra nella abitazione e di invitare il proprietario - se non dovesse sentirsi sicuro di gestire il cane - di chiuderlo in un luogo che consenta di osservarlo da lontano ovvero non visti. In questo ultimo caso, una volta raccolti i dati per una corretta anamnesi, osservato il cane, e solo dopo avere valutato con ragionevole certezza che non esistono rischi, chiedere al proprietario di liberare il cane. Per inciso, sottolineo che la prima visita, non dovrebbe mai essere domiciliare, in quanto troppo dispersiva e soprattutto perché il veterinario comportamentalista non ha sotto controllo il setting. Questo non significa dare un giudizio del tutto negativo sulla visita a domicilio che può avere una sua ragione di essere anche sotto il profilo della utilità, ma, particolarmente con un paziente aggressivo, è consigliabile che la visita domiciliare sia preceduta da una o due incontri in studio, cioè dopo aver stabilizzato la criticità della situazione, e ciò sotto il profilo della sicurezza per tutti i soggetti coinvolti. Recarsi a casa del cliente ha dei vantaggi che arrcchiscono il percorso terapeutico: 1. Informazione: consente di conoscere direttamente l’ambiente, con la possibilità di individuare soluzioni pratiche 205


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di gestione e di vedere aspetti della relazione che il proprietario non ci segnala, perché troppo interno al sistema, o che ci sono sfuggiti. 2. Segnale di disponibilità: entrare in casa di un proprietario sottolinea il nostro desiderio di aiutare la coppia canepadrone e la nostra disponibilità piena. 3. Co-costruzione di un percorso: non è solo il proprietario con il cane che viene da noi, ma anche noi che andiamo da lui, condividiamo la vita famigliare. Si crea una danza dove tutti collaborano, ognuno con il suo ruolo per raggiungere il fine comune: creare una relazione e gestire un comportamento. 4. Superamento delle gerarchie e relazioni di potere dettate dai ruoli: non solo il veterinario accoglie la diade, ma questa accoglie il veterinario. Parlo di diade, perché la visita a domicilio deve essere un momento al quale partecipa anche il cane, in un certo qual modo deve dare il suo consenso. Per questo è importante la scelta del momento nel quale viene fatta: non troppo presto, ma neppure troppo avanti nel percorso terapeutico. In certi casi, la visita a domicilio serve per un sopralluogo dell’ambiente per organizzare gli spazi. Con un cane molto aggressivo in casa sua e quindi non disposto a “dare il suo assenso” all’ingresso del veterinario comportamentalista, consiglio di chiedere al proprietario di allontanare il cane, in modo che non ci veda entrare nel suo territorio durante la visita (se si tratta di un appartamento, un membro della famiglia lo porta fuori a spasso quando arriviamo noi). Successivamente, quando il cane sarà gestibile dal proprietario, si potrà fare un’altra visita, che avrà un ulteriore obbiettivo, cioè quello di valutare la relazione nel contesto famigliare, come gli attori si muovono nell’ambiente domestico e per provare gli esercizi. Per quanto riguardo gli esercizi rimando a quanto detto sopra, con il suggerimento di usare il giardino di casa solo quando il comportamento del cane è gestibile dal proprietario.

l’obiezione che sono state fatte molte parole, senza però che sia stata fornita la “formula magica”, o ancor meno una “ricettina”, che consenta di avvicinarsi ad un paziente aggressivo in sicurezza. Vi devo quindi una spiegazione, affinché non ve ne andiate delusi o peggio arrabbiati e più “aggressivi” di quando siete arrivati: il fatto è che neppure io conosco la formula (o la ricetta) e sono convinto che nessuno la conosca, perché la visita comportamentale (come, peraltro, tutte le visite) è come una creazione artistica (un’”opera d’arte”) che non può essere realizzata prescindendo dalla tecnica, è un “fare” che deve presupporre una teoria di riferimento che illumina la strada che percorriamo con la diade animale-padrone. I suggerimenti che vi ho dato sono il frutto di conoscenze scientifiche, di conoscenze teoriche-pratiche, di sensibilità, del mio sentire e della capacità di trasformare il tutto in un intervento unico per quell’animale e per quel proprietario. Non so se esista differenza tra un artista e un artigiano, ma ciò che voi ed io sapremo sempre, perché potremo capirlo da come ci sentiamo al termine di una visita comportamentale, è se abbiamo usato tutte le abilità tecniche e personali elencate sopra, oppure se ci siamo limitati a svolgere il nostro compitino seguendo la tecnica, senza essere riusciti ad entrare dentro la relazione, lasciandoci coinvolgere da questa e diventando coinvolgenti, SENZA MORSI NÉ RIMORSI …

CONCLUSIONE

Indirizzo per la corrispondenza: Franco Fassola Asti - C.so Torino, 88 - Tel. 340/2350989 - 348/2668173 E-mail: fassola@veterinario.it

Bibliografia 1. 2. 3.

Alla fine di questa dissertazione sulla gestione del paziente aggressivo durante la visita, qualcuno potrebbe sollevare

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C. Edelstein, Il counseling sistemico pluralista. Dalla teoria alla pratica, Erickson, Gardolo (TN) 2007. P. Watzalawick, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971. Pageat P., La patologia comportamentale del cane, Le Point Veterinaire Milano 2000.


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“Obesità: il più grande organo endocrino (“posso resistere a tutto ma non alle tentazioni” Oscar Wilde) Giuseppe Febbraio Med Vet, Bari

L’obesità, condizione caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso nel corpo rappresenta oggi la patologia nutrizionale che più frequentemente colpisce gli animali da compagnia che vivono nei paesi industrializzati. Il tasso di incidenza dell’obesità nei cani presentati alla visita varia dal 24% al 44% a seconda dell’autore, la sede dello studio epidemiologico e la definizione dei criteri iniziali. Nel gatto, il tasso d’incidenza dell’obesità, che era molto basso negli anni 70 supera ora il 20% a prescindere dalla sede dello studio epidemiologico. L’abitudine sempre più frequente di considerare il gatto come un animale d’appartamento, la limitata attività fisica quotidiana dei gatti tenuti tra le mura domestiche e la maggiore disponibilità di cibi molto appetibili sono tutti fattori che possono aver contribuito alla crescita molto consistente dell’obesità tra i gatti. Stime più recenti, provenienti dal mondo veterinario e da ricerche di mercato confermano il fatto che la percentuale di cani e gatti in sovrappeso ha assunto dimensioni rilevanti; tale percentuale diventa addirittura preoccupante in alcune aree geografiche soprattutto del Nord Europa dove le abitudini alimentari della popolazione umana tendono a diete ipercaloriche, con conseguenti ripercussioni sulla salute sia degli animali domestici che dei loro proprietari. Secondo una recente indagine svoltasi in Italia i cani in sovrappeso sono il 36% del totale, i felini il 46%. I ricercatori hanno osservato che l’obesità è associata alla presenza di cibo appetibile in eccesso e situazioni in cui non è richiesta un’attività fisica gravosa. Queste condizioni stanno acquisendo una sempre maggiore incidenza nella popolazione umana globale ed è probabile che incidano anche sui cani e gatti da compagnia. Secondo alcuni studi i proprietari di animali obesi tendono ad antropomorfizzare i loro animali, trasferendo a questi i loro comportamenti riguardo alla salute e alle abitudini alimentari. I proprietari tendono a rispondere alle richieste di attenzione da parte dei loro animali somministrando cibo e tendendo a ignorare il bisogno di esercizio fisico (cibo uguale amore). Un valore del peso corporeo pari o superiore al 20% in più rispetto al normale è generalmente considerato indice di obesità e, nella specie umana, i problemi di salute cominciano a aggravarsi quando il peso raggiunge il 15% in più rispetto al peso ideale. L’incremento del peso corporeo si verifica quando ha un bilancio energetico positivo, dove l’energia introdotta è maggiore dell’energia spesa, conseguenza di una maggio-

re introduzione di una riduzione del consumo, o di una combinazione delle due. Il problema dell’obesità sembra molto semplice in termini di bilancio energetico, ma esistono molte cause responsabili dello squilibrio, primo dei quali la errata convinzione da parte dei proprietari che somministrare molto cibo ai propri animali sia la forma più efficace e diretta per dimostrare loro affetto e che, viceversa, l’introduzione di una dieta controllata sia vissuta dall’animale come una incomprensibile cattiveria. A questo si aggiunge la relativa incapacità dei veterinari di recepire i rischi correlati all’obesità animale e di comunicare ai proprietari in forma sufficientemente incisiva una corretta educazione alimentare e le misure dietetiche correlate. È opinione diffusa che gli animali obesi abbiano un aspetto meno sano e meno gradevole. Spesso l’obesità provoca la diminuzione delle capacità di reazione del soggetto e dell’attività fisica che normalmente svolge, ma può addirittura abbreviarne la durata della vita ed esporlo maggiormente al rischio o essere la causa di disturbi di salute. È ormai assodato che il sovrappeso e l’alimentazione in eccesso negli animali sono coinvolti non solo nell’insorgenza di malattie metaboliche (es., diabete mellito), ma anche nel peggioramento clinico di condizioni croniche (artrosi, malattie cardiovascolari) e anche nella patogenesi di malattie ortopediche dello sviluppo (displasia dell’anca, osteocondrosi). Ad esempio la maggiore incidenza di rotture del legamento crociato nei cani obesi non è solo imputabile al carico ponderale abnorme che le articolazioni devono sopportare, ma anche all’indebolimento della struttura stessa del legamento, composto in questi soggetti da fibrille di collagene di calibro inferiore alla norma. Anche la valutazione clinica è complessivamente più difficile nel paziente obeso rispetto al paziente in condizione corporea ideale. Le tecniche ostacolate dall’obesità includono la visita clinica, auscultazione toracica, palpazione e aspirazione dei linfonodi periferici, palpazione addominale, prelievo di sangue e urine, diagnostica per immagini (soprattutto l’ecografia). Anche il rischio anestetico è maggiore negli animali obesi e i problemi includono la stima della dose anestetica, l’inserimento del catetere e il tempo operatorio. Ricerche più recenti hanno suggerito un nuovo legame tra obesità e molte malattie. Sembra che il tessuto adiposo, una volta considerato fisiologicamente inerte, sia un attivo produttore di ormoni, come la Leptina, e numerose citochine. Si ritiene che le adipo citochine (fattore di necrosi tumorale 207


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alfa, interleuchina 6, proteina C reattiva, ecc) abbiano un ruolo nella patogenesi di molti disordini associati all’obesità nell’uomo, ed è probabile che esistano molti parallelismi con i disordini degli animali da compagnia. Inoltre l’obesità è associata con aumentato stress ossidativo, che può anche contribuire alle patologie. Il concetto alla base del trattamento dell’obesità è semplice: il peso diminuisce quando la spesa energetica supera il consumo giornaliero di calorie. Può essere tuttavia difficile implementare programmi di successo per perdere peso nel caso del cane o del gatto di casa. L’elemento fondamentale consiste nel valutare dettagliatamente l’anamnesi alimentare e lo stile di vita per identificare innanzi tutto ogni specifico limite del proprietario e dell’animale che possa influenzare l’implementazione del programma per la perdita del peso e, in seguito, sviluppare soluzioni pratiche in grado di funzionare all’interno di tali limiti. L’obiettivo primario è sempre quello di ridurre il consumo giornaliero di calorie e aumentare il dispendio energetico quotidiano. Del tutto controindicato è limitare l’apporto calorico semplicemente limitando la quantità di cibo solitamente consumata. Questa scelta produce carenze nutrizionali ed è poco probabile che abbia successo. L’uso di una dieta appropriata per la perdita di peso è importante e vi sono diversi criteri da considerare. Sebbene sia la restrizione calorica che induce la perdita di peso, è importante evitare una eccessiva restrizione di nutrienti essenziali. Una dieta a bassa densità calorica con un aumentato rapporto nutrienti/calorie rappresenta un ottimo approccio. Altra considerazione non meno importante è quella di promuovere la perdita di massa grassa riducendo al minimo quella della massa magra, che può essere influenzata dalla composizione della dieta. La scelta della dieta deve tenere conto innanzitutto dell’obiettivo (il trattamento dell’obesità) e possibilmente della velocità, per la perdita di peso programmata. La restrizione dei grassi riduce ovviamente la densità calorica della dieta e di conseguenza aiuta a assumere meno calorie. Anche l’incorporazione della fibra è senza dubbio uno dei mezzi principali per ridurre la densità energetica delle diete, garantendo nello stesso tempo un volume soddisfacente e un contenuto energetico ridotto. Nel cane, la restrizione energetica ottenuta somministrando una dieta ad alto contenuto in fibra e basso contenuto in lipidi ha consentito una maggiore riduzione del grasso corporeo e delle concentrazioni di colesterolo sierico. La dieta deve avere un rapporto proteine /calorie appropriato, il cui valore energetico (determinato anche dal contenuto in fibra) sarà il più basso possibile, permettendo allo stesso tempo una razione e un volume di alimento accettabi-

li per il proprietario e un effetto sufficientemente saziante per l’animale. La concentrazione proteica delle diete destinate al trattamento nutrizionale dell’obesità deve, per coprire i fabbisogni in aminoacidi essenziali o meno, essere superiore a quella delle razioni consigliate per il mantenimento. Considerato che l’apporto energetico è fortemente ridotto, occorre aumentare in proporzione inversa la concentrazione proteica per prevenire la riduzione dell’apporto proteico al di sotto dei fabbisogni fisiologici. Le diete ad alto contenuto proteico rendono possibile aumentare la perdita della massa grassa, minimizzando quella della massa magra. Questa può essere ulteriormente tutelata da un aumentato rapporto Lisina (primo aminoacido limitante). La supplementazione di una appropriata quantità di aminoacidi in rapporto con la Lisina piuttosto che un semplice aumento della quantità totale delle proteine favorisce la sintesi proteica e la riduzione della mobilitazione della massa muscolare. Nelle diete a basso contenuto energetico possono essere importanti anche alcuni specifici ingredienti, soprattutto quelli che influenzano il metabolismo lipidico e, a parte questo, la composizione corporea. La L-carnitina favorisce appunto la conversione dei grassi in energia, migliora la ritenzione azotata e modifica la composizione corporea a favore della massa magra. La scelta del grado di razionamento energetico deve essere adattata in funzione di numerosi criteri e, soprattutto, il grado di soprappeso, il sesso dell’animale e la durata programmata della dieta. I numerosi studi clinici pubblicati indicano che mantenere una perdita dell’1 -2% alla settimana rispetto al peso iniziale, costituisce un obiettivo ragionevole. Un punto di partenza è quindi quello di una restrizione calorica del 40% (20 -30% nel gatto), da adattare poi al singolo individuo. Dividere la razione giornaliera in 4 o più piccoli pasti dovrebbe aumentare la termogenesi postprandiale. È anche un buon metodo per ridurre la quantità di tempo in cui gli animali hanno fame, limitando così l’iperattività all’ora di pranzo. Rivalutare il paziente è importante per riadattare l’apporto energetico se la perdita di peso è inferiore all’1% o superiore al 2% alla settimana. I metodi per il controllo e la riduzione del peso sono principalmente basati sulla dieta e l’esercizio fisico, supportate da regolari visite del veterinario per valutare i progressi del paziente e ribadire l’importanza del controllo del peso. La riduzione del peso è un processo graduale e possono essere necessari alcuni mesi di trattamento prima di raggiungere il peso corporeo desiderato. Nei casi più difficili può essere opportuno ricorrere a terapie farmacologiche mirate ad aumentare il senso di sazietà del paziente, motivo frequente di frustrazione da parte del proprietario.

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Sindrome di Cushing. Parte 1: Diagnosi. Parte 2: Distinguere il Cushing ipofisario da un tumore adrenocorticale Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

ANAMNESI

Fra queste anomalie rientrano l’ingrossamento addominale (obesità del tronco), il respiro affannoso, l’alopecia simmetrica bilaterale, le infezioni della cute ed i comedoni. All’esame obiettivo vengono comunemente identificate iperpigmentazione, atrofia testicolare ed epatomegalia. Risultano molto meno comuni la calcificazione ectopica (calcinosis cutis), l’ipertrofia del clitoride e la facile tendenza alla formazione di lividi. Si rileva, tuttavia, una variazione notevole nel numero e nella gravità delle anomalie riscontrate. Questi cani possono avere da uno a fino a 10 segni clinici dominanti.

I cani esposti per periodi di tempo prolungati ad un eccesso di cortisolo di solito sviluppano una combinazione classica di segni clinici, alcuni dei quali possono essere impressionanti. Questi riscontri comuni comprendono polidipsia, poliuria, polifagia, ingrossamento addominale, alopecia, piodermite, polipnea, debolezza muscolare, assottigliamento della cute e letargia. Tuttavia, occorre ricordare che non tutti i cani con iperadrenocorticismo sviluppano gli stessi segni clinici. La maggior parte dei cani presenta parecchi (ma non tutti) i problemi riportati in questa lunga lista di riscontri potenziali (più altri). L’iperadrenocorticismo è un disordine clinico, e gli animali colpiti da questa malattia devono presentare almeno alcune di queste manifestazioni, perché in caso contrario la diagnosi va messa in discussione. I segni clinici derivano dagli effetti combinati di gluconeogenesi, lipolisi, catabolismo proteico ed azioni antinfiammatorie ed immunosoppressive dei glucocorticoidi. Il decorso della malattia è tipicamente insidioso e lentamente progressivo. I proprietari di solito riferiscono di aver osservato nei loro animali alcune delle alterazioni tipiche dell’iperadrenocorticismo per periodi che vanno da sei mesi fino a 6 anni, prima di richiedere l’intervento del veterinario per il loro animale, poiché queste alterazioni insorgono del tutto gradualmente e spesso sono ritenute la conseguenza di un semplice “invecchiamento”. In genere, l’opinione del veterinario viene richiesta soltanto dopo che i segni clinici sono diventati intollerabili per il cliente o che le anomalie sono state evidenziate da persone che vedono l’animale saltuariamente (e quindi notano obiettivamente delle alterazioni evidenti che si sono sviluppate così lentamente che i proprietari non le hanno colte). Le ragioni più comuni che spingono i proprietari a rivolgersi ad un veterinario di solito sono polidipsia/poliuria, polifagia, letargia, polipnea, e/o alterazioni del pelo. Occorre sottolineare che la sindrome di Cushing non comporta vomito, diarrea, anoressia, perdita di peso o altri segni clinici che spingerebbero molti proprietari a richiedere rapidamente le cure del veterinario.

SENSIBILITÀ E SPECIFICITÀ (QUAL È IL TEST MIGLIORE?) La sensibilità di un particolare test fa riferimento al numero dei pazienti in cui i risultati dei test risultano anomali sul totale di quelli affetti da una determinata condizione. La specificità di un particolare test fa riferimento al numero di pazienti in cui i test risultano positivi per una data condizione, benché non ne siano affetti. La medicina sarebbe molto più facile se i nostri test fossero sensibili e specifici al 100%. Poiché la situazione non è mai questa, la domanda che ci si pone più comunemente sull’iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea è: “qual è il test migliore?” Non v’è dubbio che i test più specifici e sensibili per questa condizione siano anamnesi ed esame fisico. Quindi, tutte le interpretazioni dei risultati degli esami eseguiti devono essere effettuate nel contesto di questi due parametri.

DATA BASE DI “ROUTINE” Qualsiasi cane in cui i dati anamnestici e clinici fanno sospettare un iperadrenocorticismo deve essere sottoposto ad una valutazione approfondita prima di passare ad un test endocrino specifico. Questi accertamenti preliminari comprendono gli esami di laboratorio (esame emocromocitometrico completo, analisi delle urine e profilo biochimico). Oltre agli esami su campioni di sangue ed urina, si deve effettuare l’ecografia addominale (preferibile alla radiografia). Riscontrare nei test di screening iniziali un’ampia percentuale di anomalie compatibili con l’iperadrenocorticismo permette al veterinario di confermare ulteriormente una diagnosi che inizialmente si basava su anamnesi ed esame clinico. Le tipiche alterazioni sono rappresentate da drastico aumento dell’attività della fosfatasi alcalina sierica, aumenti da lievi a mode-

ESAME CLINICO L’esame clinico di un tipico cane “Cushing” rivela un animale stabile, idratato, con mucose di colore buono e non è in condizione di stress. I veterinari potranno osservare di solito, nel corso della visita, molti segni riscontrati dai proprietari. 209


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rati dell’ALT e del colesterolo sierici, azotemia ai limiti inferiori della norma o al di sotto di essi, peso specifico urinario < 1.020 su un campione prelevato a casa dal proprietario e batteriuria. Se si ritiene ancora che il cane sia affetto da questa condizione si possono proporre al cliente gli studi più costosi e sofisticati necessari per “confermare” la diagnosi e localizzare la causa della sindrome di Cushing. Attraverso i dati di base iniziali il veterinario può non soltanto procedere verso la diagnosi corretta, ma anche essere informato di qualsiasi altro problema medico concomitante. Nell’iperadrenocorticismo, questi problemi possono essere comuni (infezione del tratto urinario) o inattesi (insufficienza renale), ma in ogni caso possono richiedere una terapia specifica.

lo prima e 4-8 ore dopo la somministrazione IV di 0,01 mg/kg di desametazone. La determinazione del cortisolo plasmatico dopo 8 ore viene utilizzato come test di screening per l’iperadrenocorticismo, ritenendo che le concentrazioni > 1,4 µg/dl siano compatibili con la diagnosi di sindrome di Cushing (ma non la confermino). Questo test è relativamente sensibile e specifico, ma non perfetto. Approssimativamente il 90% dei cani con sindrome di Cushing mostra delle concentrazioni di cortisolo plasmatico > 1,4 µg/dl 8 ore dopo la somministrazione di desametazone e un altro 6-8% presenta valori di 0,9-1,3 µg/dl. I risultati dei test con basse dosi possono anche servire a differenziare il PDH dall’ACT, utilizzando tre criteri: 1) un cortisolo plasmatico dopo 8 ore > 1,4 µg/dl, ma < 50% rispetto al valore basale, 2) una concentrazione di cortisolo plasmatico a 4 ore < 1,0 µg/dl e 3) una concentrazione di cortisolo plasmatico a 4 ore < del 50% rispetto al valore basale. Se un cane ha la sindrome di Cushing e soddisfa uno qualsiasi di questi tre criteri, con tutta probabilità è affetto da PDH. Il 65% circa dei cani con PDH ad insorgenza spontanea dimostra una soppressione, definita secondo questi tre criteri. Un cane con malattia di Cushing che non soddisfi nessuno di questi tre criteri potrebbe essere affetto sia da un PDH che da un ACT. Tuttavia, se all’ecografia addominale le due surreni presentano dimensioni relativamente simili, è più probabile che si tratti di un PDH.

TEST DI SCREENING Principi di base Dopo aver formulato un sospetto diagnostico di iperadrenocorticismo nel cane sulla base delle osservazioni del proprietario, dell’esame clinico e dei risultati degli esami di laboratorio di base, di solito si può cercare di ottenere la “conferma” della diagnosi. Quando necessario, e se possibile, si può anche effettuare un tentativo per determinare se l’animale presenta un iperadrenocorticismo ipofisi-dipendente (PDH) o un tumore adrenocorticale (ACT). Scegliere un test di screening per la sindrome di Cushing è importante perché il risultato di questo esame può determinare se un cane vada trattato o meno. I test di screening impiegati routinariamente comprendono la stimolazione con ACTH, quella con basse dosi di desametazone e la determinazione del rapporto cortisolo:creatinina nelle urine. La decisione di trattare un cane con sindrome di Cushing non va mai basata soltanto sulle informazioni di laboratorio. Si tratta infatti di un disordine clinico che deve avere dei segni clinici. Se un cane non presenta manifestazioni riferibili alla sindrome di Cushing, il trattamento non è necessario. Questo concetto acquisisce importanza quando si è capito che nessun test di screening è corretto in qualsiasi occasione, cioè, come detto in precedenza, che la sensibilità e la specificità non sono mai pari al 100%. Alcuni cani con malattia non surrenalica e molti con poliuria e polidipsia causata da una condizione diversa dalla sindrome di Cushing possono avere risultati dei test di screening falsi positivi per iperadrenocorticismo. Poiché risultati falsi positivi sono stati osservati con ognuno dei test di screening comunemente utilizzati, la diagnosi definitiva di sindrome di Cushing non deve mai essere totalmente basata sull’esito di questi esami, in particolare nei cani con segni clinici classici o in quelli con malattia conclamata di tipo non surrenalico. Nell’esperienza dell’autore, i test più sensibili, specifici ed affidabili per l’iperadrenocorticismo del cane sono l’anamnesi e l’esame clinico. Lo studio ospedaliero più sensibile, specifico ed affidabile è il test di stimolazione con basse dosi di desametazone.

Stimolazione con ACTH (NON PIÙ RACCOMANDATA) Il test di stimolazione con ACTH è stato popolare per decenni in medicina veterinaria. È semplice da effettuare e richiede poco tempo. Inoltre, è importante notare che si tratta del solo studio che dimostri in modo affidabile l’effetto del o-p’-DDD (mitotano) sulla corteccia surrenale. Quindi, alcuni veterinari desiderano avere i risultati del test di stimolazione con ACTH prima di iniziare una terapia con o,p’DDD, perché si servono di questi valori per avere informazioni sui “livelli basali” al fine di monitorare obiettivamente gli effetti del mitotano. Indipendentemente dal protocollo scelto, ci si deve rendere conto che il 20-30% dei cani con sindrome di Cushing presenta risultati entro l’intervallo di riferimento (nel laboratorio dell’autore, le concentrazioni di cortisolo plasmatico post-ACTH sono di 6-17 µg/dl). In un ulteriore 20-30% dei cani affetti da morbo di Cushing i valori riscontrati sono descritti come “borderline” (concentrazioni di cortisolo plasmatico > 17 ma < 22 µg/dl). Quindi, il test non è considerato sensibile, ma è relativamente specifico, ovvero i cani con concentrazioni di cortisolo plasmatico > 22 µg/dl spesso sono affetti da una sindrome di Cushing. Tuttavia, anche la specificità di una risposta esagerata all’ACTH non è perfetta. Quindi, i risultati del test non devono mai essere interpretati senza conoscere i dati relativi ad anamnesi, esame clinico ed indagini di laboratorio di routine. Non esistono caratteristiche dei risultati del test di stimolazione con ACTH che consentano di distinguere fra PDH ed ACT. Dato che l’ACTH è diventato sempre più costoso, questo test sta perdendo di popolarità. L’ACTH in gel è efficace e l’ormone sintetico può essere somministrato alla dose di 0,05 mg/kg (IV o IM) invece di impiegarne 0,25 mg (una fiala) per cane. La quota in eccesso dell’ACTH di sintesi (Cor-

Test di stimolazione con basse dosi di desametazone (LDDS, low dose dexamethasone test) Il protocollo utilizzato per questo test prevede di ottenere campioni di plasma per la misurazione dei livelli di cortiso210


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essere la somministrazione di 0,1 anziché 0,01 mg/kg di desametazone. Se si è convinti che un cane sia affetto da iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea, ma il test con basse dosi di desametazone porta costantemente ad risultato non diagnostico, si può considerare l’impiego di una stimolazione con ACTH e la valutazione del 17OHP. Tuttavia, questa è una situazione estremamente inusuale.

trosyn) può essere congelata, mantenendo inalterata la propria potenza per circa 6 mesi. Nell’opinione dell’autore, per la sua la mancanza di sensibilità il test di stimolazione con ACTH dovrebbe essere abbandonato dalla professione. Questo esame potrebbe essere indicato per il monitoraggio della terapia dell’iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea, per aiutare a diagnosticare la sindrome di Cushing iatrogena e come “standard aureo” per la diagnosi di ipoadrenocorticismo ad insorgenza spontanea.

TEST DI DISCRIMINAZIONE Rapporto cortisolo:creatinina nell’urina (UC:CR)

Test con basse dosi di desametazone

La determinazione del rapporto UC:CR nell’urina si effettua facilmente (occorre semplicemente che il proprietario raccolga l’urina e la consegni all’ospedale perché la invii al laboratorio) e, quindi, di solito è meno costosa degli altri test di screening. La maggior parte dei cani (circa il 97%) con sindrome di Cushing ad insorgenza spontanea presenta risultati anomali (il test è sensibile), ma lo stesso avviene anche in una percentuale significativa dei cani con poliuria/polidipsia causata da altre condizioni e di quelli malati per cause non endocrine (il test non è specifico). È stato ipotizzato che il rapporto UC:CR venga effettuato di routine soltanto sull’urina raccolta da un proprietario a casa piuttosto che su quella prelevata in ospedale. Poiché questo protocollo elimina gli stress dovuti al viaggio ed all’ospedalizzazione che alterano i risultati del test, sembra ragionevole seguire questa ipotesi. L’autore non utilizza questo esame con lo stesso grado di confidenza con cui impiega quello di screening con basse dosi di desametazone. Tuttavia, un risultato normale è davvero raro in un cane con sindrome di Cushing, mentre un risultato anomalo potrebbe servire a suggerire ulteriori test. Quindi, il test può essere utilizzato come un’indicazione per consigliare al proprietario un’ecografia addominale e un esame con basse dosi di desametazone.

Si rimanda alla trattazione precedente.

ACTH endogeno Si tratta di un esame relativamente difficile da effettuare, perché il plasma deve essere maneggiato con cura, il test non è disponibile di routine ed è costoso. Dopo aver utilizzato questo esame per più di 30 anni, abbiamo riscontrato che è altamente specifico e sensibile (valori normali: 10-100 pg/ml; PDH: 45-450 pg/ml; ACT: livelli non rilevabili). Tuttavia, esistono molte sovrapposizioni fra i risultati. Più specificamente, alcuni cani con PDH ed alcuni con ACT hanno valori che variano fra 10 e 45 pg/ml. La nostra esperienza con il test LDDS e con l’ecografia addominale ha limitato la necessità di ricercare le concentrazioni di ACTH endogeno. Questo test è utilizzato nella maggior parte dei casi quando altri saggi discriminanti forniscono informazioni conflittuali.

Soppressione con alte dosi di desametazone (HDDS, high dose dexamethasone suppression) Il test HDDS è relativamente facile da effettuare (il plasma viene ottenuto prima e 4 o 8 ore dopo la somministrazione IV di 0,1 mg/kg di desametazone) facilmente disponibile ed economico. Se un cane è affetto dalla sindrome di Cushing ed il cortisolo plasmatico, 8 ore dopo la somministrazione del desametazone, è < 50% del valore basale, l’animale è affetto da PDH. Tuttavia, la nostra esperienza con il test LDDS e con l’ecografia addominale ha limitato la necessità di impiegare l’HDDS. Approssimativamente il 75% dei cani con PDH dimostra una soppressione con il HDDS. Dato che il 65% circa dei cani con PDH dimostra una “soppressione” compatibile con il PDH al test LDDS, il valore di questo esame è limitato alla sola identificazione di un ulteriore 10% di cani colpiti.

Test con 17-Idrossiprogesterone (17OHP) L’impiego del 17OHP è stato raccomandato come test di screening per i cani con “sindrome di Cushing atipica”. La definizione di “atipica” è riferita ad un animale in cui i segni clinici ed i risultati dei test di laboratorio di routine sono compatibili con l’iperadrenocorticismo, ma i test di screening con basse dosi di desametazone, le prove di stimolazione con ACTH e le determinazioni del rapporto cortisolo:creatinina urinario sono tutti normali. Nell’uomo, nel cane e nel gatto sono stati segnalati casi di tumori adrenocorticali in cui l’ormone secreto principalmente era il 17OHP. È noto da tempo che queste neoplasie sintetizzano e secernono una miriade di steroidi e non sorprende sapere che alcuni producono principalmente steroidi diversi dal cortisolo. In questi cani e gatti, secondo la nostra esperienza, i test di screening non fanno riscontrare risultati “normali”, ma si possono trovare valori relativamente bassi di cortisolo. È estremamente raro che un cane o un gatto con PDH produca soltanto 17OHP. Inoltre, la raccomandazione relativa all’uso di questo ormone prevede di effettuarne la determinazione dopo la stimolazione con ACTH. La nostra raccomandazione è di ripetere il test con basse dosi di desametazone se i risultati sono < 0,9 µg/dl al prelievo dopo 8 ore, poiché la spiegazione più comune per un esito di questo tipo potrebbe

Ecografia addominale Nei cani con sospetto iperadrenocorticismo, l’ecografia addominale svolge tre funzioni principali. In primo luogo, fa parte del “data base di routine” utilizzato per valutare l’addome per qualsiasi anomalia inattesa (calcoli urinari, masse, ecc…). In secondo luogo, lo studio viene impiegato per determinare la dimensione e la forma delle surreni. Se queste sembrano avere bilateralmente dimensioni normali o aumentate nei cani o nei gatti in cui per il resto si diagnosticherebbe la sindrome di Cushing, questo viene considerato come una valida prova di iperplasia surrenalica causata da una malattia ipofisi-dipendente (PDH, pituitary dependent 211


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disease). Se viene riscontrata una singola surrene ingrossata, irregolare e/o invasiva e quella controlaterale è piccola o non rilevabile, si deve sospettare un tumore della ghiandola. In alcuni cani con ACT una surrene sembra essere una “massa”, mentre in altri può apparire normale o ingrossata. Si deve considerare la possibilità di un PDH con surreni irregolari o quella di un PDH in un cane colpito anche da un feocromocitoma. In terzo luogo, se si identifica un tumore surrenalico, l’ecografia è un eccellente test di screening per identificare metastasi al fegato o ad altri organi, compressione dei tessuti adiacenti al tumore, o invasione neoplastica nella vena cava o in altre strutture vascolari. Si deve sottolineare che l’interpretazione dell’ecografia addominale è totalmente dipendente dall’operatore. I radiologi della nostra scuola effettuano di routine la visualizzazione di entrambe le surreni dei cani e dei gatti sani. I soli fattori che limitano la capacità di visualizzare con successo le surreni sono: 1) la

disponibilità dell’animale a rimanere fermo e 2) la presenza di aria nel tratto intestinale. Nessuno di questi due problemi è comune e di solito vengono visualizzate entrambe le surreni. Anche nei cani e nei gatti con PDH sono evidenziate routinariamente tutte e due le ghiandole. Le surreni nel PDH di solito presentano dimensioni relativamente uguali. Nel 50% circa dei cani con PDH le surreni sembrano avere dimensioni “normali”, mentre nel restante 50% circa appaiono ingrossate. La dimensione della surrene viene determinata meglio impiegando la larghezza di quella di sinistra (7,5 mm rappresentano il limite superiore della norma).

Indirizzo per la corrispondenza Professor Edward C Feldman School of Veterinary Medicine Tupper Hall, University of California, Davis, CA 95616

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Diagnosis of hyperadrenocorticism (cushing’s syndrome) in dogs... which tests are best? Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

HISTORY

calcification (calcinosis cutis), clitoral hypertrophy, and easy bruisability are much less common. There is, however, remarkable variation in the number and severity of abnormalities noted. These dogs may have a single dominant sign or 10 signs.

Dogs chronically exposed to excess cortisol usually develop a classic combination of clinical signs, some of which may be dramatic. These common signs include polydipsia, polyuria, polyphagia, abdominal enlargement, alopecia, pyoderma, panting, muscle weakness, thin skin, and lethargy. It must be remembered, however, that not all dogs with hyperadrenocorticism develop the same signs. From this long list of potential signs (plus others), most dogs exhibit several (but not all) of these problems. Hyperadrenocorticism is a clinical disorder, and animals afflicted with this disease must have at least some clinical signs or the diagnosis must be questioned. Clinical signs result from the combined gluconeogenic, lipolytic, protein catabolic, antiinflammatory, and immunosuppressive effects of glucocorticoids. Typically, the course of the disease is insidious and slowly progressive. Owners usually report observing some alterations typical of hyperadrenocorticism in their pet for 6 months to as long as 6 years before they seek veterinary attention for their animal, since these changes are quite gradual in onset and are often believed to be a result of simple “aging.” Commonly, only after signs become intolerable to the client or after abnormalities are pointed out by people who see a pet infrequently (therefore objectively noting obvious changes that have developed so slowly the owners do not observe them) that professional opinion is sought. The most common reasons that owners give for finally seeking veterinary help are usually polydipsia/polyuria, polyphagia, lethargy, panting, and/or hair coat changes. It should be pointed out that dogs with Cushing’s syndrome do not have vomiting, diarrhea, anorexia, weight loss, or other signs that would cause many owners to quickly seek veterinary care.

SENSITIVITY AND SPECIFICITY (WHICH TEST IS BEST?) Sensitivity of a particular test refers to the number of patients with a condition whose test results are abnormal. Specificity of a particular test refers to the number of patients that do not have a condition but their test results are positive for that condition. Medicine would be much easier if our tests were 100% sensitive and 100% specific. Since this is never the situation, the most commonly asked question regarding naturally occurring hyperadrenocorticism is: “which test is best?” There is no doubt that the most specific and sensitive tests for this condition are history and physical examination. Therefore, all test interpretations must be done in the context of these two parameters.

“ROUTINE” DATA BASE Any dog suspected of having hyperadrenocorticism from the history and physical examination should be thoroughly evaluated before specific endocrine testing is undertaken. These initial tests should include clinicopathologic studies (complete blood count [CBC]; urinalysis with culture; and a serum chemistry profile). In addition to blood and urine testing, abdominal ultrasonography (preferred over radiography) should be completed. Finding a large percentage of abnormalities on initial screening tests that are consistent with hyperadrenocorticism further allows the veterinarian to establish a diagnosis that was initially based on history and physical examination. Typical abnormalities include dramatic increases in serum alkaline phosphatase activity, mild-tomoderate increases in ALT and serum cholesterol, low-normal or low BUN, urine specific gravity <1.020 on a sample caught by the owner at home, and bacteriuria. The more expensive and sophisticated studies needed to “confirm” a diagnosis and localize the cause of Cushing’s syndrome can be recommended to the client if the dog is still believed to have this condition. Initial data base results not only ensure that the veterinarian is pursing the correct diagnosis but also

PHYSICAL EXAMINATION The physical examination on a typical “Cushing’s” dog reveals an animal that is stable, hydrated, has good mucous membrane color and is not in distress. Veterinarians will usually observe, during the physical examination, many of the signs seen by owners. Among these abnormalities are abdominal enlargement (truncal obesity), panting, bilaterally symmetrical alopecia, skin infections, and comedones. Hyperpigmentation, testicular atrophy, and hepatomegaly are commonly identified on physical examination. Ectopic 213


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might alert the clinician to any concomitant medical problems. These problems may be common for hyperadrenocorticism (urinary tract infection) or unexpected (renal failure), but in any case may require specific therapy.

by these 3 criteria. A dog with Cushing’s that fails to meet any of these 3 criteria could have either PDH or ACT. However, if it has 2 relatively equal sized adrenals on abdominal ultrasonography, it most likely has PDH.

“SCREENING” TESTS

ACTH Stimulation (NO LONGER RECOMMENDED) The ACTH stimulation test has been popular for decades in veterinary medicine. It is simple to complete and takes little time. The other significant feature regarding results of an ACTH stimulation test is that this is the only study which reliably demonstrates the effect of o,p’ DDD on the adrenal cortex. Thus, some veterinarians want results of an ACTH stimulation test, prior to initiating o,p’ DDD therapy, because the results are used as “baseline” information to objectively monitor effects of o,p’ DDD. Regardless of the protocol chosen, it must be appreciated that 20-30% of dogs with Cushing’s syndrome have test results within the reference range (in our laboratory: post ACTH plasma cortisol concentrations of 6 to 17 µg/dl). An additional 20 30% of dogs with Cushing’s have test results described as “borderline” (plasma cortisol concentrations >17 but <22 µg/dl). Therefore, the test is not considered sensitive but is relatively specific, i.e., those dogs with plasma cortisol concentrations >22 µg/dl frequently have Cushing’s. However, specificity of an exaggerated response to ACTH is also not perfect. Therefore, test results should never be interpreted without knowing results of history, physical examination, and routine data base testing. There are no features of ACTH stimulation test result that allow discrimination between PDH and ACT. As ACTH has become more and more expensive, this test is losing popularity. ACTH gel is effective and synthetic ACTH can be given at 0.05 mg/kg (IV or IM) instead of using .25 mg (one vial) per dog. Excess cortrosyn can be frozen while maintaining potency for about 6 months. In our opinion, the lack of sensitivity of the ACTH stimulation test makes it a test that the profession should abandon. The situations in which ACTH stimulation testing would be indicated include monitoring therapy for naturally occurring hyperadrenocorticism, to aid in the diagnosis of iatrogenic Cushing’s syndrome, and as the “gold standard for the diagnosis of naturally occurring hypoadrenocorticism.

Background After establishing a presumptive diagnosis of canine hyperadrenocorticism from a review of owner observations, physical examination, and laboratory data base, one usually proceeds to attempt “confirmation” of the diagnosis. When necessary, and if possible, an attempt can also be made to determine whether the pet has pituitary dependent hyperadrenocorticism (PDH) or an adrenocortical tumor (ACT). Choosing a screening test for Cushing’s syndrome is important because that test result may determine whether or not a dog is treated. Routinely used screening tests include ACTH stimulation, low dose dexamethasone, and the urine cortisol: creatinine ratio. The decision to treat a dog for Cushing’s syndrome should never be based solely on laboratory information. Cushing’s syndrome is a clinical disorder with clinical signs. If a dog has no clinical signs of Cushing’s syndrome, treatment is not recommended. This concept gains importance when it is understood that no screening test is correct all of the time, i.e., as previously stated, sensitivity and specificity is never 100%. Some dogs with non-adrenal disease and many with polyuria and polydipsia due to a condition other than Cushing’s syndrome can have false positive screening test results for hyperadrenocorticism. Because false positive test results have been observed with any commonly used screening test, the definitive diagnosis of Cushing’s syndrome should never be solely on screening test results, especially in dogs without classical clinical signs or in those with known non-adrenal disease. In our experience, the most sensitive, specific, and reliable screening tests for hyperadrenocorticism in dogs are history and physical examination. The most sensitive, specific, and reliable hospital study is the low dose dexamethasone test.

Low Dose Dexamethasone Test (LDDS) The protocol utilized for this test is obtaining plasma samples for cortisol before and 4 and 8 hours after I.V. administration of 0.01 mg/kg dexamethasone. The 8-hour plasma cortisol is used as a screening test for hyperadrenocorticism, with concentrations >1.4 µg/d1 being consistent with (not confirming) the diagnosis of Cushing’s syndrome. This test is relatively sensitive and specific, but not perfect. Approximately 90% of dogs with Cushing’s syndrome have an 8 hour post-dexamethasone plasma cortisol concentration >1.4 µg/dl and another 6 to 8% have values of 0.9 – 1.3 µg/dl. The results of a low dose test can also aid in discriminating PDH from ACT, using 3 criteria: 1) an 8 hour plasma cortisol >1.4 µg/dl but <50% of the basal value; 2) a 4 hour plasma cortisol concentration <1.0 µg/dl; and 3) a 4 hour plasma cortisol concentration <50% of the basal value. If a dog has Cushing’s and it meets any of these 3 criteria, it most likely has PDH. Approximately 65% of dogs with naturally occurring PDH demonstrate suppression, as defined

Urine Cortisol: Creatinine Ratio (UC:CR) The urine UC:CR ratio is easily performed (simply have the owner collect and deliver urine to the hospital and submit it to the laboratory) and, therefore, it is usually less expensive than other screening tests. Most dogs (~97%) with naturally occurring Cushing’s syndrome have an abnormal result (the test is sensitive) but a significant percentage of dogs with polyuria / polydipsia due to other conditions and those with non-endocrine illness also have abnormal results (the test is not specific). It has be suggested that the UC:CR be routinely performed only on urine collected by an owner at home, rather than having it collected in-hospital. Since this protocol eliminates travel or hospital stress from altering test results, it seems reasonable to follow this concept. We do not utilize this test with the same degree of confidence with which we use the low dose dexamethasone screening test. 214


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monly utilized when other discrimination test results provide conflicting information.

However, a normal result is quite uncommon in a dog with Cushing’s syndrome while an abnormal result could be used to prompt further testing. Therefore, this test can be used as a prompt to recommend abdominal ultrasonography and a low dose dexamethasone test to an owner.

High Dose Dexamethasone Suppression (HDDS) The HDDS test is relatively easy to perform (plasma obtained before and 4 or 8 hours after I.V. administration of 0.1 mg/kg dexamethasone), readily available and inexpensive. If a dog has Cushing’s syndrome and the plasma cortisol, 8 hours post dex, is <50% of the basal value, the dog has PDH. However, our experience with the LDDS and abdominal ultrasonography has limited the need and use of HDDS. Approximately 75% of dogs with PDH demonstrate suppression with the HDDS. Realizing that approximately 65% of PDH dogs demonstrate “suppression” consistent with PDH on the LDDS limits the value of this test by only identifying an additional 10% of afflicted dogs.

17-HydroxyProgesterone (17OHP) Testing The use of 17OHP has been recommended as a screening test for dogs with “atypical Cushing’s syndrome”. The definition of “atypical” is a dog with clinical signs and routine laboratory testing consistent with hyperadrenocorticism but with normal low dose dexamethasone screening test results, normal ACTH stimulation test results, and normal urine cortisol: creatinine ratio test results. Human beings, dogs and cats with adrenocortical tumors have been reported in which the primary hormone secreted by such tumors has been 17OHP. Adrenocortical tumors have long been known to synthesize and secrete a myriad of steroids and it is not surprising to learn that some primarily produce steroids other than cortisol. Such dogs and cats, in our experience, do not have “normal” screening tests results, but their results may be relatively low in cortisol. It is extremely rare for a dog or cat with PDH to produce only 17OHP. Further, the recommendation regarding use of this hormone involves assaying 17OHP after ACTH stimulation. Our recommendation would be repeating a low dose dexamethasone test if results are <0.9 µg/dl at the 8-hour sample, since the most common explanation for such a result would be administration of 0.1 instead of 0.01 mg/kg of dexamethasone. If one is convinced that a dog has naturally occurring hyperadrenocorticism, and if that dog persistently has a nondiagnostic low dose dexamethasone test result, use of ACTH stimulation and assessment of 17OHP can be considered. This is an extremely unusual situation, however.

Abdominal Ultrasonography In dogs suspected as having hyperadrenocorticism, abdominal ultrasonography serves three major functions. First, it is part of the “routine data base” utilized to evaluate the abdomen for any unexpected abnormalities (urinary calculi, masses, etc.). Second, the study is used to evaluate the size and shape of the adrenals. If the adrenal glands appear to be bilaterally normal sized or large in a dog or cat otherwise diagnosed as having Cushing’s, this is considered strong evidence of adrenal hyperplasia due to pituitary dependent disease (PDH). If one, large, irregular and/or invasive adrenal is visualized and the opposite is small or not seen, adrenal tumor must be suspected. Some dogs with ACT have one adrenal that appears to be a “mass” and the other may be normal or enlarged. One must consider the possibility of PDH with irregular adrenals or PDH in a dog that also has a pheochromocytoma. Third, if an adrenal tumor is identified, ultrasound is an excellent screening test to identify hepatic or other organ metastasis, compression of adjacent tissues by a tumor, or tumor invasion into the vena cava or other vascular structures. It must be emphasized that interpretation of abdominal ultrasonography is completely operator dependent. Radiologists at our school routinely visualize both adrenals in healthy dogs and cats. The only limitations to successfully visualizing the adrenals are: 1) the pet’s willingness to remain still and 2) air in the intestinal tract. Neither of these problems is common and both adrenals are usually visualized. In dogs and cats with PDH, both adrenals are also routinely visualized. The adrenals in PDH are usually described as relatively equal in size. Approximately 50% of dogs with PDH have adrenals that appear to be “normal” in size and about 50% have adrenal glands that appear to be enlarged. Adrenal size is best determined using the width of the left adrenal (7.5 mm represents the upper limit of normal).

DISCRIMINATION TESTS Low Dose Dexamethasone Test Please see previous discussion

Endogenous ACTH This test is relatively difficult to perform because the plasma must be handled with care, the test is not routinely available, and it is expensive. Having used this test for more than 30 years, we have found it to be highly specific and sensitive (normals: 10 to 100 pg/ml; PDH: 45 to 450 pg/ml; ACT: results are undetectable). There is some overlap in results, however. Most specifically, some dogs with PDH and some with ACT have results that range from 10 – 45 pg/ml. Our experience with the LDDS and abdominal ultrasonography has limited the need for assaying the endogenous ACTH concentration. This test is most com-

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Sindrome di Cushing parte 3: terapia, chirurgia, trilostano, mitotano o radioterapia? Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

RIMOZIONE CHIRURGICA DEI TUMORI IPOFISARI

acqua nei cani polidipsici si può ridurre in appena 2 giorni o richiedere anche fino a 35 giorni (media 5-14 giorni). Il lysodren è molto efficace nell’eliminare i segni clinici della sindrome di Cushing. Deve essere abbinato ad una stretta comunicazione fra proprietario e veterinario. Il veterinario o il tecnico devono sentire il proprietario quotidianamente a partire dal secondo giorno di terapia. Il proprietario deve essere impressionato dal livello di preoccupazione del veterinario e tenere sotto stretta osservazione l’animale. Noi avvertiamo i nostri clienti di alimentare i loro cani con due piccoli pasti al giorno. L’appetito dell’animale deve essere valutato prima di ogni somministrazione di o,p’-DDD. Se il cibo viene consumato rapidamente, si potrà dare il farmaco. Se viene consumato lentamente, in modo incompleto, o per nulla, il farmaco non dovrà essere somministrato fino a che il veterinario non sia stato informato della cosa e sia stata effettuato un test di risposta all’ACTH. Oltre a telefonare ogni giorno, il veterinario deve visitare il cane 8-9 giorni dopo l’inizio della terapia. A questo punto, bisogna effettuare un’indagine anamnestica approfondita, un esame clinico ed un test di risposta all’ACTH. Nei cani che hanno risposto clinicamente al farmaco (o nei casi in cui il proprietario non è sicuro sulla risposta) ogni ulteriore terapia va sospesa fino a quando non sia possibile valutare i risultati di un test di risposta all’ACTH. La terapia con o,p’-DDD ha lo scopo di ottenere la risoluzione dei segni clinici e far sì che gli esiti del test di risposta all’ACTH siano indicativi di un ipoadrenocorticismo relativo. Nel nostro laboratorio, il successo della risposta all’o,p’-DDD è indicato da concentrazioni di cortisolo plasmatico pre- e post-ACTH > 1,5 mg/dl e < 5 mg/dl.

La rimozione chirurgica di un tumori ipofisario che causa un iperadrenocorticismo (PDH) è la strategia di trattamento standard nei pazienti umani colpiti da questa condizione. Questo stesso metodo di trattamento è stato impiegato in cani e gatti con PDH. La sola limitazione nel raccomandare questa soluzione come terapia d’elezione è il ristretto numero di chirurghi veterinari preparati per eseguire in questa procedura. È stato anticipato che questa forma di trattamento diventerà lo standard nel futuro, quando più chirurghi veterinari avranno acquisito esperienza.

TERAPIA MEDICA MEDIANTE IMPIEGO DI O-P’-DDD Protocollo di induzione La terapia con lysodren (o-p’-DDD) viene sempre iniziata a casa con la somministrazione di 25 mg/kg bid da parte del proprietario. I glucocorticoidi non sono somministrati né prescritti di routine. Piuttosto, i proprietari devono ricevere informazioni accurate sulle azioni del o-p’-DDD. Quindi, viene loro detto di iniziare a ridurre di un terzo la dose di cibo del cane incominciando dal giorno che precede l’avvio della somministrazione di o-p’-DDD. L’autore inizia sempre la terapia di domenica. In altre parole, i proprietari dovranno offrire un terzo della dose normale dell’alimento del loro cane ogni mattina e poi di nuovo ogni pomeriggio incominciando da sabato. Ciò dovrebbe rendere vorace il tipico cane polifagico. NOTA: NESSUN CANE CON UN APPETITO SCARSO DOVRÀ MAI RICEVERE QUESTO FARMACO! La somministrazione di lysodren deve essere interrotta quando (1) il consumo quotidiano di acqua del cane polidipsico si avvicina a 60 ml/kg, (2) il cane semplicemente impiega più tempo a consumare il pasto e,a maggior ragione, se sviluppa un’inappetenza parziale o completa, (3) vomita, (4) presenta diarrea o (5) mostra un’insolita irrequietezza. Uno qualsiasi di questi segni costituisce per il proprietario un’indicazione per interrompere la terapia giornaliera con o,p’DDD e far sottoporre il cane ad una visita veterinaria. Il singolo indicatore più affidabile e costante sul quale basarsi per interrompere la fase di induzione della terapia è l’appetito. Qualsiasi diminuzione di quest’ultimo indica che la fase di induzione della terapia è stata completata. L’assunzione di

Terapia di mantenimento Una volta che sia stata ottenuta la risposta iposurrenalica all’ACTH si può iniziare la fase di mantenimento della terapia con o,p’-DDD. Se il cane con iperadrenocorticismo ha una risposta normale o esagerata all’ACTH, dopo i primi 89 giorni di terapia con o,p’-DDD, si deve continuare con le somministrazioni quotidiane. Benché si tratti di un’evenienza molto insolita, si continua per altri 3-7 giorni. I test di risposta all’ACTH devono essere ripetuti ogni 7-10 giorni fino a che si ottiene una bassa concentrazione plasmatica di cortisolo post-ACTH. È importante sottolineare che ogni cane deve essere trattato come un caso singolo. Non sembra esserci alcun metodo affidabile per prevedere la durata del periodo di tempo richiesto per una risposta o la quantità di o,p’-DDD da somministrare, per cui si può solo affermare che la maggior parte dei cani risponde in 5-9 giorni. È inso216


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lito per un cane richiedere più di 9 giorni consecutivi di o,p’DDD. Circa il 20% dei cani con PDH non è polidipsico. Quindi, questi animali possono e devono essere trattati dai loro proprietari a casa. L’assenza di polidipsia elimina semplicemente uno dei fattori che possono essere monitorati durante le fasi iniziali della terapia. Quest’ultima si baserà su anamnesi, esame clinico e confronto fra i risultati dei test di risposta pre- e post-terapia con ACTH. Il più importante indicatore per il monitoraggio in questi cani è lo stesso utilizzato per quelli polidipsici, il loro appetito. Una riduzione di quest’ultimo in qualsiasi cane trattato con o,p’-DDD è un’indicazione che la fase di induzione è completata o che è imminente un sovradosaggio. Il lysodren non agisce sull’ipofisi. Quindi, la secrezione eccessiva di ACTH associato a PDH continua o diventa esagerata con la terapia. La mancata prosecuzione a lungo termine della somministrazione di o,p’-DDD comporterà la ricrescita della corticale della surrene ed il ritorno dei segni clinici. Questa recidiva compare tipicamente entro 1-12 mesi dall’interruzione del farmaco. La terapia di mantenimento richiede di scegliere un protocollo o,p’-DDD e modificarlo in funzione delle richieste del cane. I soggetti che rispondono alla terapia giornaliera con questo farmaco entro 5-7 giorni sono classificati come “sensibili” ed iniziano ad essere trattati secondo uno schema di mantenimento di 25 mg/kg/settimana di o,p’-DDD. Quelli che inizialmente richiedono 7-10 giorni di terapia sono classificati come “resistenti” e ricevono 50 mg/kg/settimana. Dopo 1-3 mesi dall’inizio della terapia di mantenimento, e poi ogni 3-6 mesi, si effettua un test di risposta all’ACTH. Se la concentrazione di cortisolo plasmatico dopo la somministrazione di questo ormone risulta normale o elevata, il dosaggio dell’o,p’-DDD o la frequenza della somministrazione vengono aumentati. Se la concentrazione di cortisolo plasmatico postACTH è < 1 mg/dl (talvolta < 2 mg/dl) la dose va ridotta. Se un cane trattato con o,p’-DDD diventa “malato” la somministrazione va interrotta.

nessun effetto collaterale notato durante i 3-7 mesi di terapia (Hurley et al., 1998). In un secondo lavoro dello stesso gruppo, sei cani con sindrome di Cushing ad insorgenza spontanea ricevettero dosi variabili da 3 a 30 mg/kg/die somministrate per un periodo di tempo fino a 7 mesi. Di nuovo, tutti i cani migliorarono inizialmente con la terapia, ma in questo lavoro tre soggetti subirono una ricaduta, malgrado la somministrazione continua del farmaco (Ramsey e Hurley, 2000). In un terzo lavoro, venne dimostrato che le concentrazioni di cortisolo sierico a riposo erano diminuite per un periodo pari a 13 ore e quelle del cortisolo plasmatico postACTH avevano presentato un’attenuazione per periodi fino a 20 ore dopo la somministrazione di trilostano a 10 cani. Vi furono alcune variazioni individuali nella risposta (Neiger ed Hurley, 2001). Diversi studi successivi valutarono in modo critico l’impiego della terapia con trilostano in cani con PDH (Ruckstuhl, 2002; Neiger et al., 2002). Nello studio completato in Svizzera (Ruckstuhl et al., 2002), furono trattati 11 cani. La dose iniziale era di 30 mg/die per gli animali di peso inferiore a 5 kg e di 60 mg/die per quelli di peso superiore. Queste dosi calcolate sulla base del peso corporeo erano di 3,99,2 mg/kg (mediana 6,25 mg/kg). Uno degli obiettivi della terapia era quello di raggiungere una concentrazione di cortisolo sierico post-ACTH di 1,0-2,5 µg/dl. Le dosi del trilostano vennero adeguate secondo necessità per raggiungere l’obiettivo. Nella maggior parte dei cani, la dose venne modificata con un aumento di 20-30 mg/cane e, alla fine di 6 mesi, le dosi variavano fra circa 4 e 16 mg/kg/die (mediana di circa 6 mg/kg/die). Tutti i cani risposero bene al trattamento, con riduzioni di poliuria, polidipsia e polipnea, e dimostrarono un miglioramento della forza muscolare. La polifagia si ridusse in nove dei dieci cani, e in nove su undici si osservò un miglioramento della qualità del mantello. Dopo 6 mesi di terapia, nove su undici furono considerati del tutto guariti, e due mostrarono un miglioramento. Tutti i cani presentarono un aumento di dimensione della ghiandola surrenale, valutato con l’ecografia addominale. Sette cani furono trattati per almeno un anno, tre dei sette per almeno due anni. Gli effetti collaterali avversi furono considerati minori, con la comparsa di letargia in un cane e vomito in un altro. Questi problemi vennero affrontati interrompendo temporaneamente il trattamento e somministrando prednisone. La conclusione raggiunta in questo studio fu che il trilostano era un farmaco efficace e sicuro per il trattamento dei cani con PDH. In uno studio completato in Australia (Braddock, 2002), 31 cani con PDH vennero trattati con trilostano. Il peso corporeo di questi animali variava fra 4 e 42 kg. Come nello studio svizzero, questi cani risposero assolutamente bene alla terapia con trilostano, e la durata media del trattamento fu di circa un anno. Questo autore sottolineò anche il concetto che per indurre e mantenere un’adeguata soppressione della corticale surrenalica fosse richiesto un ampio intervallo di dosaggi (totali o per kg di peso corporeo). Alla data finale del test, i cani stavano ricevendo 1,4-8,7 volte la dose iniziale di “controllo”. Si osservò frequentemente che gli animali mostravano un’iniziale sensibilità al trilostano che risultava di breve durata e poi si rendeva necessario aumentare la dose fino al raggiungimento dell’appropriata “posologia a lungo

TERAPIA MEDICA CON KETOCONAZOLO Oltre a svolgere la propria attività antimicotica, è stato dimostrato che il ketoconazolo (Nizoral) interferisce con la sintesi degli steroidi gonadici e surrenalici. L’autore ha valutato l’impiego di questo farmaco nei cani con sindrome di Cushing ipofisi-dipendente ed anche in quelli con Cushing secondario ad un tumore della corticale della surrene. La risposta al trattamento con questo farmaco è stata discontinua e relativamente costosa. È una terapia impiegata raramente.

TERAPIA MEDICA CON TRILOSTANO La prima segnalazione sull’impiego del trilostano per trattare l’iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea nei cane fu un lavoro su quattro cani con PDH ed uno con ATH. La dose impiegata in questi cinque animali variava da 2,6 a 4,8 mg/kg/die. Tutti i cani dimostrarono una buona risposta clinica, con risoluzione delle manifestazioni della malattia e 217


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potenziali complicazioni postoperatorie. Una volta confermata la diagnosi di iperadrenocorticismo causato da tumore della surrene, occorre tentare di localizzare la neoplasia ed escludere metastasi o invasione vascolare. I metodi per la localizzazione tumorale sono rappresentati da radiografie addominali, ecografie, TC e immagini con gamma camera. L’ecografia si è dimostrata il nostro strumento più utile ed economicamente conveniente per la localizzazione del tumore e per individuare l’invasione vascolare o le metastasi. Se si sospetta una metastasi, si può effettuare una biopsia guidata ecograficamente per confermare il dubbio. Inoltre, si devono anche utilizzare le radiografie toraciche per rilevare eventuali metastasi nel parenchima polmonare.

termine”. Il dosaggio tendeva a giungere alla fine ad un plateau in ogni cane, non ad aumentare continuamente. È importante avere esperienza con il farmaco. In questo caso, occorsero in media quasi 90 giorni per ottenere un controllo soddisfacente del PDH nei primi 10 cani trattati, mentre ci vollero in media solo 40 giorni per raggiungere un livello simile di controllo negli ultimi 10 cani. La dose media richiesta per controllare il PDH fu di 19,4 mg/kg somministrati una volta al giorno, con una mediana di 16,7 mg/kg ed un intervallo di 5,3-50 mg/kg. La dose di avvio raccomandata era di 10 mg/kg, con aggiustamenti per eccesso e per difetto (20-30 mg/cane) basati sui risultati di test periodici di stimolazione con ACTH, effettuati 3-8 ore dopo la somministrazione di trilostano. Con tutta probabilità, le dosi necessarie per controllare il PDH sono comprese tra 16 e 19 mg/kg, ed i cani di maggiori dimensioni richiedono una dose minore per kg rispetto a quelli più piccoli. Per monitorare la terapia possono e devono essere impiegati la risposta clinica, la stimolazione con ACTH ed i risultati del rapporto cortisolo:creatinina nell’urina. Un problema identificato in questo studio risultò essere il costo della terapia, che venne stimato pari a due-quattro volte quello del trattamento con o,p’DDD. Fu inoltre sottolineato che il trilostano può essere utile anche nei cani con un tumore adrenocorticale che causa iperadrenocorticismo. Nel Regno Unito, il trilostano è ufficialmente registrato per l’impiego nei cani sotto il nome commerciale di Vetoryl. Il prodotto per l’uso nell’uomo è noto come Modrenal. Le raccomandazioni attuali fornite da un gruppo di ricercatori sono di somministrare inizialmente 30 mg/die ai cani di peso < 5 kg, 60 mg/die a quelli di peso compreso fra 5 e 20 kg e 120 mg/die ai cani che pesano > 20 kg. Sono state suggerite delle rivalutazioni dopo 1, 3, 6 e 13 settimane e poi dopo 6 e 12 mesi. Ogni ricontrollo deve comprendere anamnesi, esame clinico ed un test di stimolazione con ACTH. Quest’ultimo deve essere completato 2-6 ore dopo la somministrazione di trilostano. L’intervallo desiderato per le concentrazioni di cortisolo nel siero o nel plasma è compreso fra 1 e 2 µg/dl. Poiché alcuni cani sono rimasti stabili per periodi prolungati, con concentrazioni di cortisolo inferiori ad 1 µg/dl, si assume che tali concentrazioni rappresentino il nadir giornaliero e che le concentrazioni medie giornaliere siano più elevate o che i precursori si accumulino nel siero e mantengano una qualche attività biologica, anche se non vengono misurati attraverso le determinazioni del cortisolo.

RADIOTERAPIA, MACROADENOMI IPOFISARI Si rimanda alla sezione su diagnosi e trattamento dei tumori ipofisari in questi Atti.

TERAPIA MEDICA CON L-DEPRENYL (ANIPRYL) L’impiego di questo farmaco si basa sulla teoria che la malattia di Cushing ipofisaria sia causata dalla carenza ipofisaria di dopamina. Questo farmaco è un agonista della dopamina (aumenta la secrezione di dopamina). Questa non è una teoria nuova. È stata studiata a fondo nell’uomo alla fine degli anni ’60 ed all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso. L’idea di questo trattamento venne abbandonata perché meno del 20% dei pazienti umani risposero. In studi obiettivi su cani con malattia di Cushing ad insorgenza spontanea, l’impiego dell’Anipryl non causò alcuna variazione nei risultati dei test con basse dosi di desametazone, nessuna alterazione nei risultati dei test di stimolazione con ACTH, nessuna variazione nei rapporti cortisolo:creatinina urinari e nessun cambiamento nel volume e nella concentrazione dell’urina. Questi studi vennero condotti su un ampio numero di cani trattati alle dosi raccomandate per più di un anno. In studi simili ultimati presso la University of California, il farmaco non ha determinato alcun beneficio in più del 90% dei cani trattati. L’autore non ne raccomanda l’impiego.

Parole chiave o,p’-DDD, Trilostano, Ketoconazolo, Anipryl.

CHIRURGIA: SURRENALECTOMIA La surrenalectomia può essere unilaterale (per un tumore adrenocorticale) o bilaterale (come modalità terapeutica per il PDH). Si raccomanda che questa tecnica chirurgica sia effettuata da specialisti e in strutture capaci di gestire le

Indirizzo per la corrispondenza Professor Edward C Feldman School of Veterinary Medicine Tupper Hall, University of California, Davis, CA 95616

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Treatment of hyperadrenocorticism in dogs Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

SURGICAL REMOVAL OF PITUITARY TUMORS

technician should call the owner every day beginning with the second day of therapy. The owner should be impressed with the veterinarian’s concern and will observe the animal closely. We advise our clients to feed their dogs 2 small meals each day. The dog’s appetite should be observed prior to each o,p’ DDD administration. If food is rapidly consumed, medication can be given. If food is consumed slowly, incompletely, or not at all, the medication should not be given until the veterinarian is notified and an ACTH response test is performed. In addition to making daily phone calls, the veterinarian should see the dog 8 to 9 days after beginning therapy. At this time, a thorough history, physical examination and an ACTH response test should be performed. Dogs that have responded clinically to the medication (or if the owner is not certain about response) should have further therapy withheld until results of the ACTH response test can be evaluated. The goals of therapy with o,p’ DDD are to achieve resolution of the clinical signs and an ACTH response test that is suggestive of relative hypoadrenocorticism. In our laboratory, successful response to o,p’ DDD is indicated by pre- and post ACTH plasma cortisol concentrations >1.5:g/dl and <5:g/dl.

Surgical removal of a pituitary tumor causing hyperadrenocorticism (PDH) is the standard treatment strategy for people with this condition. This same method of treatment has been employed with dogs and cats that have PDH. The only restriction to recommending this form of treatment as the treatment of choice are the few veterinary surgeons trained in this procedure. It is anticipated that this form of treatment will become standard in the future as expertise is gained by more veterinary surgeons.

MEDICAL THERAPY USING 0,P’DDD Induction Protocol Lysodren (o,p’ DDD) therapy is always initiated at home with the owner administering 25 mg/kg, given b.i.d. Glucocorticoids are not routinely administered and are not routinely dispensed. Rather, the owner should receive thorough instructions on the actions of o,p’ DDD. Then, the owner is instructed to begin reducing their dog’s food allotment by one-third beginning the day before o,p’-DDD is begun. We always begin therapy on Sundays. In other words, we have owners give their dog one-third of its normal food allotment each morning and again each afternoon, beginning on a Saturday. This should make the typical polyphagic dog ravenous. NOTE: NO DOG WITH A POOR APPETITE SHOULD EVER RECEIVE THIS DRUG! Lysodren administration should be stopped when (1) the polydipsic dog’s daily water consumption approaches 60 ml/kg; (2) the dog simply takes longer to consume a meal and certainly if it develops partial or complete inappetence; (3) vomiting; (4) diarrhea, or (5) unusual listlessness. Any of these signs is an indication for the owner to stop daily o,p’ DDD therapy and have the dog examined by the veterinarian. The single most reliable and consistent indicator for stopping the induction phase of therapy is appetite. Any reduction in appetite indicates that the induction phase of therapy has been completed. The water intake in polydipsic dogs may decrease in as few as 2 days or in as long as 35 days (average is 5 to 14 days). Lysodren is quite successful in eliminating signs of Cushing’ s. This should be coupled with close communication between owner and veterinarian. Either the veterinarian or a

Maintenance Therapy The maintenance phase of therapy with o,p’ DDD may be initiated once a hypoadrenal response to ACTH is obtained. If the dog with hyperadrenocorticism has a normal or exaggerated response to ACTH following the initial 8 to 9 days of o,p’ DDD therapy, daily medication should be continued. Whie quite unusual, it is continued for 3 to 7 additional days. ACTH response tests should be repeated every 7 to 10 days until a low post ACTH plasma cortisol concentration is achieved. It is important to emphasize that each dog must be treated as an individual. There appears to be no reliable method of predicting the length of time required for a response or the amount of o,p’ DDD therapy except to state that most dogs respond in 5 – 9 days. It is unusual for a dog to require more than 9 consecutive days of o,p’ DDD. Approximately 20% of dogs with PDH are not polydipsic. They, too, can and should be treated by their owners at home. Absence of polydipsia simply eliminates one of the factors that can be monitored during the initial phases of therapy. Therapy will be based on history, physical examination and the comparison of pre and post therapy ACTH response test results. The most important monitoring guide in these dogs is no different than for polydipsic dogs, it is their appetite. Reduction in appetite in any dog receiving 219


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(Ruckstuhl et al, 2002), 11 dogs were treated. The initial dose was 30 mg/day for dogs that weighed less than 5 kg and 60 mg/day for dogs that weighed more. These doses calculated on a body weight basis were 3.9 to 9.2 mg/kg (median, 6.25 mg/kg). One objective of therapy was to achieve a postACTH serum cortisol concentration of 1.0 to 2.5 ⎨g/dl. Trilostane dosages were adjusted as needed to meet this aim. In most dogs, dose adjustments were made in increments of 20 to 30 mg/dog and by the end of 6 months, the doses ranged from about 4 to 16 mg/kg/day (mediuan of about 6 mg/kg/day). All dogs responded well to treatment, with reductions in polyuria, polydipsia, and panting, and showed improvement in muscle strength. Polyphagia decreased in nine of 10 dogs, and nine of 11 showed improvement in coat quality. After 6 months of therapy, nine of the 11 were considered completely healthy, and two had improved. All dogs had an increase in adrenal gland size, as evaluated with abdominal ultrasonography. Seven dogs were treated for at least a year, three of the seven for a least 2 years. Adverse side effects were considered minor, with lethargy occurring in one dog and vomiting in another. These problems were managed by temporarily discontinuing treatment and by providing prednisone. The conclusion reached in this study was that trilostane was an efficacious and safe medication for treatment of dogs with PDH. The initial dose was 30 mg/day for dogs that weighed less than 5 kg and 60 mg/day for dogs that weighed more. These doses, calculated on a body weight basis, were 3.9 to 9.2 mg/kg (median, 6.25 mg/kg). One objective of therapy was to achieve a post-ACTH serum cortisol concentration of 1.0 to 2.5 :g/dl. Trilostane dosages were adjusted as needed to meet this aim. In most dogs, dose adjustments were made in increments of 20 to 30 mg/dog and by the end of 6 months, the doses ranged from about 4 to 16 mg/kg/day (median of about 6 mg/kg/day). All dogs responded with reductions in polyuria, polydipsia, panting, and improved muscle strength. Polyphagia decreased in 9/10 dogs, and 9/11 showed improvement in coat quality. After 6 months of therapy, 9/11 were completely healthy, and 2 had improved. All dogs had an increase in adrenal gland size, as evaluated with abdominal ultrasonography. Seven dogs were treated for at least a year, 3 of 7 for a least 2 years. Adverse side effects were considered minor, with lethargy occurring in one dog and vomiting in another. These problems were managed by temporarily discontinuing treatment and by giving prednisone. In a study completed in Australia (Braddock, 2002), 31 dogs with PDH were treated with trilostane. The body weights of these dogs ranged from 4 to 42 kg. As in the Swiss study, these dogs responded quite well to trilostane therapy, and the average duration of treatment was about 1 year. This author also emphasized the concept that a wide range of doses (total or per kg of body weight) were required to induce and maintain adequate adrenocortical suppression. By the final test date, the dogs were receiving 1.4 to 8.7 times the initial “controlling” dose. A frequent observation was that the dogs had an initial sensitivity to trilostane that was short-lived and that the dose then had to be increased until the appropriate “long-term dose” was achieved. The trend was for the dose to eventually plateau in each dog, not continually increase. Experience with the drug is important.

o,p’ DDD is an indication that the induction phase is completed or that over dosage is imminent. Lysodren does not affect the pituitary. Therefore, the excessive ACTH secretion associated with PDH continues or becomes exaggerated with therapy. Failure to chronically continue o,p’ DDD therapy will result in re-growth of the adrenal cortices and return of clinical signs. This recurrence typically occurs within 1 to 12 months of stopping therapy. Maintenance therapy involves choosing an o,p’ DDD protocol and altering that regimen as required by the dog. Dogs that respond to daily o,p’ DDD therapy within 5 - 7 days are classified as “sensitive” and begin a maintenance schedule of 25 mg/kg/wk of o,p’ DDD. Those that initially require 7 10 days of therapy are classified as “resistant” and receive 50 mg/kg/wk. An ACTH response test is performed 1 and 3 months after beginning the maintenance therapy, and every 3 to 6 months thereafter. If the plasma cortisol concentration after ACTH administration is normal or elevated, the o,p’ DDD dosage or the frequency of administration is increased. If the post- ACTH plasma cortisol concentration is < 1 :g/dl (sometimes <2 :g/dl) the dose should be decreased. If a dog receiving o,p’DDD ever becomes “ill” no o,p’DDD should be given.

MEDICAL THERAPY USING KETOCONAZOLE In addition to its antifungal activity, ketoconazole (Nizoral) has been shown to interfere with gonadal and adrenal steroid synthesis. We have evaluated the use of this drug in dogs with pituitary dependent Cushing’s as well as those with Cushing’s secondary to an adrenocortical tumor. Response to treatment with this drug has been inconsistent and relatively expensive. It is a therapy rarely employed.

MECICAL THERAPY USING TRILOSTANE The first report on the use of trilostane for treating naturally occurring hyperadrenocorticism in dogs was an abstract on four dogs with PDH and one with ATH. The dose used in these five dogs ranged from 2.6 to 4.8 mg/kg/day. All the dogs demonstrated a good clinical response, with resolution of clinical signs and no adverse effects noted during 3 to 7 months of therapy (Hurley et al, 1998). In a second report from the same group, six dogs with naturally occurring Cushing’s syndrome received doses of 3 to 30 mg/kg/day given for a long as 7 months. Again, all dogs initially improved with therapy, but in this report three dogs suffered relapses despite continued administration (Ramsey and Hurley, 2000). In a third abstract, it was demonstrated that resting serum cortisol concentrations were decreased for as long as 13 hours and post-ACTH plasma cortisol concentrations were blunted for as long as 20 hours after trilostane administration to 10 dogs. There was some individual variation in response (Neiger and Hurley, 2001). Several subsequent studies critically evaluated the use of trilostane therapy for dogs with PDH (Ruckstuhl, 2002; Neiger et al, 2002). In the study completed in Switzerland 220


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in facilities capable of handling the potential postoperative complications. Once the diagnosis of hyperadrenocorticism due to an adrenal tumor has been confirmed, attempts should be made to localize the tumor and rule out metastasis or vascular invasion. Methods for tumor localization include abdominal radiographs, ultrasonography, CT scans, and gamma camera imaging. Ultrasonography has proven to be our most valuable and cost effective aid in tumor localization and for detecting vascular invasion or metastasis. If metastasis is suspected, an ultrasound guided biopsy can be performed to confirm this suspicion. Thoracic radiographs should also be evaluated for metastatic disease in the lung parenchyma.

In this case, it took an average of almost 90 days to achieve satisfactory control of PDH in the first 10 dogs treated, but it only took an average of 40 days to achieve a similar level of control in the last 10 dogs. The mean dose required to control PDH was 19.4 mg/kg given once daily, with a median of 16.7 mg/kg and a range of 5.3 to 50 mg/kg. The recommended starting dose was 10 mg/kg, with upward of downward adjustments (20 to 30 mg/dog) based on periodic ACTH stimulation test results performed 3 to 8 hours after trilostane administration. The doses most likely needed to control PDH are 16 to 19 mg/kg, with larger dogs requiring a lower dose per kilogram than smaller dogs. Clinical response, ACTH stimulation and urine cortisol:creatinine results can and should be used in monitoring therapy. One concern identified in this study was the cost of therapy, which was estimated to be two to four times the cost of o,p’DDD therapy. It was also pointed out that trilostane may also be useful for dogs with an adrenocortical tumor causing hyperadrenocorticism. In the United Kingdom, trilostane is officially registered for use in dogs under the trade name Vetoryl. The product for use in humans is listed as Modrenal. The current recommendations from one group is to initially administer 30 mg/day to dogs weighing <5 kg; 60 mg/day to dogs weighing 5 to 20 kg; and 120 mg/day to dogs weighing >20 kg. Re-evaluations are suggested after 1,3,6, and 13 weeks, and then after 6 and 12 months. Each recheck should include a history, physical examination, and an ACTH stimulation test. The stimulation test should be completed 2 to 6 hours after administration of the trilostane. The target range for serum or plasma cortisol concentration should be 1 to 2 ⎨g/dl. Since some dogs have been stable for prolonged periods with cortisol concentrations less than 1 ⎨g/dl, it is assumed that such concentrations represent the daily nadir and that average daily, concentrations are higher or that precursors accumulate in the serum and retain some biological activity, although these precursors are not assayed by the cortisol measurement.

RADIATION THERAPY, PITUITARY MACROADENOMAS Please see the section on diagnosis and treatment of pituitary tumors in this proceedings.

MEDICAL THERAPY USING LDEPRENYL (ANIPRYL) Use of this drug is based on the theory that pituitary Cushing’s is caused by a pituitary deficiency of dopamine. This drug is a dopamine agonist (it increases secretion of dopamine). This is not a new theory. It was heavily investigated in humans in the late 1960s and early 1970s. The idea of such treatment was abandoned because less than 20% of people responded to such treatment. In objective studies on dogs with naturally occurring Cushing’s use of Anipryl caused no change in low dose dexamethasone test results, no change in ACTH stimulation test results, no change in urine cortisol to creatinine ratios, no change in urine volume and no change in urine concentration. These studies were carried out in a large number of dogs treated at recommended doses for more than a year. In similar studies completed at the University of California, the drug was not of benefit to more than 90% of treated dogs. We do not recommend use of this drug.

SURGERY: ADRENALECTOMY Adrenalectomy may be unilateral for an adrenocortical tumor or bilateral as a mode of therapy for PDH. It is recommended that this surgery be performed by specialists and

Key Words o,p’-DDD, Trilostane, Ketoconazole, Anipryl.

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Cosa c’è di nuovo nella diagnosi e nel trattamento dell’Addison nel cane Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

Cos’è la malattia di Addison?

sa più comune della malattia di Addison è la distruzione di entrambe le ghiandole surrenali da parte del sistema immunitario dell’individuo. Il sistema immunitario funziona innanzitutto restando continuamente alla ricerca di corpi estranei e cercando immediatamente di uccidere quello che non riconosce come “self”, di qualsiasi cosa si tratti. Il miglior esempio di corpo estraneo che il sistema immunitario vuole uccidere sono batteri e virus. Per ragioni non ben comprese, occasionalmente il sistema immunitario vede parti del corpo normali come “estranee” e si imposta per uccidere questi tessuti. In questo caso insolito, il sistema immunitario vede le ghiandole surrenali come estranee e ne uccide le cellule. Cause meno comuni di Malattia di Addison sono le neoplasie e le infezioni che possono invadere ed uccidere le surreni.

Cani, gatti, uomo ed altre specie animali hanno un paio di piccole ghiandole poste nell’addome, sopra ad ogni rene. Con un termine derivato dal latino, queste piccole ghiandole sono quindi dette surreni per la loro localizzazione. Sono anche chiamate così perché vennero individuate dagli anatomisti molto prima che la loro funzione vitale (salva vita) fosse compresa. Le ghiandole producono due sostanze che sono critiche per la vita, i “glucocorticoidi” ed i “mineralcorticoidi”. Queste sostanze sono immesse nel flusso sanguigno dopo la loro sintesi e circolano attraverso il corpo. Come tali, vengono classificate come “ormoni”. Entrambi questi ormoni hanno un effetto sulla funzione delle cellule in ogni parte del corpo. Da un altro punto di vista, le cellule di ogni parte dell’organismo hanno bisogno di una certa quota di glucocorticoidi e mineralcorticoidi per essere sane. Entrano in una condizione di sofferenza se uno o entrambi gli ormoni sono in eccesso ed ugualmente se uno o entrambi gli ormoni sono carenti. I glucocorticoidi sono cortisonici naturali. Il cortisone è necessario per la vita e è importante per assicurare che gli individui stiano bene. I glucocorticoidi hanno molte funzioni, compreso un effetto sull’appetito e sulla funzione del sistema immunitario. I medici impiegano comunemente sia i cortisonici naturali che quelli sintetici. Il cortisone può essere utile sia per il trattamento medico di problemi relativamente minori (ad esempio, nelle dermatiti da contatto) che per disordini medici pericolosi per la vita (alcune neoplasie, per esempio). La presenza cronica di elevati livelli di cortisone negli apparati di un dato soggetto può portare a gravi problemi medici. Lo stesso dicasi se un individuo ha poco cortisone nei suoi apparati. L’insufficienza del cortisone è uno dei due componenti della malattia di Addison. I mineralcorticoidi sono un’altra sostanza vitale prodotta dalle ghiandole surrenali normali. I mineralcorticoidi controllano le concentrazioni di due componenti del “sale” criticamente importanti per l’organismo, ovvero i livelli di sodio e potassio. Come per i glucocorticoidi, anche un eccesso di mineralcorticoidi nel sistema di solito comporta gravi problemi medici. Lo stesso dicasi per una quantità di mineralcorticoidi troppo bassa. La malattia di Addison (chiamata così da Thomas Addison, uno scienziato britannico ritenuto il primo studioso che ha dimostrato che queste ghiandole sono necessarie per la vita) è un’affezione in cui il corpo contiene troppo pochi glucocorticoidi ed altrettanto scarsi mineralcorticoidi. Di solito questa condizione è il risultato di alcuni processi distruttivi che colpiscono entrambe le surreni e le cellule che producono questi ormoni di importanza critica. La cau-

Quali sono i segni clinici della Malattia di Addison? La malattia di Addison è relativamente poco comune nel cane ed è considerata rara nel gatto. È più frequente nelle cagne giovani o di media età. La condizione è stata diagnosticata nei cani e nei gatti di tutte le età e di entrambi i sessi, sia negli animali interi che in quelli sterilizzati. È stato dimostrato che poche razze di cani sembrano predisposte alla Malattia di Addison. Le razze che hanno una predisposizione a questa condizione comprendono il cane da acqua Portoghese, il Barbone standard ed il Bearded Collie. Tuttavia, quest’affezione può colpire qualsiasi razza canina ed anche gli incroci. In generale, i segni clinici della Malattia di Addison sembrano comparire rapidamente, di solito in quelli che sembrano pochissimi giorni. Si può sviluppare in settimane o anche in qualche mese. La maggior parte dei proprietari nota che il loro animale sviluppa nello stesso momento numerosi problemi. Senza alcun ordine particolare, questi problemi comprendono perdita di appetito, letargia estrema, vomito, diarrea, perdita di peso e debolezza muscolare. Meno comunemente, il proprietario osserva debolezza e perdita di appetito che sembrano comparire e scomparire per un po’ di tempo prima che il segno clinico diventi persistente. In alcuni cani sono stati riscontrati brividi, tremori o fremiti come se avessero freddo. Altri collassano improvvisamente e sembrano sviluppare rapidamente una condizione simile a shock.

Quali test sono necessari? Vomito, diarrea, perdita di appetito, debolezza e perdita di peso sono problemi estremamente aspecifici. Questi possono 222


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infatti essere i segni clinici di un cane o un gatto con una gastropatia, un’enteropatia, una cardiopatia, un’epatopatia o una nefropatia. Anche altre condizioni possono causare questi tipi di manifestazioni. Per complicare ulteriormente questo quadro, le malattie di altri apparati sono molto più comuni della Malattia di Addison. Quindi, il veterinario può o meno sospettare una Malattia di Addison dopo aver parlato con i clienti e dopo aver ultimato un esame clinico. È più probabile che il veterinario creda che l’animale sia malato e raccomandi una “batteria” di test che valuteranno vari apparati simultaneamente. Una delle anomalie caratteristiche riscontrate nei cani con Malattia di Addison è l’aumento delle concentrazioni ematiche di potassio e la riduzione di quelle del sodio. Tuttavia, anche queste alterazioni sono aspecifiche. Quando il veterinario sospetta una Malattia di Addison, dato che questa è una condizione che richiede un terapia che dura tutta la vita, è stato raccomandato un esame specifico. Questo, chiamato test di stimolazione con ACTH, è lo standard aureo per la diagnosi della malattia in uomo, cane e gatto. Se il risultato è tipico della Malattia di Addison, l’animale richiederà un trattamento a lungo termine per sopravvivere.

sostituzione con glucocorticoidi per la Malattia di Addison è il fatto che gli animali colpiti richiedono dosi relativamente piccole in confronto a quelle utilizzate per i soggetti affetti da malattie immunomediate, neoplasie o altro. Esistono due diversi mineralcorticoidi disponibili. Entrambi questi farmaci sono specifici per i pazienti con la Malattia di Addison. La forma in pillole viene impiegata comunemente in medicina umana ed è assolutamente efficace a basse dosi. Cani e gatti sembrano relativamente resistenti alle pillole e, quindi, possono richiedere dosi relativamente elevate. Questo, a sua volta, esita in un notevole impegno economico. Esiste una versione del farmaco iniettabile una volta ogni 25 giorni, preparata specificamente per cani e gatti. Questo farmaco è molto efficace ed è il mineralcorticoide raccomandato. Alcuni cani richiedono iniezioni ogni 21 giorni e altri possono farcela con un’iniezione al mese. La maggior parte, tuttavia, risponde meglio con una somministrazione ogni 25 giorni. Queste iniezioni possono essere solitamente effettuate dai proprietari. Possono occorrere 2-6 mesi per stabilire una dose. Una volta individuata, la dose corretta per un dato animale rimarrà relativamente costante.

Quale trattamento è disponibile?

Conclusione

Il trattamento a lungo termine per la malattia di Addison è meno difficile che formulare o sospettare la diagnosi. Inoltre, un trattamento a lungo termine è meno difficile delle terapie intensive che devono essere inizialmente attuate nell’ospedale per salvare la vita del cane. Quando l’animale è pronto a tornare a casa, tuttavia, il ruolo dei proprietari sarà molto meno difficile. Esistono terapie sostitutive sia con glucocorticoidi che con mineralcorticoidi. I glucocorticoidi impiegati per il trattamento della malattia di Addison non hanno nulla di speciale. Anzi, sono gli stessi farmaci utilizzati per una varietà di condizioni sia in medicina umana che veterinaria. Il solo aspetto unico che riguarda la terapia di

La Malattia di Addison è una sindrome relativamente poco comune. Cani e gatti in cui sia stata correttamente diagnosticata e trattata in modo appropriato vivono sani e felici. Anche se può essere associata ad alcune spese considerevoli, la terapia a lungo termine degli animali colpiti è quasi sempre efficace e gratificante.

Indirizzo per la corrispondenza Professor Edward C Feldman School of Veterinary Medicine Tupper Hall, University of California, Davis, CA 95616

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Addison’s disease Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

What is Addison’s Disease?

adrenal glands by the individuals’ own immune system. The immune system functions primarily by constantly being on the lookout for foreign objects and upon seeing something not recognized as “self” this system immediately tries to kill whatever that might be. The best examples of foreign objects that the immune system wants to kill are bacteria and viruses. For reasons that are not well understood, occasionally the immune system sees normal body parts as “foreign” and sets out to kill those tissues. In this uncommon instance, the immune system sees the adrenal glands as foreign and kills those cells. Less common causes of Addison’s Disease are cancers or infections that can invade and kill the adrenal glands.

Dogs, cats, people and other species have a pair of small glands located in the abdomen, one next to each kidney. In Latin, “kidney” is “renal” and “next to” is “ad”. These small glands are, therefore, called the adrenal glands because of their location. They are so-named because they were recognized by anatomists long before their vital (life saving) function was understood. The glands produce 2 substances that are critical for life, they are the “glucocorticoids” and “mineralocorticoids”. These substances are placed into the blood stream after they have been synthesized and circulate throughout the body. As such, they are classified as being “hormones”. Both these hormones have an effect on the function of cells everywhere in the body. To look at it another way, cells everywhere in the body need some glucocorticoid and some mineralocorticoid to be healthy. They suffer if there is too much of either or both and they suffer if there is too little of either or both. Glucocorticoids are natural cortisone. Cortisone is necessary for life and are important in assuring that individuals feel well. Glucocorticoids have many functions, including an effect on appetite and immune system function. Both natural and synthetic cortisones are used commonly by doctors. Cortisone can be beneficial as a medical treatment for relatively minor problems (poison oak, for example) and for serious life-threatening medical disorders (some cancers, for example). If an individual chronically has too much cortisone in their systems, serious medical problems can result. If an individual has too little cortisone in their systems, other serious medical problems result. Too little cortisone is one of two components of Addison’s Disease. Mineralocorticoids are another vital substance produced by normal adrenal glands. Mineralocorticoids control two of the body’s critically important “salt” concentrations, i.e. mineralocorticoids control the levels of both sodium and potassium. As with glucocorticoids, too much mineralocorticoid in the system usually results in serious medical problems. Too little mineralocorticoid is a life-threatening condition. Addison’s disease (named after Thomas Addison, a British scientist who is credited for being the first person to demonstrate that these glands are necessary for life) is one in which the body contains too little glucocorticoid and too little mineralocorticoid. This condition usually is the result of some destructive process affecting both adrenal glands and the cells that produce both of these critically important hormones. The most common cause of Addison’s Disease is destruction of both

What are the symptoms of Addison’s Disease? Addison’s Disease is relatively uncommon in dogs and is considered rare in cats. The disease is most common in young-to-middle-aged female dogs. The condition has been diagnosed in dogs and cats of all ages, either gender, and in both intact and neutered animals. It has been demonstrated that a few dog breeds seem predisposed to Addison’s Disease. The breeds that have a predisposition to this condition include the Portugese Water Dog, the Standard Poodle, and the Bearded Collie. Addison’s disease, however, can affect any breed and mixed breed dogs as well. In general, the symptoms of Addison’s Disease seem to come on quickly, usually over what seems to be just a few days. It can develop over weeks or months as well. Most owners note that their pet develops several problems at about the same time. In no particular order, these problems include loss of appetite, extreme lethargy, vomiting, diarrhea, weight loss and muscle weakness. Less common owner observations include weakness and loss of appetite that seems to come and go a few times before the symptoms persist. Some dogs have been observed to shiver, tremble, or shake as if they are cold. Some dogs suddenly collapse and quickly seem to develop a shock-like condition.

What tests are needed? Vomiting, diarrhea, loss of appetite, weakness and weight loss are extremely non-specific problems. These can be the symptoms of a dog or cat that has stomach disease, intestinal disease, heart disease, liver disease, or kidney disease. Other conditions can also cause these types of symptoms. To further complicate this issue, diseases of other organ systems are much more common than Addison’s Disease. Therefore, 224


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and veterinary medicine. The only unique aspect regarding glucocorticoid replacement therapy for Addison’s Disease is the fact that affected pets require relatively tiny doses as compared to the doses used for pets with immune-mediated disease, cancer, or other conditions. There are 2 different mineralocorticoids available. Both of these medications are specific for patients with Addison’s Disease. The pill form is commonly used in people with this disease and is quite effective at low doses. Dogs and cats seems relatively resistant to the pills and, therefore, they may require relatively large doses. This, in turn, results in quite an expensive commitment. There is a once every 25 day injectable medication specifically made for dogs and cats. This drug is quite effective and is the recommended mineralocorticoid. Some dogs require injections once every 21 days and others can get by with one injection each month. Most, however, respond best with injections every 25 days. These injections can usually be administered by owners. It may take 2 to 6 months to establish a dose. Once the correct dose is established for your pet, it will remain relatively constant.

your veterinarian may or may not suspect Addison’s Disease after talking with you and after completing a physical examination. It is most likely that your veterinarian will believe that your pet is ill and will recommend a “battery” of tests that will assess various organ systems simultaneously. One of the hallmark abnormalities seen in dogs with Addison’s Disease is an increase in blood concentrations of potassium and decreases in blood concentrations of sodium. However, such changes are also non-specific. Since your veterinarian suspected Addison’s Disease and because this is a condition that requires life-long therapy, a specific test for Addison’s Disease was recommended. This test, called the ACTH stimulation test, is the “gold standard” for diagnosing Addison’s Disease in people, dogs, and cats. If the result is typical of Addison’s Disease, your pet will require life-long treatment for survival.

What treatment is available? Long-term treatment of Addison’s is not nearly as difficult as making or suspecting the diagnosis in the first place. Further, long-term treatment is not nearly as difficult as the intensive care required initially in the hospital that saved your dog’s life. Once your dog is ready to be sent home, however, your role will be much less difficult. There are both glucocorticoid and mineralocorticoid replacement medications. The glucocorticoids used in the treatment of Addison’s disease are not special in any way. Rather, these are the same medications used for a variety of conditions in both human

Conclusion Addison’s Disease is a relatively uncommon syndrome. Dogs and cats correctly diagnosed and properly treated live healthy and happy lives. While there is some significant expense associated with the long-term care of affected pets, their treatment is almost always successful and rewarding.

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Cushing nel gatto: diagnosi e trattamento Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

ta. Alcuni di questi animali possono essere descritti come “svogliati” o “depressi” a causa della debolezza muscolare o per gli effetti di un’ampia massa ipofisaria.

CONSIDERAZIONI GENERALI I due disordini endocrini più comuni nel gatto sono il diabete mellito e l’ipertiroidismo. Ognuno di essi è stata descritto sia come il più comune disordine endocrino nei gatti anziani del nord America che, separatamente, come una delle più comuni affezioni riscontrabili nella stessa popolazione. Sembrerebbe che tutti gli altri disturbi endocrini dei gatti siano da poco comuni a rari. L’iperadrenocorticismo felino è una sindrome analoga a quella di Cushing nell’uomo. L’incidenza di questa condizione in gatto e uomo è rara, mentre viene considerata comune nel cane. L’iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea dei felini di solito (circa l’80% dei casi) è causato da un tumore dell’ipofisi che funziona autonomamente (generalmente un adenoma) che, a sua volta, comporta un’iperplasia adrenocorticale (iperadrenocorticismo ipofisi-dipendente; PDH). Il 20% circa dei gatti presenta un tumore funzionale della surrene (circa il 50% adenomi e circa il 50% carcinomi).

ESAMI DI LABORATORIO ED INDAGINI RADIOGRAFICHE I conteggi cellulari di eritrociti e leucociti di solito non forniscono risultati rimarcabili. Dal 75-80% dei gatti con sindrome di Cushing sono stati ottenuti casualmente dei campioni di urina con un peso specifico > 1.020; in altre parole, la poliuria e la diluizione urinaria tipiche dei cani con sindrome di Cushing non si riscontrano nel gatto. Più dell’80% dei felini con sindrome di Cushing è affetto da diabete mellito e, quindi, iperglicemia. Tuttavia, aumenti della concentrazione di colesterolo sierico o delle attività degli enzimi epatici sierici non sono tipici. La fosfatasi alcalina “indotta da steroidi” e “l’epatopatia da steroidi” sono esclusivi del cane e non compaiono nel gatto. I cani con sindrome di Cushing hanno quasi sempre un’azotemia al livello inferiore della norma o ridotta, mentre i gatti tendono ad avere livelli ai limiti superiori della norma o aumentati. I cani colpiti tendono ad essere positivi al test per l’ipotiroidismo, mentre i gatti tendono ad essere eutiroidei. Radiograficamente, la maggior parte (> 70%) dei felini con sindrome di Cushing presenta epatomegalia, un contrasto eccellente dovuto al grasso mesenterico ed un addome pendulo. L’ecografia addominale è di gran lunga più preziosa ed affidabile per la valutazione delle dimensioni delle surreni e della possibilità di neoplasia di queste ghiandole.

SEGNI CLINICI I gatti con sindrome di Cushing di solito sono di media età o anziani (media: 10-11 anni). I gatti maschi e femmine sono colpiti in ugual misura e praticamente tutti sono stati sterilizzati. Nella maggior parte dei casi, il più comune “motivo di presentazione alla visita” da parte del proprietario era la “difficoltà a controllare il diabete mellito” definito come una continua poliuria e polidipsia, malgrado la terapia con insulina. Nella maggior parte dei gatti l’iperadrenocorticismo venne diagnosticato dopo aver documentato un diabete mellito insulinoresistente. Quindi, la poliuria e la polidipsia si sviluppano come conseguenza dell’iperglicemia e della glicosuria più che per un eccesso di cortisolo. Questo concetto è compatibile con la bassa incidenza di poliuria, polidipsia e polifagia nei gatti trattati con glucocorticoidi esogeni e nella maggior parte di questi gatti il riscontro clinico più comune era un’urina concentrata (> 1.020). I segni dermatologici più evidenti sono rappresentati da cute estremamente fragile, sottile, infettata, e predisposta alla facile formazione di lividi (“sindrome della cute fragile felina”). Questi problemi cutanei rappresentano la seconda serie più comune di segni clinici nel gatto con iperadrenocorticismo. I felini colpiti possono anche presentare un mantello trascurato, a chiazze, ed alopecia asimmetrica, consunzione muscolare e ventre a botte (addome pendulo con epatomegalia) e cute pigmenta-

TEST ENDOCRINI DI SCREENING Test di stimolazione con ACTH Il test di stimolazione con ACTH non è consigliato nel gatto perché non è sufficientemente sensibile.

Test con basse dosi di desametazone Il test di screening con desametazone richiede dieci volte la dose impiegata nel cane, cioè 0,1 mg/kg IV. Bisogna effettuare un prelievo di plasma per la determinazione del cortisolo prima e poi 4 ed 8 ore dopo la somministrazione. Nel corso del periodo di 8 ore dopo la somministrazione del desametazone, non si devono effettuare altre procedure ed il gatto deve essere lasciato il più possibile tranquillo nella sua 226


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gabbia. Utilizzando i valori di riferimento stabiliti in uno studio, a 4 ed 8 ore dalla somministrazione del desametazone il riscontro di concentrazioni di cortisolo plasmatico < 1,0 µg/dl era da ritenere normale, valori > 1 ma < 1,4 µg/dl erano considerati borderline e concentrazioni > 1,4 µg/dl erano compatibili con una diagnosi di iperadrenocorticismo.

test di screening e di discriminazione possono essere attuati senza che il gatto sia stato portato all’ospedale veterinario. I primi due campioni di urina sono impiegati per lo “screening” e l’ultimo viene utilizzato per il test di “discriminazione”. Si calcola la media dei primi due risultati dei test e se il terzo è < 50% del valore ottenuto, probabilmente l’animale è affetto da PDH; invece, la mancata soppressione indica che sono possibili sia PDH che tumore della surrene. Il test dell’ACTH endogeno serve a distinguere gli animali affetti da PDH da quelli con tumori surrenalici funzionalmente attivi. Utilizzando valori per cane e uomo, un risultato maggiore di 45 pg/ml è compatibile con il PDH, ed uno inferiore a 10 pg/ml concorda con un tumore della corticale surrenale. Tuttavia, nei gatti l’intervallo normale è compreso fra 0 e 110 pg/ml.

Rapporto cortisolo:creatinina nell’urina (UCCR) – IL TEST RACCOMANDATO L’impiego del UCCR come test di screening per la sindrome di Cushing nel cane sembra essere sensibile, ma non specifico. Nel gatto, questo è raccomandato come test di screening per l’iperadrenocorticismo. Il protocollo è semplice: i proprietari devono raccogliere l’urina dei loro gatti in due mattinate consecutive. Ogni campione deve essere sottoposto alla determinazione del UCCR. Valori > 3,6 x 10-5 sono anomali, quelli > 1,3 ma < 3,6 x 10-5 sono borderline e quelli < 1,3 x 10-5 sono normali. Questo protocollo è affidabile ed evita di ospedalizzare i gatti per eseguire il test, eliminando eventuali risultati spuri associati allo stress indotto dall’ospedalizzazione. Il problema, come nel cane, è la specificità dei risultati dell’esame. Qualora si abbia un sospetto di sindrome di Cushing, questo sembra essere il test di screening migliore per il gatto.

TRATTAMENTO L’iperadrenocorticismo è notevolmente debilitante per i gatti. Anche se la terapia è difficile e la prognosi riservata, di solito si cerca di ottenere il controllo della malattia, perché le condizioni cliniche dei felini colpiti tendono a deteriorarsi. La rimozione chirurgica del tumore ipofisario è la forma ottimale di terapia ed è stata utilizzata nei gatti. Ad oggi, semplicemente non vi sono chirurghi a sufficienza in grado di effettuare questa procedura. Quando la pratica sarà sviluppata, la chirurgia sicuramente diventerà il trattamento d’elezione. La radioterapia ipofisaria e la terapia medica con trilostano non sono state attuate in una quantità di gatti tale da valutarne l’efficacia. La surrenalectomia, unilaterale nei gatti con tumori surrenalici o bilaterale in quelli con PDH, ha fornito i nostri migliori risultati.

ECOGRAFIA ADDOMINALE L’ecografia, forse più di qualsiasi altra tecnica, è notevolmente “operatore-dipendente”. In altre parole, l’ecografia è sensibile ed affidabile solo tanto quanto lo sono la strumentazione usata e la conduzione individuale e l’interpretazione dello studio. L’ecografia è uno strumento eccellente per distinguere il PDH dalla sindrome di Cushing causata da tumore adrenocorticale. Nel gatto, i risultati possono anche essere utilizzati come test di screening. Occorre essere in grado di visualizzare routinariamente entrambe le ghiandole surrenali nei gatti sani. Alcuni gatti con PDH presentano surreni di dimensioni normali e alcuni hanno un evidente ingrossamento degli organi. L’impossibilità di identificare l’una o l’altra surrene porrà sicuramente in dubbio la diagnosi di sindrome di Cushing, mentre visualizzare una ghiandola normale suggerirà un PDH e tenderà a ridurre la probabilità di un tumore surrenalico. Se si riscontra una surrene evidentemente ingrossata, deformata e/o compressa di solito si deve sospettare un tumore adrenocorticale.

PREPARAZIONE PREOPERATORIA TERAPIA MEDICA La risoluzione transitoria dell’iperadrenocorticismo può essere estremamente utile nei gatti in cui si preveda un intervento chirurgico. I soggetti con sindrome di Cushing hanno una cute estremamente fragile, sono predisposti alle infezioni e guariscono male. Le complicazioni derivanti da questi problemi possono essere catastrofiche. È possibile minimizzarle con il trattamento preoperatorio della sindrome di Cushing prima della chirurgia. Le opzioni terapeutiche comprendono l’impiego del farmaco adrenocorticolitico o,p’DDD, il blocco della sintesi del cortisolo con ketoconazolo e metirapone, e la distruzione della fonte ipofisaria dell’ACTH attraverso la radioterapia. L’impiego di trilostano offre la migliore probabilità di risolvere la condizione. Somministrando l’o,p’-DDD a gatti clinicamente normali, la risposta surrenalica è stata osservata soltanto nel 50% dei casi. Molti animali affetti da sindrome di Cushing trattati con o,p’-DDD alla dose di 50 mg/kg/die (divisa bid) non riuscirono a dimostrare alcun miglioramento, compresi due gatti trattati giornalmente per più di 90 giorni. Anche raddoppiando la dose non si è avuto alcun miglioramento della risposta osservata nei gatti da noi trattati. Analogamente, la risposta al ketoconazolo (30 mg/kg/die suddivisi bid) è stata

TEST DISCRIMINANTI Per i gatti con sindrome di Cushing esistono due affidabili esami “discriminanti” (test per distinguere la malattia ipofisi-dipendente da quella dipendente da tumore surrenalico): l’ecografia addominale e il test con alte dosi di desametazone che impiega l’urina raccolta a casa e l’UCCR. Dopo aver raccolto l’urina del proprio gatto per due mattine consecutive, nella seconda il proprietario somministra desametazone 0,1 mg/kg per via orale, ad intervalli di 8 ore: 8 del mattino, 4 del pomeriggio e mezzanotte. L’urina viene di nuovo raccolta dal proprietario al mattino del terzo giorno. Quindi, i 227


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essere pronto a decidere in sede intraoperatoria se effettuare la rimozione di una o entrambe le surreni. In 8 dei gatti da noi trattati era stato diagnosticato il PDH e venne quindi eseguita un’asportazione bilaterale. In due gatti operati per la sindrome di Cushing era stata diagnosticata la presenza di tumori adrenocorticali, che vennero asportati (un adenoma e un adenocarcinoma). Questi due animali risultarono essere fra i tre gatti con periodo di sopravvivenza più lungo dopo l’intervento chirurgico (12 e più di 30 mesi, rispettivamente). Le complicanze postoperatorie che contribuiscono alla morte o all’eutanasia sono rappresentate da sepsi, pancreatite, fenomeni tromboembolici, deiscenza delle ferite ed insufficienza surrenalica. La sepsi venne identificata nel 50% dei nostri gatti trattati più di recente, causando la maggior parte dei problemi di morbilità e mortalità che abbiamo incontrato. Il trattamento medico preoperatorio della sindrome di Cushing e la somministrazione di anticoagulanti possono essere estremamente utili per prevenire molte di queste complicanze. Due dei nostri gatti che sopravvissero alla surrenalectomia bilaterale, successivamente (rispettivamente 2 e 14 mesi dopo) svilupparono segni clinici causati da ampie masse ipofisarie.

incostante, nella migliore delle ipotesi. Mentre si monitorava la somministrazione con ketoconazolo in cinque gatti con iperadrenocorticismo, tre risposero moderatamente bene, ma non completamente, uno non rispose e uno sviluppò una grave trombocitopenia, che impose la sospensione della terapia. Sono stati pubblicati i risultati di quattro gatti ipersurrenalici trattati con metirapone. Uno di questi dimostrò una riduzione transitoria nelle concentrazioni di cortisolo basali e dopo stimolazione con ACTH ed un miglioramento dei segni clinici e in seguito venne sottoposto con successo ad un intervento di surrenalectomia. La dose per cui vennero descritti i risultati migliori fu di 65 mg/kg bid per via orale. È importante puntualizzare che questo gatto era anche diabetico e soffrì di una grave reazione ipoglicemica dopo essere stato sottoposto a trattamento con metirapone. La risoluzione dell’ipercortisolismo riduce l’antagonismo dell’insulina e diminuisce o elimina la necessità di insulina esogena in alcuni gatti. Con un appropriato monitoraggio, prevedendo questo effetto, si riesce a minimizzare il rischio associato ad questo utile effetto collaterale. Sfortunatamente, il metirapone non è costantemente disponibile.

CHIRURGIA PROGNOSI

Nella nostra esperienza, la surrenalectomia chirurgica (unilaterale nei soggetti con tumore surrenalico; bilaterale in quelli con PDH) ha offerto la risposta migliore nel trattamento dei gatti con iperadrenocorticismo. Il protocollo chirurgico ed il trattamento medico dei felini durante e dopo la procedura sono simili a quelli impiegati nel cane. Il cibo viene di solito sospeso per il periodo di 12 ore che precede l’intervento chirurgico. Si raccomandano volumi conservativi di liquidi IV ed antibiotici per via paraenterale. Nei gatti con diabete mellito si deve somministrare insulina ad azione intermedia (NPH o lenta) al 50% della dose abituale del mattino. Un’infusione IV continua di desametazone (0,02 mg/kg/ora) è raccomandata dal momento dell’induzione dell’anestesia fino a 24-48 ore dopo che sia stato ultimato l’intervento chirurgico. Una volta interrotta l’infusione di desametazone, tutti i gatti devono essere trattati con prednisone per via orale (2,5 mg bid). Nei gatti sottoposti a surrenalectomia bilaterale o a quelli in cui è stata documentata iperkalemia ed iponatremia dopo l’intervento chirurgico si devono impiegare i mineralcorticoidi. Quelli raccomandati sono il fludrocortisone acetato (0,1-0,3 mg) ed il desossicortisone pivalato (DOCP; 2,2 mg/kg SC ogni 25 giorni). Le procedure per la surrenalectomia sono state descritte accuratamente altrove. Se i test di discriminazione non vengono effettuati o non sono conclusivi, il chirurgo deve

L’iperadrenocorticismo deve essere considerato una grave malattia con una prognosi da riservata a grave. Gli effetti deleteri di un ipercortisolismo cronico sulla fragilità della cute ed anche sulla funzione immunitaria e cardiovascolare sono spesso responsabili della morte dei gatti non trattati. Le terapie mediche hanno avuto un successo limitato, e la chirurgia è risultata di difficile esecuzione a causa della condizione debilitata di questi animali. I gatti che sono sopravvissuti più a lungo sono stati quelli che erano affetti da un adenoma adrenocorticale o un carcinoma rimossi chirurgicamente. Il determinante più importante della prognosi a lungo termine nei gatti sottoposti a surrenalectomia è la capacità del proprietario e del clinico di trattare con successo l’insufficienza surrenalica iatrogena. In molti dei nostri animali dopo l’intervento chirurgico si è verificata una crisi di Addison che è stata ritenuta responsabile della morte di molti di essi.

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Diagnosis and treatment of hyperadrenocorticism in cats Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

BACKGROUND

CLINICAL PATHOLOGY AND RADIOGRAPHY

The two most common endocrine disorders in cats are diabetes mellitus and hyperthyroidism. Each of these conditions has been described as the most common endocrine disorder in geriatric cats of North America and each, separately, has been described as one of the most common conditions in geriatric cats of North America. It would seem that all other endocrine disorders of cats are uncommon to rare. Hyperadrenocorticism in cats is a syndrome analogous to Cushing’s syndrome in humans. The incidence of this condition in cats and humans is rare, whereas it is considered common in dogs. Naturally occurring feline hyperadrenocorticism is usually (~80%) caused by an autonomously functioning pituitary tumor (usually an adenoma) that, in turn, results in adrenocortical hyperplasia (pituitary dependent hyperadrenocorticism; PDH). Approximately 20% of cats have a functioning adrenocortical tumor (~50% are adenomas and ~50% carcinomas).

The red and white blood cell counts and white cell differential are usually unremarkable. 75 - 80% of cats with Cushing’s syndrome have had randomly obtained urine specific gravities >1.020, in other words, the polyuria and dilute urine typical of dogs with Cushing’s syndrome is not seen in cats. More than 80% of Cushing’s syndrome cats have diabetes mellitus and, therefore, hyperglycemia. However, increases in serum cholesterol concentration or serum liver enzyme activities are not typical. “Steroid induced” alkaline phosphatase and “steroid hepatopathy” are unique to dogs and do not occur in cats. Dogs with Cushing’s almost always have low-normal or decreased BUN concentrations yet cats tend to have high-normal or increased BUN. Dogs with Cushing’s tend to test positive for hypothyroidism, cats tend to be euthyroid. Radiographically, most (>70%) cats with Cushing’s syndrome have hepatomegaly, excellent contrast due to mesenteric fat, and a pendulous abdomen. Abdominal ultrasonography is far more valuable and reliable in evaluation of adrenal size and the possibility of adrenal neoplasia.

CLINICAL SIGNS Cats with Cushing’s syndrome are usually middle aged or older (mean: 10 - 11 years). Male and female cats afflicted equally and virtually all have been neutered. The most common owner “chief complaint” was “difficult to control diabetes mellitus” as defined as continuing polydipsia and polyuria despite insulin therapy. Hyperadrenocorticism in most cats was diagnosed following documentation of insulin resistant diabetes mellitus. Therefore, polyuria and polydipsia develop as a result of hyperglycemia and glycosuria rather than from cortisol excess. Consistent with this concept is the low incidence of polyuria, polydipsia, and polyphagia in cats receiving exogenous glucocorticoids and the common finding of concentrated urine (>1.020) in most of these cats. Dermatologic signs most notably include extremely fragile, thin, infected, and easily bruised skin (“feline fragile skin syndrome”). These skin problems constitute the second most common set of clinical signs in cats with hyperadrenocorticism. Afflicted cats may also have an unkempt hair coat, patchy, and asymmetrical alopecia, muscle wasting, a potbelly (pendulous abdomen with hepatomegaly) and pigmented skin. Some of these cats may be described as “listless” or “depressed” due to muscle weakness or due to the effects of a large pituitary mass.

ENDOCRINE SCREENING TESTS ACTH Stimulation Test ACTH stimulation testing is not recommended in cats because it is not sufficiently sensitive.

Low Dose Dexamethasone Test The dexamethasone screening test requires ten times the dose used in dogs, i.e. 0.1 mg/kg IV. Plasma should be obtained for cortisol before and 4 and 8 hours after administration. During the 8 hour period after dexamethasone administration, other procedures should not be performed, and the cat should be kept as quiet as possible in its cage. Using reference values established in one study, post dexamethasone plasma cortisol concentrations of <1.0 ⎨g/dl at 4 and 8 hours, values >1 but <1.4 ⎨g/dl at 4 and 8 hours are considered borderline, and concentrations >1.4 ⎨g/dl at 4 and 8 hrs are consistent with a diagnosis of hyperadrenocorticism.

Urine Cortisol : Creatinine Ratio (UCCR) – THE RECOMMENDED TEST The use of UCCR as a screening test for canine Cushing’s syndrome appears to be sensitive but not specific. In cats, 229


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this is the recommended screening test for hyperadrenocorticism. The protocol is simple: have owners collect urine from their cats on 2 consecutive mornings. Each sample should be assessed for UCCR. Values >3.6 x 10-5 are abnormal, those >1.3 but <3.6 x 10-5 are borderline, and those <1.3 are normal. This protocol is reliable and avoids hospitalizing cats for testing, avoiding potentially spurious results associated with hospital-induced stress. Specificity of test results is a concern, as in dogs. In context of having a suspicion of Cushing’s syndrome, this appears to the best screening test for cats.

TREATMENT Hyperadrenocorticism is remarkably debilitating in cats. Although therapy is difficult and the prognosis guarded, an attempt is usually made to control the disease because of the deteriorating clinical condition of afflicted cats. Surgical removal of a pituitary tumor is the optimal form of therapy and has been accomplished in cats. At this time, there simply are not enough surgeons skilled at this procedure. As skill develops, surgery will certainloy become the treatment of choice. Pituitary radiation and medical therapy with trilostane have not been conducted in enough cats to assess efficacy. Adrenalectomy, unilateral in cats with adrenal tumor or bilateral in cats with PDH, has provided our best results.

ABDOMINAL ULTRASONOGRAPHY Ultrasonography, perhaps more than any other tool, is remarkably “operator dependent.” In other words, ultrasonography is only as sensitive and reliable as the equipment used, and the individual conducting and interpreting the study. Ultrasonography is an excellent tool in distinguishing PDH from adrenocortical tumor Cushing’s syndrome. In cats, results have also been used as a screening test. One should be able to routinely visualize both adrenal glands in healthy cats. Some cats with PDH have normal sized adrenals and some have obviously enlarged glands. Failure to identify either adrenal would certainly bring the diagnosis of Cushing’ s syndrome into question, whereas visualizing normal glands would be suggestive of PDH and tend to reduce the likelihood of an adrenocortical tumor. If one obviously enlarged, misshapen, and/or compressive adrenal is seen, an adrenocortical tumor is usually suspected.

PRESURGICAL PREPARATION MEDICAL THERAPY Transient resolution of hyperadrenocorticism could be extremely beneficial to cats in which surgery is planned. The cats with Cushing’s syndrome have extremely fragile skin, are prone to infection, and heal poorly. Complications from these problems can be catastrophic. These complications can be minimized by presurgical management of the Cushing’ s syndrome prior to surgery. Therapeutic options include the use of the adrenocorticolytic drug o,p’ DDD, blocking cortisol synthesis with ketoconazole or metyrapone, and destruction of the pituitary source of ACTH via radiation. The use of trilostane offers the best chance of resolving the condition. When o,p’ DDD was administered to clinically normal cats, only 50% had adrenocortical suppression. Several Cushing’s syndrome cats treated with o,p’ DDD at doses of 50 mg/kg/day (divided b.i.d.) failed to demonstrate any improvement, including two cats treated daily for longer than 90 days. Even doubling the dose has not improved the response seen in our treated cats. The response to ketoconazole (30 mg/kg/day divided b.i.d.) has also been inconsistent, at best. While monitoring ketoconazole administration to five cats with hyperadrenocorticism, three responded moderately well but not completely, one had no response, and one developed severe thrombocytopenia, necessitating withdrawal of therapy. Reports of four hyperadrenal cats treated with metyrapone have been published. One cat demonstrated transient reduction in baseline and ACTH stimulated cortisol concentrations, amelioration of clinical signs, and underwent subsequent successful adrenalectomy. The dose for which the best results were described was 65 mg/kg b.i.d. orally. It is important to point out that this cat was also diabetic and suffered from a severe hypoglycemic reaction after metyrapone treatment was initiated. Successful resolution of hypercortisolism should reduce insulin antagonism and reduce or eliminate the need for exogenous insulin in some cats. Appropriate monitoring, anticipating this effect, should minimize the risk associated with this beneficial side effect. Unfortunately, metyrapone is not consistently available.

DISCRIMINATION TESTING For cats with Cushing’s syndrome, there are 2 reliable “discrimination” tests (tests to distinguish pituitary dependent from adrenal tumor dependent disease: abdominal ultrasonography and the high dose dexamethasone test utilizing at-home-collected urine and the UCCR. After an owner collects urine from their cat on the second of 2 consecutive mornings, 0.1 mg/kg of dexamethasone should be administered by the owner orally at 8-hour intervals: 8am, 4pm, and midnight. Urine is again collected by the owner on the third morning. Thus, both screening and discrimination tests are completed by the owner without having the cat brought to the veterinary hospital. The first 2 urine samples are using for “screening” and the final sample is used as the “discrimination” test. The first 2 test results are averaged and if the third result is <50% of that average, the cat most likely has PDH whereas failure to suppress indicates that either PDH or an adrenal tumor is possible. The endogenous ACTH test should aid in separating animals with PDH from those with functioning adrenocortical tumors. Using canine and human values, a result greater than 45 pg/ml is consistent with PDH, and one less than 10 pg/ml is consistent with an adrenocortical tumor. However, in cats the normal range is 0 to 110 pg/ml. 230


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SURGERY

These two cats were among the three longest living cats following surgery (12 and >30 months, respectively). Postoperative complications contributing to death or euthanasia include sepsis, pancreatitis, thromboembolic phenomena, wound dehiscence, and adrenal insufficiency. Sepsis was identified in 50% of our most recently treated cats, causing most of the problems we encountered with morbidity and mortality. Preoperative medical management of the Cushing’ s syndrome and administration of anticoagulants may be extremely beneficial in preventing many of these complications. Two of our cats that survived bilateral adrenalectomy, subsequently (2 and 14 months later, respectively) developed signs caused by large pituitary masses.

In our experience, surgical adrenalectomy (unilateral in cats with adrenocortical tumor; bilateral in cats with PDH) has provided the best response in managing cats with hyperadrenocorticism. The surgery protocol and medical management of cats during and after the procedure are similar to those used in dogs. Food is usually withheld for the 12-hour period preceding surgery. Conservative volumes of IV fluids are recommended plus parenteral antibiotics. Intermediate acting insulin (NPH or Lente) would be administered to cats with diabetes mellitus at 50% of the usual morning dose. A continuous IV infusion of dexamethasone (0.02 mg/kg/hr) is recommended from the time of anesthetic induction until 24 to 48 hours after surgery is completed. Oral prednisone (2.5 mg b.i.d.) should be given to all cats when the dexamethasone infusion is discontinued. Mineralocorticoid should be administered to cats undergoing bilateral adrenalectomy or those in which hyperkalemia and/or hyponatremia is documented after surgery. Serum electrolyte concentrations should be evaluated b.i.d. for several days after surgery. Fludrocortisone acetate (0.1 to 0.3 mg) and desoxycorticosterone pivalate (DOCP; 2.2 mg/kg SC every 25 days) are the mineralocorticoids recommended. Adrenalectomy procedures are well described elsewhere. If discrimination tests are not performed or are not conclusive, the surgeon must be prepared to make decisions during the procedure regarding removal of one or both adrenals. Eight of the cats we have treated were diagnosed as having PDH and had both adrenal glands surgically removed. Two cats undergoing surgery for Cushing’s syndrome were diagnosed as having adrenocortical tumors and had their adrenal tumors removed (one adenoma and one adenocarcinoma).

PROGNOSIS Hyperadrenocorticism must be considered a serious disease with a guarded to grave prognosis. The deleterious effects of chronic hypercortisolism on skin fragility as well as on immune and cardiovascular function are frequently responsible for the death of untreated cats. Medical therapies have had limited success, and surgery has been difficult to perform owing to the debilitated condition of these cats. The longest surviving cats are those that have had an adrenocortical adenoma or carcinoma removed surgically. The most important determinant of long term prognosis in cats undergoing adrenalectomy is the ability of the owner and clinician to successfully manage the iatrogenic adrenal insufficiency. An addisonian crisis has occurred in several of our cats months after surgery and was believed to be responsible for the death of several cats.

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Come io diagnostico il diabete insipido Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

mo e secreto dalla parte posteriore dell’ipofisi. Le sedi primarie di attività di questo ormone sono le cellule epiteliali all’interno dei tubuli distali renali e dei dotti collettori. Qui, l’ADH agisce aumentando la permeabilità idrosmotica di queste cellule. Il liquido all’interno del lume del tubulo è diluito normalmente e quello nello spazio interstiziale, attraverso il quale passano i tubuli, viene concentrato. Quindi, se l’acqua può diffondere passivamente attraverso i gradienti di concentrazione, fluirà dal lume del nefrone nel quale il liquido è diluito all’interno dell’ambiente ipertonico che esiste normalmente entro lo spazio interstiziale della midollare del rene. Se è presente ADH, il volume del liquido all’interno del nefrone decresce, l’osmolalità del fluido aumenta e l’acqua viene conservata. Di conseguenza, l’individuo “normale” ha la capacità di secernere ADH in risposta ad uno stimolo appropriato (aumentando l’osmolalità del plasma, diminuendo il volume plasmatico) e la capacità di rispondere all’ADH a livello dei tubuli renali e dei dotti collettori. In assenza di ADH (diabete insipido centrale) o se le cellule tubulari renali sono resistenti all’azione dell’ormone (diabete insipido nefrogeno), le cellule che rivestono questa porzione del nefrone sono resistenti alla diffusione sia dell’acqua che dei soluti. Di conseguenza, il filtrato ipotonico formato nella porzione più prossimale del nefrone passa immutato attraverso il tubulo distale ed il dotto collettore. Questa diuresi dell’acqua è associata ad ampi volumi di urina che presentano una bassa osmolalità. Va notato che l’85-90% del liquido filtrato dal glomerulo viene riassorbito isosmoticamente con sodio e glucosio nella porzione prossimale del nefrone. Il sodio viene poi riassorbito selettivamente dal fluido restante, rendendo ipotonico il liquido nel nefrone distale. Tuttavia, se un soluto scarsamente riassorbito, come urea o glucosio, è presente in eccesso all’interno del filtrato glomerulare, il riassorbimento di liquido dal tubulo prossimale sarà compromesso. Un risultato di questo processo fisiologico sarà un aumento anomalo del volume del fluido che raggiunge il nefrone distale, che può travolgere la sua capacità di riassorbire acqua. Di conseguenza, il volume di urina aumenterà malgrado la presenza di ADH. Questo tipo di poliuria viene detto diuresi dei soluti.

Le preoccupazioni relative alla comparsa di abitudini atipiche o insolite dei loro animali d’affezione durante la minzione rappresentano una delle ragioni per cui i proprietari richiedono comunemente l’assistenza veterinaria. Cani e gatti che producono volumi eccessivi di urina, urinano più spesso del “normale”, sembrano essere incontinenti, urinano per periodi di tempo insolitamente lunghi o in luoghi atipici o inaccettabili sono motivi che spingono un proprietario a portare il proprio animale da un veterinario. Alcuni proprietari possono richiedere l’intervento terapeutico perché hanno osservato che il loro animale beve troppa acqua, ma è meno comune che questo accada quando si verificano le anomalie precedentemente citate.

FISIOLOGIA DEL METABOLISMO DELL’ACQUA Il consumo di acqua e la produzione di urina sono controllate da interazioni complesse fra osmolalità plasmatica, volume del liquido nel comparto vascolare, centro della sete, reni, ipofisi e ipotalamo. Una disfunzione in una qualsiasi di queste aree può comportare i segni clinici di poliuria e polidipsia. La vasopressina (ormone antidiuretico; ADH) ha un ruolo chiave nel controllo del riassorbimento renale dell’acqua, nella produzione e nella concentrazione dell’urina e nel bilancio idrico. In presenza di ADH e disidratazione, i cani e i gatti sani hanno la capacità di produrre urina con un’osmolalità di valore medio ben superiore a 2000 mOsm/kg. Negli animali colpiti da una carenza cronica di ADH o cronicamente incapaci di rispondere ad essa a livello di tubulo renale, l’urina può essere diluita fino a 20 mOsm/kg. L’osmolalità plasmatica e il suo principale determinante, la concentrazione di sodio nel plasma, vengono normalmente mantenute entro un intervallo notevolmente ristretto. Questa stabilità viene raggiunta aggiustando le concentrazioni totali di acqua organica per mantenere l’equilibrio con la concentrazione di sodio plasmatico. Il bilancio idrico viene controllato da un sistema integrato che coinvolge una regolazione precisa dell’assunzione dell’acqua attraverso il meccanismo della sete ed il controllo della perdita renale di acqua, tramite la secrezione e l’azione dell’ADH. L’acqua viene persa continuamente con l’urina, il tratto respiratorio e le feci. Tale perdita viene rimpiazzata dalla quota assunta. La capacità di concentrare l’urina può ridurre, ma non eliminare, la perdita d’acqua. L’ADH (un nonapeptide) viene sintetizzato nell’ipotala-

APPROCCIO DIAGNOSTICO A PU, PD O ALTRE ANOMALIE DELLA MINZIONE Il primo passo: la raccolta di urina. Quando un proprietario telefona all’ospedale veterinario per fissare un 232


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preso fra 1.025 e 1.045 e glicosuria. La diagnosi di diabete mellito va fortemente sospettata semplicemente sulla base del riscontro della presenza di una reazione positiva nella porzione di striscia reattiva relativa al glucosio pochi secondi dopo la sua estrazione dall’urina. Quindi, il diabete mellito può essere diagnosticato nei cani e nei gatti prima ancora che l’animale venga esaminato dal veterinario. Questa diagnosi può essere confermata con il riscontro di iperglicemia. Nel gatto, lo stress può comportare glicosuria e due cause poco comuni di iperglicemia e glicosuria sono la sindrome di Cushing e l’acromegalia. Nella rara situazione in cui la concentrazione di glucosio ematico è all’interno dei limiti di riferimento, il veterinario deve considerare la possibilità di glicosuria renale, un difetto tubulare renale congenito del Basenji e del Norwegian Elkhound. La glicosuria renale, tuttavia, si può riscontrare in qualsiasi cane o gatto. Insufficienza renale cronica: Urina isostenurica (1.0081.012). Il termine isostenuria di solito implica che il peso specifico urinario o l’osmolalità siano gli stessi del siero o del plasma. Utilizzando questo criterio, l’urina con un peso specifico compreso fra 1.008 e 1.012 è “isostenurica”. Tuttavia, per gli scopi clinici, è importante ricordare che un animale tipicamente disidratato ha un’osmolalità plasmatica maggiore del normale a causa della perdita di acqua e della ritenzione anomala di soluti, malgrado sia superiore all’intervallo classico 1.008-1.012. In questa situazione, l’urina con un peso specifico di 1.013-1.020 può essere “isostenurica”, equivale ad ADH (è stato ripetutamente dimostrato che una riduzione del 3-5% del peso corporeo dovuta ad un peso specifico urinario, per esempio, di 1.018, non deve essere considerata una risposta appropriata alla disidratazione). Peso specifico urinario < 1.020: Piometra. È stato affermato che qualsiasi cagna o gatta intera debba essere considerata a rischio di piometra sino a prova contraria. Questo approccio è appropriato, a causa della grave natura dell’infezione uterina. Gli animali con piometra possono rapidamente peggiorare, a causa di una sepsi che travolge le loro difese. Nelle cagne e nelle gatte che possono essere colpite da piometra l’anamnesi riferisce tipicamente l’entrata in estro 2-10 settimane prima e nella maggior parte dei casi è presente uno scolo vaginale purulento. Qualsiasi sospetto comporta la valutazione dell’esame emocromocitometrico per rilevare un’infezione sistemica e la realizzazione di indagini radiografiche ed ecografiche per controllare un ingrossamento uterino. I cani ed i gatti con piometra possono sviluppare poliuria ed urina diluita, per gli effetti dell’endotossina di Escherichia coli (il batterio più comunemente associato a piometra). Questa endotossina interferisce con l’azione dell’ADH a livello dei tubuli renali. Quindi, questi cani hanno una forma reversibile di diabete insipido nefrogeno. Peso specifico urinario < 1.020: ipercalcemia. Esistono numerose cause comuni di ipercalcemia. Alcune (non tutte) delle condizioni associate a questa anomalia biochimica sono rappresentate da linfosarcoma, insufficienza renale cronica, ipoadrenocorticismo, iperparatiroidismo primario, tossicosi da vitamina D, malattie granulomatose (istoplasmosi, blastomicosi), mieloma multiplo e carcinomi delle ghiando-

appuntamento, può essere difficile per il personale dello staff distinguere la minzione “inappropriata” (frequenza con o senza tenesmo o ematuria) dalla poliuria. Quindi, si raccomanda caldamente a tutti i proprietari di cani e di gatti che riferiscano manifestazioni simili a quelle sopracitate di prelevare un campione di urina dal loro animale. Questa (anche se soltanto poche gocce) va raccolta in un contenitore pulito e dotato di coperchio e portata con l’animale al momento della prima visita. I proprietari di cani di razze di taglia media o grande raramente avranno difficoltà a raccogliere l’urina in un piccolo contenitore relativamente piatto se si avvicineranno all’animale con calma e discrezione. I proprietari di cani di piccola taglia, specialmente se femmine, riusciranno a raccogliere l’urina utilizzeranno il contenitore con coperchio. I proprietari di gatti possono cercare di applicare un rivestimento di plastica sul fondo della cassetta del loro animale e raccogliere l’urina dopo che il gatto la ha usata. In alternativa, si può sostituire la lettiera assorbente con una che non assorba le deiezioni (utilizzando qualsiasi tipo di ghiaia, come quella impiegata negli acquari). In questo caso, l’urina può semplicemente essere versata nel contenitore. Il passo successivo: la valutazione dell’urina. L’urina raccolta può essere valutata prima che l’animale sia visitato. Si annota il peso specifico e si esegue l’esame con le strisce reattive. Di solito l’urina viene considerata normalmente “concentrata” se il peso specifico è compreso fra 1.025 e 1.035 o più. Poiché il proprietario ha raccolto il campione di urina dal suo animale mentre quest’ultimo si trovava nel proprio ambiente domestico, non si incontrano i problemi di interpretazione associati al fatto che il paziente è stato privato dell’acqua in previsione del viaggio in automobile o che non beve come al solito perché è nervoso o ha paura. Il cane o il gatto davvero poliurico avrà quasi sempre un’urina diluita (peso specifico < 1.012), “relativamente” diluita (peso specifico > 1.012, ma < 1.022) o contenente glucosio. Urina concentrata senza glucosio. Se l’urina portata all’ospedale dai proprietari è concentrata (peso specifico > 1.025 fino a > 1.035) e non è presente glucosio, è probabile che l’animale sia affetto da una malattia delle basse vie urinarie. In questa situazione, il veterinario deve considerare la possibilità di un’infezione del tratto urinario, calcoli vescicali, massa vescicale, problemi anatomici o neurologici che possono spiegare le osservazioni del proprietario. Test appropriati per queste condizioni (coltura, esame dell’addome mediante diagnostica per immagini, ecc…) possono essere raccomandati se l’anamnesi e l’esame clinico supportano un approccio di questo tipo. Urina concentrata con glucosio. La maggior parte dei cani e dei gatti con diabete mellito viene esaminata per la prima volta dopo che un proprietario ha osservato poliuria. Questi animali hanno spesso anche polidipsia, polifagia e perdita di peso. Meno comunemente, un cane diabetico viene portato alla visita veterinaria dopo che il proprietario ha notato la comparsa di una cecità acuta, conseguente alla formazione di una cataratta, o perché il cane o gatto presenta vomito, diarrea, anoressia, irrequietezza o altri segni clinici sistemici secondari allo sviluppo di una chetoacidosi diabetica. Indipendentemente da ciò, quasi tutti i cani e gatti diabetici presentano un’urina con peso specifico com233


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esita in isostenuria, poliuria, polidipsia secondaria ed, eventualmente, insufficienza renale. Un cane o gatto con pielonefrite batterica può avere segni clinici aspecifici di letargia, anoressia e febbre. All’esame emocromocitometrico completo può risultare leucocitosi neutrofila. L’analisi delle urine può rivelare globuli bianchi, cilindri, batteri ed eritrociti. L’infezione ricorrente del tratto urinario può aumentare il sospetto di pielonefrite. Bisogna effettuare colture urinarie su campioni prelevati per cistocentesi, ma queste possono o no essere positive per i batteri. Solitamente, per la conferma della diagnosi sono richieste un’ecografia addominale o un’urografia. Peso specifico urinario < 1.020. Ipokalemia. Si ritiene che l’ipokalemia interferisca con l’azione dell’ADH nei tubuli renali, determinando una forma reversibile di diabete insipido nefrogeno. Questa alterazione degli elettroliti è più frequente nel gatto che nel cane, causa più comunemente debolezza muscolare che poliuria e di solito è secondaria ad altri disordini. Peso specifico urinario < 1.020. Ipoadrenocorticismo (Malattia di Addison). La maggior parte dei cani con malattia di Addison è costituita da femmine giovani o di media età. Malgrado una funzione renale normale ed una grave ipovolemia, gli animali Addisoniani spesso hanno un peso specifico urinario < 1.030, per un’iponatremia causata da carenza di mineralcorticoidi. L’iponatremia riduce il gradiente di concentrazione midollare renale compromettendo la capacità di produrre urina concentrata. L’urina “relativamente” diluita è tipica dei cani e gatti Addisoniani, ma i segni clinici di poliuria o polidipsia vengono velocemente eclissati da manifestazioni più importanti ed evidenti quali vomito, diarrea, irrequietezza, debolezza, anoressia e perdita di peso. L’associazione del segnalamento con i segni clinici di iperkalemia e iponatremia porta a sospettare la malattia di Addison. La conferma richiede il riscontro di concentrazioni abnormemente ridotte di cortisolo plasmatico dopo la somministrazione di ACTH. Peso specifico urinario < 1.020. Ipertiroidismo. Poliuria e polidipsia sono comuni in gatti e cani ipertiroidei. Anche se il meccanismo esatto per la poliuria non è chiaro, è probabile che aumenti della perfusione renale causino una riduzione di concentrazione nella midollare dell’organo. Ciò compromette il riassorbimento di acqua da parte del nefrone distale. Anche un’insufficienza renale concomitante può contribuire a questi segni clinici. Il sospetto diagnostico di ipertiroidismo si basa sulla palpazione di un nodulo o di una massa tiroidea. La conferma richiede il riscontro di un aumento anomalo delle concentrazioni sieriche di tiroxina totale o libera. Peso specifico urinario < 1.020. Iatrogeno. Numerosi farmaci possono causare polidipsia e poliuria. Fra questi alcuni sono d’uso comune: glucocorticoidi, diuretici ed anticonvulsivanti. Peso specifico urinario < 1.020. Diuresi postostruttiva. Questa condizione si incontra più comunemente dopo la risoluzione di un’ostruzione uretrale nel gatto, ma può comparire anche nel cane. Questi animali spesso presentano drastici incrementi dell’azotemia, secondari all’ostruzione che giustifica una marcata diuresi osmotica dopo che tale ostruzione sia stata alleviata.

le apocrine dei sacchi anali. Quindi, se un cane o un gatto hanno un’urina di peso specifico < 1.020 sarebbe opportuno effettuare un profilo biochimico per valutare la calcemia. Se questa è abnormemente aumentata, possono essere presi in considerazione i test necessari per escludere o confermare le varie cause di ipercalcemia. Aumenti nella concentrazione sierica di calcio possono interferire con l’azione dell’ADH a livello di tubulo renale, causando una forma reversibile di diabete insipido nefrogeno acquisito. Questa è la spiegazione più probabile per la poliuria e la polidipsia secondaria, che si nota negli animali ipercalcemici. Altre possibili spiegazioni per questa poliuria sono il danno ai recettori dell’ADH nei tubuli renali, l’inattivazione dell’adenilatociclasi o una diminuzione del trasporto di sodio e cloro nell’interstizio midollare renale. Peso specifico urinario < 1.020. Insufficienza epatica. Benché non si tratti di una condizione estremamente comune, anche in alcuni cani con grave insufficienza epatica si può riscontrare l’incapacità di concentrare l’urina. Un proprietario potrebbe pensare, quindi, che si tratti di poliuria. Questi cani di solito presentano diminuzioni di uno o più dei seguenti parametri di “funzionalità epatica” nel profilo biochimico di routine: albumina, azotemia, colesterolo o glucosio. Inoltre, un cane colpito può avere microepatite o un fegato che sembra altrimenti anomalo alle radiografie o ecografie. Un cane con alcune o molte di queste anomalie potrebbe poi essere ulteriormente valutato per gli acidi biliari pre- e postprandiali. Si può effettuare la scintigrafia epatica radiomarcata o la biopsia del fegato. Esistono numerose spiegazioni per la poliuria e la produzione di urina diluita. Anche se non sono state ben comprese, una spiegazione possibile è la perdita dell’ipertonicità midollare secondaria ad una compromissione dell’azotemia. Questa è una componente importante del gradiente di concentrazione della midollare del rene. Un calo in questo gradiente causa poliuria con polidipsia compensatoria. Altre potenziali spiegazioni sono rappresentate da ipokalemia o compromissione del metabolismo del cortisolo. Peso specifico urinario < 1.020: Sindrome di Cushing nel cane (CCS). La poliuria è un segno clinico estremamente comune nel cane con CCS (concentrazioni eccessive di cortisolo non causano di solito poliuria nel gatto). Il peso specifico urinario in almeno il 75% dei cani con CCS ad insorgenza iatrogena o spontanea è < 1.020 e si può abbassare fino a 1.001. La causa di questa poliuria resta oscura, anche se la maggior parte di questi cani sembra avere una carenza secondaria e reversibile di ADH (CDI). I cani con CCS presentano tipicamente segni clinici aggiuntivi, che comprendono: polidipsia, polifagia, polipnea, debolezza muscolare, alopecia, ventre a botte, cute sottile, ecc… Le anomalie di laboratorio di routine solitamente sono rappresentate da aumento delle attività della fosfatasi alcalina e dell’alanina-aminotransferasi sieriche, incremento della concentrazione di colesterolo sierico e valori di azotemia al di sotto o ai limiti inferiori della norma. La conferma richiede adeguati test di funzionalità dell’asse ipofisi-surrene. Peso specifico urinario < 1.020. Pielonefrite. Infezione ed infiammazione della pelvi renale possono distruggere il meccanismo controcorrente nella midollare del rene. Ciò 234


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effettuare. Dato che il veterinario ha raggiunto un punto in cui è probabile che esista soltanto una di queste condizioni, e dato che il CDI è più comune della PP, si raccomanda di utilizzare la terapia di prova a casa con DDAVP per via orale (ADH sintetico; disponibile in commercio come compresse da 0,1 o 0,2 mg). Il dosaggio è empirico. Si raccomanda che ad un cane da 20 kg vengano somministrate compresse da 0,1 mg TID per circa 7 giorni e che un cane da 40 kg assuma compresse da 0,2 mg TID per circa 7 giorni. Le dosi per cani e gatti che pesano più o meno di questo possono essere aggiustate di conseguenza. La risposta in animali con CDI è rapida ed evidente. I proprietari possono raccogliere l’urina su base giornaliera nel corso della prova per comprovare la loro impressione clinica circa la risposta. Se l’animale risponde, viene fatta diagnosi di CDI (la sindrome di Cushing resta una possibilità) e si può ridurre gradualmente il dosaggio del DDAVP per determinare la quantità minima richiesta per un trattamento a lungo termine. L’instillazione di gocce nasali negli occhi non viene più raccomandata. Il test di privazione dell’acqua è considerato pericoloso e mai necessario.

DIABETE INSIPIDO CENTRALE (CDI), DIABETE INSIPIDO NEFROGENO (NDI) E POLIDIPSIA PSICOGENA (PP) Primaria Si deve sottolineare che la maggior parte dei cani e dei gatti con poliuria e polidipsia presenta una delle condizioni descritte nelle sezioni precedenti. In genere le cause principali di polidipsia e poliuria possono essere identificate sulla base di segnalamento, anamnesi, esame clinico, analisi dell’urina (specialmente se questa è raccolta dal proprietario prima di lasciare l’ambiente domestico), esame emocromocitometrico e profilo biochimico. Il NDI primario è una condizione estremamente rara. Tuttavia, un NDI secondario e spesso reversibile giustifica la poliuria in molte delle condizioni discusse in precedenza. Sia il CDI che la PP sono molto poco comuni, anche se il primo è più frequente della seconda. Se un animale presenta un’urina diluita e non sembra avere nessuna delle condizioni descritte in precedenza, è appropriato assumere che non sia colpito un NDI primario ma piuttosto da un CDI o una PP. Il veterinario può porsi la seguente domanda: questo animale beve molto perché urina molto (CDI) o urina molto perché beve molto (PP)? Se è presente CDI, l’osmolalità sierica deve essere ai limiti superiori della norma o aumentata. Se è presente PP, l’osmolalità sierica deve essere ai limiti inferiori della norma o diminuita. Quindi, l’osmolalità sierica diventa un test ragionevole, economico e semplice da

Indirizzo per la corrispondenza Professor Edward C Feldman School of Veterinary Medicine Tupper Hall, University of California, Davis, CA 95616

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Polyuria and polydipsia Edward C. Feldman DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA

and that within the interstitial space, through which the tubules traverse, is concentrated. Therefore, if water is allowed to passively diffuse along concentration gradients, it will flow from the lumen of the nephron in which the fluid is dilute into the hypertonic milieu that normally exists within the interstitial space of the renal medulla. If ADH is present, the volume of fluid within the nephron decreases, the osmolality of that fluid increases, and water is conserved. Thus, the “normal” individual has the capacity to secrete ADH in response to appropriate stimuli (increasing plasma osmolality, decreasing plasma volume) and has the ability to respond to ADH at the level of the renal tubules and collecting ducts. In the absence of ADH (central diabetes insipidus) or if renal tubular cells are resistant to the actions of ADH (nephrogenic diabetes insipidus), the cells lining this portion of the nephron are resistant to diffusion of both water and solutes. Hence, the hypotonic filtrate formed in the more proximal portion of the nephron passes unmodified through the distal tubule and collecting duct. This water diuresis is associated with large volumes of urine which has a low osmolality. It should be noted that 85 to 90% of the fluid filtered by the glomerulus is reabsorbed isosmotically with sodium and glucose in the proximal portion of the nephron. Sodium is then selectively reabsorbed from the remaining fluid, making the fluid in the distal nephron hypotonic. However, if a poorly reabsorbed solute, such as urea or glucose, is present in excess within the glomerular filtrate, fluid resorption from the proximal tubule will be impaired. A result of this physiologic process will be an abnormally increased volume of fluid reaching the distal nephron which can overwhelm its’ capacity to reabsorb water. As a consequence, urine volume will increase despite the presence of ADH. This type of polyuria is called solute diuresis.

Concerns about atypical or unusual urination habits of their pet represent a common reason for owners to seek veterinary assistance. Dogs or cats that urinate excessive volumes, urinate more frequently than “normal”, appear to be incontinent, urinate for unusually long time periods, or that urinate in atypical or unacceptable locations are all causes for an owner to bring their pet to a veterinarian. While some owners pursue veterinary care after observing their pet to have excessive water intake, this is less common than owners concerned by the previously mentioned abnormalities.

PHYSIOLOGY OF WATER METABOLISM Water consumption and urine production are controlled by complex interactions between plasma osmolality, fluid volume in the vascular compartment, the thirst center, the kidneys, the pituitary gland, and the hypothalamus. Dysfunction in any of these areas can result in the clinical signs of polyuria and polydipsia. Vasopressin (antidiuretic hormone; ADH) has a key role in the control of renal water resorption, urine production, urine concentration, and water balance. In the presence of ADH and dehydration, the average healthy dog or cat has the capacity to produce urine with an osmolality well above 2000 mOsmlKg. If a dog or cat is chronically deficient in ADH or is chronically unable to respond to ADH at the renal tubular level, their urine may be as dilute as 20 mOsmlkg Plasma osmolality and its principal determinant, the plasma solium concentration, are normally maintained within remarkably narrow ranges. This stability is achieved by adjusting total body water concentrations to maintain balance with the plasma sodium concentration. Water balance is controlled by an integrated system that involves precise regulation of water intake via thirst mechanisms and control of renal water loss via ADH secretion and action. Water is continuously lost through the urine, respiratory tract, and feces. Lost water is replaced by that consumed. Urine concentrating capacity can reduce but not eliminate water loss. ADH (a nonapeptide) is synthesized in the hypothalamus and secreted from the posterior pituitary gland. The primary sites of ADH activity are epithelial cells within the renal distal tubules and collecting ducts. Here, AIJH acts to increase the hydro osmotic permeability of these cells. Fluid within the tubular lumen is normally dilute

DIAGNOSTIC APPROACH TO PU, PD, OR OTHER ABNORMALITIES IN URINATION The First Step: Urine Collection. It may be difficult for a veterinary hospital staff member to distinguish “inappropriate” urination (frequency with or without straining or hematuria) from polyuria at the time an owner phones the hospital to make an appointment. There236


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ing of hyperglycemia. In cats, stress may result in glycosuria and two uncommon causes of hyperglycemia and glycosuria are Cushing’s syndrome and acromegaly. In the rare situation where the blood glucose concentration is within reference limits, the veterinarian should consider the possibility of renal glycosuria, a congenital renal tubular defect in the Basenji and Norwegian Elkhound. Renal glycosuria, however, could occur in any dog or cat. Chronic Renal Failure: Urine Which is Isosthenuric (1.008 to 1.012). The term isosthenuria usually implies that the urine specific gravity or osmolality is the same as that of serum or plasma. Using this criterion, urine with a specific gravity of 1.008 to 1.012 is “isosthenuric”. However, for clinical purposes, it is important to remind the reader that a dehydrated animal typically has a plasma osmolality greater than normal due to loss of water and abnormal retention of solutes despite being greater than the classic 1.008 to 1.012. In other words, what happens if a cat or dog (such as urea). In this setting, urine with a specific gravity of 1.0 13 to 1.020 may be “isosthenuric”, amounts of ADH (it has been repeatedly demonstrated that 3 to 5% decrease in body weight due to has a urine specific gravity of 1.0 18, for example, it should not be considered to have responded appropriately to the dehydration. Urine Specific Gravity <1.020: Pyometra. It has been stated that any ill intact female dog or cat should be considered a candidate for having pypmetra until proven otherwise. This approach is one that is appropriate due to the serious nature uterine infection. Animals with pyometra can quickly deteriorate due to overwhelming sepsis. Dogs and cats that may have a pyometra typically have a history of being in estrus 2 to 10 weeks previously and most have a purulent vaginal discharge. Any suspect should have their CBC evaluated to assess for evidence of systemic infection and have abdominal radiographs or ultrasonography performed to check for uterine enlargement. Dogs and cats with pyometra may develop polyuria and dilute urine due to the effects of Escherichia coli (the most common bacteria associated with pyometra) endotoxin. This endotoxin interferes with the action of ADH at the level of the renal tubules. Thus, these dogs have a reversible form of nephrogenic diabetes insipidus. Urine Specific Gravity <1.020: Hypercalcemia. There are several common causes of hypercalcemia. Some (not all) of the conditions associated with this biochemical abnormality include lymphosarcoma, chronic renal failure, hypoadrenocorticism, primary hyperparathyroidism, vitamin D toxicosis, granulomatous disease (histoplasmosis, blastomycosis), multiple myeloma, and apocrine glad carcinomas of the anal sac. Therefore, if a dog or cat has urine with a specific gravity <1.1020, it would be ap0propriate to obtain a serum biochemistry profile to assess the serum calcium concentration. If the serum calcium concentration is abnormally increased, tests needed to rule in or out the various causes of hypercalcemia can be considered. Increases in serum calcium concentration may interfere with the action of ADH at the renal tubular level causing a reversible form of acquired nephrogenic diabetes insipidus. This is the most likely explanation for the plyuria and secondary polydipsia not-

fore, it is strongly recommended that all cat and dog owners with any “chief complaint” that resembles those mentioned here, be encouraged to catch a urine sample from their pet. That urine (even if only a few drops) should be collected in a clean container with a lid and brought with the pet at the time of initial evaluation. Owners of medium to large breed dogs rarely have difficulty collecting urine in a small relatively flat container if they approach their pet slowly and discreetly. Owners of small dogs, especially female dogs, may find success in collecting urine if the container lid is used for collection. Owners of cats can try placing plastic wrap on top of their cats’ litter and collecting urine after the cat uses the litter box. Alternatively, owners can replace absorbable litter with nonabsorbable litter (using any type of gravel, such as that used in an aquarium). In this situation, the urine can simply be poured into a container. The Next Step: Evaluating the Urine. the urine they collected can be evaluated prior to their pet being examined. The urine specific gravity should be noted and a “dip stick” test completed. Urine is usually considered normally “concentrated” if the specific gravity 1.025 to 1.035 or greater. Since the owner has collected the urine sample from the pet while that animal was in its home environment, problems in interpretation associated with water being withheld prior to an automobile trip or a pet not consuming typical amounts of water due to nervousness or fear are not encountered. The truly polyuric dog or cat will almost always have dilute urine (specific gravity <1.012), “relatively” dilute urine (specific gravity >1.012 but <1.022), or it will have glucose in the urine. Concentrated Urine Without Glucose. If the urine bought to the hospital by the owners is concentrated (specific gravity >1.025 to >1.03 5) and it has no glucose, it is likely that the animal has a lower urinary tract condition. In this situation the veterinarian must consider the possibility of urinary tract infection, bladder calculi, bladder mass, anatomic or neurologic problems that may explain the owner’s observations. Appropriate testing for these conditions (culture, abdominal imaging, etc) can be recommended if the history and physical examination support such an approach. Concentrated Urine With Glucose. Most dogs and cats with diabetes mellitus are first examined after an owner has observed polyuria. These animals frequently also have polydipsia, polyphagia, and weight loss. Less commonly, a diabetic dog is brought for veterinary examination after an owner notes that it has become acutely blind due to cataract formation or because their dog or cat has vomiting, diarrhea, anorexia, listlessness or other systemic signs secondary to developing diabetic ketoacidosis. Regardless, almost all diabetic dogs and cats have urine with a specific gravity of 1.025 to 1.045 and glycosuria. The diagnosis of diabetes mellitus should be strongly suspected simply by noting the presence of a positive reaction in the glucose reagent portion of the urine test strip within seconds of removing the strip from the urine. Thus, diabetes mellitus can be diagnosed in dogs and cats before the pet is ever examined by the veterinarian. This diagnosis can be confirmed with the find237


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nephrogenic diabetes insipidus. This electrolyte disturbance is more common in cats than in dogs, more commonly causes muscle weakness than polyuria, and is usually secondary to other disorders (see Chapter X). Urine Specific Gravity <1.020: Hypoadrenocorticism (Addison”s Disease). Most dogs with Addison’s disease are young-to-middle-aged females. Dispite normal kidney function and severe hypovalemia, Addisonian animals frequently have a urine specific gravity <1.030 due to the hyponatremia caused by mineralocorticoid deficiency. Hyponatremia reduces the renal medullary concentration gradient impairing the ability to produce concentrated urine. While “relatively” dilute urine is typical of Addisonian dogs and cats, signs of polyuria or polydipsia are quickly overshadowed by the more worrisome and obvious signs that include vomiting, diarrhea, listlessness, weakness, anorexia and weight loss. Combining signalment with findings of hyperkalemia and hyponatremia should result in a suspicion of Addison’s disease. Confirmation requires finding an abnormally suppressed plasma cortisol concentration after administration of ACTH. Urine Specific Gravity <1.020: Hyperthyroidism. Polyuria and polydipsia are common in hyperthyroid cats and dogs. While the exact mechanism for the polyuria is unclear, it is likely that increases in renal blood flow cause a decrease in renal medullary concentration. This impairs water resorption from the distal nephron. Concurrent renal insufficiency may also contribute to these signs. The tentative diagnosis of hyperthyroidism is based on palpation of a thyroid nodule or mass. Confirmation requires finding abnormally increased serum total or free thyroxine concentrations. Urine Specific Gravity <1.020: Iatrogenic. Several drugs may cause polydipsia and polyuria. Among these are some commonly used drugs: glucocorticoids, diuretics, and anticonvulsants. Urine Specific Gravity <1.020: Postobstructive Diuresis. This condition is most common encountered after a urethral obstruction has been relieved in cats, but it may occur in dogs. These animals often have dramatic increases in BUN secondary to the obstruction which accounts for a marked osmotic diuresis after the obstruction has been relieved.

ed in hypercalcemic animals. Other possible explanations for this polyria include damage to ADH receptors in the renal tubules, inactivation of adenyl cyclase, or decreased transport of sodium and chloride into the renal medullary interstitium. Urine Specific Gravity <1.020: Hepatic Insufficiency. Although not extremely common, some dogs with severe hepatic insufficiency also have an inability to concentrate their urine. One owner concern, therefore, would be polyuria. These dogs usually have decreases in one or more of the following “liver function” tests on routine serum biochemical profiles: albumin, BUN, cholesterol, or glucose. In addition, an afflicted dog may have microhepatica or a lever that appears otherwise abnormal on radiography or ultrasonography. A dog with some or mahy of these abnormalities could then be further assessed with pre- and postprandial bile acids. A radiolabeled liver scan or hepatic biopsy. There are several explanations for polyuria and dilute urine. While not well understood, one plausible explanation involves loss of renal medullary hypertonicity secondary to impaired blood urea nitrogen (BUN) production. BUN is an important component of the renal medullary concentration gradient. Decreases in this gradient causes polyuria with compensatory polydipsia. Other potential explanations include hypokalemia or impaired metabolism of cortisol. Urine Specific Gravity <1.020: Canine Cushing’s Syndrome (CCS). Polyuria is an extremely common clinical sign in dogs with CCS (excess cortisol concentrations do not commonly cause polyuria in cats). The urine specific gravity in at least 75% of dogs with iatrogenic or naturally occurring CCS is <1.020 and can be as low as 1.001. The cause for this polyuria remains obscure although most of these dogs appear to have secondary and reversible ADH deficiency (CDI). Dogs with CCS typically have additional clinical signs, including: polydipsia, polyphagia, panting, muscle weakness, alopecia, pot belly, thin skin, etc. Routine laboratory abnormalities commonly include increases in serum alkaline phosphatase and alanine amino transferase activities, increased serum cholesterol concentration, and a decreased or low-normal BUN. Confirmation requires appropriate pituitaryadrenocortical function tests. Urine Specific Gravity <1.020: Pyelonephritis. Infection and inflammation of the renal pelvis can destroy the countercurrent mechanism in the renal medulla. This results in isosthenuria, polyuria, secondary polydipsia and, eventually, renal failure. A dog or cat with bacterial pyelonephritis may have nonspecific signs of lethargy, anorexia, and fever. Neutrophilic leukocytosis may be noted on CBC. Urinalysis may reveal white blood cells, casts, bacteria, and red cells. Recurrent urinary tract infection may increase suspicion of pyelonephritis. Urine cultures on cystocentesis samples should be performed, but may or may not be positive for bacteria. Abdominal ultrasonography or urography are usually required to confirm this diagnosis. Urine Specific Gravity <1.020: Hypokalemia. Hypokalemia is thought to interfere with the action of ADH within the renal tubules, creating a reversible form of

CENTRAL DIABETES INSIPIDUS (CDI), NEPHROGENIC DIABETES INSIDIDUS (NDI), AND PSYCHOGENIC (Primary) POLYDIPSIA (PP) It should be emphasized that most dogs and cats with polyuria and polydipsia have one of the conditions described in the previous sections of this chapter. Most of the causes for polydipsia and polyuria can be identified from signalment, history, physical examination, urinalysis (especially if the urine is caught by the owner prior to leaving the home environment), CBC, and serum biochemistry profile. Primary NDI is an extremely rare condition. However, secondary and often reversible NDI 238


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accounts for the polyuria in many of the conditions previously discussed. Both CDI and PP are quite uncommon with CDI being much more common that PP. If an animal has dilute urine and does not appear to have any of the previously discussed conditions, it is appropriate to assume that the animal does not have primary NDI but it may have CDI or PP. The veterinarian can then ask the following question: does this animal drink a lot because it urinates a lot (CDI) or does it urinate a lot because it drinks a lot (PPĎ‘. If CDI is present, the serum osmolality should be high-normal or increased. If PP is present, the serum osmolality should be low-normal or decreased. Thus, the serum osmolality becomes a reasonable, cost effective, and simple test to run. Since the veterinarian has reached a point where I t is likely that one of these two conditions may exist, and since CDI is much more com-

mon than PP, it is recommended that trial therapy at home with oral DDAVP (synthetic ADH; commercially available as 0.1 or 0.2 mg tablets) be utilized. Dose is empirical. It is recommended that a 20 kg dog be given 0.1 mg TID for about 7 days and that a 40kg dog be given 0.2 mg TID for about 7 days. Dose for dogs and cats weighing more or less than this can be so-adjusted. Response in dogs or cats with CDI is quick and obvious. Owners can collect urine on a daily basis during the trial to substantiate their clinical impressions regarding response. If the pet responds, CDI (Cushing’s syndrome remains a possibility) is diagnosed and dose of DDAVP can be slowly tapered down to determine the minimum required for long-term treatment. It is no longer recommended to use the nasal drops placed in the eyes. The water deprivation test is considered dangerous and is never warranted.

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La pericardiectomia (fenestrazione pericardica) toracoscopica Luca Formaggini Med Vet, Dormelletto (NO)

INTRODUZIONE

TECNICA

Il versamento pericardico è definito come un accumulo di liquido a livello dello spazio pericardico. Il tamponamento cardiaco, manifestazione clinica del versamento pericardico si rende evidente all’aumento della pressione all’interno del pericardio. A questo corrisponde un ridotto riempimento cardiaco che a sua volta esita in una diminuzione del volume di eiezione. La riduzione della portata cardiaca e in ultima analisi la diminuzione della disponibilità di ossigeno a livello cellulare (shock) rappresentano l’esito finale del versamento pericardico 1, 2. Il versamento pericardico è nella maggior parte dei casi idopatico o neoplastico (secondario a emangiosarcoma, chemodectoma, mesotelioma, linfoma). Altre cause meno comuni sono rappresentate da coagulopatie, agenti infettivi (batterici, FIP), corpi estranei, trauma, patologie congenite, patologie endocrine, insufficienza cardiaca 1, 3, 4, 5. La pericardiectomia è considerata il trattamento definitivo del versamento pericardico di origine idiopatica e il trattamento palliativo per il versamento neoplastico 6, 7. Anche in questi pazienti è stato infatti dimostrato un aumento del tempo di sopravvivenza a seguito della sola pericardiectomia 7. Il metodo convenzionale per la pericardiectomia è rappresentato dalla toracotomia laterale o sternale. Altre tecniche meno invasive recentemente descritte sono la pericardiotomia percutanea con palloncino 8 e la toracoscopia. Tra le metodiche toracoscopiche le tecniche utilizzate sono fondamentalmente due: via d’accesso laterale con ventilazione mono-polmonare 9, 10 e via d’accesso para-sternale senza esclusione polmonare 11. La ventilazione mono-polmonare con o senza insufflazione dell’emitorace provoca alterazioni nello scambio gassoso (ipoventilazione e shunt destro-sinistro), è tecnicamente difficoltosa e può essere deleteria in un paziente già compromesso 11. In questa relazione viene descritta la tecnica di pericardiectomia toracoscopica ad accesso para-sternale senza esclusione polmonare.

Il paziente in anestesia generale viene posizionato in decubito dorsale con il torace ampiamente tricotomizzato e preparato asetticamente. Attraverso un’incisione cutanea di circa un centimetro, viene inserito il primo trocar (da 5 o da 10 mm), a sinistra e appena lateralmente all’ultima sternebra. A questo punto il polmone collassa ed è possibile inserire l’ottica (da 5 o da 10 mm) visualizzando così il legamento freno-pericardico, il mediastino ventrale e il pericardio. Sotto visione endoscopica, vengono inserite altre due cannule da 5 mm (porte di lavoro) a livello del 6° spazio intercostale da entrambi i lati. Una terza porta di lavoro (5 mm) viene creata a livello del 3°/4° spazio intercostale a sinistra per l’inserimento del tubo di aspirazione. Il mediastino ventrale viene quindi scontinuato per avere una visione completa della cavità toracica (attenzione alle emorragie che, a volte copiose, rendono difficili i successivi passaggi dell’intervento); a questo punto il sacco pericardico viene sollevato con la pinza da presa e scontinuato per circa 1 cm mediante l’utilizzo di endo-forbici. Il tubo da aspirazione viene inserito attraverso questa breccia nel pericardio per evacuarne il contenuto. A sacco pericardico vuoto, viene asportata una porzione di membrana a creare una finestra di almeno 3-4 cm di diametro. La porzione di pericardio asportata viene poi inviata per esame isto-patologico.

Bibliografia 1.

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MATERIALI

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ottica da 5 o da 10 mm (0°) trocar/cannula fonte di luce cavo porta luce endo-pinze da presa atraumatiche e traumatiche da 5 mm endo-forbici da 5 mm video camera e monitor attrezzatura per raccolta immagini (non obbligatoria)

5. 6. 7.

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De Laforcade, AM et al: Biochemical analysis of pericardial fluid and whole blood in dogs with pericardial effusion. J Vet Intern Med, 2005; 19: 833-836. Stafford Johnson, M et al: A retrospective study of clinical findings, treatment and outcome in 143 dogs with pericardial effusion. JSAP, 2004; 45: 546-552. Day, MJ and Martin, MWS: Immunohistochemical characterisation of the lesions of canine idiopathic pericarditis. JSAP, 2002; 43: 382387. MacGregor JM et al: Cardiac lymphoma and pericardial effusion in dogs: 12 cases (1994-2004). JAVMA, 2005; vol 227 N° 9 November, 1: 1449-1453. Martin, MWS et al: Idiopathic pericarditis in dogs: no evidence for an immune-mediated aetiology. JASP, 2006; 47: 387-391. Aronsohn, MG and Carpenter JL: Surgical treatment of idiopathic pericardial effusion in the dog: 25 cases (1978-1993). Ehrhart, N et al: Analysis of factors affecting survival in dogs with aortic body tumors. Vet Surg, 2002; vol 31, 1: 44-48.


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8.

9. 10.

11.

Indirizzo per la corrispondenza: Luca Formaggini, Med Vet Clinica Veterinaria Lago Maggiore C.so Cavour, 3 28040 Dormelletto -NOTel +39 0322 243716 Fax +39 0322 232756 E-mail lformaggini@cvlm.it

Bussadori, C et al: Percutaneous pericardiotomy with ballon catheter in the treatment of malignant pericardial effusion in dogs. Radiol Med, 1998; 96, 5: 503-506. Jackson, J et al: Thoracoscopic partial pericardiectomy in 13 dogs. J Vet Intern Med, 1999; 13: 529-533. Walsh PJ et al: Thoracoscopic versus open partial pericardiectomy in dogs: comparision of postoperative pain and morbidity. Vet Surg, 1999; 28: 472-479. DuprĂŠ GP et al: Thoracoscopic pericardiectomy performed without pulmonary esclusion in 9 dogs. Vet Surg, 2001; 30: 21-27.

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Cane e gatto durante la stagione estiva: quadro clinico delle patologie più frequenti e possibili soluzioni. Manifestazioni dermatologiche e sistemiche causate dai parassiti: quale prevenzione? Giovanni Ghibaudo Med Vet, Fano (PU)

In altri casi la presenza di alcuni insetti quali le mosche e i moscerini possono indurre delle dermatiti a carico di alcuni distretti anatomici tipici in cani e gatti (canna nasale nella foruncolosi eosinofilica, muso e cavo orale nell’edema angioneurotico, punta dei padiglioni auricolari nella dermatite da morso di moscerini e zanzare oppure zone anatomiche meno raggiungibili come la quella perianale e dorso in cani debilitati e/o anziani in corso di miasi da uova e larve di mosche).

Esistono malattie che si manifestano più frequentemente in certi periodi dell’anno. Nel cane e nel gatto, durante la stagione estiva, è più facile riscontrare alcuni sintomi dermatologici quali il prurito e non dermatologici quali l’aumento della sete (polidipsia, PD) più o meno associata all’aumento dell’urinazione (poliuria, PU). In effetti è importante considerare sempre le diagnosi differenziali che comprendono queste manifestazioni: alcune sono banali quali la polidipsia legata all’aumento della temperatura ambientale (o legato ad un’aumentata attività fisica grazie alla bella stagione); altre sono più serie, e non legate alla stagione estiva, come la comparsa di PU/PD da malattie ormonali (ad esempio diabete, iperadrenocorticismo) o da insufficienza renale.

ALTRE CAUSE DI VISITA AMBULATORIALE Esistono dei sintomi sistemici che possono essere motivo di visita ambulatoriale nella stagione estiva: diarrea acuta o intermittente accompagnata da vomito in corso di parassitosi intestinali (ascaridiosi, anchilostomiasi ecc.). Ipertermia e abbattimento che possono essere espressione di situazioni di emergenza legate all’insorgenza di shock termico e collasso in corso di colpo di calore; oppure sintomi legati ad infezioni zecche-indotte quali Ehrlichiosi, Rickettsiosi e Babebiosi oppure flebotomo-indotte quali la Leishmaniosi. Alcune manifestazioni possibili di queste malattie possono avere una comparsa improvvisa ed essere motivo di visita urgente: ad esempio la zoppia, l’ematuria o la rinorragia. In aggiunta in alcune zone d’Italia è abbastanza frequente assistere alla presenza di cani con co-infezioni da patogeni trasmessi da vettori, questo ovviamente complica sia il quadro clinico e che quello diagnostico.

LE DERMATITI PRURIGINOSE La comparsa del prurito si accompagna, a seconda della sua intensità, allo sviluppo di lesioni cutanee da auto-traumatismo (escoriazioni, graffiature, eritrodermia e alopecia) che spesso si complicano con infezioni cutanee secondarie quali piodermiti, dermatiti da Malassezia e seborree. Con l’innalzamento della temperatura e dell’umidità molti ectoparassiti trovano le condizioni ideali per riprodursi e aumentare di numero. Vere e proprie infestazioni (ad esempio pulicosi e pediculosi) o la trasmissione di malattie parassitarie contagiose quali le rogne (otodettiche, sarcoptiche e da Cheylettiella) sono possibili in animali soprattutto giovani e che vivono a contatto con altri simili come in canili, gattili, allevamenti e negozi per animali. In questo caso la comparsa del prurito è spesso improvvisa e intensa. Nei soggetti allergici subclinici o con un prurito sotto controllo tramite dieta e/o terapia antisintomatica (cortisonici, antistaminici e acidi grassi insaturi), può capitare, proprio nella stagione estiva, di assistere ad una recrudescenza e ricomparsa del prurito allergico per la presenza di allergeni ambientali quali i pollini o le pulci (anche in numero molto ridotto). Il motivo è legato al concetto di “effetto sommatorio” in cui più componenti pruriginose si sommano nello stesso soggetto dando un vettore di stimolo del prurito sufficientemente alto da superare il livello soglia.

STRUMENTI PREVENTIVI Se per la prevenzione del colpo di calore è sufficiente non lasciare l’animale in condizioni ambientali sfavorevoli (ad esempio monolocale o auto esposti al sole e senza areazione); per quella di malattie organiche ed ormonali è necessario l’effettuazione di esami ematologici e urinari per effettuare una diagnosi precoce; mentre per evitare il contatto con ectoparassiti (sia intesi come vettori che come allergeni) è molto importante utilizzare a tempo debito, anticipando e 242


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coprendo la stagione quindi, sostanze antiparassitarie e con effetto insetto repellente. Nei cuccioli e gattini l’utilizzo, ad esempio, di un endoectoparassitario quale la combinazione di moxidectina e imidacloprid risulta estremamente utile ed efficace nei confronti sia dei parassiti intestinali che di quelli esterni quali pulci, pidocchi ed acari. La combinazione di imidacloprid e permetrina permette, invece, nei cani di abbinare all’azione antiparassitaria (pulci, acari e zecche) quella di insetto-repellenza. Quest’ultima risulta essere di enorme importanza nell’evitare il contatto tra parassita e animale, riducendo il rischio di trasmissione proprio di quelle malattie trasmesse da vettore sopracitate.

Bibliografia Thomas, V., Anguita, J., Barthold, S.W., Fikrig, E. (2001): Coinfection with Borrelia burgdorferi and the agent of human granulocytic ehrlichiosis alters murine immune responses, pathogen burden, and severity of Lyme arthritis. Infect. Immun. 69, 3359–3371 Guarga, J.L., Moreno, J., Lucientes, J., Gracia, M.J., Peribáñez, M.A., Alvar, J., Castillo, J.A. (2000): Canine leishmaniasis transmission: higher infectivity amongst naturally infected dogs to sand flies is associated with lower proportions of T helper cells. Res. Vet. Sci. 69, 249 –253 Noli C, Scarampella F: Malattie parassitarie. In Dermatologia del cane e del gatto, cap. 31. Poletto, 2004. Scott DW, Miller WH, Griffin CE: parasitic skin diseases. In Muller and Kirk’s small animal dermatology. WB Saunders, Filadelfia, 2001.

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Vomito cronico: ruolo dell’Helicobacter Paola Gianella DVM, PhD, Samarate (VA)

Helicobacter spp. sono batteri gram negativi, microaerofili, acidofili, e dotati di flagelli multipli. L’elevata resistenza che possiedono a pH acidi gli è conferita dalla produzione dell’enzima ureasi, il quale, a contatto con l’urea, determina la produzione di ammoniaca e bicarbonato, creando cosi intorno al batterio un microambiente compatibile con la sua esistenza1. Nel lontano 1980 due ricercatori australiani Marshall e Warren proposero una relazione causale tra l’infezione da Helicobacter pylori e le malattie gastriche nell’uomo, ricevendo il premio Nobel nel 2005 per la loro sensazionale scoperta che rivoluzionò il campo della gastroenterologia; essi infatti dimostrarono in maniera inequivocabile come la maggior parte delle gastriti e delle ulcere gastriche e duodenali nell’uomo sia di origine infettiva, e che l’agente causale è l’Helicobacter pylori. L’infezione si acquisisce nell’infanzia e persiste generalmente per tutta la vita. La maggior parte dei soggetti infetti resta asintomatica, mentre nel 10% si sviluppano ulcere peptiche e nell’1-2% tumori gastrici. L’eradicazione dell’infezione da Helicobacter spp. causa non solo una guarigione delle ulcere gastriche e duodenali, ma anche una completa remissione del linfoma gastrico associato al MALT (mucosal associated lymphoid tissue)2. Questa scoperta ha inoltre avuto il beneficio addizionale di contribuire ad ampliare il genere Helicobacter, dal momento che numerosi studi si sono susseguiti, non solo in campo medico ma anche in campo veterinario, portando all’identificazione di almeno 30 nuove specie con potenziale infettivo in cani, gatti, bovini, maiali, pecore, cavalli, uccelli, delfini e scimmie. L’infezione naturale da H. pylori, sebbene identificata in una colonia sperimentale di gatti, non sembra essere cosi comune come nell’uomo. H. felis, H. bizzozeronii, H. salomonis, H. heilmannii, H. rappini, H. cianogastricus e H. marmotae sono invece alcune delle specie più frequentemente riscontrate nel cane e gatto4. Recentemente, inoltre, è stato dimostrato come più specie possano contemporaneamente infettare un singolo individuo4. Al momento attuale la prevalenza dell’infezione nei cani e nei gatti è molto elevata, e raggiunge rate dell’86% nei gatti e del 100% nei cani infetti da H. felis, H. heilmannii e H. bizzozeronii 5. Nonostante la diversità delle specie animali infette e la natura dei diversi tipi di Helicobacter coinvolti, compreso il sito di infezione e la malattia causata, sembra essere presente un comune denominatore, e cioè quello di una patologia derivante o da un difetto di regolazione della risposta immunitaria conseguente all’infezione, o dalla stessa risposta immunitaria cronica3. Purtroppo, la maggior parte delle

informazioni disponibili sulla patogenesi dell’infezione è relativa ai topi, e, anche se sembrerebbe ragionevole applicarne i risultati al cane e al gatto, gli studi al riguardo in queste specie sono ancora limitati. Nei gatti, l’infezione naturale da Helicobacter spp. è associata ad una grave infiammazione gastrica e ad elevati livelli di IgG6. Inoltre, l’analisi di gatti naturalmente infetti da H. pylori ha evidenziato la formazione di lesioni gastriche caratterizzate da follicoli linfoidi multifocali contenenti un nucleo di cellule B IgM+ circondato da cellule CD3+7, e, analogamente all’uomo, una aumentata produzione di IL-1β e IL-88. Nei cani si osserva frequentemente una gastrite lieve, sebbene l’associazione tra gastrite ed infezione naturale da Helicobacter non sia ancora chiara5. Cani sperimentalmente infetti con H. felis sviluppano una lieve ma diffusa gastrite con aumento delle IgM e delle IgG9, mentre cani infettati con H. pylori sviluppano infiltrati gastrici di lifociti T e B il cui numero aumenta proporzionalmente al grado di infiammazione presente, e, ancora una volta, analogamente all’uomo, anche la produzione delle citochine pro-infiammatorie IL-8 e IL-6 subisce un incremento10. Questi studi sembrano dunque indicare che l’infezione da Helicobacter nei cani e nei gatti sia patogena e che il pattern di risposta infiammatoria presenti similitudini con quello umano. Lo sviluppo dell’ulcera peptica associata ad infezione da Helicobacter spp. nel cane e nel gatto sembra rara, e probabilmente rispecchia la conseguenza delle differenze patofisiologiche tra l’H. pylori e le altre specie isolate nel cane e nel gatto. Scarse ma tuttavia molto interessanti sono invece le informazioni disponibili in letteratura relative all’associazione tra infezione da Helicobacter spp. e sviluppo del linfoma gastrico. Uno studio preliminare suggerisce una possibile associazione tra la presenza dell’Helicobacter spp. nello stomaco del gatto e lo sviluppo di gastrite e/o di un lifoma11; mentre un altro più recente illustra l’associazione tra l’infezione da H. heilmanii e lo sviluppo del linfoma gastrico nel gatto, soprattutto di tipo linfoblastico12. Sebbene il possibile ruolo dell’Helicobacter spp. nella patogenesi della gastrite e/o del linfoma gastrico nel cane e nel gatto sembra delinearsi con una chiarezza sempre maggiore, una relazione causale tra infezione, gastrite cronica e sviluppo di vomito non è ancora inequivocabilmente emersa, unitamente al fatto che questi batteri sono stati identificati anche nello stomaco di soggetti che non presentano alcuna sintomatologia gastrointestinale. Quindi, se da un lato l’infezione sperimentale di cani e gatti con Helicobacter spp. causa precise lesioni istopatologiche, non è ancora noto 244


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5.

l’impatto a lungo termine che l’infezione stessa possa avere sulla sintomatologia. Non bisogna però dimenticare che la sintomatologia nell’uomo infetto da H. pylori si sviluppa nell’arco di decenni, e in quest’ottica il ruolo causale svolto dall’H. felis o da altri tipi di Helicobacter potrebbe assumere maggior rilievo. In supporto di tale ipotesi vi sono inoltre diversi studi in cui la sintomatologia di cani e gatti infetti da Helicobacter spp. ha subito un notevole miglioramento se non una risoluzione in seguito alla terapia. Al momento attuale si crede dunque che l’infezione gastrica cronica da Helicobater spp. in cane e gatto possa causare o quantomeno contribuire alla sintomatologia clinica in alcuni soggetti13,14. Sembra tuttavia prudente ricordare che, mentre il ruolo patogeno dell’Helicobacter gastrico in cani e gatti è oggetto di studio incessante, un’attenta valutazione diagnostica volta ad escludere altre potenziali cause di vomito dovrebbe sempre essere intrapresa prima di considerare l’Helicobacter spp. l’agente eziologico primario responsabile.

6.

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9. 10.

11.

12.

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Bibliografia 1. 2.

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Indirizzo per la corrispondenza: Paola Gianella Università degli Studi di Torino - Dip. di Patologia Animale Clinica Veterinaria Malpensa - Samarate (VA) paolagianella@yahoo.it

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Aneddoti ed evidenze in neurofarmacologia Stefania Gianni Med Vet, Milano

Da poco più di una ventina di anni nell’ambito delle scienze mediche si discute di Evidence Based Medicine ovvero di Medicina Basata sulle Evidenze. Uno dei suoi padri fondatori il Dottor David Sackett nel 1996 la definisce come “il coscienzioso esplicito e giudizioso utilizzo delle migliori evidenze correnti nel prender decisioni circa la cura del paziente” e ne auspica un adesione diffusa per garantire uno stretto rapporto tra scienza e pratica, nell’esercizio della professione medica. Le decisioni cliniche dovrebbero quindi derivare dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo delle evidenze scientifiche disponibili, mediate dalle preferenze del paziente. L’obiettivo dell’EBM è dunque nello stimolare la ricerca e successivamente l’analisi della letteratura scientifica, che è la fonte più importante di evidenza, per trasferirne i contenuti alla pratica medica. La EBM attribuendosi una “missione didattica” configura un processo di apprendimento in cui l’assistenza al paziente individuale stimola il bisogno di estrapolare dalla letteratura informazioni valide, rilevanti ed aggiornate,che consentano al medico di colmare i propri gap di conoscenza. La pratica dell’EBM si articola in quattro passaggi. Per ogni singolo argomento la necessaria base di partenza sta nella formulazione del quesito clinico cui rispondere, a questo seguono la ricerca delle migliori evidenze disponibili, la valutazione critica delle evidenze stesse e l’applicazione al singolo caso clinico. Il valore delle evidenze dipende non solo dalla tipologia degli studi e dalla significatività statistica dei risultati ma anche dall’attinenza allo specifico quesito clinico proposto. Sulla base di tutti questi parametri vengono infatti definiti i così detti “livelli di evidenza”. Per ora la medicina veterinaria è stata interessata solo marginalmente da questo fenomeno culturale. Il primo riferimento all’EBM appare nel 1998 sulla rivista Veterinary Record; successivamente nel 2000 Praxis Veterinaria comincia a pubblicare una rubrica che seleziona e pubblica i contributi bibliografici più importanti su un argomento prestabilito, segno di un nuovo approccio culturale alle selezioni bibliografiche. Nel 2003 viene pubblicato il testo “Handbook of Evidence Based Veterinary Medicine” di P. Cockcroft e M. Holmes e nel 2006 si costituisce l’Associazione di Medicina Veterinaria Basata sulle Evidenze (EBVMA). Tutto questo testimonia la volontà di rifondare la professione di Medico Veterinario su basi scientifiche, ottenute attraverso un tipo di ricerca che soddisfi determinati stan-

dard metodologici per sostituire i presupposti dogmatici di parte della Medicina Veterinaria classica. Nell’ambito della medicina Umana la più accreditata fonte sull’EBM, nata nel 1992, è la Cochrane Collaboration, una associazione inglese di volontari che provvedono a raccogliere, valutare criticamente e diffondere le informazioni relative alla efficacia degli interventi sanitari. La Cochrane Collaboration, utilizzando una metodologia scientifica comune, produce documenti di sintesi relativi ad un dato argomento, denominati “revisioni sistematiche”. I documenti prodotti si trovano nella Cochrane Library, un database che raccoglie tutte le revisioni sistematiche prodotte e che costituisce quindi una raccolta di evidenze utili al processo decisionale clinico. Associazione e database prendono il nome da un epidemiologo inglese Archie Cochrane che nel 1972 scrisse un famoso testo sul mancato utilizzo pratico, da parte dei sanitari, di dati dell’evidenza sperimentale, preferendo piuttosto pratiche consolidate dalla consuetudine, ma non sempre di accertato valore scientifico. Pur mancando ad oggi in ambito veterinario una associazione paragonabile alla Cochrane Collaboration, partendo comunque da presupposti di questo tipo, verranno analizzate alcune terapie utilizzate nella gestione di patologie neurologiche, cercando di rivederle alla luce dell’EBM. Da tempo controversa la terapia medica del trauma spinale acuto, relativamente al quale, sebbene nel corso degli ultimi anni siano stati proposti numerosi farmaci e protocolli, allo stato attuale l’unico farmaco utilizzabile con certe basi scientifiche, è il MPSS ad alto dosaggio per somministrazione EV, solo ed esclusivamente entro le prime 8 ore dal trauma. È noto che l’insorgenza acuta di un deficit imputabile ad una lesione a livello di midollo spinale sia dovuto alla combinazione di effetto dell’impatto iniziale o “danno primario” cui consegue una cascata di processi di natura biochimica e vascolare che generano il così detto “danno secondario” altrettanto grave e capace tra l’altro di autoperpetuarsi. Poiché l’entità del danno primario non può essere in alcun modo controllata, la terapia medica del trauma spinale acuto non potrà che essere rivolta a limitare l’estensione del danno secondario di natura biochimica e vascolare. L’efficacia del MPSS nel trauma spinale acuto è comunque attualmente molto dibattuta in campo umano e conseguentemente veterinario. Alcuni lavori recenti hanno infatti messo in discussione la reale efficacia del farmaco, specie se rapportata ai possibili danni collaterali; sono state inoltre 246


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evidenziate numerose lacune ed alcuni difetti procedurali nei lavori su cui pongono le basi gli attuali protocolli di impiego del MPSS. In particolare sono stati oggetto di revisione critica gli studi del NASCIS (National Acute Spinal Cord Injury Study) ed è stato evidenziato come nel loro insieme gli studi diano risultati negativi e non siano chiari i recuperi funzionali a lungo termine. In contrasto con gli attuali metodi di impostazione di una procedura di studio, gli effetti positivi dei vari protocolli vengono riconosciuti solo a posteriori, vengono riportati gravi effetti collaterali, i dati non vengono messi a disposizione ma, soprattutto, gli studi e anche la loro revisione critica, Cochrane Analysis, sono stati condotti dalla stessa persona il dottor Michael B Bracker. Ad oggi alcune grandi associazioni mediche sono arrivate a non consigliare l’utilizzo di MPSS ad alto dosaggio; tale utilizzo a maggior ragione andrebbe disincentivato in ambito veterinario settore per il quale non esistono lavori specifici. Sempre per quanto riguarda il MPSS ad alto dosaggio nessun riscontro positivo sperimentale e clinico ha il suo utilizzo nella gestione del trauma cranico. Addirittura in questo caso la somministrazione di steroidi potrebbe essere controindicata, infatti gli steroidi, inducendo iperglicemia, potenziano la glicolisi anaerobia cerebrale e favoriscono l’accumulo di acido lattico dai noti effetti neurotossici. Altrettanto privo di fondamento l’utilizzo del mannitolo, un diuretico osmotico, nel trauma spinale dove non è dimostrata l’efficacia nel ridurre l’edema spinale come invece lo è nei confronti del l’edema intracranico specie se associato a furosemide che ne potenzi l’effetto. Notevole interesse ha suscitato negli ultimi anni l’approccio terapeutico a quelle forme infiammatorie del Sistema Nervoso Centrale indicate come “sterili” e attualmente definite nel loro insieme come Meningoencefaliti di origine sconosciuta o Meningoencefaliti atipiche, che non riconoscono cioè l’azione documentata di nessun agente infettivo. Sono stati condotti diversi studi clinici suggerendo varie

terapie farmacologiche immunosoppressive oltre ai tradizionali corticosteroidi. Si tratta in genere di trial clinici non controllati non randomizzati, di case reports e di observational studies dove non sempre sono rispettati i criteri di selezione dei pazienti, non vi è un gruppo controllo, né un meccanismo doppio cieco nella somministrazione delle terapie. L’eterogenicità di questi studi rispetto ai protocolli utilizzati, alla durata de trattamenti ed alla valutazione dei risultati rende difficile una valutazione univoca. Pur essendo alto il valore di ogni singolo lavoro per trarre conclusioni definitive sarebbe senza dubbio necessaria uno studio multicentrico con un rigido protocollo comune. Non essendo ad oggi stata riconosciuta una eziologia per la mielopatia degenerativa risulta difficile raccomandare un appropriato protocollo terapeutico. Alla luce di considerazioni di EBVM la terapia a base di Acido Aminocaproico, un agente antiproteasico non essendo supportata da evidenze scientificamente accettabili è da ritenersi frutto di consuetudine. Per concludere giacché non avvalorate da lavori mirati per le specie veterinarie rivestono un ruolo solo ed esclusivamente aneddotico, le terapie a base di Fosfatidi cerebrali (Tricortin), Citicolina (Nicholin) e Nicergolina (Sermion) ancora largamente utilizzate con i più disparati protocolli nella terapia farmacologica di patologie neurologiche centrali e periferiche.

Bibliografia disponibile a richiesta presso l’autore

Indirizzo per la corrispondenza: Stefania Gianni E-mail: stefanianeurologia@katamail.com

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Il comportamento di aggressione: principi di terapia comportamentale Sabrina Giussani Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF, Busto Arsizio (VA)

motivazioni descritte dagli etologi. Appare, così, il concetto di mente come struttura di organizzazione dei processi cognitivi: la visione mentalistica prende corpo da un insieme di fattori non strettamente connessi a performance riferibili alle cosiddette funzioni intellettive superiori (come ad esempio la coscienza) ma anche ai processi più elementari di esperienza ed apprendimento (R. Marchesini).

INTRODUZIONE Per tutta la prima metà del Novecento, il concetto di black box è rimasto una sorta di tabù inviolabile. L’antropocentrismo in vigore a quella epoca, imponeva di porre un confine ben definito tra l’uomo e l’eterospecifico: l’animale era considerato un automa mosso da pulsioni (interpretazione psicoenergetica, K. Lorenz) o da condizionamenti (interpretazione associazionista, B. Skinner), privo di un mondo interno capace di assegnare all’individuo una soggettività. L’approccio cognitivo non riguarda le prestazioni di alto profilo, non è un discorso sulla coscienza del cane ma investe il normale modo di affrontare un problema o un’esperienza di apprendimento da parte del cane (R. Marchesini). Il cane è portatore di una cognitività differente dalla nostra: non solo monitora il mondo attraverso dotazioni sensoriali specifiche non omologate sull’uomo ma elabora anche le proprie esperienze attraverso intelligenze altrettanto specifiche. Il cane è un animale sociale e tale carattere spicca su tutti gli altri al punto tale che da sempre l’uomo, quando ha voluto tratteggiare la fedeltà e l’immedesimazione nel gruppo, ha utilizzato il codice lupo – cane (R. Marchesini).

L’APPROCCIO COGNITIVO: IL MODELLO NEUROBIOLOGICO - COGNITIVO La rivoluzione informatica, che si è sviluppata nel corso degli anni 60, ha cambiato profondamente il modo di affrontare il tema dell’apprendimento. Compaiono i concetti di pacchetti di informazione (i programmi dei computer) acquisiti nei processi di apprendimento e di attività di elaborazione dei dati in ingresso (elaborazione). L’individuo quando apprende, non è passivo di fronte agli stimoli, ma ricerca attivamente ciò che può essere funzionale ai propri bisogni (R. Marchesini). Secondo l’approccio cognitivo, l’apprendimento utilizza e dà luogo a rappresentazioni cioè a schemi (set neurali) che processano gli imput secondo modalità preferenziali e precise. Inoltre, tali schemi sono in grado di essere modificati e reimpostati dal processo di apprendimento stesso. L’apprendimento, quindi, non produce automatismi ma arricchisce il sistema dotandolo di ulteriori strumenti di conoscenza vale a dire allargando il suo possibile fronte esperienziale (piano prossimale di esperienza). Per la scuola cognitiva si deve parlare di una vera e propria costruzione dell’esperienza in funzione degli obiettivi conoscitivi del soggetto (R. Marchesini): ciò che il soggetto mette in atto in un momento particolare si definisce azione cognitiva caratterizzata da una componente elaborativa (operazioni cognitive o funzioni logiche, rappresentazioni e metacomponenti) ed una componente posizionale (motivazioni, emozioni ed arousal). L’approccio mentalistico considera il comportamento come la manifestazione della condizione della mente nel qui ed ora: i comportamenti non sono entità separate o separabili ma l’espressione del sistema.

IL CANE HA UNA MENTE? A partire dagli anni 40, la spiegazione associazionista del processo di apprendimento sembrava presentare le prime difficoltà di interpretazione. Tolman, grazie all’ipotesi dell’apprendimento latente, riuscì a dimostrare come fosse possibile realizzare un processo di apprendimento al di fuori dei rigidi principi associativi. Negli anni 60 cominciò a prendere piede l’idea che il comportamento fosse l’espressione di un complesso mondo interno, che deve essere conosciuto per individuare dei protocolli di apprendimento. Le interpretazioni pulsionali ed associazioniste non solo non erano in grado di spiegare la multifattorialità del comportamento ma si dimostravano anche carenti nell’interpretazione delle dinamiche della complessità che a partire dagli anni 70 la scienza ha riconosciuto anche ai sistemi abiotici (per esempio un uragano) e che non possono essere disattese nell’esplicazione di ciò che si manifesta come l’acme della complessità, il cervello (R. Marchesini). A partire da quegli anni, gli studiosi iniziarono ad ammettere l’esistenza di un mondo interno (caratterizzato da funzioni logiche, dalle memorie, dalle emozioni, dall’arousal, dalle rappresentazioni, dalle metacognizioni e così via) che poteva essere associato alle

L’IDENTITÀ DEL CANE Molto spesso si tende a considerare l’approccio cognitivo come una semplice aggiunta all’approccio tradizionale (istintivo o condizionato) e riferito a particolari performance com248


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plesse dell’animale come risolvere i problemi, analizzare una situazione, costruire degli strumenti e così via (R. Marchesini). Così facendo, la cognitività animale tende ad essere vista come un’approssimazione a quella umana mentre il cane possiede una cognitività differente dalla nostra. Il cane è un animale sociale e tale carattere spicca su tutti gli altri: essere fortemente portato alle relazioni di gruppo significa molto più della semplice affermazione che il cane ama stare in compagnia. La socialità del cane è la sua dimensione di vita: essere un animale sociale e socio – riferito significa prima di tutto costruire dei rapporti molto stretti e delle assonanze, vale a dire che il cane cerca continuamente delle concertazioni e lì definisce il proprio posizionamento. La socio - referenza del cane lo porta ad interessarsi al gruppo: il cane è interessato a tutto ciò che facciamo, non ci perde d’occhio, capta ogni variazione del nostro umore o nel nostro stile di vita, conosce le nostre abitudini ed i nostri gesti (R. Marchesini). Se paragoniamo il modo di porsi di fronte ad un problema del cane e del gatto è possibile evidenziare un’importante differenza di approccio. Il cane cerca prioritariamente il milieu collaborativo, ragiona sulla base di rapporti tra soggetti in riferimento alle possibili dimensioni di relazione sociali. È concentrato cognitivamente sulla concertazione e non sulla soluzione: per prima cosa, guarda il proprio partner poiché è un virtuoso delle relazioni sociali portato a ragionare in termini di rapporti intersoggettivi. Quando ci riferiamo al cane parleremo, quindi, di intelligenza sociale (R. Marchesini).

nostra specie. Negli Usa ed in Asia, cani vaganti organizzati in bande o cani paria possono considerare l’uomo come una preda di grossa taglia (P. Pageat). Sembrano essere maggiormente colpiti bambini ed anziani. Per contro, cani da compagnia possono presentare un comportamento di aggressione predatoria a carico di bambini di età inferiore ad un anno. La sequenza realizzata è quella mostrata a carico delle prede di piccola taglia e sembra essere legata ad un’assenza di socializzazione. A causa dell’elevato rischio il terapeuta, spesso, consiglia l’adozione del cane presso un’altra famiglia. Il comportamento di aggressione per irritazione è scatenato dal dolore (acuto o cronico), dalle privazioni (fame, sete), dalle frustrazioni (ad esempio nel caso in cui una ricompensa abitualmente somministrata in occasione di un comportamento è sostituita con una punizione), dalla persistenza di un contatto fisico quando il cane ha comunicato chiaramente di interrompere il contatto stesso. L’aggressione è legata alla stimolazione di una parte dell’ipotalamo ventro – mediale, dei corpi amigdaloidei e del nucleo caudale del setto. L’estradiolo ed il testosterone facilitano e rinforzano questo tipo di aggressione tanto che la castrazione precoce permette di diminuirne considerevolmente la frequenza. Il comportamento di aggressione per irritazione può essere, secondo J. Dehasse, di tipo offensivo o difensivo. Secondo P. Pageat, la sequenza del comportamento è differente a seconda della posizione gerarchica che l’aggressore possiede rispetto all’aggredito. Il comportamento di aggressione per irritazione si strumentalizza molto rapidamente. È opportuno ricordare che l’apparizione improvvisa di questo comportamento (sequenza cane sottomesso) in un cane che non ha mai presentato alcun sintomo riferibile ad una malattia del comportamento, è riferibile ad una patologia organica (algogena, disendocrina o un’alterazione sensoriale). Il comportamento di aggressione per irritazione è riscontrabile in numerose malattie del comportamento come ad esempio la Sindrome da Privazione Sensoriale (soprattutto allo stadio 1), la Sindrome Ipersensibilità – Iperattività (stadio 1 e 2) e la Sociopatia (stadio 1 e 2). Il comportamento di aggressione gerarchica si manifesta in situazioni di competizione gerarchica (accesso al cibo, controllo dello spazio, espressione della sessualità) tra cani o tra cani ed esseri umani (P. Pageat). Gli ormoni sessuali hanno un importante ruolo nella nascita di questi comportamenti alla pubertà. La castrazione negli adulti non controllerà l’insorgere delle aggressioni. I centri nervosi coinvolti non sono ancora stati identificati con certezza, anche se la regione settale sembra essere interessata. Secondo P. Pageat la fase consumatoria del comportamento di aggressione gerarchica è differente a seconda della posizione gerarchica posseduta dagli avversari. In medicina comportamentale la frequente emissione di un comportamento di aggressione gerarchica sottolinea spesso la presenza di una Sociopatia. Le basi neurologiche del comportamento di aggressione territoriale e materna non sono ancora state definite ma sembra che gli androgeni ed il testosterone ne facilitino l’insorgenza. Queste due forme di aggressione sono scatenate dall’intrusione nel campo di isolamento (considerato campo di aggressione) o nel territorio del gruppo (P. Pageat). Il comportamento di aggressione materna, per essere realizzato, comporta la presenza dei cuccioli o di succedanei affettivi (giochi, pantofole) come accade per esempio nella pseudo-

IL COMPORTAMENTO DI AGGRESSIONE: UN SINTOMO Il Medico Veterinario, in presenza di un quadro clinico in cui si evidenziano manifestazioni aggressive, dovrà identificare il tipo di comportamento di aggressione, verificare l’integrità della sequenza del comportamento (fase appetitiva - la minaccia -, fase consumatoria - il morso - e fase di appagamento o di arresto) ed evidenziare il livello di controllo del morso (P. Pageat). Nel cane, secondo la classificazione di Moyer, è possibile rilevare differenti tipi di comportamento di aggressione: l’aggressione predatoria, l’aggressione per irritazione, l’aggressione gerarchica, l’aggressione territoriale, l’aggressione materna e l’aggressione per paura ognuna caratterizzata da una specifica sequenza. Per quanto riguarda l’aggressione predatoria, è possibile descrivere un comportamento di aggressione a carico di prede di piccola e di grossa taglia. La fase di minaccia è assente in entrambe le situazioni. La caccia a prede di piccola taglia è realizzata dai singoli individui mentre le prede di grossa taglia sono fatte oggetto di una battuta di caccia in gruppo. In ogni caso, la predazione è scatenata dalla stimolazione dell’ipotalamo laterale e sembra che la fame faciliti l’attivazione di questa area. Gli steroidi sessuali non sembrano avere influenza sul comportamento in esame. Dal punto di vista clinico il comportamento di aggressione predatoria è spesso implicato in occasione della caccia a gatti, animali da cortile, selvaggina o bestiame. Si tratta di un comportamento fisiologico difficilmente modificabile anche con l’ausilio di terapie opportunamente predisposte. In alcune occasioni è possibile rilevare aggressioni a carico dell’essere umano da parte di cani non socializzati alla 249


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gravidanza. In medicina comportamentale l’aggressione territoriale spesso si associa all’aggressione gerarchica e per irritazione nella Sociopatia. Anche il comportamento di aggressione materna può comparire in un contesto di ambiguità gerarchica. Il comportamento di aggressione per paura appare nelle situazioni in cui la fuga è impossibile. Numerosi Autori lo definiscono “reazione critica”. Questa aggressione è legata alla stimolazione dell’ipotalamo anteriore fino al nucleo ventro – mediano. È accompagnata dall’attivazione del sistema neurovegetativo ortosimpatico e dall’aumento della secrezione della tiroxina, del cortisolo e delle catecolamine. La fase appetitiva del comportamento è assente: la fase consumatoria è diretta, imprevedibile e caratterizzata dall’assenza del controllo del morso. L’aumento della frequenza respiratoria e cardiaca associato alla midriasi permettono di identificare il cambiamento dello stato reattivo dell’individuo. In medicina comportamentale la presenza di ripetuti episodi di aggressione per paura deve far pensare alla presenza di uno stato ansioso di tipo ansia intermittente.

tivo e sociale. I segnali utilizzati fanno parte della comunicazione del cane. Il principio è quindi semplice: implica solo una buona conoscenza dell’etologia del cane. Ad esempio la Regressione Sociale Guidata ha come obiettivo modificare il modo in cui il cane percepisce il proprio statuto gerarchico. Nelle situazioni quotidiane con un valore gerarchico per il cane, la famiglia deve imparare a comportarsi in modo da mostrare all’animale di essere dominato. Questa tecnica evita ogni confronto diretto con il cane. Nel caso in cui il comportamento di aggressione sia scatenato dal cane, è possibile utilizzare il Reclutamento del gruppo (tutti i componenti della famiglia si posizionano l’uno al fianco dell’altro, non di fronte al cane) dando all’animale l’ordine di abbandonare la stanza. Ritirandosi, il cane adotta un’attitudine da dominato. Nelle patologie dello sviluppo comportamentale le terapie saranno basate sul gioco e avranno lo scopo di sviluppare i contatti sociali e gli autocontrolli (indurre nel cane la messa in atto di una postura che interrompa il contatto sociale, il gioco con la palla con pazienti affetti da Ipersensibilità - Iperattività). Le principali terapie cognitive utilizzate in medicina comportamentale sono: • la regressione sociale guidata; • il reclutamento del gruppo; • il gioco controllato. P. Pageat sostiene, inoltre, che in alcune situazioni appare importante modificare la percezione che il proprietario ha dell’insieme delle proprie interazioni con l’animale. Tutto ciò cambierà le reazioni del proprietario in occasione delle interazioni e porterà alla ristrutturazione di alcune cognizioni del cane (terapie cognitivo – comportamentali applicate alla percezione della relazione). Dalla teoria generale dei sistemi, secondo il Dizionario di Psicologia, è stata “ricavata una forma di terapia che parte dall’idea che tutte le volte che un sistema è portato lontano dal suo stato di equilibrio (da un imput che può provenire dall’interno o dall’esterno del sistema stesso) si apre una fase caratterizzata da un periodo di riorganizzazione del sistema incerta e aperta a molti possibili sviluppi. La psicologia sistemica è un indirizzo psicologico sviluppatosi negli anni 50 a Palo Alto in California. Muovendo dal concetto di base secondo cui tutto è comunicazione (anche l’apparente non comunicazione) la psicologia sistemica ritiene di poter indagare a partire dal sistema della comunicazione regolato dalle leggi della totalità (il mutamento di una parte genera il mutamento del tutto), della retroazione (prevede l’abbandono del concetto di causalità lineare con quello di circolarità dove ogni punto del sistema influenza ed è influenzato da ogni altro) e dell’equifinalità (ogni sistema è la migliore spiegazione di se stesso perché i parametri del sistema prevalgono sulle condizioni da cui il sistema stesso ha tratto origine)”. Secondo P. Pageat si tratta di terapie che cercano di modificare l’insieme dei sistemi relazionali utilizzando le proprie capacità ad evolvere. Non si tratta di cambiare il comportamento del cane ma di indurre modificazioni relazionali che autorizzeranno il cane (riequilibrato dal trattamento farmacologico) ad evolvere in una nuova direzione. Spingere l’essere umano a cambiare è un obiettivo molto audace e prescrivere un cambiamento è un’aggressione che non tutti gli individui possono sopportare. Per questo ricorriamo alle terapie sistemiche. Queste tecniche sono nate

LA TERAPIA COMPORTAMENTALE, COGNITIVO - COMPORTAMENTALE E SISTEMICA Le terapie comportamentali, secondo il Dizionario di Psicologia, “si propongono una modificazione del sintomo, che si fa risalire ad un apprendimento inadeguato, attraverso un ricondizionamento del soggetto con un apprendimento più adeguato. Partendo dal presupposto che ogni comportamento, normale o disturbato, è il risultato di un apprendimento (e quindi è acquisito) diventa legittima l’ipotesi di poterlo sostituire con modelli comportamentali che si rivelano meno lesivi per l’individuo e per l’ambiente in cui l’individuo si trova a vivere ed a operare. Le terapie comportamentali hanno preso avvio negli anni 50 e le tecniche di decondizionamento e di ricondizionamento più usate sono: la tecnica dell’esposizione (la desensibilizzazione, il flooding), la tecnica del condizionamento operante (che partendo dal presupposto che ogni comportamento appreso è mantenuto in base alla gratificazione che produce, rinforza positivamente il comportamento desiderato)”. P. Pageat sostiene che le terapie comportamentali si basano sulla messa in opera dei principi evidenziati da Skinner e dai suoi allievi a proposito dell’apprendimento. Le principali terapie comportamentali utilizzate in medicina comportamentale sono: • la ricompensa e la punizione; • il contro - condizionamento; • la desensibilizzazione; • l’estinzione; • la tecnica di apprendimento legata alla modulazione dei flussi si informazione; • la tecnica di affermazione di sé stessi; • lo stimolo distraente. Le terapie cognitive, secondo P. Pageat, consistono nel fornire all’animale informazioni che hanno un rapporto indiretto con il comportamento giudicato indesiderabile ma che ne diminuiscono la frequenza modificando il contesto affet250


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all’accesso delle risorse) sull’altro (animale). Tre nozioni possono rimettere in discussione l’universalità, l’utilità e l’utilizzo del modello potere – controllo: il rinforzo positivo (ha rimpiazzato con efficacia l’educazione autoritaria), i bisogni (permettono una visione alternativa del comportamento di aggressione gerarchica realizzato dal cane in occasione di situazioni differenti rispetto ai privilegi identificati per definire lo statuto sociale) e la cooperazione (permette la ripartizione delle capacità e delle decisioni in funzione delle competenze necessarie a realizzare il compito). L’Autore non mette in dubbio l’efficacia della Regressione Sociale Guidata o del Reclutamento del gruppo ma propone un modello alternativo, denominato modello motivazionale – cooperativo, che completa quello presentato dalla Scuola Francese. Il partner umano, spesso, non rispetta i fabbisogni etologici (soprattutto relativi all’attività di cooperazione) del cane. Dehasse ipotizza che il cane cerchi un’occupazione (la cui scelta è influenzata dalle vocazioni dell’individuo e dall’ambiente in cui vive) poiché non svolge alcuna funzione (lavoro) all’interno del gruppo. Il cane, quindi, inventerà delle attività che avranno lo scopo di soddisfare i suoi bisogni. La piramide dei bisogni, identificata da Maslow e modificata da Dehasse, identifica alcune tipologie di bisogni: bisogni di sopravvivenza biologici e fisiologici (fame, sete, sonno), di sicurezza (protezione dal dolore e dal pericolo), sociali (di appartenenza ad un gruppo, ricerca di apprezzamento e di attenzione) e psicologici (conoscenza, comprensione, autostima). Ai giorni nostri, il cane non deve cacciare per alimentarsi o proteggersi dai predatori e dalle intemperie: per questo, le occupazioni ricercate, non saranno orientate alla sopravvivenza dell’individuo. Il cane potrà scegliere di difendere una poltrona, controllare i luoghi di passaggio e svolgere numerose altre attività che potrebbero essere interpretate come dominanti all’interno di un modello gerarchico. Per mettere in atto una terapia sarebbe opportuno, secondo Dehasse, fornire al cane anche un’attività collaborativa all’interno dell’intervento progettato. Secondo C. Béata la gerarchia deve essere considerata come una situazione fluida e non statica. L’apparizione di risorse molto ambite potrebbe far emergere una gerarchia che, abitualmente, non appare ed è inutile quando lo stimolo scatenante non è presente. In un gruppo stabile, spesso è impossibile distinguere una gerarchia nelle specie definite sociali ma questa può apparire in caso di necessità. La gerarchia appare allora come una soluzione a basso dispendio energetico per spegnere i conflitti e ridurne le conseguenze. Secondo alcuni osservatori la figura emergente del gruppo è designata dal gruppo stesso e svolge un ruolo appagante. Secondo la mia esperienza, la relazione si differenzia dalla semplice interazione. La relazione è data dall’incontro/ confronto tra due soggetti basata su processi di interscambio, capace di costruire un legame, che determina delle modificazioni nello stato dei due partner. L’animale è accreditato come controparte sociale, come interlocutore, come soggetto, come diverso. L’animale partecipa alle situazioni relazionali poiché è in grado di assumere un ruolo e di comunicare nuovi contenuti: il cane non deve essere trasformato in un oggetto o in una macchina (reificazione) e non deve essere letto attraverso una proiezione dell’uomo (antropomorfizzazione). Da questo discende l’idea che la relazione con l’animale non

durante la seconda guerra mondiale a partire dalla teorizzazione dei sistemi retroattivi. È stata applicata da Bateson e dalla scuola di Palo Alto che la hanno ampiamente utilizzata nel trattamento delle affezioni pedo – psichiatriche. L’idea di base consiste nel considerare il gruppo uomo – cane come un sistema. È necessario considerare, quindi, un insieme di elementi che interagiscono tra loro e le interazioni stesse. Malarewicz, a questo proposito, considera sette assiomi: il cambiamento è un processo complesso, più un sistema è semplice più è difficile provocare un cambiamento, più un sistema è complesso più è semplice provocare un cambiamento, pluralità dei livelli di cambiamento, permettere di cambiare, solo i cambiamenti spontanei sono pertinenti, il passato non spiega il presente. Le applicazioni pratiche sono: • la terapia ad obiettivi; • la prescrizione del sintomo; • la tecnica della terapia troppo difficile. P. Pageat evidenzia in “Patologia comportamentale del cane” le tecniche comportamentali e cognitivo – comportamentali maggiormente utilizzate allo scopo di: • far sparire un comportamento (la punizione, l’estinzione, l’inibizione gerarchica); • far apparire un comportamento (la ricompensa, la terapia con il gioco, l’imitazione); • sviluppare gli autocontrolli (il gioco controllato, la regressione sociale guidata - autocontrolli sociali -).

IL COMPORTAMENTO DI AGGRESSIONE E LA GERARCHIA: UN APPROCCIO COGNITIVO Il cervello del cane, pur presentando delle omologie con quello dell’essere umano, è profondamente diverso. Per questo, il processo di elaborazione e la relativa strutturazione posizionale saranno assai specifiche (R. Marchesini). Le ricerche effettuate fino ad oggi sono state pressoché orientate sui primati ed hanno riscontrato similitudini con l’uomo in alcune prove di riconoscimento degli stimoli. Non dovrà sorprendere, quindi, che ci potranno essere alcune condivisioni ma anche sostanziali differenze tra l’uomo ed il cane (R. Marchesini). Secondo la mia esperienza, parlare di apprendimento attraverso l’approccio cognitivo significa guardare all’apprendimento in modo profondamente diverso rispetto all’approccio fino ad ora utilizzato. L’obiettivo dell’intervento terapeutico è di tipo relazionale: un progetto di crescita, di incontro o valorizzazione della partnership che viene mirato e tarato sulla coppia e non sul cane. Non è il cane che deve saper fare o non fare qualcosa ma è la coppia che deve essere in grado di vivere la propria interazione – integrazione nei diversi contesti dove si trova o si troverà ad agire. Non ha alcun senso avere del cane una visione mentalistica e impostare il processo di apprendimento attraverso condizionamenti (R. Marchesini). Un pensiero analogo è espresso da J. Dehasse. Secondo l’Autore, il concetto di gerarchia applicata dall’essere umano all’animale contiene in sé l’idea di potere e di controllo. Ciò significa che l’uno (essere umano) comanda, ordina, impone, decide, controlla e possiede i privilegi (e la priorità 251


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può essere considerata intuitiva, ovvero raggiungibile attraverso un semplice processo proiettivo (R. Marchesini). Uomo e cane si incontrano su specifiche frequenze chiamate dimensioni di relazione: affettiva, ludica, epistemica, sociale e così via. L’intervento terapeutico ha lo scopo di dimensionare la relazione equilibrandone le differenti componenti, focalizzando l’attenzione sulla tendenza concertativa del cane in modo da costruire una struttura collaborativa e non competitiva. Il gruppo si trasforma in una squadra, ma per esserlo veramente non richiede solo conoscenza delle controparti sociali e concertazione operativa, ma necessita di ruoli, di schemi, di coordinamento (R. Marchesini). Inoltre, all’interno dell’intervento terapeutico, ritengo opportuno mettere in atto tecniche che permetteranno al cane di apprendere strategie alternative al conflitto. Il partner umano dovrà, ad esempio, ignorare le provocazioni competitive/ aggressive realizzate dal cane ed utilizzare il rinforzo positivo per incentivare la messa in atto di comportamenti differenti.

Bibliografia R. Colangeli, S. Giussani, “Medicina del comportamento del cane e del gatto”, Poletto Editore, Gaggiano, 2005. U. Galimberti, “Dizionario di psicologia”, UTET, Torino 2000. J. Dehasse, “Développement, diagnostic et traitement des problèmes d’agression”, Articles scientifiques - www.joeldehasse.com. J. Dehasse, “Le chien agressif”, Publibook, Paris 2002. R. Marchesini, “Canone di zooantropologia applicata”, Apèiron Editoria e Comunicazione S. r. l., Bologna 2004. R. Marchesini, “L’identità del cane”, Apèiron Editoria e Comunicazione S. r. l., Bologna 2004. R. Marchesini, “Fondamenti di zooantropologia”, Alberto Perdisa Editore, Bologna 2005. R. Marchesini, “Intelligenze plurime, manuale di scienze cognitive animali”, Alberto Perdisa Editore, Bologna 2008. C. Mège, E. Beaumont – Graff, C. Béata, C. Diaz, T. Habran, N. Marlois, G. Muller, “Patologia comportamentale del cane”, Masson s. p. a ed EV s.r.l., Milano/ Cremona, 2006 prima edizione. P. Pageat, “La patologia comportamentale del cane”, Edizione Le Point Veterinaire Italie Milano 2000.

Indirizzo per la corrispondenza: Sabrina Giussani - E-mail: sabrinagiussani@yahoo.it - Tel. 3331861226

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Il comportamento fa dimagrire? Sabrina Giussani Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF, Busto Arsizio (VA)

INTRODUZIONE

L’OBESITÀ: IL CANE, IL GATTO E L’ESSERE UMANO

L’obesità può essere definita “un incremento del peso corporeo ad un livello superiore al normale per una determinata taglia e corporatura dell’animale” (W. R. Fenner). Un valore del peso corporeo pari o superiore al 20% rispetto al normale è generalmente considerato indice di obesità. L’obesità può essere secondaria a patologie organiche concomitanti oppure legata ad un apporto calorico eccessivo. Le principali cause di obesità patologica sono imputabili a lesioni/ disfunzioni ipotalamiche o ipofisarie ed a squilibri endocrini (iperadrenocorticismo, ipotiroidismo, insulinoma). Inoltre, è possibile evidenziare una forma definita pseudo – obesità secondaria ad edema, versamento peritoneale e notevole epatomegalia/ splenomegalia. L’obesità fisiologica è attribuibile ad un eccesso di assunzione di energia rispetto a quella utilizzata in un animale per il resto sano. Lo squilibrio tra l’apporto ed il consumo energetico provoca un’eccedenza energetica persistente: l’energia in eccesso si accumula principalmente sotto forma di lipidi, determinando un incremento ponderale ed un’alterazione della composizione corporea. È opportuno ricordare che alcuni stati patologici conseguenti a malattie del comportamento, possono essere alla base dell’obesità. La bulimia è, infatti, un sintomo presente nello stato ansioso permanente e nella depressione cronica. Numerosi studi hanno dimostrato che l’obesità può avere effetti dannosi sulla salute e sulla longevità di cani e gatti. Gli individui obesi possono essere affetti da malattie ortopediche e problemi cardiopolmonari. L’obesità seguita da anoressia prolungata, può portare nel gatto a lipidosi epatica idiopatica ed aumentare la probabilità di sviluppare un diabete mellito. La risposta alle infezioni nel cane, invece, diminuisce incrementando, ad esempio, l’incidenza di piodermiti. Inoltre, l’obesità comporta non solo un aumento delle difficoltà in sede di intervento chirurgico ma anche dei rischi anestesiologici. Le informazioni sui possibili rischi per la salute dell’animale, legati ad un’alimentazione non corretta, sono spesso ignorate dal proprietario. Questo ultimo, infatti, sostiene di amare così tanto il proprio cane/ gatto da non potergli negare l’affetto sotto forma di cibo. L’inadeguata alleanza terapeutica tra Medico Veterinario, Cliente e Pet è un problema di primaria importanza nella prevenzione e nel trattamento dell’obesità del cane e del gatto.

Una ricerca condotta da Hill’s presso i Medici Veterinari italiani nel 2008 ha evidenziato che la specie felina mostra una maggiore propensione all’eccesso di peso rispetto alla specie canina. Fattori di rischio per il sovrappeso e l’obesità sono la castrazione/ sterilizzazione e lo stile di vista domestico che interessa la maggior parte degli animali visitati ed in particolare i gatti. L’alimentazione industriale, somministrata in modo equilibrato e nelle giuste dosi, sembra prevenire in modo efficace sovrappeso ed obesità rispetto all’alimentazione casalinga e mista. Il sovrappeso e l’obesità sono diventati un importante problema per la salute pubblica che interessa tra il 20 ed il 40% della popolazione mondiale al di sopra dei 18 anni. Il quadro si instaura a partire dell’età scolare e l’incidenza nella popolazione adulta è più elevata tra i 20 e i 40 anni. La prevalenza della malattia aumenta progressivamente con l’età fino a stabilizzarsi intorno ai 60 anni. Uno stile di vita sedentario, un modello alimentare a elevata densità energetica e l’elevata disponibilità di alimenti rappresentano i principali fattori di rischio per la genesi della condizione. Sono fattori di rischio individuale per lo sviluppo dell’obesità, l’incremento ponderale precoce (nei primi 5 anni di vita), la presenza di obesità nei parenti di primo grado per i bambini, l’ingresso nel mondo del lavoro, la gravidanza e la menopausa. La strategia di prevenzione primaria, riguardo alle azioni che possono essere realizzate nell’ambito educativo, deve avere un inizio precoce nella prima infanzia, indipendentemente dal livello di rischio. Gli interventi preventivi devono favorire l’incremento dell’attività motoria ed un’educazione ad un’alimentazione sana ed equilibrata. L’eziologia dell’obesità ha componenti non solo genetiche ma anche sociali, culturali e psicologiche, quindi si intuisce come lo stile di vita e in particolare l’abitudine alimentare possa essere motivo di salute o di malattia per l’individuo.

L’OBESITÀ ED IL COMPORTAMENTO Le ricerche effettuate sul Dna mitocondriale da C. Vilà et al (1999) posizionano il processo di domesticazione del cane circa 135000 anni fa mentre P. Savolainen et al (2002) lo collocano intorno ai 40000 anni fa. La presenza del cane ha favorito la crescita della sicurezza del gruppo famigliare: la notte è una sentinella, il giorno collabora nella caccia e nel253


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magine di un animale solitario non corrisponde alla realtà. La convivenza con gli esseri umani spinge il gatto a creare una o più relazioni sociali con i componenti della famiglia, anche se la relazione preferenziale (che comporta ad esempio la condivisione del luogo di riposo) spesso è diretta nei confronti di un solo individuo. Se paragoniamo il modo di porsi di fronte ad un problema del cane e del gatto notiamo immediatamente una importante differenza di approccio. Il gatto tende a cercare delle soluzioni a pronto consumo rispetto ad un particolare nodo da sciogliere e successivamente cerca di produrre una risposta sulla base di un confronto dei requisiti strutturali del problema. Il cane, viceversa, cerca tempestivamente e prioritariamente il milieu collaborativi (R. Marchesini). Mentre il gatto sta lavorando sulla base di rapporti tra oggetti e di reciproco posizionamento spaziale e causale, il cane diversamente sta ragionando sulla base di rapporti tra soggetti in riferimento alle possibili dimensioni di relazioni sociali (R. Marchesini). Il gatto assaggia il problema con le mani, lo studia cercando una strategia da solista da approntare mentre il cane la prima cosa che fa è guardare il suo proprietario. Il cane è concentrato cognitivamente sulla concertazione e non sulla soluzione. Se il gatto eccelle come solutore di problemi il cane è un virtuoso delle relazioni sociali portato a ragionare in termini di rapporti intersoggettivi. Parleremo quindi di intelligenza enigmistica quando ci riferiamo al gatto e di intelligenza sociale quando ci riferiamo al cane (R. Marchesini).

la difesa del gruppo durante gli spostamenti. Il cane, nel periodo Paleolitico, ha influenzato lo stile di vita dell’uomo tanto che Allmann sostiene che la presenza di questo animale abbia contribuito a favorire l’affermazione dei sapiens rispetto ai neandertaliani. Gli effetti della co – evoluzione riguardano il miglioramento delle tecniche di caccia, un’alimentazione più ricca, un incremento riproduttivo a cui fa seguito un’espansione sia dell’uomo che del cane. Il cane è un animale sociale e tale carattere spicca su tutti gli altri al punto tale che da sempre l’uomo, quando ha voluto tratteggiare la fedeltà e l’immedesimazione nel gruppo, ha utilizzato il codice lupo – cane (R. Marchesini). Essere fortemente portato alle relazioni di gruppo significa molto di più della semplice affermazione che il cane ama stare in compagnia. È un po’ come se riferendoci al bisogno dell’uomo di realizzarsi noi liquidassimo il discorso nella frase “l’uomo desidera lavorare” (R. Marchesini). La socialità del cane è la sua dimensione di vita: essere un animale sociale e socio – riferito significa prima di tutto costruire dei rapporti molto stretti e delle assonanze, vale a dire che il cane cerca continuamente delle concertazioni e lì definisce il proprio posizionamento. La socio - referenza del cane lo porta ad interessarsi al gruppo: il cane è interessato a tutto ciò che facciamo, non ci perde d’occhio, capta ogni variazione del nostro umore o nel nostro stile di vita, se conosce le nostre abitudini ed i nostri gesti. Il cane impara nella quotidianità e per fare questo deve azzerare le distanze fisiche tra noi e lui: riusciremo a costruire un rapporto completo e articolato solo a patto di vivere il più possibile con lui. Per questo molto spesso le persone pur sforzandosi di dare al cane tutti i confort possibili si ritrovano a fallire il loro rapporto: per il cane la situazione ottimale è fare il maggior numero di attività insieme, poterlo accompagnare ovunque. Non c’è giardino, non ci sono giocattoli, non ci sono affettuosità che possano controbilanciare la mancanza della vita in comune (R. Marchesini). Per quanto riguarda il gatto, numerosi Autori sono concordi nel ritenere il Felis sylvestris lybica l’antenato del piccolo felino domestico. Nei siti archeologici risalenti all’Antico Impero (4000 – 5000 a.c.) i gatti hanno grosse dimensioni, in seguito la taglia si riduce. La mummificazione di questi animali compare nel periodo del Medio Impero (3000 – 2500 a.c.). In Turchia in siti archeologici risalenti al 10000 a.c., sono stati rinvenuti scheletri di gatti in prossimità di zone abitate da esseri umani. Nessuna traccia della relazione uomo – gatto ad eccezione di una statuetta raffigurante una donna con in braccio una sagoma che potrebbe rappresentare un gatto. Nel 2004 a Cipro è stata rinvenuta una sepoltura datata 6000 a.c. dove un essere umano si trova in compagnia di un gatto di taglia abbastanza importante. Il gatto, così come l’uomo, è stato ricoperto di conchiglie, piante, pietre preziose. Questo particolare testimonia il carattere intimo della relazione. Tra le civiltà che avevano un rapporto particolare con il gatto è importante quella egiziana ma molto probabilmente il gatto è arrivato da zone più orientali, dove non è presente il Felis sylvestris libica ma il Felis sylvestris ornata. Secondo alcuni Autori si tratta di un mélange tra le due sottospecie. Le osservazioni effettuate negli ultimi anni in relazione al comportamento del gatto hanno messo in evidenza che l’im-

L’OBESITÀ E LA RELAZIONE Alla base della convivenza con il cane ed il gatto si pone la creazione di una corretta relazione fondata sul pieno riconoscimento delle rispettive diversità. La figura del Medico Veterinario è fondamentale in questo processo. La consapevolezza di appartenere a specie diverse comporta la conoscenza delle necessità dei nostri compagni. Il cibo, l’acqua ed un riparo sono considerati fabbisogni fisiologici, primari per tutti gli esseri viventi. Gli animali possiedono anche fabbisogni di sicurezza e comportamentali poiché il cane ed il gatto sono soggetti dotati di una mente, con attitudini ed emozioni capaci di costruire la propria esperienza nel mondo. Riconoscere una identità sulla base del concetto simile/ diverso significa attribuire all’animale una cittadinanza, riconoscergli cioè un ruolo ed uno statuto nella relazione con l’uomo non sulla base del concetto di uguaglianza ma su quello di alterità (R. Marchesini). Secondo l’approccio zooantropologico, la relazione si differenzia dalla semplice interazione. La relazione è data dall’incontro/ confronto tra due soggetti basata su processi di interscambio, capace di costruire un legame, che determina delle modificazioni nello stato dei due partner. L’animale è accreditato come controparte sociale, come interlocutore, come soggetto, come diverso. L’animale partecipa alle situazioni relazionali poiché è in grado di assumere un ruolo e di comunicare nuovi contenuti: il pet non deve essere trasformato in un oggetto o in una macchina (reificazione) e non deve essere letto attraverso una proiezione dell’uomo (antropomorfizzazione). Da questo discende l’idea che la relazione con l’animale non può essere considerata intuitiva, ovve254


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zione del peso. È, dunque, possibile ipotizzare una mancanza di compliance (alleanza terapeutica) da parte dei proprietari di gatti obesi. Un recente studio (Human-Animal Relationship of Owners of Normal and Overweight Cats, Ellen Kienzle and Reinhold Berglery) ha coinvolto 120 proprietari di gatti, 60 animali normali e 60 in sovrappeso. L’inchiesta ha esaminato il rapporto uomo - animale, alcuni aspetti del comportamento del gatto ed alcune caratteristiche personali del proprietario (come ad esempio la salute e le abitudini alimentari). Dall’elaborazione dei dati raccolti con l’aiuto di un questionario è emerso che il legame tra proprietario/ gatto obeso è più stretto rispetto a quello esistente tra proprietario/ gatto normale: il proprietario parla con l’animale affrontando un gran numero di argomenti (lavoro, famiglia, amici e conoscenti), la convivenza con il gatto lo ha rassicurato e consolato, l’animale è considerato non solo un membro della famiglia ma anche un bambino da accudire. La maggior parte dei proprietari di gatti obesi guarda il proprio animale mentre mangia. Inoltre, i proprietari di gatti normali utilizzano il gioco come premio mentre i proprietari di gatti obesi offrono all’animale il cibo preferito. L’alimentazione ad libitum è un fattore di rischio controverso. Infatti, soltanto in alcuni studi è emerso che la possibilità di avere libero accesso al cibo è correlata all’obesità. La maggior parte dei proprietari di gatti obesi percepisce il proprio animale più magro di quanto non sia in realtà. Una possibile spiegazione può essere che il gatto non appare quasi mai in pubblico e, di conseguenza, le persone commentano saltuariamente la condizione fisica dell’animale. A differenza dei dati ottenuti dalla ricerca svolta sui proprietari di cani la maggior parte dei proprietari di gatti obesi è di sesso femminile. Le osservazioni raccolte mostrano che la somministrazione del cibo potrebbe essere una piacevole forma di comunicazione e d’interazione con il gatto: il proprietario di un gatto obeso interpreta ogni esigenza dell’animale come una richiesta di cibo. Gli Autori hanno interpretato le differenze evidenziate nella relazione tra proprietario/ cane – gatto obeso come indicatori di eccessiva umanizzazione dell’animale. La sensibilità della nostra specie verso i segnali giovanili emessi dai cuccioli provoca nei loro confronti un comportamento di adozione, di protezione e di cura. La dimensione affettiva, basata sulla somministrazione del cibo e di affetto, non solo predispone all’aumento di peso del pet ma è insufficiente per soddisfare i fabbisogni del cane e del gatto. Il cibo, le carezze, il gioco, la collaborazione, la condivisione di esperienze e l’incontro con cospecifici sono alcuni tra i principali elementi di interscambio all’interno della relazione. Per raggiungere un legame equilibrato ed appagante è necessario integrare la dimensione affettiva con le altre dimensioni di relazione (ludica, epistemica, sociale): il partner umano deve proporre numerose attività al pet in modo da creare su di sé un polo di interesse (R. Marchesini).

ro raggiungibile attraverso un semplice processo proiettivo. La relazione va costruita con pazienza, umiltà, voglia di conoscere, capacità di mettersi sotto critica, disposizione all’ascolto ed all’osservazione (R. Marchesini). Uomo e animale si incontrano “su specifiche frequenze” chiamate dimensioni di relazione. Tra queste è possibile evidenziare: • La dimensione affettiva (è caratterizzata da un interscambio di affettuosità, dalla valenza di protezione e di sicurezza, dal sentirsi accreditati e riconosciuti); • La dimensione ludica (è caratterizzata da una cornice di interscambio basata sul gioco, sulla finzione, sulla fluidità dei ruoli, sul divertimento, sulla distrazione);. • La dimensione epistemica (è caratterizzata dalla priorità delle direttrici di conoscenza, per la presenza di interesse, di attenzione, riflessione, interscambio di sapere); • La dimensione sociale (riguarda il piacere di condividere, di non essere solo e di sentirsi aiutato, di costruire una performance in coppia, dalla capacità di agire in modo sincrono e di collaborare) Una delle dimensioni di base della relazione uomo – animale è quella affettiva: l’interscambio è basato sulla protezione, sulla rassicurazione, sull’offerta/ richiesta di aiuto, sulla condivisione emozionale. L’area affettiva mostra differenze d’espressione che variano a seconda del ruolo assunto dal fruitore: epimeletico (offre protezione, cura, sicurezza, alimento), et – epimeletico (chiede protezione, conferme, sicurezza, alimento). Il partner umano mostra un comportamento protettivo nei confronti dell’animale assumendo il ruolo del genitore e mostra l’atteggiamento tipico dell’accudimento parentale. L’obiettivo della relazione è il bilanciamento delle diverse componenti (equilibrio della relazione). Al fine di valutare l’importanza della relazione uomo – animale nella genesi dell’obesità, un recente studio pilota (A Comparison of the Feeding Behavior and the Human–Animal Relationship in Owners of Normal and Obese Dogs, Ellen Kienzle, Reinhold Bergler and Anja Mandernach) ha reclutato 60 coppie proprietario/ cane obeso e ad altrettante formate da proprietario/ cane normale. Dall’elaborazione dei dati raccolti con l’aiuto di un questionario, è emerso che il legame tra proprietario/ cane obeso è più stretto rispetto a quello esistente tra proprietario/ cane normale: il proprietario ha meno paura di contrarre malattie, affronta con l’animale un gran numero di argomenti di discussione, dorme spesso con il cane, osserva a lungo il pet mentre mangia, somministra un numero elevato di pasti e spuntini al cane, considera poco importante l’esercizio fisico ed il lavoro collaborativo. Queste osservazioni indicano che la somministrazione del cibo è una piacevole forma di comunicazione e d’interazione con il cane: il proprietario di un cane obeso interpreta ogni esigenza dell’animale come una richiesta di cibo. Inoltre, appare poco attento alla propria salute e trasferisce non solo le proprie abitudini alimentari all’animale ma anche la mancanza di apprezzamento per una buona condizione fisica. E. Kienzle e R. Berglery hanno osservato che solo una piccola percentuale di gatti obesi riesce a perdere peso utilizzando diete dimagranti. Tuttavia, studi clinici controllati eseguiti in laboratorio hanno mostrano che la restrizione alimentare consente ai gatti coinvolti di raggiungere una ridu-

L’OBESITÀ, IL GIOCO E LA COLLABORAZIONE E. Kienzle e R. Berglery hanno evidenziato che un approccio psicologico, come la sostituzione di un comportamento 255


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associato all’alimentazione con un comportamento di gioco, può migliorare la compliance dei proprietari di cani e gatti che partecipano a programmi di riduzione del peso. Il partner umano deve coinvolgere il pet nel gioco, lasciandosi trasportare a propria volta: l’attività scelta deve essere piacevole ed interessante per entrambi. Le emozioni coinvolte devono essere positive (come ad esempio la gioia) in modo da favorire la partecipazione dell’animale, legando il ricordo ad un’esperienza gradevole. I giochi proposti devono stimolare la capacità collaborativa (fare qualche cosa insieme) e cognitiva (riflettere e trovare una soluzione) aumentando allo stesso tempo le abilità motorie (il movimento e la coordinazione) del cane e del gatto. È necessario scegliere l’attività più adatta in base all’età ed alle capacità del pet: ogni gioco deve essere di facile soluzione in modo che la corretta esecuzione dell’esercizio aumenti nell’animale l’autostima e la fiducia in se stesso. È opportuno ricordare che il cane ed il gatto non sanno che cosa desideriamo quando proponiamo un’attività o un gioco: è necessario procedere per gradi, con pazienza iniziando dall’esercizio più semplice per arrivare al più complesso. Un bocconcino appetitoso è la migliore ricompensa per il pet poiché motiva ed incentiva l’apprendimento. I giochi possono essere realizzati a casa e, per quanto riguarda il cane, anche durante la passeggiata. Le sessioni devono essere brevi (pochi minuti) e terminare con un esercizio eseguito con successo. È possibile trasformare gli oggetti che ci circondano in ostacoli da aggirare, da saltare o da esplorare: salire sopra o passare sotto una sedia od una panchina, fare lo slalom tra i pali della luce, saltare un muretto, passare sopra ad una grata e così via. Inoltre, il nostro corpo può diventare una palestra dove braccia e gambe diventano ostacoli da aggirare e saltare per il cane ed il gatto. È possibile sottoporre al pet semplici rompicapo per stimolare l’acquisizione di strumenti cognitivi che l’animale potrà utilizzare nella vita quotidiana per imparare, ad esempio, a gestire le emozioni senza esserne sopraffatto, riducendo l’eccitazione e favorendo la calma e la tranquillità.

ta in cambio di passeggiate nei luoghi graditi al cane (area cani, parco, centro città) oppure dell’arricchimento ambientale per il gatto (fontanella per l’acqua, giochi in elevazione, graffiatoio, tunnel). Inoltre, è fondamentale aprire nuove dimensioni di relazione in modo da ridimensionare il volume della dimensione affettiva al fine di bilanciare le diverse componenti. Nella progettazione di un programma di restrizione alimentare, è opportuno ricordare le caratteristiche etologiche delle specie in esame. Ad esempio, il comportamento alimentare del gatto presenta numerose differenze rispetto al cane. Numerosi Autori definiscono il gatto un animale sbocconcellatore poiché nelle 24 ore effettua da 8 a 16 piccoli pasti. Questo animale, infatti, è un cacciatore solitario che cattura numerose prede di piccole dimensioni. Somministrare il cibo ad orari può costituire un fattore di rischio per l’insorgenza di patologie del comportamento come l’Ansia da Luogo Chiuso (caratterizzata dalla comparsa di un comportamento di aggressione predatoria e per irritazione a carico dei proprietari), la Sindrome della Tigre (caratterizzata dalla comparsa di un comportamento di aggressione predatoria a carico dei proprietari all’ora della somministrazione del pasto), l’Ansia da Coabitazione (caratterizzata da un comportamento di aggressione per irritazione a carico del gatti conviventi) e nel gatto anziano alcune demenze senili. Inoltre, il disagio legato alla dieta può indurre il peggioramento delle malattie del comportamento preesistenti. Il cane è un predatore che caccia in gruppo e cattura animali di grandi dimensioni. Inoltre, il pasto assume per questa specie, un significato sociale. La restrizione alimentare può provocare un peggioramento delle patologie del comportamento già in atto a causa dell’aumento dello stato ansioso legato alla sensazione di disagio indotta dalla fame. Ad esempio un cane affetto da squilibrio gerarchico (alterazione del ruolo e del rango all’interno del gruppo uomo – cane/ cane - cane) potrebbe sviluppare una Sociopatia stadio 1 (patologia caratterizzata dalla presenza di numerosi sintomi tra i quali anche un comportamento di aggressione per irritazione e gerarchico a carico dei proprietari o dei cani conviventi). È opportuno, quindi, eseguire un’attenta valutazione comportamentale in modo da prevenire l’insorgenza di alcune malattie del comportamento o il peggioramento delle patologie presenti.

L’OBESITÀ ED IL MEDICO VETERINARIO Il Medico Veterinario svolge un ruolo fondamentale nella prevenzione e nella terapia dell’obesità. Le tabelle nutrizionali, il Body Condition Score e la visita comportamentale sono gli strumenti che il professionista possiede. Uno studio realizzato negli USA presso i Medici Veterinari ha quantificato la compliance (alleanza terapeutica) in sei aree differenti: test e prevenzione della filariosi cardiopolmonare, profilassi dentale, diete terapeutiche, esami di screening per anziani, vaccinazioni di base per cane e gatto e screening preanestetico. I risultati mostrano che le più alte percentuali di mancata compliance sono in relazione alle diete terapeutiche per gatti (82%) e per cani (81%). Durante la messa in atto del processo terapeutico la restrizione alimentare può essere alla base dell’opposizione del Cliente, del Cane e del Gatto al cambiamento. È necessaria una negoziazione tra ciò che il Medico ed il Cliente desiderano ottenere e ciò che piace all’animale: al esempio la die-

CONCLUSIONI Anche in Medicina Umana, il concetto di dimensione di relazione (madre – figlio) assume una sempre maggior importanza. Negli anni passati le madri sono state “educate” a concentrarsi soprattutto sulla dimensione dietetica (qualità e quantità degli alimenti) a scapito della dimensione relazionale. Ai giorni nostri la tendenza sembrerebbe piuttosto opposta, in quanto basata su un’alimentazione a richiesta, con lo scopo di proteggere la relazione madre-figlio, così a lungo trascurata. Il Medico Veterinario, durante la progettazione di un piano di restrizione alimentare, deve tenere in considerazione numerosi fattori: la presenza di patologie del comportamento, le esigenze etologiche del pet e la dimensione prevalente nella relazione uomo – animale. Così facendo il processo terapeutico andrà a buon fine. 256


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Bibliografia

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Indirizzo per la corrispondenza: Sabrina Giussani E-mail: sabrinagiussani@yahoo.it - Tel. 3331861226

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Capire la patologia periapicale per poterla diagnosticare Cecilia Gorrel BSc, MA, Vet MB, DDS, DEVDC, MRCVS, Hon FAVD European and RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry, Pilley, Hampshire, England, United Kingdom

Reazioni pulpari

tra queste tre possibilità richiede l’esame istopatologico del tessuto. In odontoiatria veterinaria, l’istopatologia delle lesioni periapicali viene effettuata di rado. Il trattamento per tutte e tre le entità è lo stesso, ovvero una terapia endodontica o, nel caso subentrino dei fattori complicanti, ad es. una periodontite avanzata, l’estrazione. Occorre ricordare che non tutte le rarefazioni apicali nel cane e nel gatto sono patologiche. Nel cane, l’osso periapicale dei canini normali spesso sembra radiotrasparente. Si deve sempre effettuare un confronto con gli altri denti dello stesso tipo nello stesso animale. Di solito, tuttavia, risulta patologica un’area radiotrasparente distintamente rotonda. Talvolta si può rilevare una sclerosi periapicale, piuttosto che una radiotrasparenza, che deriva da una infiammazione/necrosi cronica della polpa. La cisti periapicale di solito compare come sequela di un granuloma periapicale. È una vera cisti, dato che la lesione è formata da una cavità patologica, spesso piena di liquido, rivestita da epitelio. Le cisti periapicali si ingrossano perché si instaura un gradiente osmotico tra il loro lume e i liquidi tissutali nel tessuto connettivo sottostante. Queste lesioni possono diventare molto grandi a spese del tessuto osseo adiacente, che viene riassorbito (per la pressione esercitata dalla cisti). Un ascesso periapicale non trattato può portare a complicazioni come osteomielite e cellulite mediante diffusione dell’infezione. Si può osservare la comparsa dello sbocco di un tragitto fistoloso sulla cute o sulla mucosa orale. Le lesioni periapicali possono essere del tutto asintomatiche o estremamente dolorose. Il granuloma e la ciste periapicale raramente causano un grave disagio, ma possono andare incontro ad un’esacerbazione ed evolvere in un ascesso periodontale, che di solito è una condizione estremamente dolorosa. I segni clinici indicativi di patologia periapicale sono frequentemente insidiosi e non sono rilevati dal proprietario. Spesso, è soltanto a trattamento ultimato che questi osserva un netto miglioramento nel comportamento generale dell’animale. Di conseguenza, le lesioni periapicali confermate mediante radiografia devono essere trattate anche se il paziente non mostra segni clinici evidenti di dolore o disagio. Analogamente, i denti che presentano alterazioni di colore con una polpa necrotica devono essere trattati prima che si sviluppi una patologia periapicale. Una volta formulata la diagnosi, i pazienti con patologia necrotica della polpa e periapicale devono essere sottoposti appena possibile ad un trattamento endodontico (che di solito richiede l’invio ad uno specialista in odontoiatria veterinaria) od all’estrazione dei denti colpiti.

Il dente immaturo ha una cavità pulpare ampia. Man mano che matura, viene deposta la dentina secondaria e la cavità pulpare diventa più stretta. Si noti che i profili della camera pulpare seguono la forma della corona, per cui le corna pulpari sono sempre relativamente vicine alla superficie. Di conseguenza, la frattura della corona molto spesso comporta l’esposizione della polpa negli animali anziani come in quelli giovani. Indipendentemente dalla riduzione della dimensione della cavità pulpare, che è associata ad una deposizione continua della dentina secondaria man mano che gli animali invecchiano, esistono anche condizioni che accelerano la velocità di deposizione della dentina secondaria, riducendo così prematuramente la dimensione della cavità pulpare. Attrito ed abrasione sono due condizioni comuni che comportato un restringimento della cavità pulpare. Alterazioni ed riduzione della camera pulpare e dei canali si possono verificare in caso di trauma o malattia. In alcuni casi, il trauma ad un dente comporterà un’obliterazione completa della camera pulpare e dei canali delle radici. Più di rado, l’obliterazione è parziale, con la camera pulpare che mantiene la dimensione e la forma che aveva al momento del trauma, ed i canali delle radici che si ostruiscono completamente. La forza ortodontica può comportare un’obliterazione parziale o completa della cavità pulpare. I traumi che causano infiammazione e degenerazione/necrosi della polpa giustificano il riscontro di molte cavità pulpari abnormemente grandi, dato che la produzione di dentina termina quando la polpa è cronicamente infiammata o necrotica.

Malattia periapicale La patologia nell’area che circonda l’apice di una radice, cioè la patologia periapicale, nella maggior parte dei casi è la sequela di una pulpite o una necrosi pulpare cronica. L’infezione può essere di origine ematogena, ma questi casi sono rari. Il primo riscontro radiografico di patologia periapicale è l’ampliamento dello spazio legamentoso periodontale nella regione apicale. Questo allargamento è dovuto all’infiammazione del legamento periodontale apicale. Se non trattata, la periodontite periapicale progredisce fino a coinvolgere il tessuto osseo sottostante, con conseguente distruzione dell’osso, che viene sostituito da tessuto molle. Questo si evidenzia come una rarefazione apicale sulla radiografia. Il tessuto molle può essere un tessuto di granulazione (granuloma periapicale), una cisti (cisti periapicale o radicolare) o un ascesso (ascesso periapicale). La differenziazione definitiva 258


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Lesioni combinate periodontiche ed endodontiche

Osteomielite L’osteomielite mascellare/mandibolare non è una malattia particolarmente comune nel cane e nel gatto. L’infezione dell’origine del dente non è la sola causa di osteomielite nella mascella o nella mandibola, ma probabilmente è quella più frequente. L’osteomielite poi si verifica come un’estensione della patologia pulpare e periapicale. La malattia può essere acuta, subacuta o cronica e presenta un decorso clinico diverso a seconda della sua natura. Sulla radiografia, l’osteomielite può essere molto difficile da differenziare dalle lesioni ossee neoplastiche. La biopsia e l’esame istopatologico dell’osso sono in realtà il solo modo per giungere ad una diagnosi definitiva. Una volta diagnosticata, l’osteomielite è trattata rimuovendo la causa (estrazione o possibilmente una terapia endodontica dei denti con malattia pulpare o periapicale) in combinazione con una terapia antibiotica. La scelta dell’antibiotico deve essere basata sui risultati dell’esame colturale e dell’antibiogramma. La durata del trattamento antibiotico richiesto di solito è maggiore di quella di tutte le altre infezioni orali. Le manifestazioni cliniche della malattia pulpare e periapicale sono variabili. La radiografia è indispensabile; senza di essa non si possono rilevare la presenza e l’estensione dei processi patologici periapicali. Comprendere la fisiopatologia dei tessuti coinvolti consente di prevedere il probabile esito dopo i traumi. In alcuni casi, ad es. nella frattura non complicata della corona, la patologia può aver bisogno di qualche tempo per svilupparsi ed è necessario un monitoraggio radiografico ad intervalli prestabiliti. Occorre sottolineare che un dente colpito da malattie pulpari e periapicali va sempre trattato, cioè non può solo essere ignorato. Il trattamento consiste nel rimuovere la polpa infiammata. Questo si può ottenere sia mediante estrazione (viene rimosso l’intero dente) che con la terapia endodontica (si rimuove la polpa, si esegue la revisione chirurgica del canale della radice, si disinfetta e poi si riempie) e con la ricostruzione (il canale della radice viene quindi isolato dalla cavità orale).

Tra la polpa e il periodonzio esistono possibili vie di comunicazione. Queste sono rappresentate da tubuli di dentina denudati, canali pulpari laterali e/o accessori e forame apicale. Di conseguenza, una lesione peripicale può avere un’origine periodontale e una lesione di tipo periodontale può originare dalla polpa. Un’altra possibilità è che un processo patologico sia il risultato di una combinazione di una patologia endodontica e periodontale. Le lesioni sono classificate in relazione all’eziologia come segue: Una lesione di Classe I, o lesione endodontica-periodontica, è endodontica in origine, cioè la patologia inizia nella polpa e progredisce fino a coinvolgere il periodonzio. Una lesione di Classe II, o lesione periodontica-endodontica, è periodontica in origine, cioè la patologia inizia nel periodonzio e progredisce fino a coinvolgere la polpa. Una lesione di Classe III, o vera lesione combinata, è una fusione di lesioni periodontiche ed endodontiche indipendenti. La diagnosi dipende dall’esame clinico e radiografico. La prognosi per la ritenzione a lungo termine del dente si basa sulla classificazione sopra descritta. Le lesioni di Classe I hanno una prognosi migliore, poiché il trattamento endodontico può portare alla risoluzione dell’estensione periodontale dell’infiammazione. In contrasto, le lesioni di Classe II e III richiedono un trattamento endodontico ed anche un’estesa terapia periodontale e la distruzione periodontale è spesso troppo estesa per poter essere trattata. I denti con una grave distruzione del periodonzio devono essere estratti, qualunque sia la causa d’origine. Altre opzioni di trattamento sono la terapia endodontica e/o quella periodontale, che dipendono dalla classificazione. Si raccomanda l’invio ad uno specialista in odontoiatria veterinaria.

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Understanding and predicting pulp and periapical tissue reactions Cecilia Gorrel BSc, MA, Vet MB, DDS, DEVDC, MRCVS, Hon FAVD European and RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry, Pilley, Hampshire, England, United Kingdom

Pulpal reactions

dogs and cats. The periapical bone of normal canines often appears radiolucent in the dog. Comparison should always be made with other teeth of the same type in the same animal. A distinctly round radiolucent area, however, is usually pathological. Periapical sclerosis, instead of radiolucency, as a result of a chronically inflamed/necrotic pulp can sometimes be seen. The periapical cyst usually occurs as a sequel to the periapical granuloma. It is a true cyst, since the lesion consists of a pathological, often fluid-filled, cavity that is lined by epithelium. Periapical cysts enlarge due to the osmotic gradient set up between the lumen of the cyst and tissue fluids in the surrounding connective tissue. These lesions can become very large at the expense of the adjacent bone tissue, which is resorbed (due to pressure from the cyst). An untreated periapical abscess can lead to complications such as osteomyelitis and cellulitis through spread of the infection. A fistulous tract opening on the skin or oral mucosa may develop. Periapical lesions may be entirely asymptomatic or excruciatingly painful. The periapical granuloma and periapical cyst rarely cause severe discomfort but they may undergo exacerbation and develop into a periodontal abscess, which usually is an extremely painful condition. The clinical signs indicative of periapical pathology are often insidious and not noticed by the owner. It is often only after completion of treatment that the owner reports a dramatic improvement in the animal’s general demeanour. Consequently, periapical lesions confirmed by radiography should be treated even if the animal is not showing obvious signs of pain or discomfort. Similarly, discoloured teeth with a necrotic pulp need to be treated before periapical pathology develops. Once diagnosed, patients with necrotic pulps and periapical pathology should receive endodontic treatment (which generally requires referral to a specialist in veterinary dentistry) or extraction of the affected tooth as soon as possible.

The immature tooth has a wide pulp cavity. As the tooth matures, secondary dentine is laid down and the pulp cavity becomes narrower. Note that the contours of the pulp chamber mimic the shape of the crown so the pulpal horns are always relatively close to the surface. Consequently, crown fracture very often involves exposure of the pulp in the older animal as well as the young. Apart from the reduction in size of the pulp cavity, which is associated with continued deposition of secondary dentine, as the animal gets older, there are also conditions that accelerate the rate of deposition of secondary dentine, thus prematurely reducing the size of the pulp cavity. Attrition and abrasion are two common conditions resulting in a narrow pulp cavity. Alterations and decrease of the pulp chamber and canals can occur with injury or disease. In some instances, injury to a tooth will result in complete obliteration of the pulp chamber and root canals. More unusually, the obliteration is partial with the pulp chamber retaining the size and shape it had at the time of the injury, and the root canals becoming completely obliterated. Orthodontic force can result in partial or complete obliteration of the pulp cavity. Injuries that cause inflammation and degeneration/necrosis of the pulp account for many abnormally large pulp cavities as dentine production ceases when the pulp is chronically inflamed or necrotic.

Periapical disease Pathology in the area surrounding the apex of a root, i.e. periapical pathology, is most commonly a sequel to chronic pulpitis or pulp necrosis. The source of the infection may be blood borne, but such cases are rare. The earliest radiographic evidence of periapical pathology is widening of the periodontal ligament space in the apical region. This widening is due to inflammation of the apical periodontal ligament. If untreated, the apical periodontitis progresses to involve the surrounding bone resulting in destruction of the bone, which is replaced by soft tissue. This is evident as an apical rarefaction on a radiograph. The soft tissue may be granulation tissue (periapical granuloma), cyst (periapical or radicular cyst) or abscess (periapical abscess). Definitive differentiation between these three possibilities requires histopathology of the tissue. In veterinary dentistry, histopathology of periapical lesions is rarely performed. Treatment for all three entities is the same, i.e. endodontic therapy or if there are complicating factors, e.g. advanced periodontitis, then extraction. Remember that not all apical rarefaction is pathological in

Combined periodontic and endodontic lesions There are possible pathways of communication between the pulp and the periodontium. These are denuded dentine tubules, lateral and/or accessory pulp canals and at the apical foramen. Consequently, a periapical lesion may have a periodontal origin and a periodontal type lesion may originate from the pulp. Another possibility is that a lesion is the result of a combination of endodontic and periodontal pathology. The lesions are classified according to aetiology as follows: 260


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or chronic and presents a different clinical course depending on its nature. Osteomyelitis can be very difficult to differentiate from neoplastic bone lesions on radiography. Biopsy and histopathological examination of the bone is really the only way to reach a definitive diagnosis. Once diagnosed, osteomyelitis is treated by removing the cause (extraction or possibly endodontic therapy of teeth with pulp and periapical disease) in combination with antibiotic therapy. The choice of antibiotic should be based on the results of culture and antibiogram. The duration of antibiotic treatment required is usually longer than for other oral infections. The clinical manifestations of pulp and periapical disease are variable. Radiography is mandatory; without radiographs the presence and extent of periapical disease processes will not be detected. Understanding the patholophysiology of the tissues involved allows prediction of likely outcome following injuries. With some injuries, e.g. uncomplicated crown fracture, pathology may take some time to develop and radiographic monitoring is required at scheduled intervals. It must be emphasised that a tooth affected by pulp and periapical diseases should always be treated, i.e. it cannot just be ignored. The treatment is to remove the inflamed pulp. This can be achieved either by extraction (the whole tooth is removed) or endodontic therapy (the pulp is removed, the root canal is debrided and disinfected and then filled) and restoration (the root canal is thus isolated from the oral cavity).

A Class I lesion, or endodontic-periodontic lesion, is endodontic in origin, i.e. pathology begins in the pulp and progresses to involve the periodontium. A Class II lesion, or periodontic-endodontic lesion is periodontic in origin, i.e. pathology begins in the periodontium and progresses to involve the pulp. A Class III lesion, or true combined lesion, is a fusion of independent periodontic and endodontic lesions. Diagnosis depends on clinical examination and radiography. The prognosis for long-term retention of the tooth is based on the above classification. Class I lesions have a better prognosis as endodontic treatment may lead to resolution of the periodontal extension of the inflammation. In contrast, Class II and III lesions require endodontic treatment as well as extensive periodontal therapy and the periodontal destruction is often too extensive to be amenable to treatment. Teeth with severe destruction of the periodontium should be extracted whatever the original cause. Other treatment options are endodontic therapy and/or periodontal therapy depending on the classification. Referral to a specialist in veterinary dentistry is recommended.

Osteomyelitis Osteomyelitis of the jawbones is not a particularly common disease in dogs and cats. Infection of dental origin is not the only cause of osteomyelitis in the upper jaw or mandible, but it is probably the most frequent cause. Osteomyelitis then occurs as an extension of pulp and periapical pathology. The disease may be acute, subacute

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Non è difficile: la cura canalare per risolvere o prevenire la patologia periapicale Cecilia Gorrel BSc, MA, Vet MB, DDS, DEVDC, MRCVS, Hon FAVD European and RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry, Pilley, Hampshire, England, United Kingdom

Il trauma (meccanico, chimico, termico, infettivo) subito da un dente spesso esita in un’infiammazione della polpa (pulpite). A seconda del tipo di trauma, della sua gravità e durata, la pulpite può essere reversibile, ma spesso non è così e l’infiammazione diventa irreversibile. Il risultato di una pulpite irreversibile non trattata è la necrosi pulpare, seguita da diffusione dell’infiammazione, che colpisce il periodonzio periapicale (periodontite apicale) e l’osso periapicale esitando in una distruzione ossea intorno all’apice della radice (malattia periapicale). Un dente colpito da malattie pulpari e periapicali deve sempre essere trattato, cioè non può essere semplicemente ignorato. Il trattamento consiste nel rimuovere la polpa infiammata. Ciò può richiedere sia un’estrazione (con rimozione dell’intero dente) che una terapia endodontica. Quest’ultima è il trattamento della polpa del dente (Endo = interno; -dontico= dente). Esistono tre trattamenti pulpari, ciascuno dei quali presenta delle indicazioni specifiche. Questi sono: 1. incappucciamento diretto della polpa 2. pulpectomia parziale con terapia diretta di incappucciamento diretto della polpa 3. terapia convenzionale del canale della radice I primi due tipi di trattamento sono anche detti trattamenti vitali della polpa. Sono indicati nei denti immaturi come intervento temporaneo. L’obiettivo è mantenere la vitalità pulpare abbastanza a lungo da arrivare ad una maturazione del dente sufficiente per consentire la terapia canalare convenzionale. Quest’ultima è il tipo più comunemente indicato di trattamento endodontico. Implica rimozione totale del tessuto pulpare, pulpectomia totale, pulizia e riempimento del canale della radice, seguita da ripristino del dente. La terapia canalare convenzionale della radice è indicata quando esiste o può diventare irreversibile una patologia pulpare, (ad es. pulpite generalizzata o necrosi pulpare, spesso in combinazione con un coinvolgimento periapicale) nel dente maturo permanente. Come già detto, i denti permanenti immaturi meritano una considerazione speciale e saranno trattati separatamente. Gli obiettivi della terapia canalare convenzionale sono: 1. pulizia e disinfezione della camera pulpare e dei canali della radice. 2. riempimento dei canali della radice con un materiale non irritante, antibatterico, seguito da sigillo dell’apice 3. chiusura dell’accesso e dei siti esposti con un materiale ricostruttivo adatto Nella preparazione e nello riempimento dei canali della

radice sono stati impiegati molti materiali e metodi diversi. In termini semplici, la terapia canalare della radice implica la rimozione della polpa, rimpiazzandola con materiale inerte e ricostruendo il dente. La polpa infiammata o morta viene rimossa utilizzando lime speciali. Una volta che la polpa sia stata eliminata, il canale della radice viene pulito sia meccanicamente, con le lime, che chimicamente, con un disinfettante. Il canale della radice pulito e disinfettato viene quindi riempito con materiale inerte e si ricostruisce la corona con materiale idoneo. Il dente non viene ricostruito nella sua forma e dimensione originale, perché le forze del morso nel cane sono molto maggiori che nell’uomo ed un eventuale tentativo di ricostruzione integrale probabilmente non andrebbe a buon fine. In questa presentazione saranno dimostrate varie tecniche di pulizia e otturazione del canale della radice, utilizzando dei video clip. In molti casi, è richiesto un trattamento in due stadi. L’intera procedura viene effettuata in anestesia generale, sotto stretto controllo radiografico. Ciò richiede tempo, e ogni passaggio deve essere realizzato con un dettaglio meticoloso per garantire un esito di successo. Il risultato della terapia convenzionale del canale della radice deve essere monitorato radiograficamente 6-12 mesi dopo l’intervento. Ciò potrà richiedere anche un’anestesia generale. In questa fase, il riscontro di un processo patologico intorno alla punta della radice indica la necessità di un’ulteriore terapia endodontica o dell’estrazione del dente. L’ulteriore terapia endodontica di norma consiste nel ripetere la terapia del canale della radice, possibilmente in concomitanza con una chirurgia endodontica (di solito rimuovendo la punta della radice e sigillando il canale radicale anche da questa direzione).

Considerazioni particolari sui denti immaturi In caso di fratture recenti della corona con esposizione della polpa nei denti immaturi sono indicate la pulpectomia parziale e l’incappucciamento diretto della polpa. Un dente immaturo presenta una parete di dentina sottile, ed un apice aperto, che assicura un buon apporto di sangue alla polpa. Il trattamento mira a mantenere la vitalità della polpa, perché ciò è necessario per continuare lo sviluppo del dente. I denti immaturi necrotici, se devono essere conservati, richiedono un trattamento endodontico. La procedura consiste in un adattamento della terapia convenzionale del canale della radice, come già descritto per i denti permanenti maturi. Il tessuto pulpare necrotico viene delicatamente rimosso e la 262


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effettuare un trattamento convenzionale del canale della radice. Quest’ultimo può essere realizzato soltanto se l’apice è chiuso. Se è ancora aperto, e la chiusura non può essere stimolata con ripetuti trattamenti di medicazione con idrossido di calcio, può essere possibile ottenere una chiusura dell’apice impiegando un approccio chirurgico e introducendo un’otturazione radicale in modo retrogrado. Va notato che sono richiesti numerosi episodi di anestesia generale e quindi nella maggior parte dei casi l’estrazione di un dente immaturo con una polpa necrotica è la miglior strategia d’azione. La procedura di salvataggio sopra descritta è indicata proprio soltanto per denti permanenti di importanza strategica che abbiano già raggiunto un certo grado di maturazione. Si deve rilevare che in un animale adulto possono essere predenti dei denti immaturi se un trauma ha causato una necrosi pulpare nel periodo di sviluppo. Il trattamento di questi denti è lo stesso di qualsiasi dente permanente immaturo, indipendentemente dall’età reale dell’animale.

camera pulpare ed il canale della radice sono puliti accuratamente. È importante rimuovere tutto il tessuto necrotico, che di solito si estende leggermente oltre l’apice aperto verificabile mediante radiografia. Tradizionalmente, il canale della radice veniva zaffato con polvere sterile di idrossido di calcio o pasta, in modo che si estendesse appena oltre l’apice. Al momento, ha dimostrato risultati promettenti, superiori a quelli dell’idrossido di calcio, l’impiego di minerale triossido aggregato (MTA). Attuando questa procedura, è possibile stimolare un certo grado di genesi dell’apice (apexogenesi: sviluppo normale della lunghezza della radice e dell’apice) o di apecificazione (chiusura della radice stimolata dal trattamento). La sede di esposizione viene sigillata con un materiale da ricostruzione. Il dente viene strettamente monitorato e la medicazione di idrossido di calcio viene cambiata approssimativamente ogni sei mesi, perché una fresca risulta più efficace per stimolare l’apexogenesi e l’apecificazione. Quando non può essere riscontrato radiograficamente uno sviluppo ulteriore e l’apice è chiuso, occorre

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Conventional root canal therapy techniques Cecilia Gorrel BSc, MA, Vet MB, DDS, DEVDC, MRCVS, Hon FAVD European and RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry, Pilley, Hampshire, England, United Kingdom

Trauma to a tooth (mechanical, chemical, thermal, infective) often results in pulpal inflammation (pulpitis). Depending on the type of trauma, its severity or duration, the pulpitis may be reversible, but often this is not the case and the inflammation becomes irreversible. The result of untreated irreversible pulpitis is pulp necrosis, followed by spread of the inflammation to affect the apical periodontium (apical periodontitis) and the periapical bone resulting in bone destruction around the apex of the root (periapical disease). A tooth affected by pulp and periapical diseases should always be treated, i.e. it cannot just be ignored. The treatment is to remove the inflamed pulp. This can be achieved either by extraction (the whole tooth is removed) or endodontic therapy. Endodontics is the treatment of the pulp of the tooth (Endo- = inside; -dontic = tooth). There are three pulpal treatments, each of which has specific indications. They are: 1. Pulp capping 2. Partial pulpectomy with direct pulp capping 3. Conventional root canal therapy The first two types of treatment are also called vital pulp treatment. They are indicated in immature teeth as a temporary treatment. The goal is to maintain pulp viability for long enough to get sufficient tooth maturation for conventional root canal therapy to be performed. Conventional root canal therapy is the most commonly indicated type of endodontic treatment. It involves total removal of pulp tissue, i.e. total pulpectomy, cleaning and filling of the root canal, followed by tooth restoration. Conventional root canal therapy is indicated when there is or may be irreversible pulp pathology, (e.g. generalized pulpitis or pulp necrosis, often in combination with periapical involvement) in the mature permanent tooth. As already mentioned immature permanent teeth are a special consideration and are dealt with separately. The objectives of conventional root canal therapy are: 1. To clean and disinfect the pulp chamber and root canals. 2. To fill the root canal(s) with a non-irritant, antibacterial material thus sealing the apex 3. To close the access and exposure sites with a suitable restorative material Many different methods and materials are employed in the preparation and filling of root canals. In simple terms, root canal therapy involves removing the pulp, replacing it with an inert material and restoring the tooth. The inflamed or dead pulp is removed using special files. Once the pulp has

been removed, the root canal is cleaned, both mechanically with files but also chemically with a disinfectant. The clean and disinfected root canal is then filled with inert material and the crown is restored with a suitable restorative material. The tooth is not restored to its original shape and size as the biting forces in the dog are much greater than those in man and the restoration would be likely to fail if this was attempted. In the presentation different techniques for cleaning and obturating the root canal will be demonstrated using video clips. In many cases, two-stage treatment is required. The whole procedure is performed under general anaesthesia under strict radiographic control. It is time consuming, as each step needs to be performed with meticulous detail to ensure successful outcome. The outcome of conventional root canal therapy should be monitored radiographically 6-12 months post-operatively. This will also require general anaesthesia. Evidence of disease around the tip of the root at this time indicates the need for further endodontic therapy or extraction of the tooth. Further endodontic therapy usually consists of re-doing the root canal therapy, possibly in conjunction with surgical endodontics (usually removing the tip of the root and sealing the root canal from this direction as well).

Special considerations with immature teeth A partial pulpectomy and direct pulp capping procedure is indicated for recent tooth crown fractures with pulp exposure in immature teeth. An immature tooth has a thin dentine wall and an open apex, allowing a good blood supply to the pulp. Treatment is aimed at maintaining a viable pulp, as this is needed for continued root development. Necrotic immature teeth require endodontic treatment if they are to be retained. The procedure is an adaptation of conventional root canal therapy as already described for the mature permanent tooth. The necrotic pulp tissue is gently removed and the pulp chamber and root canal thoroughly cleaned. It is important to remove all the necrotic tissue, which usually extends slightly beyond the radiographically verifiable open apex. Traditionally, sterile calcium hydroxide powder or paste is packed into the root canal, extending just beyond the apex. Currently the use of mineral trioxide aggregate (MTA) rather than calcium hydroxide is showing promising results. A degree of apexogenesis (normal root length and apex development) or apexification (treatment stimulated root closure) can be stimulated if this procedure is performed. The exposure site is sealed with a restorative material. The tooth is monitored closely and the calcium 264


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hydroxide dressing is changed approximately every six months, as a fresh dressing is more effective in stimulating apexogenesis and apexification. When no further root development can be seen radiographically and if the apex is closed, a conventional root canal treatment should be performed. A conventional root canal treatment can only be carried out if the apex is closed. If the apex is still open and closure cannot be stimulated by repeated calcium hydroxide dressings, it may be possible to obtain an apical seal using a surgical approach and placing a root filling in a retrograde manner.

It must be noted that multiple general anaesthesia episodes are required and thus in most cases extraction of an immature tooth with a necrotic pulp is the best course of action. Salvage procedure as described above is really only indicated for the strategic permanent teeth that have undergone some degree of maturation. It should be noted that immature teeth might well be present in the mature animal if trauma caused pulp necrosis during the developmental period. Treatment of such teeth is the same as for any immature permanent teeth, regardless of the actual age of the animal.

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Potrebbe essere molto difficile: estrazioni chirurgiche Cecilia Gorrel BSc, MA, Vet MB, DDS, DEVDC, MRCVS, Hon FAVD European and RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry, Pilley, Hampshire, England, United Kingdom

quest’ultimo che ricopre la superficie buccale della radice del dente di solito viene asportata per facilitare la rimozione del dente. Il lembo mucoperiostale viene riposizionato, per chiudere l’alveolo dopo l’estrazione e quindi consentire la guarigione primaria.

L’estrazione dentale è una procedura comunemente indicata nella clinica dei piccoli animali. Spesso richiede tempo ed è irta di difficoltà. I problemi affrontati sono comunemente attribuibili all’impiego di attrezzature e strumenti inadeguati, nonché ad una mancanza di familiarità con le tecniche di estrazione.

Scelta della tecnica di estrazione Indicazioni

La scelta della tecnica aperta o chiusa dipenderà da numerosi fattori. I più importanti sono: 1. la morfologia del dente 2. la patologia esistente 3. la preferenza dell’operatore Le radiografie preoperatorie sono indispensabili per valutare la morfologia del dente e l’estensione della patologia che impone l’estrazione. Le situazioni in cui è assolutamente indicata una tecnica di estrazione aperta (il dente non può tecnicamente essere rimosso utilizzando una tecnica chiusa, dato che l’osso alveolare deve essere asportato per liberare la radice) sono quelle in cui si ha: • una bizzarra morfologia della radice, con curve o spirali • un riassorbimento estensivo della radice ± anchilosi • strutture periodontali sane a livello dei canini superiori e inferiori (le radici sono curvate e più ampie sotto il colletto piuttosto che sopra di esso) Le situazioni in cui la tecnica aperta può facilitare l’estrazione sono rappresentate da: • ritenzione di residui radicali • qualsiasi dente con radici multiple che presenti strutture periodontali sane, cioè senza una perdita di osso alveolare (una tecnica aperta consentirà l’accesso alla biforcazione ed alle singole radici) • denti ferini Con l’eccezione dei denti colpiti da una periodontite avanzata, generalmente l’autrice impiega la tecnica di estrazione aperta. Consente la visualizzazione dello spazio del legamento periodontale (l’introduzione dello strumento può quindi essere più precisa e l’estrazione è meno traumatica per i tessuti adiacenti) e la guarigione è più prevedibile. I pazienti umani riferiscono un disagio postoperatorio minore in seguito all’impiego della tecnica aperta rispetto a quella chiusa. La stessa situazione vale probabilmente per i nostri pazienti.

Anche se vi sono alcune indicazioni assolute (non esiste un’altra opzione terapeutica) per l’estrazione, spesso sono disponibili dei trattamenti alternativi (ad es., terapia endodontica e ricostruzione di una frattura complicata della corona), che consentirebbero di conservare il dente. Il trattamento alternativo viene raccomandato per i denti di importanza strategica, come il canino e i grandi denti posteriori della dentizione permanente, ma soltanto se le strutture periodontali sono sane. Tuttavia, il trattamento mediante estrazione è comunque sempre preferibile al lasciare la patologia non trattata. Le condizioni comuni che di solito richiedono l’estrazione sono: 1. la periodontite avanzata 2. la distruzione estesa del tessuto dentale duro 3. la persistenza dei denti primari 4. i denti accavallati/soprannumerari 5. i denti coinvolti in una linea di frattura

Controindicazioni Probabilmente non esiste alcuna controindicazione assoluta all’estrazione, ma si deve identificare l’eventuale presenza di disturbi del sanguinamento o difetti di coagulazione, dal momento che in questi pazienti l’estrazione può essere seguita da un’emorragia potenzialmente letale.

Tipi di estrazione Esistono due tecniche di base di estrazione, ed in particolare: 1. Chiusa (non chirurgica) Può essere definita come un’estrazione, eseguita mediante semplice lussazione e/o sollevamento del dente, senza la necessità di rimuovere l’osso alveolare. Dopo l’estrazione l’alveolo viene lasciato aperto a guarire per granulazione o può essere chiuso suturando la gengiva sopra il difetto, per ottenere una guarigione primaria. 2. Aperta (chirurgica) Questa tecnica prevede il sollevamento di un lembo mucoperiostale, per accedere all’osso alveolare. La porzione di

Considerazioni generali L’estrazione dei denti è una procedura chirurgica. Non è possibile ottenere un ambiente sterile nella cavità orale, ma 266


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la bocca deve essere pulita prima di effettuare l’estrazione. Tutti i denti devono essere sottoposti a detartrasi e lucidati e la bocca deve essere risciacquata con una soluzione di clorexidina. È essenziale conoscere l’anatomia normale della cavità orale, per prevenire un danno iatrogeno, ad es. la recisione di strutture neurovascolari, che può esitare in deficit sensoriali ed emorragia. Una buona visibilità semplifica enormemente la procedura. È essenziale una buona fonte luminosa. Inoltre, si deve impiegare una siringa a tre vie per pulire frequentemente la bocca durante la procedura. Bisogna utilizzare solo acqua o acqua ed aria per allontanare i detriti, seguita da sola aria per asciugare i tessuti. L’aria spray deve essere utilizzata con moderazione (soffi brevi) per evitare un enfisema del tessuto molle. L’aspirazione è estremamente utile e caldamente raccomandata. L’estrazione è facile se è possibile visualizzare lo spazio del legamento periodontale e, di conseguenza, applicare in una posizione corretta gli strumenti. Contrariamente a quanto comunemente si crede, l’estrazione dentale non richiede alcuna forza. Il modo migliore per ottenere il risultato desiderato consiste nel pianificare il posizionamento degli strumenti e agire con cura intorno all’intera circonferenza del dente, tagliando il legamento periodontale, fino a liberarlo del tutto. Come già detto, le radiografie preoperatorie sono indispensabili per valutare l’estensione della patologia ed identificare le anomalie morfologiche. I riscontri clinici, in combinazione con le radiografie preoperatorie, permettono di scegliere la migliore tecnica di estrazione per ciascun dente. Quelle intraoperatorie sono raccomandate nei casi in cui l’intervento non procede come previsto. Infine, si deve verificare l’adeguatezza dell’estrazione con delle radiografie postoperatorie. Alcune linee guida per l’impiego delle leve per lussare e sollevare i denti comprendono: • scegliere uno strumento di dimensioni appropriate a quelle della radice • iniziare con uno strumento piccolo e passare ad uno più grande quando si è realizzato più spazio tra il dente e l’osso alveolare • non fare leva con gli strumenti studiati per lussare i denti perché in questo modo se ne potrebbe danneggiare l’estremità, che deve compiere un lavoro fine. • le leve di sollevamento sono utilizzate con una combinazione di pressione apicale e sollevamento

ampio da consentire una buona visualizzazione. È anche necessario lasciare uno spazio sufficiente per rimuovere l’osso alveolare senza danneggiare la porzione mucoperiostale liberata. Un lembo ampio guarirà con la stessa velocità di uno piccolo. L’autrice raccomanda di iniziare su base estesa; con l’aumentare dell’esperienza e dell’abilità saranno sufficienti lembi più piccoli. È essenziale proteggere il lembo durante la procedura, perché è questo il tessuto che sarà destinato ad essere suturato sopra l’alveolo dopo l’estrazione. Si possono utilizzare spatole plastiche o divaricatori gengivali per mantenere il lembo intatto. Chiedendo ad un assistente di operare con la spatola o i divaricatori l’estrazione si effettuerà più facilmente e velocemente, prevenendo anche il danno iatrogeno al lembo. Una volta che il dente sia stato rimosso, il lembo viene riposizionato e suturato alla mucosa palatina/linguale per chiudere l’alveolo dopo l’estrazione. Non deve esserci alcuna tensione sulla linea di sutura. Se questa esiste, la guarigione della ferita viene compromessa ed è probabile che il lembo vada incontro ad una deiscenza. Se necessario, si esegue una dissezione per via smussa del lembo procedendo a livello della sottomucosa in direzione del margine labiale, al fine di avere a disposizione più tessuto. Inoltre, ci si deve assicurare che il bordo della mucosa palatina/linguale sia libero inserendo delicatamente uno scollaperiostio tra l’osso ed il tessuto molle. Anche abbassare il margine dell’osso alveolare restante aiuterà a ridurre la tensione. Se non è possibile chiudere totalmente il lembo senza tensione, allora si deve lasciare un’apertura. Questo è preferibile ad avere una zona di tensione! L’apertura guarirà per granulazione. Nella trattazione che segue, per esemplificare i dettagli della tecnica di estrazione aperta si farà riferimento al dente canino superiore. In caso di necessità, verranno sottolineate le differenze rispetto agli altri denti.

1. Canino superiore Procedura: • Si taglia l’attacco gengivale intorno all’intera circonferenza del canino. L’incisione viene poi estesa rostralmente verso la parte distale del terzo incisivo e distalmente verso la parte mesiale o distale del secondo premolare, utilizzando una lama n. 11 o n. 15 innestata su di un manico da bisturi. Ciò comporta il taglio dell’attacco gengivale buccale del primo e secondo premolare. • Presso le parti terminali rostrali e distali dell’incisione iniziale, vengono praticate delle brevi incisioni liberatorie (dal margine gengivale appena oltre la linea mucogengivale). Alcuni clinici preferiscono eseguire una lunga incisione liberatoria distale. Effettuare le incisioni parallele o lievemente divergenti per assicurarsi che la base del lembo sia più ampia del margine e che l’apporto ematico al lembo non sia quindi compromesso. • Si utilizzano degli scollaperiostio per sollevare la gengiva e la mucosa dall’osso che ricopre la parte buccale della radice del canino. Se necessario, si estendono le incisioni liberatorie. Di solito l’autrice lavora con gli scollaperiostio procedendo dall’incisione gengivale in direzione apicale. Si deve usare una tecnica delicata, specialmente presso la giunzione mucogengivale, per prevenire la lacerazione del lembo da parte degli scollaperiostio. Occorre

Estrazione aperta La tecnica di estrazione aperta può essere utilizzata per tutti i denti. Nelle estrazioni aperte, viene sollevato un lembo mucoperiostale (di solito sulla faccia buccale della radice) per esporre l’osso alveolare. Ad una o entrambe le estremità dell’incisione iniziale si praticano di solito delle incisioni liberatorie (dal margine gengivale fino ad oltre la linea mucogengivale) per consentire al lembo di essere sollevato oltre la giunzione mucogengivale e quindi esporre la maggior parte della placca ossea buccale. Le incisioni devono essere praticate fino sull’osso. Il loro numero, lunghezza e a posizione dipendono dal grado di esposizione occorrente per effettuare l’estrazione. Il lembo deve essere abbastanza 267


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ricordare che questo tessuto servirà per chiudere la tasca di estrazione. La lamina ossea buccale che ricopre la radice viene fresata via. Di solito non è necessario rimuovere l’osso fino all’apice, ma soltanto per i due terzi della lunghezza della radice. È preferibile utilizzare una fresa n° 2 o 4 nel gatto, n° 6 nel cane e n° 8 nelle razze canine di taglia gigante. Per evitare il danno termico dell’osso è indispensabile la refrigerazione ad acqua. Agendo con la fresa con piccoli colpetti leggeri si riesce a rimuovere l’osso senza scavare nella sostanza del dente. L’osso può essere facilmente distinto dal dente; il primo ha un colore grigiastro e sanguina, mentre il cemento/dentina è bianco e non vascolarizzato. Utilizzare la fresa tonda per realizzare una doccia o un canale di deflusso tra la radice del dente e l’osso alveolare sulle superfici rostrale e distale della radice. Bisogna cercare di rimuovere l’osso e non penetrare attraverso la superficie della radice, perché altrimenti il dente si potrebbe fratturare mentre viene sollevato. Si introduce una leva in una delle docce e la si ruota lungo il suo asse. Quest’azione determinerà la rotazione del dente lungo il suo asse maggiore. L’obiettivo è rompere le fibre periodontali palatine e quelle della punta della radice, ma evitare di far leva sulla punta della radice in modo da spingerla nella cavità nasale. La leva viene ruotata sino a tendere le fibre, e poi tenuta ferma per 10-30 secondi per volta, ripetendo su ciascun lato fino a che la radice non si allenta e può facilmente essere rimossa. È utile utilizzare anche un lussatore per tagliare le fibre buccali apicali periodontali. La fresa viene utilizzata per lisciare i margini dell’alveolo. Se la cavità lasciata dal dente si riempie di detriti, questi devono essere delicatamente lavati via prima della chiusura. Assicurarsi che all’interno di questa cavità si formi un coagulo pulito. Il lembo viene riposizionato e suturato alla mucosa palatina per chiudere l’alveolo dopo l’estrazione. Nessuna delle suture deve essere sottoposta a tensione. Se necessario, isolare mediante dissezione per via smussa un lembo di tessuto a livello sottomucoso procedendo verso il margine labiale per averne a disposizione una maggiore quantità. Assicurarsi che il margine della mucosa palatina sia libero attraverso un delicato inserimento dello scollaperiostio tra l’osso ed il tessuto molle. Utilizzare una sutura semplice a punti staccati e una sutura in materiale riassorbibile con un ago atraumatico. La collocazione appropriata delle incisioni liberatorie dovrebbe garantire che tutti i margini al momento della chiusura sia sostenuti dall’osso. Se non è possibile chiudere completamente il lembo senza tensioni, lasciare un’apertura. Lasciare una zona aperta è preferibile alla tensione! L’apertura guarirà mediante un processo di granulazione.

mentre si solleva il lembo. L’approccio linguale è possibile, ma offre una scarsa visualizzazione. Il metodo preferito dall’autrice è un approccio combinato buccale e linguale, secondo le seguenti modalità: • Il lembo buccale viene sollevato in modo simile a quello descritto per il canino mascellare. Il grande fascio neurovascolare che fuoriesce da uno dei fori mentali (di solito quello medio) non deve essere resecato. Va visualizzato e dissezionato accuratamente in modo che possa essere ribaltato insieme con il lembo. • Un lembo gengivale viene sollevato anche sulla faccia linguale del dente. È necessario che abbia un’ampiezza tale da consentire l’accesso al margine linguale dell’osso alveolare. Se necessario, si effettua una piccola incisione linguale liberatoria posta distalmente al dente canino. • A questo punto, viene fresato via circa il 30% della placca dell’osso alveolare buccale. L’osso viene rimosso sino ad un livello situato in posizione appena apicale rispetto al punto in cui la radice è alla sua massima ampiezza. • La corona viene tagliata appena sopra il colletto (con una fresa rotonda o a fessura) per consentire un più facile accesso alla superficie linguale. • A questo punto, si fresa via il 20% circa della placca dell’osso alveolare linguale. Assicurarsi che il lembo sia protetto dalla fresa. • Si realizza un canale di deflusso mesiale e distale tra la radice del dente e l’osso, come descritto per il canino mascellare. • Per allentare il dente, si utilizzano degli elevatori nei canali buccali mesiale e distale, come descritto per l’estrazione del canino mascellare. Inoltre, si devono utilizzare dei lussatori per tagliare le fibre periodontali apicali buccali. Sulla faccia linguale, si impiegano dei lussatori per tagliare le fibre del legamento periodontale e realizzare uno spazio sufficiente per utilizzare degli elevatori di dimensioni maggiori. Lavorando in questo modo, si distrugge progressivamente il legamento periodontale intorno all’intera circonferenza della radice fino a che il dente non viene allentato e può essere sollevato con le dita. • Può essere necessario rimuovere una quota ulteriore di osso alveolare, in particolare dalla parte linguale. Bisogna cercare di mantenere quanto più osso alveolare possibile per preservare la robustezza della mandibola. • Si chiude il difetto suturando il lembo buccale a quello palatino. Non deve esserci tensione sulla linea di sutura.

3. Quarto premolare mascellare e molari mascellare e mandibolare nel cane Il lembo per il quarto premolare mascellare si estende dalla metà del terzo premolare al margine distale del primo molare. Dopo la resezione dell’attacco gengivale lungo tutta la circonferenza del quarto premolare superiore, l’incisione viene estesa rostralmente alla parte medio-buccale del terzo premolare mascellare e caudalmente fino al margine distale del primo molare. Si realizza un’incisione liberatoria divergente che si estende appena dopo la linea mucogengivale a livello della faccia distale del primo molare. Eseguendo soltanto una incisione liberatoria distalmente, si evita di danneggiare il fascio neurovascolare che fuoriesce a livello del forame infraorbitale, dorsalmente al terzo premolare.

2. Canino inferiore L’estrazione per via periodontale di un canino mandibolare in assenza di patologie periodontali è difficile. Si deve operare con pazienza e delicatezza! Questo dente può essere estratto impiegando un approccio buccale o linguale. Nel primo caso, si deve fare attenzione ad evitare di danneggiare il fascio neurovascolare, che fuoriesce dai fori mentali, 268


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I denti a radici multiple (terzo e quarto premolare mascellare e mandibolare e molare mandibolare) sono l’incubo di ogni chirurgo veterinario per la facilità con cui si fratturano nel corso di un’estrazione. In seguito a ciò restano delle radici, con o senza pezzi di corona adesi, che devono essere rimosse. Anche se si può essere tentati di lasciare queste radici e sperare che vengano riassorbite, o che la gengiva cresca su di esse fino a ricoprirle, si tratta di una negligenza. Bisogna prestare ogni attenzione per recuperare questi residui radicali. Se ciò non è tecnicamente possibile, il proprietario deve essere informato che l’estrazione è risultata incompleta. È obbligatorio un monitoraggio post-operatorio clinico e radiografico. Anche se alcuni dei residui di radice possono venire riassorbiti, altri possono comportare una malattia infiammatoria. In quest’ultimo caso, si deve effettuare un secondo tentativo per rimuoverli. I denti a radice multipla nel gatto possono essere asportati utilizzando sia la tecnica ad estrazione aperta che quella chiusa. La tecnica chiusa è identica a quella descritta per il cane. È essenziale operare con delicatezza. Inoltre, assicurare la selezione di strumenti di dimensioni appropriate per evitare una frattura iatrogena della radice. L’estrazione aperta è simile a quella descritta per il cane. Le modificazioni suggerite nel gatto saranno trattate nel prossimo paragrafo. Indipendentemente dalla tecnica di estrazione, i denti a radice multipla devono sempre essere tagliati in singoli segmenti di radice. Nei gatti, l’autrice preferisce l’estrazione aperta, a meno che non vi sia una grave periodontite ed il dente non sia molto mobile. È stata proposta una modificazione della tecnica per estrarre i denti a radici multiple nel gatto. L’obiettivo della variante è semplificare la rimozione e preservare l’osso alveolare. Di seguito viene descritto il metodo per i denti mandibolari. Questo può essere adattato alla rimozione dei denti mascellari con più radici. • Sollevare un lembo gengivale sia a livello boccale che linguale. • Rimuovere abbastanza osso alveolare da esporre la biforcazione • Si utilizza una piccola fresa rotonda, di solito n. 2, per effettuare due tagli dalla biforcazione, a 45°, uno distalmente ed uno rostralmente. Questi tagli permettono di rimuovere la maggior parte della corona, lasciandone soltanto una piccola punta su ogni singola radice. • Utilizzare due frese rotonde n. 2 e n. 4 per rimuovere l’osso spongioso fra le due radici. La profondità deve essere pari alla lunghezza della radice, ma non tanto lunga da penetrare nel canale mandibolare. Nei casi dubbi, misurare la distanza sulle radiografie. • Ogni radice viene poi sostenuta dall’osso su tre lati; si può inserire un piccolo lussatore o elevatore nello spazio realizzato con la fresa, e le radici possono essere allentate e rimosse. • Se necessario, asportare una quota ulteriore di osso buccale. • Rimuovere ogni margine osseo tagliente. • Suturare il lembo buccale a quello linguale.

Il lembo per il primo molare mascellare deve essere esteso dalla superficie mediobuccale del quarto premolare a quella distale del secondo molare. Si può praticare una breve incisione liberatoria nella parte mediobuccale del quarto premolare. Il lembo per il secondo molare mascellare si estende dalla parte mediobuccale del primo molare fino a quella distale del secondo molare. Solitamente non è necessaria alcuna incisione liberatoria. Di solito il lembo per i molari inferiori si deve estendere solo fino ai denti adiacenti, realizzando le incisioni liberatorie a ciascuna estremità in modo che divergano quando passano attraverso la linea mucogengivale. In tutti i denti, l’osso buccale viene rimosso per esporre la biforcazione e il dente viene sezionato nelle sue unità costitutive radice/corona. Un’ulteriore rimozione dell’osso alveolare (iniziando con circa il 30% della placca dell’osso alveolare) faciliterà l’estrazione. Se necessario, ad es. in caso di anchilosi, si può asportare l’intera placca dell’osso buccale. Tuttavia, si deve utilizzare cautela qualora si rimuovano ampie superfici di osso buccale. È essenziale conoscere l’anatomia, ad es. la radice mesiobuccale del quarto premolare mascellare è vicina al canale infraorbitale e le punte della radice del primo molare mandibolare sono adiacenti al canale mandibolare. Per ridurre la tensione sulla linea di sutura, ci si deve ricordare di liberare la mucosa palatina/linguale dall’osso sottostante.

4. Denti primari I denti primari possono essere estratti utilizzando sia la tecnica aperta che quella chiusa. Sono obbligatorie delle radiografie preoperatorie per ottenere informazioni sulla posizione e l’estensione del riassorbimento della radice del dente primario e la sede e lo stadio di sviluppo della radice di quello permanente adiacente. L’estrazione chiusa è indicata quando la radice è praticamente riassorbita. Nella maggior parte delle altre situazioni, la visualizzazione aiuterà la procedura e l’estrazione aperta è la tecnica preferita dall’autrice. I dettagli della procedura di estrazione sono gli stessi descritti per i denti permanenti, ma occorre prestare attenzione ad evitare un danno alla dentizione permanente adiacente in via di sviluppo.

5. Considerazioni particolari sui denti dei felini Le più comuni affezioni che necessitano di estrazione dentale nei gatti sono le lesioni da riassorbimento odontoclastico (ORL, odontoclastic resorptive lesions), la periodontite e le lesioni dentali traumatiche che esitano nell’esposizione della polpa. Nel gatto, gli incisivi, il secondo premolare mascellare ed il molare mascellare sono denti piccoli a radice singola. Possono generalmente essere rimossi utilizzando una tecnica chiusa. I denti canini, a meno che non siano colpiti da una periodontite grave, richiedono una tecnica di estrazione aperta come descritto per il cane.

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Open extraction Cecilia Gorrel BSc, MA, Vet MB, DDS, DEVDC, MRCVS, Hon FAVD European and RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry, Pilley, Hampshire, England, United Kingdom

1. Tooth morphology 2. Existing pathology 3. Operator preference Preoperative radiographs are mandatory to evaluate the tooth morphology and extent of pathology necessitating the extraction. Situations where an open extraction technique is absolutely indicated (i.e. the tooth cannot technically be removed using a closed technique, since alveolar bone must be removed to free the root) include: • Bizarre root morphology, with bends or spirals • Extensive root resorption +/- ankylosis • Periodontally sound upper and lower canines (the roots are curved and are wider below the cemento-enamel junction than above it) Situations where an open technique may facilitate extraction include: • Retained root remnants • Any multiple rooted tooth which is periodontally sound, i.e. there is no loss of alveolar bone (an open technique will make access to the furcation and individual roots possible) • Feline teeth With the exception of teeth affected by advanced periodontitis, I generally use an open extraction technique. It enables visualisation of the periodontal ligament space (instrument placement can thus be more precise and the extraction is less traumatic to adjacent tissues) and healing is more predictable. Human patients report less postoperative discomfort following an open technique than a closed technique. The same is probably true for our patients.

Tooth extraction is commonly indicated in small animal practice. The procedure is often time consuming and fraught with difficulties. The problems experienced are usually attributable to poor equipment and instrumentation, as well as unfamiliarity with extraction techniques.

Indications While there are some absolute indications (i.e. no other treatment option exists) for extraction, there are often alternative treatments available (e.g. endodontic therapy and restoration of a complicated crown fracture), which would allow a tooth to be maintained. Alternative treatment is recommended for strategic teeth, i.e. the permanent canine and large posterior teeth, but only if they are periodontally sound. However, treatment by extraction is always preferable to leaving pathology untreated. Common conditions that generally require extraction include: 1. Advanced periodontitis 2. Extensive destruction of dental hard tissue 3. Persistent primary teeth 4. Overcrowding/Supernumerary teeth 5. Teeth involved in a fracture line

Contra-indications There are probably no absolute contra-indications for extraction, but bleeding disorders or clotting defects should be identified since a life threatening haemorrhage can follow extraction in these patients.

Types of extraction There are two basic extraction techniques, namely: 1. Closed (non surgical) This can be defined as extraction using simple luxation and/or elevation, without the need to remove alveolar bone. The extraction socket is either left open to heal by granulation or it may be closed by suturing the gingiva over the defect to achieve primary healing. 2. Open (surgical) This technique is where a mucoperiosteal flap is raised in order to access the alveolar bone. The alveolar bone overlying the buccal surface of the tooth root is usually removed in order to facilitate tooth removal. The mucoperiosteal flap is replaced to close the extraction socket thus allowing primary healing.

General considerations Extraction of teeth is a surgical procedure. While it is not possible to achieve a sterile environment in the oral cavity, the mouth should be clean before extraction is performed. All teeth should be scaled and polished and the mouth rinsed with a chlorhexidine solution. It is essential to know the normal anatomy of the oral cavity to prevent iatrogenic damage, e.g. severing neurovascular structures, which would result in sensory deficits and haemorrhage. Good visibility simplifies the procedure greatly. A good light source is essential. In addition, use the three-way syringe to clean the mouth out frequently during the procedure. Use water only or water and air to clean away debris, followed by air only to dry the tissues. The air spray should be used sparingly (brief bursts) to avoid soft tissue emphysema. Suction is extremely useful and strongly recommend-

Choice of extraction technique The choice of either a closed or an open technique will depend on several factors. The most important are: 270


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leave an opening. Leaving an opening is preferable to tension! The opening will heal by granulation. In the following, the maxillary canine tooth will be used to exemplify the details of the open extraction technique. Differences for other teeth will be highlighted as required.

ed. Extraction is easy if the periodontal ligament space can be visualised and consequently instruments applied at the correct location. Contrary to common belief, tooth extraction requires no force. It is best achieved by planned placement of instruments and carefully working around the whole circumference of the tooth cutting the periodontal ligament, thus releasing the tooth. As already mentioned, pre-operative radiographs are mandatory to assess the extent of the pathology and identify morphological abnormalities. The clinical findings in combination with pre-operative radiographs allow selection of the best extraction technique for each tooth. Intra-operative radiographs are recommended if the procedure is not proceeding as planned. Finally, adequacy of the extraction should be verified with post-operative radiographs. Some guidelines for the use of dental luxators and elevators include: • Select the appropriate size of instrument for the size of the root • Start with a small instrument and move up to a larger one as more space is created between the tooth and the alveolar bone • Luxators should not be used for leverage as this will damage the fine working end • Elevators are used with a combination of apical pressure and leverage

1. Maxillary canine Procedure: • The gingival attachment around the whole circumference of the canine is cut. This incision is then extended rostrally to the distal aspect of the 3rd incisor and distally to the mesial or distal aspect of the 2nd premolar using a No11 or No15 blade in a handle. This involves cutting the buccal gingival attachment of the 1st and 2nd premolars. • Short releasing incisions (extending from the gingival margin to just beyond the mucogingival line) are placed at the rostral and distal ends of the initial incision. Some clinicians prefer a long distal releasing incision. Make the releasing incisions parallel or slightly divergent to ensure that the base of the flap is broader than the edge and blood supply to the flap is thus not compromised. • Periosteal elevators are used to lift the gingiva and mucosa from the bone overlying the buccal aspect of the canine root. Extend the releasing incisions if necessary. I usually work the periosteal elevators from the gingival incision in an apical direction. Use a gentle technique, especially at the mucogingival junction to prevent tearing of the flap with the periosteal elevators. Remember this tissue will be required to close the extraction socket. • The buccal bone plate overlying the root is drilled away. It is usually not necessary to remove bone to the apex, only to two thirds of the root length. A size 2 or 4 bur is best for cats, a size 6 for dogs, and size 8 for giant breeds. Water-cooling of the bur is mandatory to avoid thermal damage to the bone. A feather light, stroking motion with the bur enables removal of the bone without digging into the tooth substance. Bone can readily be differentiated from tooth; bone has a greyish colour and bleeds, cementum/dentine is white and avascular. • Use the round bur to create a trough or gutter between the tooth root and the alveolar bone on the rostral and distal root surfaces. Try to remove bone and not drill into the root surface, or the tooth may fracture during elevation. • Place an elevator in one of the troughs and rotate the elevator along its long axis. This action will rotate the tooth along its long axis. The aim is to break down the palatal periodontal fibres and those of the root tip, but avoid levering the root tip into the nasal cavity. The elevator is rotated to stretch the fibres, and held for 10-30 seconds at a time, repeating each side until the tooth becomes loose, and can be easily removed. It is useful to also use a luxator to cut the buccal apical periodontal fibres. • The bur is used to smooth the edges of the alveolus. If the socket is filled with debris, this should gently be flushed out prior to closure. Ensure a clean clot forms in the socket. • The flap is replaced and sutured to the palatal mucosa to close the extraction socket. There must be no tension on any of the sutures. If necessary, bluntly dissect the flap sub-mucosally towards the lip margin in order to gain more tissue. Ensure that the edge of the palatal mucosa is

Open extraction An open extraction technique can be used for all teeth. In open extractions, a mucoperiosteal flap is raised (usually on the buccal aspect of the tooth) to expose the alveolar bone. Releasing incisions (from the gingival margin to beyond the mucogingival line) are usually placed at one or both ends of the initial incision to allow the flap to be raised past the mucogingival junction thus exposing most of the buccal bone plate. The incisions should be placed over bone. The number, length and position of the releasing incisions depend on the exposure required to perform the extraction. The flap needs to be large enough for good visualization. It also needs to allow enough space to remove alveolar bone without damaging the flap. A large flap will heal at the same speed as a small flap. My recommendation is to start large; with increasing experience and skill, smaller flaps will be required. It is essential to protect the flap during the procedure, as this is the tissue that will be used to suture over the extraction socket. Plastic spatulas or gingival retractors can be used to keep the flap intact. Asking an assistant to work the spatula or retractors will make the extraction easier and quicker, as well as prevent iatrogenic damage to the flap. Once the tooth has been removed, the flap is replaced and sutured to the palatal/lingual mucosa to close the extraction socket. There must be no tension on the suture line. If there is tension, wound healing is compromised and the flap is likely to dehisce. If necessary, bluntly dissect the flap submucosally towards the lip margin in order to gain more tissue. In addition, ensure that the edge of the palatal/lingual mucosa is free by gently inserting the periosteal elevator between the bone and soft tissue. Lowering the margin of remaining alveolar bone will also help reduce tension. If it is not possible to fully close the flap without tension, then 271


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free by gently inserting the periosteal elevator between the bone and soft tissue. Use simple interrupted sutures and an absorbable suture material with a swaged on needle. Proper placement of releasing incisions should ensure all edges at the time of repair are supported by bone. If it is not possible to fully close the flap without tension, then leave an opening. Leaving an opening is preferable to tension! The opening will heal by granulation.

After cutting the gingival attachment around the whole circumference of the upper 4th premolar, the incision is extended rostrally to the mid-buccal aspect of the maxillary 3rd premolar and caudally to the distal edge of the 1st molar. One divergent releasing incision extending just past the mucogingival line is made at the distal aspect of the 1st molar. Placing only the one releasing incision distally, avoids damage to the neurovascular bundle exiting at the infraorbital foramen, dorsal to the 3rd premolar. The flap for the maxillary 1st molar needs to extend from the midbuccal aspect of the 4th premolar to the distal aspect of the 2nd molar. A short releasing incision can be placed at the midbuccal aspect of the 4th premolar. The flap for the maxillary 2nd molar extends from the midbuccal aspect of the 1st molar to the distal aspect of the 2nd molar. No releasing incisions are usually required. The flap for the lower molars usually only needs to extend to the adjacent teeth, with the releasing incisions at each end diverging as they pass through the mucogingival line. In all teeth, buccal bone is removed to expose the furcation and the tooth is sectioned into its constituent root/ crown units. Further removal of alveolar bone (start with approximately 30% of the alveolar bone plate) will facilitate extraction. If necessary, e.g. ankylosis, the whole buccal bone plate can be removed. However, use caution when removing large amounts of buccal bone. It is essential to know your anatomy, e.g. the mesiobuccal root of the maxillary 4th premolar is close to the infraorbital canal, and the mandibular 1st molar root tips are adjacent to the mandibular canal. To reduce tension on the suture line, remember to free the palatal/lingual mucosa from the underlying bone.

2. Mandibular Canine Extraction of a periodontally sound mandibular canine is difficult. Patience and gentle technique are encouraged! This tooth can be extracted using either a buccal or a lingual approach. If using a buccal approach, be careful to avoid damage to the neurovascular bundle exiting the mental foramina while raising the flap. A lingual approach is possible, but gives poor visualisation. My preferred method is a combined buccal and lingual approach as follows: The buccal flap is raised in a similar fashion to that described for the maxillary canine. The large neurovascular bundle exiting at one of the mental foramina (usually the middle foramen) must not be transected. It is visualized and carefully dissected free so it can be reflected together with the flap. A gingival flap is also raised on the lingual aspect of the tooth. It needs to be just large enough to provide access to the lingual margin of the alveolar bone. A short lingual releasing incision placed distal to the canine tooth is used if necessary. Approximately 30% of the buccal alveolar bone plate is drilled away. The bone is removed to a level just apical to where the root is at its widest. The crown is amputated just above the cemento-enamel junction (round or fissure bur) to allow easier access to the lingual surface. Approximately 20% of the lingual alveolar bone plate bone is drilled away. Ensure that the flap is protected from the bur. Mesial and distal gutters between tooth root and bone are created as described for the maxillary canine. To loosen the tooth, elevators are used in the buccal mesial and distal gutters as described for extraction of the maxillary canine. In addition, luxators should be used to cut the buccal apical periodontal fibres. On the lingual aspect, luxators are used to cut periodontal ligament fibres and create enough space for elevators of increasing size to be used. Working in this fashion, the periodontal ligament is progressively destroyed around the whole circumference of the root until the tooth is loose and can be lifted out with your fingers. It may be necessary to remove additional alveolar bone, especially lingually. Try to maintain as much of the alveolar bone as possible to preserve the strength of the mandible. Close the defect by suturing the buccal flap to the palatal flap. There must be no tension on the suture line.

4. Primary teeth Primary teeth can be extracted using either a closed or an open technique. Pre-operative radiographs are mandatory to give information as to the position and extent of primary tooth root resorption and the location and stage of development of the adjacent permanent tooth. Closed extraction is indicated when the root is virtually resorbed. In most other situations, visualisation will aid the procedure and open extraction is my technique of choice. The details of the extraction procedure are the same as for permanent teeth but use care to avoid damage to adjacent developing permanent dentition.

5. Special considerations with feline teeth The most common diseases necessitating tooth extraction in cats are odontoclastic resorptive lesions (ORL), periodontitis and traumatic dental injuries resulting in pulpal exposure. In the cat, the incisors, the maxillary second premolar and the maxillary molar are small single rooted teeth. They can generally be removed using a closed technique. The canine teeth, unless affected by severe periodontitis, require an open extraction technique as described for the dog. The multiple rooted teeth (maxillary and mandibular 3rd and 4th premolars and the mandibular molar) are every veterinary surgeons nightmare due to the ease with which they fracture during extraction. This leaves roots, with or without

3. Maxillary 4th premolars and maxillary and mandibular molars in the dog The flap for the maxillary 4th premolar extends from the middle of the 3rd premolar to the distal edge of the 1st molar. 272


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cats is proposed. The aim of the modification is to simplify removal and preserve alveolar bone. In the following, it is described for the mandibular teeth. The method can be adapted for removal of the maxillary multi rooted teeth. • Raise a gingival flap both buccally and lingually. • Remove enough alveolar bone to expose the furcation. • A small round bur, size 2 usually, is used to make two cuts from the furcation, at 45 degrees, one distally, and one rostrally. These cuts will remove the bulk of the crown, leaving only a small point of crown on each individual root. • Use either a size 2 or a size 4 round bur to remove the cancellous bone between the two roots. The depth should be the same as the root length, but not long enough to enter the mandibular canal. If in doubt, measure the distance on your radiographs. • Each root is then only supported by bone on three sides, a small luxator or elevator can be eased into the space created by the bur, and the roots can be loosened and removed. • If necessary, remove additional buccal bone. • Remove any sharp bony edges • Suture the buccal flap to the lingual flap

pieces of crown attached, which must be removed. Although it might be tempting to leave these roots and hope they will resorb, or the gingiva will grow over them, this is negligent. Every attempt should be made to retrieve such root remnants. If this is not technically possible, the owner must be informed that extraction was incomplete. Postoperative clinical and radiographic monitoring is mandatory. While some root remnants may resorb, others may result in inflammatory disease. In the latter case, a second attempt to retrieve them should be performed. Multiple rooted teeth in the cat can be removed using either a closed or an open technique. The closed technique is identical to that described for the dog. Gentle technique is essential. In addition, ensure selection of appropriately sized instruments to avoid iatrogenic root fracture. Open extraction is similar to that described for the dog. Suggested modifications in the cat will be covered in the next paragraph. Irrespective of extraction technique, multiple rooted teeth always need to be sectioned into single rooted segments. My preference in cats is open extraction unless there is severe periodontitis and the tooth is very mobile. A modified technique for extracting multi-rooted teeth in

273


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Diagnosticare le malocclusioni con un apporto orientato al problema e trattarle con il rispetto dell’individualità di ogni singolo caso Cecilia Gorrel BSc, MA, Vet MB, DDS, DEVDC, MRCVS, Hon FAVD European and RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry, Pilley, Hampshire, England, United Kingdom

ed è caratterizzato da un aumento dello spazio tra le punte delle cuspidi premolari. Inoltre, l’angolo caudale della mandibola è caudale all’articolazione temporomandibolare per adattarsi all’eccessiva lunghezza della stessa.

Per definizione, la malocclusione è un’anomalia nella posizione del dente. La condizione è comune nel cane, ma compare anche nel gatto. Il significato clinico della malocclusione è che può causare disagio e talvolta dolore all’animale colpito. Talvolta, può essere la causa diretta di una patologia orale grave. Di conseguenza, è importante diagnosticarla in un momento precoce della vita dell’animale, in modo da poter prendere delle misure preventive. La malocclusione può derivare da discrepanze di lunghezza e/o larghezza delle fauci (malocclusione scheletrica), dal malposizionamento del dente (malocclusione dentale) o da una combinazione di entrambe queste situazioni. Lo sviluppo dell’occlusione è determinato da fattori genetici ed ambientali. I meccanismi genetici specifici che regolano la malocclusione sono sconosciuti. Tuttavia, è probabile un meccanismo poligenico che spiega perché non tutti i fratelli o sorelle delle generazioni successive siano colpiti da malocclusione dello stesso grado, o non siano colpiti affatto. Con un meccanismo poligenico, la gravità dei segni clinici è correlata al numero di geni difettivi. L’approccio più ragionevole per valutare se la malocclusione sia ereditaria o acquisita è il seguente: - la malocclusione scheletrica è considerata ereditaria a meno che si possa identificare una causa di sviluppo attendibile; - la malocclusione dentale pura deve godere del beneficio del dubbio e non essere considerata ereditaria, a meno che non sia nota una predisposizione di razza o familiare. I più comuni tipi di malocclusione sono i seguenti:

1.2 Morso brachignatico mandibolare Un morso brachignatico mandibolare, spesso definito “brachignatismo”, compare quando la mandibola è più corta del normale. 1.3 Morso disallineato (wry bite) Il morso disallineato (wry bite) compare se un lato della testa cresce più dell’altro. Nella sua forma più lieve, si sviluppa un prognatismo o un brachignatismo monolaterale. Nei casi più gravi, si riscontrano testa e morso piegati, con una deviazione dalla linea mediana. Si può anche sviluppare un morso aperto (open bite) nella regione degli incisivi, per cui i denti colpiti sono dislocati verticalmente e non occludono. 1.4 Mandibola stretta In alcuni animali, la mandibola è troppo stretta rispetto alla mascella. Il risultato è che i canini inferiori agiscono sulla gengiva mascellare o sul palato duro invece di inserirsi nel diastema tra il terzo incisivo superiore ed il canino superiore dello stesso lato. L’animale può non essere in grado di chiudere la bocca e comunemente si verifica un danno della gengiva o della mucosa palatina. Nei casi gravi non trattati, nel tempo si può sviluppare una comunicazione oronasale.

2. Malocclusione dentale 1. Malocclusione scheletrica

La malocclusione dentale è un malposizionamento dei denti in cui non si riscontra alcuna anomalia scheletrica evidente, cioè non si rilevano discrepanze di lunghezza o larghezza fra mascella e mandibola.

I cani brachicefali hanno una mascella più corta del normale e quelli dolicocefali una più lunga del normale; in entrambi i casi la mandibola non è responsabile di alcuna discrepanza rostrocaudale.

2.1 Morso crociato anteriore Questo è un termine clinico utilizzato per descrivere un’occlusione a forbice inversa di uno, alcuni o tutti gli incisivi. Si ritiene che la condizione sia secondaria ad un persistere degli incisivi primari. Tuttavia, esiste probabilmente anche un’origine scheletrica, dato che gli animali colpiti spesso sviluppano un morso mandibolare prognatico. In altre parole, un morso crociato anteriore in un animale immaturo può essere il primo segno di un prognatismo mandibolare in via di sviluppo.

1.1 Morso mandibolare prognatico Nel morso mandibolare prognatico, spesso chiamato “prognatismo”, la mandibola è più lunga della mascella ed alcuni o tutti i denti mandibolari sono rostrali alla loro posizione normale. Se l’incastro dei denti durante la chiusura delle fauci impedisce alla mandibola di crescere rostralmente fino a sviluppare pienamente il suo potenziale genetico, si può verificare un’arcatura laterale o ventrale della mandibola per adattarsi alla lunghezza. Ciò esita in un morso aperto 274


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re, infiammazione ed eventualmente, con il tempo, la comparsa di una comunicazione oronasale.

Il morso crociato anteriore è comune nelle razze di cani di media e grossa taglia, in cui sono meno frequenti i denti primari persistenti. La causa può essere una malocclusione dentale (cioè una conversione verso la lingua degli incisivi superiori) o una malocclusione scheletrica (cioè un prognatismo mandibolare o brachignatismo mascellare).

3.2 Canini mascellari Il canino mascellare permanente erompe rostralmente al corrispondente dente primario. Se quest’ultimo viene ritenuto, ciò può forzare il dente permanente ad erompere nel diastema destinato al canino mandibolare permanente. Si possono poi sviluppare le seguenti situazioni di malocclusione. Il canino mascellare o mandibolare possono essere ritenuti, cioè non erompere totalmente. Il canino mandibolare può spingere il terzo incisivo superiore o il canino superiore in direzione labiale/buccale. In assenza di trattamento, il canino mandibolare può essere forzato ad erompere medialmente a quello mascellare, quindi agire sul palato duro con la possibile formazione di una comunicazione oronasale.

2.2 Malocclusione dei denti canini Le due anomalie più comuni nella posizione del dente canino sono: 2.2.1 Dislocazione rostrale dei canini mascellari I canini primari persistenti possono essere responsabili di questa condizione. Una predisposizione di razza è stata riportata nel pastore delle Shetland. 2.2.2 Dislocazione mediale dei canini inferiori Si pensa che la causa di questa condizione siano i canini primari persistenti della mandibola. Tuttavia, la dislocazione mediale dei canini inferiori non è frequente nelle razze toy, in cui i denti primari persistenti sono un riscontro comune. Questa malocclusione è frequente nelle razze dolicocefale, dove è di origine scheletrica dato che la mandibola è troppo piccola per una mascella lunga.

3.3 Incisivi Gli incisivi permanenti erompono caudalmente ai corrispondenti denti primari. La ritenzione di uno o più di questi ultimi può interferire con l’occlusione a forbice dei denti permanenti, con gli incisivi superiori che occludono dietro quelli mandibolari, determinando cioè un morso anteriore crociato, che può comportare un trauma localizzato dei tessuti molli.

2.3 Malocclusione di premolari e molari Il termine di morso crociato posteriore viene utilizzato per descrivere una relazione anomala con il dente ferino, che si osserva comunemente nelle razze dolicocefale, dove la normale relazione buccolinguale è invertita.

4. Anomalie dentali indotte dall’incastro dei denti Si può avere la formazione di un incastro dei denti tale da determinare una malocclusione quando un periodo di crescita di mascella e mandibola coincide con l’eruzione dei canini e degli incisivi primari o permanenti che interagiscono per formare l’incastro dentale. Una volta che questo sia stato stabilito, la mascella e la mandibola vengono forzate a crescere rostralmente alla stessa velocità, indipendentemente dall’informazione genetica. Per esempio, i canini della mandibola che si incastrano rostralmente con il terzo incisivo superiore causeranno un morso prognatico della mandibola non ereditario; i canini mandibolari che si incastrano medialmente e più caudalmente del normale causeranno una mandibola stretta e un morso della mandibola brachignatico. La prevenzione è sempre migliore del trattamento. Un riconoscimento precoce di un problema è essenziale per evitare disagio e dolore nell’animale e prevenire lo sviluppo di una patologia grave. La malocclusione che colpisce la dentizione primaria può richiedere l’applicazione di apparecchi ortodontici. La malocclusione che colpisce la dentizione permanente può non aver affatto bisogno di alcun trattamento, se non sta causando un disagio all’animale o qualche patologia orale. La malocclusione che causa disagio e patologie deve sempre essere trattata.

3. Malocclusione associata a denti primari persistenti I denti primari persistenti, cioè quelli che sono ancora in sede quando iniziano ad erompere i corrispondenti denti permanenti, possono interferire con la modalità normale di eruzione di questi ultimi. Le razze più piccole sono più spesso colpite da questa condizione. La modalità di trasmissione ereditaria non è nota, ma sembra essere familiare. Le tre aree più comunemente coinvolte sono i canini inferiori, i canini superiori e gli incisivi 3.1 Canini mandibolari Il canino mandibolare permanente inizia l’eruzione medialmente al suo corrispondente primario. Una volta perso il dente primario, il canino permanente si allarga lateralmente, per occupare il diastema controlaterale tra il terzo incisivo superiore e il canino superiore. Se il canino primario non viene perso, quello permanente può essere forzato a continuare l’eruzione medialmente al corrispondente dente primario persistente e agisce sul palato duro causando dolo-

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Vantaggi e svantaggi dei cristalloidi per via endovenosa Steve Haskins DVM, MS, Dipl ACVA, Dipl ACVECC, California, USA

I cristalloidi sono fluidi che contengono elettroliti (sodio [peso molecolare 23 Dalton], potassio [peso molecolare 39], cloro [peso molecolare 35,5], lattato [peso molecolare 89], acetato [peso molecolare 59] e gluconato [peso molecolare 195]) ed altri piccoli soluti come il glucosio (peso molecolare 180) o il mannitolo (peso molecolare 182). Questi elettroliti e soluti sono di piccole dimensioni in confronto ai colloidi e possono attraversare liberamente l’endotelio vascolare. A seconda delle loro individuali concentrazioni di soluti, i cristalloidi possono essere iso-osmotici, ipo-osmotici o iper-osmotici (Appendice VI) rispetto al normale fluido extracellulare (che ha una osmolalità normale di circa 300 mOsm/kg). Cosa ancor più importante, a seconda delle loro concentrazioni di sodio o di agenti osmolari efficaci (il man-

nitolo, ma non il glucosio), i cristalloidi possono essere isotonici, ipo-tonici o iper-tonici (Appendice VI) rispetto al normale fluido extracellulare. I cristalloidi ipotonici sono una cattiva scelta come fluidi primari per la fluidoterapia perioperatoria, a causa del rischio di intossicazione da acqua. Le soluzioni povere di sodio vengono utilizzate principalmente per il ripristino delle perdite di acqua e di alcuni elettroliti necessari al mantenimento della normale omeostasi. Il destrosio al 5% in acqua trova impiego soprattutto come veicolo per apportare dei farmaci e come fonte di acqua libera nel trattamento dell’ipernatremia. Il destrosio al 50% in acqua viene usato primariamente per integrare la concentrazione di glucosio di altri fluidi somministrati.

Le soluzioni ipotoniche hanno una concentrazione di sodio o osmolalità inferiore al plasma. [Na+] [mM/L]

Osmolalità [mOsm/kg]

[Cl–]

[K+]

Tonicità

75

150

75

0

1/2 normale

Normosol M (Abbott)

40

110

40

13

1/4 normale

Destrosio al 5% in acqua (molti)

0

250

0

0

0

Destrosio al 10% in acqua (molti)

0

500

0

0

0

Destrosio al 50% in acqua (molti)

0

2500

0

0

0

Prodotto (Produttore) NaCl 0,45% (molti) ®

Le soluzioni ipertoniche hanno un ruolo limitato nell’aumento del volume ematico. Quella di NaCl al 7,5% è stata usata nel trattamento iniziale della grave ipovolemia. Il dosaggio raccomandato è di 4-6 ml/kg ed è limitato a questo valore in virtù della conseguente ipernatremia acuta. Mentre l’aumento volumetrico per volume di soluzione ipertonica di NaCl somministrato è impressionante, i benefici effetti cli-

nici sono mediocri e transitori. Ci può essere un certo impiego per la soluzione ipertonica di NaCl in situazioni ambulatoriali. La soluzione di NaCl ipertonica molto concentrata (23,4%) viene utilizzata principalmente per aumentare la concentrazione di sodio del fluido primario. Le soluzioni di mannitolo sono impiegate soprattutto nel trattamento dell’edema cerebrale e come diuretici osmotici.

Le soluzioni ipertoniche hanno una concentrazione di sodio o osmolalità superiore al plasma. Prodotto (Produttore)

[Na+] [mM/L]

Osmolalità [mOsm/kg])

NaCl al 7,5% (Vedco)

1200

2400

NaCl al 23,4% (American Reagent)

4000

8,000

0

1250

Mannitolo al 25%

276


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Sono i cristalloidi isotonici ad essere utilizzati principalmente per la fluidoterapia perioperatoria. Questi fluidi hanno una concentrazione di sodio ed un’osmolalità prossime ai valori normali e sono in gran parte limitati al comparto fluido extracellulare. In generale, fa poca differenza il tipo di soluzione utilizzata; di solito è possibile somministrare volumi elevati senza effetti collaterali indesiderati sulle normali concentrazioni elettrolitiche. Nella Tabella 4 si può osservare, tuttavia, che esistono alcune differenze nelle concentrazioni di cloro, potassio e lattato/acetato/gluconato, che in alcuni casi potrebbero essere importanti. La soluzione di NaCl tende a promuovere l’ipercloremia, l’acidosi metabolica e l’ipokalemia; quella di Ringer lattato tende a promuovere l’ipercloremia e l’acidosi metabolica e

quelle con elevate concentrazioni di acetato e gluconato tendono a promuovere l’alcalosi metabolica. La soluzione di Ringer lattato, pur avendo un effetto quasi neutro sui livelli di cloro e potassio e sull’equilibrio acido-basico, ha la più bassa concentrazione di sodio. Le soluzioni di Ringer lattato e di Ringer contengono calcio, ma non magnesio; la Plasmalyte 148® e la Normosol R® contengono magnesio, ma non calcio; quella di NaCl non contiene né l’uno né l’altro. L’acetato di sodio è stato associato a vasodilatazione arteriolare. La maggior parte dei pazienti normali è in grado di compensare tutti questi effetti, ma nessuno dei fluidi è perfetto e la scelta delle soluzioni cristalloidi isotoniche può essere importante in un piccolo numero di pazienti selezionati.

Concentrazioni elettrolitiche dei comuni cristalloidi (mEq o mM/L) [Na+]

Osmolalità [mOsm/L])

[Cl–]

[K+]

(L)attato (A)cetato (G)luconato

Soluzione di Ringer lattato (molti)

130

273

109

4

L 28

Soluzione fisiologica (0,9%) (molti)

155

310

155

0

0

Soluzione di Ringer (molti)

148

310

156

4

0

Plasmalyte 148® (Baxter)

140

295

98

5

A 27; G 23

®

140

295

98

5

A 27; G 23

Prodotto (Produttore)

Normosol R (Abbott)

Quando si infondono dei cristalloidi isotonici nel comparto fluido intravascolare, questi si pongono rapidamente in equilibrio con il comparto fluido interstiziale, in meno di 30 minuti. Questa ridistribuzione è la ragione per cui sono necessari volumi di cristalloidi isotonici così elevati per il ripristino del volume ematico (solo il 20% circa del volume infuso resta all’interno del comparto fluido intravascolare). La replezione interstiziale di cristalloidi è un vantaggio nei pazienti disidratati ed uno svantaggio in quelli edematosi. I fluidi cristalloidi possono essere somministrati a velocità estremamente basse, solo per mantenere cateterizzati i pazienti in caso di emergenza (3-5 ml/ora). Le velocità di infusione per il mantenimento delle normali perdite continue sono comprese fra 2 e 4 ml/kg/ora, a seconda della taglia dell’animale (quelli più piccoli ricevono il dosaggio più elevato). I cristalloidi vengono comunemente somministrati alla velocità di 5-10 ml/kg/ora durante l’anestesia e gli interventi chirurgici, per mantenere un efficace volume circolante. Velocità di infusione minori possono essere appropriate nei pazienti con nefropatia oligurica/anurica o insufficienza cardiaca congestizia; velocità più elevate possono essere adatte ai soggetti con nefropatia poliurica o ritenuti in carenza di fluidi sulla base del riscontro di ipotensione o disidratazione. I cristalloidi possono anche essere somministrati a velocità molto elevate (80 - 100 ml/kg in aliquote da 20 ml/kg associate ad un appropriato monitoraggio del punto terminale) per brevi periodi di tempo se il paziente è gravemente ipovolemico o ipoteso. I gatti hanno un volume ematico più piccolo di quello dei cani e le raccomandazioni rela-

tive al carico dei fluidi devono essere ridotte in proporzione (40-50 ml/kg in aliquote da 10 ml/kg). Questo carico di fluidi è spesso ottenuto in periodi di tempo abbastanza brevi 1560 minuti). Qualsiasi fluidoterapia aggressiva può scatenare un’insufficienza cardiaca se il cuore non riesce ad adattarsi all’incremento del ritorno venoso. Il monitoraggio dei parametri del precarico è particolarmente importante nei pazienti con insufficienza cardiaca. Quelli con insufficienza renale sono suscettibili al sovraccarico di fluidi se non riescono ad aumentare la produzione di urina. In questi animali risulta particolarmente importante il monitoraggio dei segni clinici dell’edema sistemico. I vasi sanguigni che abbiano subito una recente lacerazione/rottura a causa di un trauma verificatosi nelle ultime ore (contusioni polmonari e cerebrali, lacerazioni epatiche e spleniche, ecc.) sono soggetti alla ripresa del sanguinamento se vengono sottoposti ad una fluidoterapia aggressiva, indipendentemente dal liquido impiegato. Un incremento della pressione idrostatica vascolare disturba il delicato tappo piastrinico prima della stabilizzazione del coagulo. Impiegando una fluidoterapia aggressiva esiste il rischio di far aggravare una contusione cerebrale o polmonare o di trasformare un emoaddome trattabile con la terapia medica in uno di interesse chirurgico. La fluidoterapia nei pazienti traumatizzati di recente deve essere abbastanza aggressiva da stabilizzare (ma non necessariamente normalizzare) la funzione cardiovascolare e al tempo stesso abbastanza conservativa da evitare un nuovo sanguinamento. 277


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I fluidi cristalloidi isotonici possono causare edema in virtù della loro sostanziale ridistribuzione interstiziale. Si può anche avere un’emodiluizione dei componenti ematici non presenti nel fluido cristalloide, caratterizzata da anemia, ipoproteinemia e diminuzione della riserva coagulativa. Se una qualsiasi di queste anomalie diviene clinicamente significativa durante la somministrazione dei fluidi cristalloidi, al

piano fluidoterapico si devono aggiungere, rispettivamente, eritrociti, colloidi o fattori di coagulazione. Le soluzioni fisiologiche causano un’acidosi metabolica transitoria, mentre quelle contenenti acetato/gluconato possono determinare un’alcalosi transitoria. L’effetto acido-basico della soluzione di Ringer lattato è relativamente neutro.

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The good and bad characteristics of intravenous crystalloid fluids Steve Haskins DVM, MS, Dipl ACVA, Dipl ACVECC, California, USA

Crystalloids are fluids containing electrolytes (sodium (mw 23 Daltons); potassium (mw 39); chloride (mw 35.5); lactate (mw 89); acetate (mw 59); and gluconate (mw 195) and other small solutes such as glucose (mw 180) or mannitol (mw 182). These electrolytes and solutes are small in size compared to colloids and are freely permeable across the vascular endothelium. Crystalloids may be iso-osmotic, hypo-osmotic, or hyper-osmotic (Appendix VI) compared to normal extracellular fluid (which has a normal osmolality of about 300 mOsm/kg) depending upon their individual solute concentrations. More importantly, crystalloids my be isotonic, hypotonic, or hypertonic (Appen-

dix VI) compared to normal extracellular fluid depending upon their sodium or effective osmole (mannitol but not glucose) concentrations. Hypotonic crystalloids are poor choices for the primary fluid for perioperative fluid therapy because of the danger of water intoxication. Low-sodium solutions are primarily used for the replacement of water and some electrolytes necessary to maintain normal homeostasis. Five percent dextrose in water is primarily used as a delivery vehicle for drugs and as a source free water in the treatment of hypernatremia. Fifty percent dextrose in water is primarily used to supplement the glucose concentration of other administered fluids.

Hypotonic solutions have a sodium concentration or osmolality less than plasma. Product (Company)

[Na+] [mM/L]

Osmolality [mOsm/kg]

[Cl-]

[K+]

Tonicity

1/2 strength saline (many)

75

150

75

0

1/2 normal

Normosol MÂŽ (Abbott)

40

110

40

13

1/4 normal

5% dextrose in water (many)

0

250

0

0

0

10% dextrose in water (many)

0

500

0

0

0

50% dextrose in water (many)

0

2500

0

0

0

Hypertonic solutions have a limited role in blood volume augmentation. 7.5% hypertonic saline has been used in the initial management of severe hypovolemia. The recommended dosage is 4-6 ml/kg and is limited to this by virtue of the resultant acute hypernatremia. While the volume augmentation per volume of hypertonic saline administered is

impressive, the clinical benefit is unimpressive and transient. There may be some use for hypertonic saline in ambulatory situations. The very concentrated hypertonic saline (23.4%) is primarily used to augment the sodium concentration of the primary fluid. Mannitol solutions are primarily used in the treatment of cerebral edema and as an osmotic diuretic.

Hypertonic solutions have sodium concentration or osmolality greater than plasma. Product (Company)

[Na+] [mM/L]

Osmolality [mOsm/kg])

7.5% saline (Vedco)

1200

2400

23.4% % saline (American Reagent)

4000

8,000

0

1250

25% mannitol

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It is the isotonic crystalloids that are primarily used for perioperative fluid therapy. These crystalloids have a sodium concentration and osmolality that are near normal and these are largely restricted to the extracellular fluid compartment. In generally, it makes little difference which of these fluids is used; large volumes can usually be administered without adverse effects on normal electrolyte concentrations. One can see in Table 4, however, that there are some differences in chloride, potassium, and lactate/acetate/gluconate concentrations and these might be important in some circumstances. Saline tends to promote hyperchloremia, metabolic acidosis, and hypokalemia; Ringers solution tends to pro-

mote hyperchloremia and metabolic acidosis; and solutions with high concentrations of acetate and gluconate tend to promote metabolic alkalosis. Lactated Ringers solution, while having a near neutral effect on chloride, potassium, and acid base, also has the lowest sodium concentration. Lactated Ringers and Ringers solutions contain calcium but no magnesium; Plasmalyte 148® and Normosol R® contain magnesium but no calcium; saline contains neither. Sodium acetate has been associated with arteriolar vasodilation . Most normal patients can compensate for all of these effects, but none of the fluids are perfect and isotonic crystalloid fluid selection may be important in a select few patients.

Electrolyte Concentrations of Common Crystalloids (mEq or mM/L) Product (Company)

[Na+]

Osmolality [mOsm/L])

[Cl-]

[K+]

(L)actate (A)cetate (G)luconate

Lactated Ringers solution (many)

130

273

109

4

L 28

Saline (0.9%)(many)

155

310

155

0

0

Ringers solution (many)

148

310

156

4

0

Plasmalyte 148 (Baxter)

140

295

98

5

A 27; G 23

Normosol R® (Abbott)

140

295

98

5

A 27; G 23

®

When isotonic crystalloids are infused into the intravascular fluid compartment, they rapidly equilibrate with the interstitial fluid compartment in less than 30 minutes. This redistribution is the reason that such large volumes of isotonic crystalloids are needed for blood volume restoration (only about 20% of the infused volume remains within the intravascular fluid compartment). Interstitial crystalloid repletion is an advantage in dehydrated patients and a disadvantage in edematous patients. Crystalloid fluids may be administered at very minimal rates just to keep the catheter patent in case of an emergency (3 to 5 ml/hour). Infusion rates to maintain normal ongoing losses range between 2 and 4 ml/kg/hr, depending upon the size of the animal (smaller animals receiving the higher dosage). Crystalloids are commonly administered at a rate of 5 to 10 ml/kg/hr during anesthesia and operation is to maintain an effective circulating volume. Lower infusion rates might be appropriate in patients with oliguric/anuric renal disease or congestive heart failure; higher infusion rates might be appropriate in patients with polyuric renal disease or whom are judged to be fluid deficient as evidenced by hypotension or dehydration. Crystalloids may also be administered at very high rates (80 to 100 ml/kg in 20 ml/kg aliquots associated with appropriate end-point monitoring) for short periods of time if the patient is severely hypovolemic or hypotensive. Cats have a smaller blood volume than dogs and recommendations for fluid loading should be proportionately reduced (40 to 50 ml/kg in 10 ml/kg aliquots). Such fluid loading is often accomplished over fairly short periods of time (15 to 60 minutes).

Any aggressive fluid therapy may precipitate heart failure if the heart cannot accommodate the enhanced venous return. The monitoring of preload parameters is especially important in heart failure patients. Renal failure patients are susceptible to fluid overload if they cannot increase urinary output. The monitoring of signs of systemic edema is especially important in these patients. Freshly lacerated/ruptured blood vessels due to trauma within the last hour or so (pulmonary and cerebral contusions, lacerated livers and spleens, etc.) are subject to rebleeding with an aggressive fluid therapy plan with any fluid. An increase in vascular hydrostatic pressure disturbs the delicate platelet plug prior to clot stabilization. It is possible to worsen a cerebral or pulmonary contusion or to convert a medically-treatable hemo-abdomen to a surgical hemoabdomen with an aggressive fluid plan. Fluid therapy in freshly traumatized patients should be aggressive enough to stabilize (but not necessarily to normalize) cardiovascular function and yet conservative enough to avoid re-bleeding. Isotonic crystalloid fluids can cause edema by virtue of their substantial interstitial redistribution. Hemodilution of blood components that are not in the crystalloid fluid may also occur, characterized by anemia, hypoproteinemia, and diminished coagulation reserve. If any of these abnormalities become clinically significant during the administration of crystalloid fluids, red cells, colloids, or coagulation factors, respectively, must be added to the fluid therapy plan. Saline solutions cause a transient metabolic acidosis while acetate/gluconate solutions can cause a transient alkalosis. Lactated Ringer’s solution has a relatively neutral acid-base effect. 280


62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC

Vantaggi e svantaggi dei colloidi per via endovenosa Steve Haskins DVM, MS, Dipl ACVA, Dipl ACVECC, California, USA

l’edema oligurico/anurico, la ripresa del sanguinamento e l’emodiluizione, i colloidi artificiali producono un difetto dose-correlato dell’emostasi primaria, che è in una certa misura superiore a quello della sola emodiluizione (Concannon KT, 1992; Cope JT, 1997; Gollub S, 1967; Wierenga J, 2007). Il prolungamento dell’aPTT è attribuito alla riduzione dell’attività del VIII:C (Gollu S, 1967; Aberg M, 1979). Il prolungamento del tempo di sanguinamento e la diminuzione dell’adesività piastrinica sono attribuiti all’inibizione del vWf:ag (Aberg, 1979). Questo effetto sulla coagulazione è più pronunciato quando i colloidi vengono somministrati in dosi più elevate o per periodi di tempo più prolungati e sembra essere proporzionale al peso molecolare delle macromolecole circolanti (Trieb J, 1997). Non ci si attende che dosi ancora più grandi inducano un sanguinamento nei pazienti normali. Tuttavia, alcuni soggetti coagulopatici ed alcuni pazienti nel periodo postoperatorio possono sviluppare problemi emorragici (Cope JT, 1997). Gli effetti sulla coagulazione dei colloidi artificiali possono essere utili nella fase ipercoagulabile della coagulazione intravasale disseminata, dove uno degli obiettivi della terapia è rallentare le reazioni a cascata della coagulazione attivata e delle piastrine. Le sostanze con pesi molecolari al di sotto di 50.000 Dalton vengono rapidamente escrete nell’urina, provocando una diuresi osmotica transitoria. Le molecole colloidali filtrate possono essere concentrate, determinando un aumento della viscosità dell’urina e del peso specifico. Il Destrano 40 ha un impatto iniziale maggiore sul volume plasmatico, ma una durata d’azione più breve in confronto al Destrano 70. A causa delle sue minori dimensioni molecolari medie, viene filtrato più rapidamente dal glomerulo ed escreto. Negli stati di riassorbimento tubulare attivo (disidratazione), le molecole del destrano si concentrano nel lume tubulare, aumentano la viscosità del filtrato e predispongono all’insufficienza renale acuta (Ferraboli R, 1997). Il peso specifico dell’urina viene spesso utilizzato come marker surrogato della concentrazione urinaria e, quando è aumentato, di solito costituisce un segno di disidratazione. Il peso specifico urinario deve essere interpretato con cautela dopo o durante la somministrazione di colloidi artificiali; l’osmolalità urinaria va usata invece come marker della concentrazione dell’urina. I colloidi possono interferire con le procedure di compatibilità crociata causando un addensamento degli eritrociti (Daniels MJ, 1982). Le reazioni allergiche sono estremamente rare, ma possibili.

Le soluzioni colloidali contengono molecole di grandi dimensioni (molte migliaia di Dalton) che non attraversano facilmente la normale membrana vascolare. Queste soluzioni sono in gran parte ritenute all’interno del comparto fluido vascolare e quindi sono più efficienti come espansori del volume ematico e meno edemigeni rispetto ai cristalloidi. I destrani sono miscele di polisaccaridi a catena lineare prodotti da batteri, Leuconostoc mesenteroides o lactobacilli cresciuti su un terreno di saccarosio. Attraverso l’idrolisi acida delle macromolecole vengono prodotte sostanze di differente peso molecolare. I destrani non filtrati dal glomerulo vengono metabolizzati dalle destrinasi presenti in vari tessuti. Il Destrano-70 (presente in molti prodotti commerciali) è l’esempio più comunemente utilizzato. L’amido eterificato (Hetastarch) ed il Pentastarch (Abbott®) sono polimeri del glucosio a catena ramificata, modificati, prodotti per idrolisi dell’amido amilopectina altamente ramificata. Gli amidi vengono metabolizzati dalle alfa-amilasi plasmatiche ed interstiziali ed in seguito alla loro somministrazione si più riscontrare un aumento dei livelli dell’amilasi plasmatica. Le soluzioni di colloidi contengono molti soluti di dimensioni differenti. Le sostanze di peso molecolare inferiore a circa 50.000 Dalton vengono rapidamente escrete con l’urina. Ciò provoca una diuresi osmotica transitoria e può aumentare il peso specifico dell’urina (senza un proporzionale aumento della sua osmolalità). Le molecole più grandi vengono metabolizzate lentamente e tendono ad accumularsi nell’organismo con la somministrazione giornaliera del colloide. Le soluzioni di colloidi disponibili in commercio sono iso-osmotiche (sospese in soluzione fisiologica o in altri cristalloidi simili al fluido extracellulare) ed iperoncotiche nel flacone. I colloidi artificiali vengono comunemente somministrati per aumentare il volume ematico circolante e sostenere la pressione colloidosmotica nei pazienti ipoproteinemici. I dosaggi di carico dei colloidi vanno generalmente da 5 a 30 ml/kg in aliquote da 5 ml/kg (con un appropriato monitoraggio dei punti terminali cardiovascolari). Nel gatto, i valori vanno da 2,5 a 15 ml/kg in aliquote da 2,5 ml/kg. L’infusione a velocità costante dei colloidi a 1-2 ml/kg/ora sarebbe approssimativamente equivalente all’infusione di cristalloidi a 5-10 ml/kg/ora e potrebbe essere usata per il supporto intraoperatorio del volume ematico circolante. La stessa velocità di somministrazione è stata usata per sostenere la pressione colloidosmotica nei pazienti ipoproteinemici. Oltre ad aggravare l’insufficienza cardiaca congestizia, 281


62째 Congresso Internazionale Multisala SCIVAC

Bibliografia

Daniels MJ, Strausss RG, Smith-Floss AM, Effects of hydroxyethyl starch on erythrocyte typing and blood cross matching, Transfusion 1982; 22:226-228. Ferraboli R, Malheiro PS, Abdulkader RC. et al, Anuric acute renal failure caused by dextran 40 administration, Ren Fail 1997; 19:303-306. Gollub S, Schaefer C, Squitieri A, The bleeding tendency associated with plasma expanders, Surg Gynec Obst 1967; 124:1203-1211. Treib J, Hass A, Pindur G, Coagulation disorders caused by hydroxyethyl starch, Throm Haemost 1997; 78:974-983. Wierenga J, Jandrey K, Haskins SC, Tablin, F, The effect of Hetastarch and Hextend on platelet function in vitro, Am J Vet Res in press, 2007.

Aberg M, Hedner U, Bergentz SE, Effect of dextran on factor VIII (antihemophilic factor) and platelet function, Ann Surg 1979; 189:243-247. Concannon KT, Haskins SC, Feldman BF, Hemostatic defects associated with two infusion rates of dextran 70 in dogs, Am J Vet Res 1992; 53:1369-1375. Cope JT, Banks D, Mauney MC, et al, Intraoperative hetastarch infusion impairs hemostasis after cardiac operations, Ann Thor Surg 1997; 63:78-83.

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