Srepitus Fori

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L’EDITORIALE

Strepitus Fori riempie finalmente un vuoto: mancava agli avvocati penalisti romani una rivista scientifica dedicata alla rassegna ed alla analisi critica della giurisprudenza del Foro. Le maglie delle pur prestigiose riviste nazionali sono troppo larghe per soddisfare le esigenze analitiche della giurisprudenza penale quotidianamente prodotta nelle aule del più grande distretto giudiziario d’Italia. D’altronde, esse si muovono in una logica diversa da quella che noi ci proponiamo di seguire. Altro è infatti segnalare pronunzie territoriali particolarmente significative sul piano generale, altro è seguire analiticamente, nell’ambito dello stesso Foro, la giurisprudenza delle varie sezioni, dei vari collegi, i criteri di determinazione della pena per fatti analoghi adottati da una sezione o da un’altra, o a volte da Giudici della stessa sezione: qui lo studio trascende l’analisi, pur necessaria, del caso specifico, centrando piuttosto l’attenzione sugli orientamenti, sugli indirizzi, potremmo dire sulla qualità complessiva dello ius dicere capitolino (e laziale, se pensiamo alla giurisprudenza delle sezioni della Corte di Appello), in ordine alle varie questioni di volta in volta considerate. Non solo, dunque, un diverso calibro della lente di ingrandimento, ma anche una diversa idea della messa a fuoco. E non è un caso che, in particolare nella parte dedicata all’approfondimento monotematico, si ponga attenzione non solo alle sentenze, ma anche ai provvedimenti decisori di diversa natura (in questo numero, le ordinanze di custodia cautelare), non meno che agli scritti difensivi (ovviamente nella parte relativa al tema specificamente trattato). Si tratta di una prospettiva del tutto originale ed assai stimolante, perché consente di comprendere natura e qualità di un orientamento giurisprudenziale alla luce della complessiva dialettica tra le parti processuali. Si prenda il tema approfondito in questo primo numero: analizziamo la attuale giurisprudenza del Tribunale del Riesame di Roma in materia di libertà personale, con specifico riguardo al profilo del pericolo di reiterazione del reato. In realtà, l’analisi muove dalla motivazione, sul punto, delle ordinanze cautelari oggetto di riesame, lette anche attraverso le censure proposte dalle difese, fino alle decisioni assunte dal Tribunale ed agli interventi della Suprema Corte su quelle ordinanze. Una novità assoluta, una sfida affascinante, che consente di comprendere a fondo ciò che accade nelle nostre aule giudiziarie ben al di là della valutazione tecnica del singolo provvedimento; uno strumento prezioso, noi crediamo, anche per i Magistrati del Foro, cui infatti abbiamo deciso di inviare gratuitamente la rivista, al pari dei Colleghi iscritti alla Camera Penale di Roma. La nostra ambizione è infatti quella di approntare uno strumento che consenta ad un tempo di esprimere la valutazione critica della avvocatura romana sui temi giurisprudenziali che quotidianamente ci occupano, di renderla nota ai Magistrati che quella giurisprudenza esprimono, e di confrontarci con essi nel modo più libero, sempre nel più rigoroso rispetto delle prerogative e del ruolo delle diverse parti nel processo. Dunque una rivista scientifica, nel senso che essa è dedicata in via esclusiva ad analisi e valutazioni di natura strettamente giuridiche, ma pienamente strumentale all’idea di fondo che noi delle Camere Penali coltiviamo della nostra professione e del nostro ruolo.

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Editoriale Noi pratichiamo e difendiamo l’idea di un avvocato qualificato e consapevole. Qualificato nel senso che avverta il dovere, e prima ancora la personale esigenza, di acquisire e rafforzare quotidianamente la propria specializzazione penalistica attraverso lo studio, la formazione, l’aggiornamento; ma al contempo consapevole, cioè attrezzato a comprendere che lo straordinario magistero del difensore dei diritti e della libertà personale dei cittadini esige la acquisizione di una coscienza critica, di una capacità di comprensione dei fenomeni che attraversano e determinano la quotidianità della vita giudiziaria superiore a quella richiesta ad altre specializzazioni forensi pur prestigiose e qualificate. La nostra, sia detto senza iattanza, non è una professione come le altre: la difesa della libertà delle persone, il diritto-dovere di contrapporsi alla potestà pubblica nello scontro più estremo con la sfera di intangibilità dei diritti individuali, richiede un livello di coscienza civile, politica nel senso più nobile, insomma una capacità critica che finisce per essere l’essenza davvero decisiva della nostra forza professionale. Ecco perché è alla fine naturale che la Camera Penale di Roma, accanto a tutte le iniziative - di studio, di denunzia, politiche- che assume quotidianamente nella sua ormai ventennale vita associativa, abbia ora ritenuto di dotarsi di una rivista scientifica, e di metterla a disposizione della crescita culturale e civile della nostra vita forense. Abbiamo cercato un sostegno istituzionale che ci consentisse di diffondere quanto più possibile questo strumento, altrimenti destinato al numero - necessariamente ristretto- dei suoi abbonati: e siamo grati al Consiglio Regionale del Lazio (ed in particolare al Consigliere Regionale e nostro Collega Avv. Massimo Pineschi) che ha voluto concedercelo, mettendoci nelle condizioni di poter contare su una diffusione ampia della rivista fra Avvocati e Magistrati. Si tratta anche di un riconoscimento della affidabilità e del prestigio della associazione che mi onoro di presiedere, al quale sapremo certamente corrispondere con un impegno ancora più forte e motivato nella realizzazione di questo progetto. Ma è bene essere consapevoli che il successo di Strepitus Fori ed il raggiungimento dei suoi obiettivi dipenderanno esclusivamente dall’impegno di tutti noi. Questa Rivista deve diventare frutto del lavoro di ciascuno di noi, attraverso la segnalazioni di sentenze, provvedimenti, scritti difensivi che riterremo meritevoli di essere segnalati alla attenzione della Redazione e, tramite essa, di tutti i lettori. È impensabile che il lavoro di reperimento dei provvedimenti e degli atti più significativi della giurisprudenza penale romana e laziale resti affidato alla sola iniziativa della Direzione Scientifica e della Redazione. È indispensabile che Strepitus Fori diventi il terminale naturale delle nostre segnalazioni giurisprudenziali, lo strumento di condivisione con i Colleghi e con i Magistrati del Foro di esperienze, valutazioni, analisi critiche. Ci auguriamo che questo nostro sforzo venga premiato non solo dalla Vostra attenzione, ma anche dalla Vostra concreta collaborazione. Un ringraziamento particolare deve essere rivolto ai Direttori Scientifici della Rivista, Prof. Avv.Pasquale Bartolo e Prof. Avv. Filippo Dinacci, alle Colleghe ed ai Colleghi della Redazione ed al loro coordinatore, Avv. Domenico Battista, per l’impegno gravoso ed il contributo decisivo che essi mettono a disposizione di tutti noi e, in definitiva, della crescita di quell’avvocato qualificato e consapevole che tutti dobbiamo avere l’ambizione di essere. A loro, dunque, la nostra gratitudine e la nostra riconoscenza; a Voi tutti, una buona e proficua lettura. Gian Domenico Caiazza (Presidente della Camera penale di Roma)

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IL PUNTO SU … IL PRESUPPOSTO DELLE MISURE CAUTELARI DI CUI ALL’ART.274, LETT. C), C.P.P.: IL PERICOLO DI REITERAZIONE E LA MOTIVAZIONE ‘APPARENTE’ DEI PROVVEDIMENTI CAUTELARI.

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IL PERICOLO DI RECIDIVA TRA PRESUNZIONE DI NON COLPEVOLEZZA E L’OBBLIGO DI UNA RAZIONALE GIUSTIFICAZIONE 1 - Libertà personale e discrezionalità valutativa. 2 – Periculum sociale, pena e presunzione di non colpevolezza. 3 – L’adeguatezza cautelare come strumento di compatibilità con i limiti costituzionali. 4 – La strumentalizzazione operativa del pericolo di recidiva. 5 – Controllo della decisione e garanzia di effettività dello stesso. 6 – Conclusioni 1 – Libertà personale e discrezionalità valutativa La materia cautelare è quella dove maggiormente si acuisce il conflitto processuale tra diritti dell’individuo e poteri dell’autorità (1); e, benchè sussista un presidio costituzionale, è anche il settore dove maggiormente la “libertà valutativa” del giudice si fa sentire. E ciò accade nonostante gli sforzi profusi dal legislatore di ancorare i criteri di decisione a parametri legali predeterminati; tuttavia, l’impossibilità di comprimere in schemi giuridici il momento valutativo del giudice in quanto fattore assolutamente emozionale (2) da un lato, e il ripudio di “prove legali”, dall’altro lato, non consente di irregimentare la materia in norme giuridiche che vadano al di là di mere regole del giudizio. Ne deriva che le misure cautelari risultano assoggettate a criteri di discrezionalità vincolata la quale, seppure si diversifica dalla facoltatività (3), non è in grado di garantire un’oggettiva uniformità di trattamento. In sostanza, il criterio di uso della norma limitativa della libertà personale costituisce uno di quei temi maggiormente esposti alle “ideologie processuali” del momento. La conclusione assume particolare robustezza laddove si ponga mente alla tendenza di giustificare la limitazione, od anche solo la permanenza, di una misura personale facendo ricorso al periculum delle cc.dd. esigenze di tutela della collettività. Attraverso lo stesso, infatti, si consente il vincolo ipoteticamente fino alla scadenza dei termini massimi di custodia cautelare. E ciò in tanto può accadere nella misura in cui l’esigenza di cui all’art. 274 lett. c) c.p.p. risulta sganciata da ogni rapporto di “strumentalità cautelare”; infatti, il periculum in questione non è posto a tutela di un fine del processo ma, più propriamente, di esigenze di prevenzione speciale. Ecco allora che il rapporto tra tempo del processo e misura cautelare rischia di percorrere vie senza ritorno con il conseguente adeguamento dei tempi cautelari a quelli del processo. 2 – Periculum sociale, pena e presunzione di non colpevolezza Pertanto, il ricorso al periculum rappresentato dall’esigenza di tutela della collettività deve effettuarsi con criteri di stretta lettura proprio al fine di qualificarne un’operatività residuale; conclusione questa imposta dalla presunzione di non colpevolezza la quale esclude che la liber1 Cfr. AMATO, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967, 186. 2 Per un’impostazione del giudizio come espressione ecorazionale e quindi non regolabile sul piano normativo, v. MASSA, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, 1964, 259. 3 Per la distinzione tra atto discrezionale ed atto facoltativo cfr. CORDERO, Le situazioni giuridiche soggettive, Milano, 1955, 159 e ss..

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tà personale dell’imputato possa venire ristretta in vista dell’assolvimento di funzioni di natura sostanziale tipiche della pena (4). Si evidenzia così una deformazione della custodia preventiva rispetto alla sua tipica dimensione processuale. E, se anche può rilevarsi come sul piano normativo la finalità della custodia cautelare sia anche quella di prevenzione immediata della commissione di delitti da parte del prevenuto (5), non è controvertibile come tale impostazione sia difficilmente conciliabile con la presunzione di non colpevolezza. Questa costituisce, ai fini cautelari, una regola di trattamento in forza della quale la custodia cautelare non può rappresentare un’anticipazione della pena (6). In sostanza, la misura cautelare determina una ripartizione del rischio del processo tra Stato ed imputato. Rischio di una condanna inutile perché ineseguibile per il primo; di un tardivo riconoscimento di innocenza per il secondo. In tale prospettiva, muovendosi nell’ottica di un bilanciamento tra il dovere di punire e la garanzia del singolo, occorre prendere atto che la prospettata incompatibilità di disciplina può trovare una composizione nell’impegno di utilizzare, fin dove è possibile, misure cautelari differenziate dall’eventuale pena. Solo in tal modo si diversifica la custodia cautelare da una sanzione atipica (7). 3 – L’adeguatezza cautelare come strumento di compatibilità con i limiti costituzionali E questa, in effetti, appare essere la strada perseguita dal legislatore ordinario il quale non ha rinunciato alla previsione di un periculum di tutela sociale, ma ha cercato di mantenere tale disciplina nell’ambito della costituzionalità, limitandone il perimetro facendo leva, da un lato, su una specifica puntualizzazione dei requisiti di operatività della fattispecie e, dall’altro lato, sulla sua subordinazione al principio di adeguatezza delle misure. In sostanza, abbandonandosi l’esigenza di ortodossia costituzionale, si è pervenuti ad un bilanciamento di interessi. La circostanza, a prescindere da ogni considerazione in ordine alla ritenuta recessività del principio di non colpevolezza (8), impone all’interprete una chiave di lettura diretta a restringere il campo applicativo della cautela per fini sociali. In tale direzione, del resto, si è mosso il legislatore che richiede la “concretezza” del pericolo il cui giudizio di sussistenza viene ancorato a specifiche “modalità e circostanze del fatto” ed alla “personalità della persona sottoposta ad indagini …”. 4 Sui profili costituzionali della disciplina cfr. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, 1976, 44; Id., Misure cautelari e diritto di difesa, Milano, 1996, 83. 5 In tal senso cfr. VASSALLI, La riforma della custodia preventiva, in Riv. dir. e proc. pen., 1954, 319, dove peraltro qualifica la funzione di prevenzione speciale attribuita alla custodia dell’imputato come “indubbiamente solo subordinata ed eventuale ed in ogni caso priva di autonomia”. 6 La problematica è analizzata lucidamente da M. PISANI, La custodia preventiva: profili costituzionali, in Indice pen., 1970, 189, il quale sottolinea che “tra principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza e la ratio della custodia preventiva astrattamente considerati non esistono elementi di disarmonia”. Infatti, “l’imputato può essere sottoposto a custodia preventiva, non già perchè in tal modo lo si considera colpevole in ante-prima, ma perché l’attuazione della custodia preventiva può essere ragionevolmente indispensabile – sia pure entro determinati limiti temporali – per poter accertare se egli sia colpevole o innocente, e per poter sottrarsi al rischio di rendere vano l’eventuale accertamento di responsabilità”. 7 Sul tema, Cfr. ILLUMINATI, Presunzione di innocenza ed uso della carcerazione preventiva come sanzione atipica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1978, 952. 8 In senso contrario GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, cit., 49.

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Il punto su... Si vuole in sostanza evitare che la prognosi di recidiva reintroduca, di fatto, un’automaticità della cautela. Timore questo, tanto più rilevante nella misura in cui pone, tra i requisiti di operatività del periculum, la prognosi in ordine alla commissione “di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della specie di quello per cui si procede” (9). Non può sfuggire l’indeterminatezza dei riferimenti ai “gravi delitti” ovvero a “delitti della stessa specie” (10). Indeterminatezza tanto più rimarchevole in quanto relativa ad una materia assoggettata per volere costituzionale alla doppia riserva di legge e di giurisdizione. Si comprende allora perché il legislatore sia corso ai ripari, specificando non già le ipotesi di reato su cui dovrà emettersi la prognosi di recidiva, bensì i parametri valutativi della prognosi stessa (11). Questi sono rilevanti nella misura in cui danno luogo ad un “pericolo concreto” e tale è solo quello ricavabile dalle specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla personalità del soggetto sottoposto alle indagini. A tal fine non deve sfuggire come gli indici valutativi siano collegati da una congiuntiva a dimostrazione della necessità del loro necessario concorrere. La circostanza evidenzia l’autonomia degli stessi; il che sta a significare che gli elementi di cautela tratti dalle specifiche modalità e circostanze del fatto non possono ricevere una duplice valutazione prima sul piano della gravità della fattispecie e, quindi, per delineare la personalità dell’indagato. Questa, infatti, va desunta da comportamenti ed atti concreti che non possono in alcun modo identificarsi con quegli stessi elementi posti a fondamento del giudizio relativo alla gravità del reato (12). In caso contrario, si perverrebbe ad una modifica extralegale del dato di legge, in quanto si giungerebbe a riunire quei requisiti che la norma vuole oggetto di una separata ed autonoma valutazione. Solo in tal modo, del resto, si possono eliminare pericolose tentazioni di automatismi valutativi. Ogni diversa soluzione risulterebbe elusiva dei limiti di garanzia della fattispecie cautelare che, per l’effetto, verrebbe ad essere adottata al di fuori dei “casi e modi” previsti dalla legge. 4 – La strumentalizzazione operativa del pericolo di recidiva Tuttavia, pur essendosi in presenza di un’inequivoca volontà legislativa di restringere il campo di azione della cautela di pericolosità sociale, si assiste sul piano operativo ad un’opposta linea di tendenza. Non c’è dubbio che l’operazione è favorita da una struttura normativa incapace di svincolarsi da un alto tasso di discrezionalità, ma è del pari vero che essa costituisce un comodo strumento per imporre limitazioni della libertà personale che, nella sostanza, trovano la loro origine nella volontà di “trattenere” l’inquisito ad eruendam veritatem. Ne è dimostrazione il fatto che spesso e volentieri il “periculum sociale” viene posto a fondamento di misure cautelari che traggono origine da una fattispecie in cui non vi è da salvaguardare alcuna finalità processuale e che si riferiscono ad episodi della vita reale datati nel tempo e quindi privi di ogni attualità del pericolo.

9 Sul punto, v. PETRACHI, Alcune considerazioni sulla valenza da attribuire all’elemento oggettivo indicato dall’art. 274 lett. c) c.p.p. ai fini della configurabilità del periculum libertatis, in Cass. pen., 1998, 1696. 10 È da ritenere che il richiamo ai delitti della stessa specie, e non alla più ampia formula della stessa indole, ha lo scopo di limitare la portata applicativa della previsione sganciandola dall’art. 101 c.p.. 11 Sul tema si rimanda a MARZADURI, Art. 3 L. 8/8/1995 n. 332, in Leg. pen., 1995, 603. 12 L’impostazione è stata recepita in giurisprudenza da Cass., Sez. III, 12.2.2004, B., in Giur. it., 2005, 2172; Id., Sez. II, 20.11.1996, Vallo, in Cass. pen, 1998, 1694.

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In tali evenienze si invoca il rischio di recidiva alle volte ritenuto persistente persino di fronte a condotte non solo confessorie ma anche collaborative avuto riguardo al panorama criminale del processo. Si accentua così una bulimia repressiva tanto più efficace nella misura in cui il dato di legge non pone limiti temporali di custodia se non quelli previsti negli artt. 303 e 304 c.p.p.. Ma, così facendo, la cautela da anticipazione di un fine processuale ne diventa l’indebito strumento di realizzazione (13). Si pensi a quelle evenienze di reati di impresa o contro la pubblica amministrazione in cui l’indagato si è dimesso da tutte le cariche. Circostanza questa particolarmente rilevante perché il venire meno della qualifica soggettiva preclude la reiterazione dei reati della stessa specie. Certo si potrebbe obiettare che l’assenza di qualifica soggettiva costituente il presupposto giuridico del reato non esclude che l’indagato commetta reati della stessa specie quale soggetto extraneus concorrente (14). L’argomento può avere un grado di resistenza ma non giustificherebbe anche il giudizio negativo in ordine all’attenuazione delle esigenze cautelari. E la circostanza assume particolare valore ove si consideri che il momento di attrito tra la previsione di pericolosità sociale e la presunzione di non colpevolezza può essere superata, peraltro con fatica, solo attraverso un’accentuazione del principio di adeguatezza della misura. Qui pesano le ideologie di fondo e, in particolare, quella concretezza del pericolo che, lungi dall’essere una formula astratta, risulta l’unica in grado di porre limiti ad un abuso della custodia cautelare. In sostanza, il richiamo al pericolo concreto, pur caratterizzandosi per un alto tasso di discrezionalità, denota la volontà di un controllo penetrante il quale può essere verificato solo attraverso lo strumento di un’adeguata motivazione. Questa, infatti, costituendo quell’atto di intelligenza postuma diretta a rendere conto delle ragioni che hanno condotto ad una decisione, diviene lo strumento di verifica dell’effettività della concretezza del pericolo. Emerge, quindi, la portata di garanzia non solo della motivazione ma dell’obbligo di valutarne la razionalità argomentativa e la sua fedeltà agli atti del processo. La conclusione impone percorsi argomentativi di particolare qualità. E ciò del resto emerge dai parametri normativi che pretendono il ragionamento del giudice anche sugli elementi non ritenuti rilevanti (artt. 292 lett. c) e c bis) e 546 lett. e) c.p.p.). Non sono quindi ammesse formule di stile che si limitano a richiamare il contenuto normativo del dato di legge. Questo, infatti, va specificato con l’indicazione di quegli elementi che di fatto ne impongono l’applicazione. Solo in tal modo può effettuarsi una reale verifica in ordine alla sussistenza del concreto pericolo. La formula, infatti, sfugge a qualsiasi sforzo definitorio ed è controllabile nella sua concreta operatività solo attraverso la verifica della razionalità del ragionamento giudiziale. Occorre allora che si assuma piena consapevolezza che l’obbligo di motivazione non costituisce un inutile formalismo ma, al contrario, l’unico strumento di verifica diretto a considerare se la legge sia stata applicata o disapplicata. E cioè, tradotto nella specifica materia, se il vincolo cautelare è giustificato o meno. Non possono allora consentirsi indulgenze in ordine ai requisiti di validità della motivazione. La conclusione, valida in assoluto, assume nello specifico settore particolare rilevanza in quanto si pone quale unico strumento di controllo della regolarità dell’applicazione cautelare. Appare a tutti evidente come il tema risulti indipendente dall’annosa tematica della prevalenza della forma sulla sostanza.

13 Sul punto, si rimanda a DE LUCA, Custodia preventiva (diritto processuale penale), in Enc. Dir., XI, Milano, 1962, 588. 14 In tal senso cfr. Cass., Sez. VI, 11.5.2004, Pierri, in Ced 229526.

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Il punto su... A prescindere volutamente dal problema in ordine al quale deve rilevarsi come le forme costituiscano uno strumento di attuazione della sostanza (15), nel caso specifico la forma della motivazione costituisce l’unico modo di controllo dell’esattezza della decisione. Emerge, quindi, un valore contenutistico della forma che viene addirittura a costituire la giustificazione applicativa della misura cautelare. Di tale realtà si colgono dei momenti di consapevolezza anche in sede giurisprudenziale in quelle decisioni le quali hanno affermato, con riferimento alle esigenze cautelari, come non sia sufficiente “l’impiego di formule rituali o di stile, dovendo la motivazione essere spiegata in modo tale da esprimere le concrete ragioni rapportate allo specifico del caso in essere … prese in considerazione dal giudice di merito nell’adozione del provvedimento”. Pertanto, si precisa, “non si potrà ritenere correttamente motivata la prognosi di pericolosità del soggetto desunta solo dall’estrema gravità dei fatti attribuita all’imputato e dalla negativa personalità emergente dai precedenti penali” (16). 5 – Controllo della decisione e garanzia di effettività dello stesso Occorre, tuttavia, prendere atto di una tendenza giurisprudenziale diretta a svuotare l’effettività del controllo. Questo può ritenersi tale nella misura in cui risulti anche immediato. In tal senso depongono i poteri attribuiti al c.d. Tribunale della libertà a cui l’art. 309, comma 1, c.p.p. demanda un controllo “anche nel merito della misura”. Se ne ricava che il presidio attribuito all’organo collegiale sulla legittimità della misura cautelare deve esercitarsi anche con riferimento ai profili di forma. Senonchè tale conclusione è vanificata da quella giurisprudenza secondo cui l’ordinanza applicativa della misura e quella che decide sulla richiesta di riesame “sono tra loro strettamente collegate e complementari, sicchè la motivazione del Tribunale del riesame integra e completa l’eventuale carenza di motivazione del provvedimento del primo giudice” (17). Proseguendosi su tale percorso si è affermato che al Tribunale sarebbe precluso annullare il provvedimento impugnato per vizio di motivazione atteso che l’ordinamento processuale riserverebbe tale potere solo al giudice di legittimità (18). Una tale impostazione non solo vanificherebbe ogni forma di controllo ma, addirittura, introdurrebbe per via giurisprudenziale una sanatoria non codificata di un vizio, per di più realizzata da quell’organo appositamente creato per rilevarlo. A parte tale considerazione, occorre evidenziare come l’esegesi prospettata non trovi addentellati normativi. Se è vero che l’art. 309, comma 9, c.p.p. dispone che il Tribunale della libertà può confermare il provvedimento per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione, occorre rilevare come il potere di motivare diversamente non implica quello di sanare un atto di cui sia stata dedotta la nullità. Del resto, allorché l’art. 309, comma 9, c.p.p. precisa i poteri decisionali del giudice del riesame, afferma che lo stesso può annullare il provvedimento impu-

15 Nel senso che le forme costituiscono il complemento inseparabile della libertà dell’individuo, cfr. MONTESQUIEU, De l’esprit de lois, L. XXIX, 1, Gallimard, 865; più di recente, NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, 24. 16 In tal senso cfr. Cass., Sez. VI, 25.1.2000, Iadadi, in Ced 215433; Id., Sez. I, 27.7.1990, Ranucci, ivi, 184900. 17 Cass., Sez. Un., 17.4.1996, Novi, in Giur. it., 1997, 185. 18 In tal senso, Cass., Sez. VI, 16.1.2006, P., in Ced, 233499; Id., Sez. III, 22.3.2001, Servadio, ivi, 218572.

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gnato o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati. Mentre può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso. Non può sfuggire la diversità terminologica utilizzata dalla disposizione codificata. Si può annullare o riformare in senso favorevole all’imputato per motivi diversi; viceversa, si può confermare il provvedimento cautelare solo per ragioni diverse le quali, peraltro, vengono ancorate a quelle indicate nella motivazione. Alla diversità terminologica consegue una diversità di disciplina, non potendosi dubitare che la locuzione “ragioni diverse” attiene alla struttura della motivazione anche in forza dello stretto collegamento logico e grammaticale operato con riferimento a quest’ultima. Alla stessa conclusione non può pervenirsi, di contro, con riferimento alla locuzione “motivi diversi”. Questi non possono essere limitati alla struttura della motivazione. Una interpretazione accomunante non darebbe ragione dell’enunciazione di un doppione normativo formulato nello spazio di due righe della stessa disposizione di legge, vanificando una scelta palesemente volta alla differenziazione. Se il legislatore avesse voluto unificare i casi di annullamento e di riforma in senso favorevole all’imputato con quelli di conferma del provvedimento non avrebbe messo mano ad una costruzione grammaticale “differenziata” a seconda degli epiloghi del procedimento innanzi al giudice del riesame. Se si sono usate una diversa terminologia ed un’autonoma costruzione grammaticale con riferimento ai differenti epiloghi del giudizio, lo si è fatto perché alle ragioni diverse ed ai motivi diversi debbono essere attribuiti differenti ed autonomi significati. Anche sotto un mero profilo lessicale, le ragioni di una decisione sono quelle che sostengono sul piano logico la decisione stessa e cioè quelle che la motivano (la stessa locuzione normativa pone le ragioni in diretta correlazione con il contenuto della motivazione del provvedimento cautelare); viceversa, i motivi diversi implicano una decisione fondata su elementi nuovi, se già esistenti, non valutati al momento dell’adozione della misura. Di qui l’impossibilità di far coincidere i motivi diversi con la struttura motivazionale. La prospettata differenziazioni tra motivi e ragioni diversi trova riscontro ed esplicitazione nel 5° comma dell’art. 309 c.p.p. che consente, in sede di riesame, la valutabilità di tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta ad indagini. La validità di questa impostazione trova conferma nella formulazione dell’art. 292 c.p.p. nel punto in cui prevede, quale requisito di validità dell’atto, uno schema minimo di motivazione la cui inosservanza è sanzionata con una espressa comminatoria di nullità “rilevabile anche d’ufficio”. Non a caso, sul punto, anche in sede giurisprudenziale si è assistito a marcati fermenti di “rimeditazione” del problema. Si è infatti affermato che laddove si riconoscesse al Tribunale della libertà la possibilità di sanare (tramite l’integrazione della motivazione) il provvedimento nullo, l’eventuale annullamento “non avrebbe alcuna pratica possibilità di esplicazione ove si dovesse ritenere che il potere d’integrare la motivazione dedotta dal G.I.P. a supporto dell’ordinanza si estenda ... fino all’eliminazione dell’originaria nullità infirmante il provvedimento impugnato mediante esposizione vicaria delle esigenze pretermesse, per tale via privando di fatto l’indagato del previo controllo demandato al G.I.P., al quale il Tribunale verrebbe a surrogarsi in ordine alla fondatezza delle richieste del P.M.” (19).

19 Cass., Sez. VI, 14.6.1994, Vagliani, in Cass. pen., 1995, 1915; sia pure implicitamente negli stessi termini cfr. C. Cost. n. 101 del 1996.

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Il punto su... Ogni diversa soluzione esclude nella sostanza un controllo di merito ma anche e soprattutto gli effetti di garanzia del ricorso in cassazione, che finirebbe con l’essere ridotto ad un rimedio del tutto teorico posto che il Tribunale della libertà fungerebbe da organo supervisore la cui funzione consisterebbe nell’eliminazione, mediante la c.d. motivazione integratrice, dei vizi del provvedimento di coercizione personale (20). In pratica, ove si riconoscesse al Tribunale della libertà un siffatto potere di coercizione e di controllo si renderebbe valida ex nunc la cautela ancorché la stessa risultasse sin dalla nascita viziata per omessa enunciazione delle ragioni che la giustificavano. In questa prospettiva l’illegittimità del provvedimento limitativo della libertà personale costituirebbe sempre un connotato provvisorio e trascurabile in vista della futura e sicura sanatoria derivante dalla motivazione integratrice del Tribunale della libertà. Senza contare che si potrebbe adombrare una soluzione al limite del paradosso: la sanatoria dell’ordinanza cautelare nulla potrebbe addirittura essere correlata all’esecuzione della misura stessa, al pari di quanto accade nel settore privatistico dove l’esecuzione di un negozio annullabile, ossia l’adempimento delle obbligazioni che ne derivano nella consapevolezza del motivo di annullabilità (art. 1444, comma 2, c.c.) equivale a convalida. Eppure in quel settore il negozio nullo, come è nulla l’ordinanza di misura cautelare priva di motivazione, non può sanarsi (art. 1423 c.c.) dovendo ripetersi ex novo, con la conseguenza (negata nel settore delle cautele dall’interpretazione che qui si contesta) della produzione degli effetti ex nunc essendo il nuovo negozio rifatto ora rispetto a quello nullo posto in essere allora (21). 6 – Conclusioni Si genera, così, un paradosso processuale che trova origine in quell’azione giurisprudenziale diretta a vanificare la funzione di controllo sui provvedimenti limitativi della libertà personale. Il tema, lo si è visto, non risulta neutro proprio con riferimento alla valutazione dell’esigenza cautelare di pericolosità sociale. L’indeterminatezza della stessa ed il suo impatto con la presunzione di non colpevolezza impone letture restrittive ma, soprattutto, l’incondizionata operatività di meccanismi di controllo e, tra questi, la verifica di una razionale giustificazione. Ogni diversa conclusione, oltre ad annullare una dato di legge, fa trasparire una concezione della norma processuale quale strumento attributivo e non limitativo di un potere quando, come noto, “potere” e “limite” costituiscono un’endiadi solo per la povertà del linguaggio (22). Filippo Raffaele Dinacci

20 Sullo specifico problema della motivazione nelle decisioni del Tribunale della libertà cfr. CONFALONIERI, La struttura della motivazione nelle decisioni del Tribunale della libertà, in Materiali di esercitazione per un corso di procedura penale, a cura di Gaito, Padova, 1995, 169; GAITO, I criteri di valutazione della prova nelle decisioni, ivi, 159; CERESA GASTALDO, Il riesame sulla legittimità dell’ordinanza cautelare: cade il teorema della motivazione integratrice nel procedimento di riesame dei provvedimenti di coercizione personale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1986, 144. 21 F. R. DINACCI, Contenuto e limiti del potere di riesame spettante ai cc.dd. tribunali della libertà, in Giust. pen., 1984, III, 366. 22 Sul tema si rimanda alle profonde considerazioni di NOBILI, Divieti probatori e sanzioni, in Giust. pen., III, 2001, 641.

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La ragione per la quale abbiamo deciso di fermare l’attenzione su questo tema è presto detta. Nell’ambito di una ‘maxi’ indagine, che ha visto coinvolte più persone, in momenti diversi, quasi tutte accusate di corruzione e che è stata, con il trascorrere dei mesi, smembrata in più tronconi, sono stati emessi dei provvedimenti cautelari che hanno attribuito particolare rilevanza al c.d. pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie. Molti provvedimenti cautelari emessi dal G.I.P. sono stati impugnati dinanzi al Riesame, che si è pronunciato più volte, quindi, su vicende del tutto omogenee tra loro, soffermandosi, ripetutamente, anche, sul pericolo di reiterazione dei ‘reati’. Alcune pronunce del Tribunale sono state sottoposte al vaglio della Corte di Cassazione, la quale con tre suoi provvedimenti ha annullato altrettante ordinanze emesse dal Riesame, rilevando un difetto di motivazione, proprio, sul pericolo di reiterazione. Dopo aver letto questi provvedimenti, avendo rinvenuto anche altre pronunce del Riesame sul c.d. pericolo di recidiva, ci siamo potuti render conto che l’orientamento seguito dai giudici nella vicenda sopra ricordata sembra assurgere a, vera e propria, costante dei procedimenti cautelari, salvo qualche rara eccezione. Preso atto della complessità e delicatezza del tema abbiamo deciso, quindi, per dare un contributo all’approfondimento della complessa tematica del pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie, quale presupposto per l’applicazione di una misura cautelare, ex art. 274, lett. c), c.p.p., di pubblicare qui di seguito alcuni stralci delle ordinanze (a nostro avviso più significative) emesse dai giudici di merito e di legittimità, intercalate da alcuni passi dei ricorsi proposti avverso le stesse, nell’ambito del procedimento sopra ricordato; poi, altre due pronunce del Riesame, sempre, sul pericolo di reiterazione, ma emesse in altri procedimenti. Così, crediamo possa risultare evidente quanto lontane siano, su molti punti, le posizioni della dottrina e della giurisprudenza di merito e di legittimità.

Ordinanza di custodia cautelare in carcere 9.11.2005 G.I.P. dott.ssa Figliolia R.G. G.I.P. 25335/05 Reati: 416, 640, 479 c.p.

“La gravità dei fatti criminosi, così come esposti, rende evidente la sussistenza del pericolo di reiterazione di condotte della stessa specie di quelle per cui si procede, da parte di tutti gli indagati. Le modalità di realizzazione delle condotte criminose, la particolare professionalità nello svolgimento delle attività criminali, il perdurare del vincolo associativo per un lungo periodo, sono tutti elementi sintomatici della pericolosità degli indagati e fondanti una prognosi assolutamente negativa in ordine ai futuri comportamenti degli stessi. Il D.. e il M… risultano pluripregiudicati per vari reati. Il C. e l’I. avvalendosi delle funzioni pubbliche delle quali sono titolari (…) hanno concorso a sottrarre enormi somme di denaro all’Ente Pubblico di appartenenza. Per le predette argomentazioni, l’unica misura idonea alla salvaguardia delle predette esigenze cautelari appare quella della custodia cautelare in carcere” (pag. 28-29)

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Il punto su... Dai motivi di riesame di uno dei difensori: “Il provvedimento coercitivo è stato giustificato con riferimento alle esigenze cautelari previste dall’art. 274 lett. C) c.p.p.. La legge processuale richiede che il pericolo di reiterazione dell’attività criminosa sia desunto da circostanze specifiche del fatto, non certo da riproduzioni di sensazioni o illazioni investigative. Nel caso in esame, il sofisticato ed insidioso meccanismo truffaldino, una volta scoperto, non si presta ad essere riprodotto…”

Tribunale Riesame Roma, ord. 1.12.2005, RGTL 3131/2005 Pers. D’Arma, est. Asaro, giud. Preziosi.

“Le condotte di reato contestate agli indagati rilevano anche in punto di esigenze cautelari. L’avere costituito un sodalizio criminoso con le finalità di cui si è detto, l’aver perseguito nel tempo scopi così gravemente antisociali, l’avere fatto uso personale di pubbliche funzioni, l’avere frodato la sanità pubblica di così cospicue risorse, sono tutti elementi che, oltre a denotare un grave spregio della pubblica e provata moralità, un’ostinata e cinica attitudine predatoria, una spregiudicata manipolazione di strumenti societari e bancari, evidenziano l’esistenza di una pericolosissima escrescenza malavitosa organizzata, con ramificazioni di alto livello dentro la pubblica amministrazione e attrezzata per divorare risorse destinate alla salute pubblica, con grave danno per l’Erario e per il cittadino. La misura custodiale applicata ai ricorrenti appare finalizzata ad impedire la commissione di ulteriori delitti dello stesso tipo di quelli per cui si procede, dovendosi ritenere che i predetti, ove lasciati in libertà, riprendano gli illeciti collegamenti di cui appaiono disporre, onde programmare nuove criminose intraprese”

******** Ordinanza di custodia cautelare 28.11.2005 G.I.P dott.ssa Figliolia RG GIP 25335/05 (1) Reati: 416, 648 bis “…La gravità dei fatti criminosi, così come esposti, rende evidente la sussistenza del pericolo di reiterazione di condotte della stessa specie di quelle per cui si procede, da parte di tutti gli indagati. Le modalità di realizzazione delle condotte criminose, la particolare professionalità nello svolgimento delle attività criminali, il perdurare del vincolo associativo per un lungo periodo, sono tutti elementi sintomatici della pericolosità degli indagati e fondanti una prognosi assolutamente negativa in ordine ai futuri comportamenti degli stessi…” (2) (pag.23). (1) Questa ordinanza è stata emessa a carico di alcuni familiari di uno degli indagati, detenuto, accusati di riciclaggio per avere versato somme di provenienza del congiunto, asse-

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Dai motivi di riesame di uno dei difensori: “LE ESIGENZE CAUTELARI. Appare sul punto opportuno in via preliminare evidenziare che l’unica esigenza cautelare posta a fondamento dell’ordinanza impugnata è quella di cui alla lettera c) dell’art. 274 c.p.p., ovvero quella diretta a preservare il pericolo di reiterazione dei reati commessi. Nel provvedimento applicativo del 28.11.2005, il GIP ha dedicato all’aspetto relativo alle esigenze cautelari appena 5 righe di motivazione, risolvendosi questa, a ben guardare, in una mera formula di stile; in buona sostanza, il pericolo di reiterazione è stato giudicato sussistente solo ed esclusivamente sulla base della asserita gravità dei fatti contestati, in particolare fondando detto giudizio sulle modalità dell’azione criminosa e sul perdurare del vincolo associativo per un lungo periodo. (…omissis…) Ebbene, a parte le argomentazioni ed i documenti prodotti di cui si è detto nelle pagine precedenti, che dimostrano il fatto che quelle operazioni (bancarie, n.d.r.) non sono state effettuate da … (le ricorrenti, n.d.r.) mette conto di evidenziare in questa sede l’impossibilità concreta per le prevenute -stante la situazione di fatto venutasi a creare con la esecuzione della misura carceraria applicata (al loro congiunto, n.d.r.) di reiterare qualsiasi tipo di condotta criminosa, per le seguenti sempici ragioni: gli asseriti proventi illeciti sarebbero derivati da presunti comportamenti truffaldini del di loro congiunto che ormai si trova, sia per le condizioni carcerarie che per essersi dimesso dall’incarico (nella Pubblica Amministrazione di appartenenza, n.d.r.) nella impossibilità di reiterare qualsivoglia reato; con l’ovvia conseguenza dell’insussistenza di delitti presupposti i cui proventi sarebbero da riciclare; tutti i rapporti bancari intestati (alle ricorrenti, n.d.r.) ed oggetto di indagine (depositi, titoli, polizze) sono stati sottoposti a sequestro, con impossibilità, quindi, di poterne disporre ed operare…” Tribunale Riesame Roma, ord. 15.12.2005 Pres. D’Arma, est. Asaro, giud. Pazienza (1)

“Quanto alle tre ricorrenti, ne va evidenziata la pericolosità sociale correlata alla gravità delle condotte delittuose da loro reiteratamente realizzate per un non breve lasso di tempo. Esse hanno consentito che il pubblico denaro, sottratto illecitamente allo stato dal (congiunto, n.d.r.) entrasse in un circuito che lo restituiva al medesimo con apparenza di legalità. Così operando ne hanno tratto anche un vantaggio personale, lucrando parte del compendio criminoso. Si tratta di condotte che denotano insieme cinismo, avidità di denaro, disponibilità ad intraprese criminose, tutte le volte che questa fosse giustificata dalla prospettiva di una locupletazione personale o familiare. Tale radicato senso dell’appartenenza, non contrastato da alcuna ripulsa morale verso il

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ritamene frutto delle truffe e dei falsi originariamente a questi contestate, sui propri conti correnti bancari. (2) Si noti che sono state usate le stesse parole già utilizzate nell’ordinanza prima riportata.


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Il punto su... crimine, denota l’avvenuta maturazione psicologica di un percorso di scelta e di accettazione della illegalità e restituisce profili delinquenziali soggettivi che vanno oltre il dato formale della incensuratezza. Da qui il fondato pericolo di reiterazione delle condotte illecite, tenuto anche conto che la vicenda presenta tanti aspetti non ancora chiariti e che il contributo delle (ricorrenti, n.d.r.) alla “sparizione” di ulteriori illecite utilità può essere preveduto con una attendibilità che rasenta la certezza…” (1) Il Tribunale annulla l’ordinanza in punto di gravi indizi quanto al reato di associazione per delinquere; conferma in ordine al riciclaggio, concedendo, però, gli arresti domiciliari.

******** Ordinanza di custodia cautelare in carcere 3.2.2006 G.I.P. dott.ssa FIGLIOLIA Reati: 416, 640, 479 c.p. (1) “Sussistono le esigenze cautelari di cui all’art. 274 lett.C). La gravità dei fatti criminosi, così come esposti, rende evidente la sussistenza del pericolo di reiterazione di condotte della stessa specie di quelle per cui si procede, da parte di tutti gli indagati. Le modalità di realizzazione delle condotte criminose, la particolare professionalità nello svolgimento delle attività criminali, il perdurare del vincolo associativo per il lungo periodo, il coinvolgimento degli organi direttivi di due grandi (Enti Pubblici, n.d.r.) del Lazio con sottrazioni di enormi risorse finanziarie pubbliche sono tutti elementi sintomatici della pericolosità degli indagati e fondanti una prognosi assolutamente negativa in ordine ai futuri comportamenti degli stessi. (1) Nell’ordinanza si fa riferimento a fatti ulteriori contestati, sempre nella stessa indagine, ad alcuni degli indagati già ‘catturati’ e ad altri nuovi indagati. Tribunale Riesame Roma, ord. 23.2.2006 Pres. D’Arma, Est. Schipani, Giudice Scicchitano (1)

“Sussiste altresì il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quelli per cui si procede in capo a tutti i ricorrenti. Non può sottacersi che il presente provvedimento nasce quale stralcio di altro procedimento collegato, avente ad oggetto identiche fattispecie delittuose, realizzate da alcuni degli odierni indagati con le stesse modalità operative, elemento che denota la stabilità del gruppo criminale, la continuità del modulo operativo collaudato e garantito e l’instancabile volontà di perpetuare la fraudolenta sottrazione di risorse pubbliche. Non può inoltre trascurarsi la rilevanza del ruolo attivamente svolto all’interno della societas sceleris da ciascuno dei prevenuti, con particolare riferimento al ruolo propulsivo e decisivo dagli stessi disinvoltamente svolto. Trattasi di elementi che denotano una particolare spre-

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giudicatezza nell’azione delittuosa e una proclività a delinquere fuori dal comune, anche tenuto contro della protrazione nel tempo della condotta per un più che significativo lasso temporale (…). La prognosi non può dunque essere che negativa. A tanto aggiungasi che, in tema di pericolo di reiterazione, se è vero che la pericolosità sociale dell’indagato deve risultare dalle specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla sua personalità, può tuttavia attribuirsi alle modalità e circostanze del fatto una duplice valenza, sia sotto il profilo della gravità del fatto stesso, sia sotto il profilo dell’apprezzamento della capacità a delinquere (come già affermato da questo Tribunale, le modalità e circostanze del fatto possono essere prese in considerazione anche per il giudizio di pericolosità dell’indagato, essendo la condotta tenuta un elemento specifico e significativo ai fini della valutazione della personalità dell’agente, ancorché incensurato - v. Cass. Sez. IV, 16.1-20.02.2004 n. 7303; Cass. Sez. II, 22.6 - 27.9.05 n. 34642). A nulla rileva, da ultimo, che i dipendenti pubblici abbiano interrotto il rapporto lavorativo con l’ente, dal momento che la fitta rete di rapporti tra i prevenuti, siccome emersa dagli atti, e la capacità delinquenziale dimostrata rende evidente la possibilità di continuare ad operare illecitamente tramite soggetti ancora interni alla Amministrazione…” (1) L’Ordinanza risulta particolarmente interessante, perché confuta esplicitamente in punto di diritto le censure difensive sulla sovrapposizione tra giudizio sulla gravità dei fatti, pericolosità dell’indagato e pericolo di reiterazione del reato, soffermandosi anche sull’eccezione relativa alla rilevanza della interruzione del rapporto dell’indagato con la Pubblica Amministrazione. Corte di Cassazione sez. V, ord. n. 1231 del 5.10.2006 , Pres. Calabrese, Est. Vessichelli (sul ricorso proposto da uno degli indagati avverso la ordinanza del Tribunale del Riesame da ultimo riportata)

“Il secondo motivo di ricorso è invece fondato. Questa Corte,nella sentenza citata dal ricorrente e in altre, ha sostenuto che il giudizio di prognosi sfavorevole sulla pericolosità sociale dell’incolpato non è di per sè impedito dalla circostanza che l’indagato abbia dismesso la carica o esaurito l’ufficio nell’esercizio del quale aveva realizzato la condotta addebitata. Tuttavia, la validità di tale principio deve essere rapportata al caso concreto, là dove il rischio di ulteriori condotte illecite del tipo di quella contestata deve essere reso probabile da una permanente posizione soggettiva dell’agente che gli consenta di continuare a mantenere, pur nell’ambito di funzioni o incarichi pubblici diversi, condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo ed offensive della stessa categoria di beni e valori di appartenenza del reato commesso (Cass. Sez, VI, 10 marzo 2004, Pierri, rv 229526; Cass. sez. VI, 28 gennaio 1997, Ortolano, rv 208889). Altre decisioni, nello stesso senso, hanno osservato che in materia di reati contro la pubblica amministrazione commessi da pubblico funzionario o impiegati, il giudice di merito ben può ritenere sussistente il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie (art. 274 comma I lett. c) cod. proc. pen.) anche quando il pubblico ufficiale risulti sospeso o dimesso dal servizio; in tal caso però lo stesso giudice deve fornire adeguata motivazione in merito alla non rilevanza della sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto con riferimento alle circostanze di fatto

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Il punto su... che connotano la concreta situazione e così in riferimento al tempo decorso da dette evenienze, all’eventuale potere di vertice e di supremazia raggiunto dal pubblico funzionario durante il servizio e al potere di influenza in ipotesi residuante nel pubblico dipendente per assenza di mutamenti nell’organico dell’ufficio o per interferenza delle sue nuove occupazioni con la sfera di azione dei pubblici poteri (Cass. sez. VI, 30 maggio 1995, Stilo, rv. 202819). Nella specie, il pericolo di reiterazione è stato ben motivato con riferimento alla gravità e alla ripetizione delle condotte di rilevanza penale descritte nella parte dedicata alla disamina degli indizi. E giurisprudenza anche recente ammette che le modalità della condotta siano rilevanti anche ai fini di delineare la personalità dell’indagato. Si tratta, oltretutto, di una riepilogazione degli indizi che riguarda ciascuno degli indagati interessati alla procedura cautelare sicché non può dirsi che sia omnicomprensiva. Tuttavia, la mancanza in cui è incorso il Tribunale è proprio quella di non avere puntualizzato, in relazione alla allegazione di cessazione dalla carica (trasferimento del XX ad altro ufficio della YY) che ha consentito la commissione del reato, ove provata in modo circostanziato e definitivo, quale posizione soggettiva mantenuta o mutuata da terzi possa avere consentito di formulare la previsione di un attuale pericolo di loro recidivanza specifica. Si impone pertanto l’annullamento della ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame” (1). (1) In relazione ai ricorsi proposti da altri indagati, sempre nell’ambito della stessa indagine, della medesima ordinanza custodiale e della stessa ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma, cfr. Cass. V, sent. ord. n. 1033 del 7.7.2006, Pres. Pizzuti, est. Vessichelli. ******** Ordinanza di custodia cautelare in carcere 26.06.2007 G.I.P. dott.ssa Figliolia Reati: 314, 479 c.p.

“La gravità dei fatti criminosi, così come esposti, rende evidente la sussistenza del pericolo di reiterazione di condotte della stessa specie di quelle per cui si procede, da parte di tutti gli indagati. Le modalità di realizzazione delle condotte criminose e la particolare professionalità dimostrata nello svolgimento delle attività criminali, sono tutti elementi sintomatici della pericolosità degli indagati e fondanti una prognosi assolutamente negativa in ordine ai futuri comportamenti degli stessi. La spregiudicatezza della condotta degli indagati, che non hanno esitato ad “inventare” infondate giustificazioni (falsa transazione per pretese di cui era stata già accertata l’insussistenza) relativamente a condotte di vera e propria appropriazione di risorse economiche dell’ [Ente, n.d.r.], non può che condurre a ritenere sussistente il pericolo di reiterazione di reati di analoga natura di quelli per cui si procede... (omissis). Anche in relazione a XY sussistono le esigenze cautelari di cui all’art. 274 lett.c), che impongono per la loro tutela l’applicazione della custodia cautelare in carcere. (...omissis). L’attività delittuosa di XY si è protratta per numerosi anni e sino a pochi giorni prima del suo arresto (vedi gli interventi illeciti nel sistema informatico...per modificare i dati già esistenti in ordine ai mandati illecitamente incassati). Le emergenze come su esposte rendono evidente la sussistenza del pericolo di reiterazioni di reati della stessa natura per cui si procede.” (pag.64)

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“Si sottolinea doverosamente al riguardo come, in tema di esigenze cautelari di cui all’art. 274, comma 1, lett. c) c.p.p., quando il reato per cui si procede sia stato commesso mediante abuso di cariche o uffici pubblici di cui l’indagato non sia più investito, il giudice nel valutare la sussistenza o meno di dette esigenze, non possa supinamente adagiarsi nella considerazione, disancorata da qualsivoglia dato fattuale, dell’esistenza di un generico pericolo di recidivanza, ma - normativamente postulandosi la necessità di un pericolo concreto, che esclude la possibilità di ricorrere a presunzioni o congetture – sia tenuto a indicare, sia pure sommariamente, le circostanze specifiche che, in quanto eziologicamente collegate con la probabilità di reiterazione di condotte illecite, lo convincono dell’ineluttabilità del ricorso ad una misura compressiva della libertà personale (cfr. Sez. Fer. 8 settembre 1994, Petramala, in A.N.P.P., 1995, p. 111). Occorre cioè che si fornisca adeguata e logica motivazione in ordine alla mancata rilevanza della sopravvenuta cessazione della carica pubblica rivestita, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono ad evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell’indagato, pur nella mutata veste di soggetto estraneo ormai alla pubblica amministrazione, in situazione, perciò, di concorrente in reato proprio, commesso da altri soggetti muniti della qualifica richiesta (cfr. Sez. VI, 28 gennaio 1997, Ortolano, in C.E.D. Cass.n. 208889; Sez. VI, 3 settembre 1992, Furlan, ivi, n. 191974). Circostanze di fatto non riscontrabili nel caso di specie e, comunque, non indicate nell’ordinanza, in cui manca qualsivoglia richiamo motivazionale ad elementi idonei a connotare in concreto l’attuale situazione, come pure al tempo decorso da dette evenienze, all’eventuale potere di vertice e di supremazia raggiunto dal pubblico funzionario durante il servizio, nonché all’effettivo ed attuale potere di influenza, in ipotesi residuante, in capo al medesimo soggetto per assenza di mutamenti nell’organico dell’ufficio o per sue possibili nuove interferenze con la sfera dei pubblici poteri (cfr. Sez. VI, 16 novembre 2005, n. 11654, in Guida Diritto, 2006, fasc. 18, p. 95; Sez. VI, 30 maggio 1995, Stilo, in C.E.D. Cass. n. 202819). Ciò in quanto il parametro della concretezza non si identifica con l’attualità del pericolo, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati - peraltro insussistenti nella vicenda che qui occupa - dovendosi, al contrario, ravvisare nella sola condizione necessaria e sufficiente che esistano elementi “concreti” - cioè non solo meramente congetturali come quelli ipotizzati nell’impugnata ordinanza - sulla base dei quali affermare che il soggetto inquisito possa facilmente, verificandosene l’occasione, commettere reati rientranti tra quelli contemplati dalla suddetta norma processuale (cfr. Sez. I, 10 gennaio 2007, n. 7176, in Guida al Diritto, 2007, fasc. 12, p. 85). Ebbene nell’impugnata ordinanza il G.I.P., in relazione alla specifica posizione di XY, a fronte della comprovata, in modo circostanziato e definitivo, cessazione della carica dal medesimo rivestita all’interno della struttura sanitaria (cfr. anche interrogatorio di garanzia reso in data 6 luglio 2007), non indica quale posizione soggettiva dall’indagato mantenuta o mutuata da terzi possa aver consentito la formulazione della previsione dell’attuale pericolo di recidivanza specifica, posto a sostegno, unitamente all’esigenza cautelare di cui all’art. 274 lett. a) c.p.p., dell’applicazione di misura custodiale di massimo rigore. Ciò in palese violazione di un principio ormai acclarato dall’orientamento giurisprudenziale dominante e ribadito da recenti pronunce della Suprema Corte, in materia cautelare, a bene-

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Dai motivi di riesame di uno degli indagati


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Il punto su... ficio di alcuni coimputati di XY nel procedimento penale n. 3829/06 R.G.N.R., pendente presso il Tribunale Ordinario di Roma, Sezione IV Penale, in composizione collegiale (...omissis...). L’omissione in cui è incorso il giudice nel non puntualizzare in relazione alla cessazione dalla carica dell’indagato (pensionamento) che ha consentito la commissione dei delitti provvisoriamente ascritti a suo carico, le circostanze di fatto che concretamente connoterebbero il prospettato pericolo di condotte recidivanti, inficia pertanto la validità dell’impugnata ordinanza.....”.

Tribunale per il Riesame di Roma, ord. 17.7.2007 Pres. Taurisano, Est. Criscuolo, Giudice Balduini “...Disattesa, pertanto, la prospettazione difensiva in punto di gravità indiziaria, la stessa va condivisa quanto al profilo delle esigenze cautelari. (...omissis...) Anche il pericolo di reiterazione non risulta ravvisabile nella fattispecie, perché non ancorato a elementi di fatto, che conferiscano concretezza allo stesso. Pur non ignorandosi che a detto fine è legittimo apprezzare le modalità, circostanze e gravità dei fatti, essendo la condotta tenuta in occasione della commissione dei reati una spia della personalità dell’agente, valutabile ai fini della prognosi di pericolosità; pur non ignorando che il parametro della “concretezza” di detto pericolo non si identifica con quello della “attualità”, lo stesso deve essere riconosciuto alla sola condizione che esistano elementi concreti - non solo congetturali - in base ai quali affermare che l’indagato possa facilmente, verificandosene l’occasione, commettere reati della stessa specie - Cass. Sez. I, 10.1-21.2.07 n.7176 -. Nella fattispecie non può trascurarsi che i fatti contestati sono risalenti, risultando compresi in un arco temporale dal luglio 2004 al novembre 2005 nè che l’indagato, tratto in arresto la prima volta nel dicembre 2005 e detenuto per altro titolo all’atto dell’esecuzione della misura, non ricopre più alcuna carica all’interno dell’ [Ente], risultando addirittura collocato in quiescenza. Pur non essendo impedito il giudizio prognostico sfavorevole sulla pericolosità dell’indagato dalla dismissione della carica o dall’esaurimento dell’ufficio nel cui esercizio ha illecitamente commesso le condotte addebitate, il rischio di recidiva deve essere reso probabile dalla permanente posizione soggettiva dell’agente, che gli consenta di continuare a mantenere, pur nell’ambito di funzioni o incarichi diversi, condotte antigiuridiche, offensive della stessa categoria di beni e valori di appartenenza del reato commesso - Cass. Sez. VI 10.3.04, Pierri -. Occorre cioè, specie in materia di reati contro la pubblica amministrazione, che il pericolo di recidivanza specifica sia ancorato a elementi concreti, che dimostrino l’irrilevanza dell’intervenuta cessazione del rapporto con l’ente pubblico in relazione alle circostanze di fatto, che connotano la concreta situazione, sia con riferimento al tempo decorso dai fatti reato ascritti, sia al potere di vertice e supremazia raggiunto dal pubblico funzionario durante il servizio e al potere di influenza, eventualmente residuante in capo allo stesso, per assenza di mutamenti nell’organico dell’ufficio - v. Cass. Sez. VI 30.5.95, Stilo e nell’ambito di analogo procedimento in cui è stato coinvolto l’indagato Cass. Sez. V sentenza n.1231 del 5.10.2006, Cristalli -. Nel caso in esame non può trascurarsi la totale riorganizzazione dell’ufficio, l’avvenuta destrutturazione del sodalizio, creato dall’indagato, con l’arresto di tutti i collaboratori e sodali, l’emersione delle vicende e l’attenzione investigativa costante sull’attività svolta nel corso degli anni dall’indagato, l’avvenuto trasferimento della ZZ dall’ufficio sin dal 2.2.07, come confermato da YY

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nelle dichiarazioni del 20 marzo scorso, e l’approfondimento investigativo in corso sull’attività dell’ufficio legale dell’ [Ente]. Pertanto, in assenza di elementi dì fatto, indicativi di perduranti rapporti tra l’indagato e altri soggetti interni alla struttura, che continuino a seguirne direttive anche per finalità di inquinamento probatorio, in assenza di esigenze cautelari attuali e concrete, deve pervenirsi all’annullamento dell’ordinanza cautelare e per l’effetto disporsi l’immediata scarcerazione dell’indagato, se non detenuto per altra causa. P.Q.M. annulla l’impugnata ordinanza e per l’effetto ordina l’immediata scarcerazione di XY, se non detenuto per altro.”

******** Ordinanza di applicazione della misura cautelare dell’obbligo di dimora (alla scadenza del termine di fase della misura cautelare degli arresti domiciliari) Tribunale di Roma, sez. IV coll., 19.7.2007 Pres. Argento, est. Bonaventura, giudice Di Gioia Reati: 314, 479 c.p. “Rilevato che (...) alla data del 28 luglio 2007 decorre il termine di fase di cui all’art. 303 co. 1 lett. B), n. 2 c.p.p. della misura cautelare attualmente in corso di esecuzione nei confronti dei suddetti imputati; ritenuto che alla luce della gravità delle condotte in contestazione, protrattesi entro un arco temporale significativo e particolarmente insidiose per la collettività, nonchè in ragione della personalità degli imputati, proclive al delitto, come desumibile dai comportamenti realizzati da ciascuno, in ruoli più o meno apicali dell’amministrazione pubblica, e dalle concomitanti pendenze giudiziarie per reati analoghi, è del tutto evidente la attualità del pericolo di recidiva, sicchè ne impone un controllo che la misura richiesta dal P.M. vale ad assicurare P.Q.M. (...) dichiara cessata l’efficacia della misura cautelare degli arresti domiciliari applicata nei confornti di X, Y, W e Z, a far data dal 28 luglio 2007, e per l’effetto ne ordina la liberazione se non detenuti per altro; visto l’art. 307 c.p.p. applica nei confronti dei predetti imputati la misura cautelare dell’obbligo di dimora nel Comune di rispettiva residenza, prescrivendo loro di non allontanarsi - senza l’autorizzazione del Giudice che procede- dal territorio del Comune di residenza.”

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Il punto su... Tribunale per il Riesame di Roma Ord. 19.10-24.10.2007 (sull’appello proposto avverso l’ordinanza del Tribunale di Roma, sez. IV Collegiale, sopra riportata).

L’appello è fondato e va accolto. Giova premettere che l’ordinanza coercitiva della quale è stata dichiarata la perdita di efficacia è del 5.7.2006 (n. 3829106 R.G.N.R.-1061/06 R.GIP) ed ha ad oggetto fatti temporalmente risalenti agli anni 2003-2004 (segnatamente, fino all’aprile 2004). Con detta ordinanza, il GIP ha riqualificato i fatti di truffa aggravata, contestati con l’ordinanza del 3.2.2006, come peculato. In data 11.1.2007 il Tribunale di Roma in composizione collegiale ha concesso al XY la misura dagli arresti domiciliari in sostituzione della misura della custodia in carcere, ritenendo attenuate le esigenze cautelari, con particolare riguardo al pericolo di inquinamento probatorio. Il 19.7.2007, lo stesso Tribunale, nel dichiarare la cessazione dell’efficacia della misura de qua, ha applicato la misura dell’obbligo di dimora affermando che è del tutto evidente l’attualità del pericolo di recidiva (...). Orbene, la motivazione del Tribunale dibattimentale, se può considerarsi corretta e condivisibile ove rapportata alla sussistenza delle esigenze di cautela nel periodo della emissione del titolo coercitivo e nel periodo ad essa successivo, non è condivisa dal Collegio ove la si inserisca nel contesto temporale della trattazione del presente appello. Ed invero non può, allo stato, sottacersi il decorso di un più che apprezzabile lasso di tempo dalla data dei fatti. Ulteriore elemento da considerare è il tempo che XY ha trascorso in regime restrittivo della libertà personale. Unitamente a tanto devesi considerare che è ormai in corso la fase dibattimentale e che lo stesso Tribunale ha dato conto della attenuazione del pericolo di inquinamento probatorio, che, a parere del Collegio, deve ritenersi del tutto cessato (atteso che le vicende in esame sono state puntualmente ed esaustivamente ricostruite a mezzo di documenti, s.i. rese da persone informate dei fatti e interrogatori dei numerosi indagati, alcuni dei quali hanno reso dichiarazioni auto e eteroaccusatorie). A ciò si aggiunga che XY è ormai in quiescenza e che la Suprema Corte, con sentenza del 5.10.2006- 15.11.2006 a carico di coimputato dell’odierno ricorrente, pur riconoscendo che il pericolo di recidivanza non è di per sé impedito dalla circostanza che l’indagato abbia dismesso la carica o esaurito l’ufficio, ha affermato che il suddetto principio deve essere rapportato al caso concreto, dovendo il rischio essere reso probabile da una permanente posizione soggettiva dell’agente che gli consenta di mantenere, pur nell’ambito di funzioni o incarichi pubblici diversi, condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo ed offensive della stessa categoria di beni e valori di appartenenza del reato commesso. Siffatti elementi, congiuntamente valutati, depongono, a parere di questo Tribunale, nel senso della sopravvenuta cessazione delle esigenze cautelari poste a base dell’originario provvedimento, di talché appello, per le esposte argomentazioni, deve essere accolto, con conseguente revoca della misura dell’obbligo di dimora.

P.Q.M. RIFORMA l’impugnata ordinanza, revocando la misura dell’obbligo di dimora disposta nei confronti di XY con ordinanza emessa ai sensi dell’art. 307 c.p.p. dal Tribunale di Roma in data 19.7.2007.

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Tribunale di Roma, sezione per il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, ordinanza del 6 aprile 2007 Custodia Cautelare - Esigenze cautelari di cui all’art. 274 lett. c – Circostanza che gli indagati non rivestano più la carica in virtù della quale avrebbero potuto commettere i reati contestati – Irrilevanza Art. 274 lett. c cpp “I difensori hanno limitato ogni questione alle sole esigenze cautelari, asseritamene insussistenti o comunque tutelabile attraverso una misura ancor più gradata rispetto a quella in atto degli arresti domiciliari. Ma sul punto rileva questo Tribunale che i fatti contestati rivestono una obbiettiva rilevante gravità sia con riguardo ai singoli episodi in sé sia con riguardo alla pervicace reiterazione degli stessi, sintomatica di una spinta al crimine veramente notevole considerata anche l’indifferenza per i cospicui danni cagionati agli incauti acquirenti ai quali, attraverso un ben collaudato sistema truffaldino, sono stati sottratti decine e decine di migliaia di euro di risparmio. Il ruolo di entrambi, pressoché pacifico dal complesso di tutte le altre precedenti risultanze, ha trovato definitiva conferma dalle dichiarazione del coindagato [omissis] il quale ha puntualizzato che gli assegni circolari derivanti dalla falsa vendita degli appartamenti venivano fatti affluire sulle due agenzia della Banca [omissis] ove lavoravano rispettivamente il [omissis] e il [omissis], che dopo aver messo il timbro per l’incasso, li accreditavano su conti correnti di persone compiacenti, trattenendo poi per sé una fetta cospicua dell’importo versato. Quindi un ruolo assolutamente primario realizzatosi attraverso una costante reiterazione di operazioni irregolari. Questa professionale dedizione al crimine rende attuale e concreto il pericolo di recidiva. L’esperienza accumulata e i rapporti con gli altri coindagati estranei all’ambiente bancario potrebbe infatti agevolare, sia pur attraverso una diversa distribuzione dei ruoli e una diversa modalità della condotta, una reiterazione di analoghi comportamenti truffaldini. Pertanto sotto questo profilo del tutto indifferente è la circostanza che entrambi gli indagati non facciano più parte della banca [omissis]. Ai fini cautelari la misura in atto rappresenta una forma veramente minima e irrinunciabile di tutela. P.Q.M. Visto l’art. 309 cpp conferma l’ordinanza cautelare in epigrafe indicata e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese”.

Tribunale di Roma, sezione per il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, ordinanza del 1 marzo 2007 Custodia cautelare - Esigenze cautelari di cui all’art. 274 lett. c – Circostanza che gli indagati non svolgano più l’attività lavorativa nell’ambito della quale avrebbero potuto commettere i reati contestati – Attenuazione delle esigenze cautelari - Rilevanza Art. 274 lett. c cpp

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Il punto su... “…sull’appello proposto in data 18.1.2007 avverso il provvedimento emesso il 22.12.2006 dal G.i.p. del Tribunale di Roma, con cui è stata rigettata l’istanza di sostituzione della misura degli arresti domiciliari, avanzata nell’interesse di [omissis]. Si premette che la [omissis], con ordinanza emessa in data 24.11.2006 dal Gip del Tribunale di Roma, è stata sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari in ordine al reato di cui agli artt. 81, 609 bis, commi 1 e 2 e 609 ter comma 1 n. 1 C.p., perché con violenza e minaccia costringeva il minore [omissis], portatore di sindrome di down, a compiere e a subire atti sessuali. Il 19.12.2006, la difesa ha presentato istanza di revoca o sostituzione della misura, deducendo che era stato ritenuto il pericolo di reiterazione in quanto l’indagata era dipendente della Cooperativa [omissis] di Roma, incaricata dello svolgimento di servizi di assistenza domiciliare e di sostegno presso le famiglie con disabili; erano state inoltre evidenziate dal Gip le modalità del fatto, denotanti una personalità definita “spregiudicata” e “del tutto insensibile, nonostante la funzione esercitata, alla considerazione anche psicologica dei minori a lei affidati perché affetti da grave handicap”; la motivazione sul punto era generica; contrariamente a quanto ritenuto, i fatti non erano connotati da violenza e minaccia e il primo episodio era sprovvisto di elementi gravemente indizianti; il pericolo di reiterazione, comunque, era cessato poiché all’attestazione prodotta risultava che la [omissis] aveva cessato la sua attività di assistenza domiciliare presso la cooperativa [omissis] a far data dal 4.11.2006. Con l’impugnata ordinanza, il Giudice della cautela ha rigettato l’istanza difensiva, osservando che non vi erano elementi nuovi e sopravvenuti rispetto a quelli già valutati al tempo dell’adozione della misura e che l’attestazione della cooperativa [omissis] era irrilevante in relazione alla condotta delittuosa, posto che l’indagata , come dalla stessa dichiarato, era dipendente della cooperativa [omissis]. Il difensore, con il proposto appello, ha censurato siffatta decisione, lamentando che non era applicabile al caso di specie il principio del cd giudicato cautelare, che il fatto nuovo era costituito dalla cessazione dell’attività, e che in ogni caso, ben avrebbe potuto il Gip accertare i rapporti esistenti tra le due cooperative ( posto che il Consorzio [omissis], titolare delll’appalto del Comune, si avvaleva del personale delle cooperative consociate, tra le quali la cooperativa [omissis]. Orbene, giova evidenziare che, con riguardo al procedimento di cui all’art. 299 comma 1 C.p.p., la richiesta “de libertate” mira a sollecitare il giudice procedente affinché verifichi se persistano le condizioni di applicabilità dettate dagli artt. 273 e 274 C.p.p., con riferimento sia ai fatti originari (ma conosciuti dal giudice successivamente all’emissione dell’ordinanza o non apprezzati dal giudice nella fase applicativa della misura), che a quelli sopravvenuti (siccome è dato evincere dalla lettera del comma 1 della norma citata: “anche per fatti sopravvenuti”). Quanto al disposto di cui al successivo comma 2, la invocata sostituzione della misura presuppone che l’originario quadro cautelare abbia subito un concreto e verificabile affievolimento. In buona sostanza, la richiesta di revoca o sostituzione deve addurre dati fattuali sopraggiunti nell’accezione sopra descritta e non contenere mere spiegazioni difensive dello stesso originario quadro storico o mirare ad una rivisitazione, da parte del giudice, del materiale già valutato all’atto dell’adozione del titolo cautelare. Orbene, unico elemento effettivamente “nuovo”, rispetto al quadro esistente al momento dell’applicazione della misura cautelare è costituito dalla attestazione rilasciata in data 15.12.2006 dal Presidente della cooperativa [omissis], con cui si è dato atto che la prestazione occasionale era stata prestata dalla [omissis] dal 12 settembre al 4 novembre. La difesa ha

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altresì allegato all’atto che la cooperativa è una delle consociate del Consorzio [omissis], il quale non può gestire direttamente i servizi relativi all’appalto con il Comune di Roma con personale proprio, ma avvalendosi esclusivamente della collaborazione del personale delle consociate. La [omissis], all’odierna udienza ha dichiarato che aveva prestato servizio presso la cooperativa quale “precaria”, ragione per cui non era stata soltanto “invitata ad andarsene”, aggiungendo che era alla ricerca di un diverso lavoro. Orbene, tali circostanze, pur non essendo idonee a dimostrare la cessazione delle esigenze cautelari (avuto riguardo alla gravità a alla natura del reato e al persistente pericolo che la prevenuta possa commettere delitti della stessa indole di quello per cui si procede), inducono tuttavia il Tribunale a reputare attenuato il pericolo di recidivanza. Deve, infatti, condividersi l’assunto difensivo in ordine alla cessazione della specifica attività lavorativa, confermata anche dall’indagata in sede di udienza camerale, elemento che riduce quantomeno il rischio che si ricreino le condizioni che comportano il contatto con minori. Ne consegue che, anche tenuto conto dello stato di incensuratezza e della giovane età, si appalesa idonea e adeguata (stante l’innegabile effetto deterrente) la misura dell’obbligo di presentazione alla P.G., secondo le prescrizioni di cui al dispositivo. P.Q.M. Riforma l’impugnata ordinanza, sostituendo la misura degli arresti domiciliari disposta nei confronti di [omissis] con ordinanza emessa in data 24.11.2006 dal Gip del Tribunale di Roma, con quella dell’obbligo di presentazione alla P.G. tutti i giorni (festivi esclusi) tra le 17,00 e le 18,00 dinanzi alla Stazione dei Carabinieri competente per territorio. Ordina l’immediata liberazione della [omissis] se non detenuta per altro”.

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RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA


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DELLA LEGGE IN GENERALE Tribunale di Roma (in composizione monocratica) sezione quarta, dott. Salvatore Iulia, sentenza del 29.01.2007. Abolitio criminis –– Irrilevanza della distinzione tra successione ‘immediata’ e successione c.d. ‘mediata’ di leggi penali Inottemperanza del cittadino rumeno all’ordine di espulsione impartito dal questore – Fatto commesso prima dell’allargamento della Unione europea - Fatto non più previsto dalla legge come reato (1). Art. 2 c.p. ed artt. 1, co. 1, 13 e 14, co. 5 ter, d.lgs. n. 286/98, << In data 21.8.2006 ufficiali ed agenti di P.G. traevano in arresto il cittadino rumeno B. F. con l’accusa di inottemperanza all’ordine di espulsione impartitogli dal questore di Roma in data 10.5.2006 in esecuzione del decreto di espulsione emesso in pari data dal Prefetto di Roma . Presentato tempestivamente l’arrestato dinanzi al giudice, questi, all’udienza del 22.8.2006 ne convalidava l’arresto, disponendo l’immediata liberazione dell’arrestato se non detenuto per altro in assenza di richiesta di misure cautelari, nonché precedersi al dibattimento nelle forme del giudizio direttissimo. All’odierna udienza le parti concordavano l’acquisizione di tutti gli atti della fase di convalida e, all’esito, concludevano come in epigrafe. All’imputato è stata contestata la violazione dell’arti. 14 comma V ter d.lgs. n. 286/1998, per non aver lasciato il territorio italiano entro il termine di 5 giorni dalla notifica del relativo ordine emesso da questore. Il presupposto della condotta criminosa ascritta all’imputato è costituito dalla sua condizione di “straniero” e cioé , come specificato dall’art. 1 I co. d.lgs. n. 286/98, dalla sua appartenenza ad uno Stato non facente parte della Unione Europea. Deve, tuttavia, rilevarsi che l’imputato, cittadino della Repubblica di Romania, non può più considerarsi “straniero” nel senso sopra specificato; ciò a seguito dell’ingresso del suo Paese nella Comunità Europea che, com’é noto, è avvenuto dal 1° gennaio 2007. Ad avviso del tribunale, nel caso di specie, con la modifica della norma che individua i Paesi facenti parte dell’Unione Europea, si è verificata una fattispecie riconducibile al II comma dell’art. 2 c.p. In particolare, deve ritenersi che il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo non può essere circoscritto ai casi di modificazioni dirette della norma penale, verificandosi anche nel caso in cui la modificazione di tale norma sia mediata, riguardando, cioé, un’altra norma o un altro elemento che integra la fattispecie incriminatrice. In dottrina e giurisprudenza, con riferimento alla questione relativa alla successione extrapenali integratrici, si è evidenziato come il fenomeno della successione nel tempo della legge penale riguarda anche quelle norme che definiscono la natura sostanziale e circostanziale del reato e, in particolare, sia le norme extrapenali richiamate espressamente dall’integrazione della fattispecie incriminatrice, sia quelle che costituiscono il presupposto indispensabile per l’individuazione del contenuto sostanziale del precetto. Pur partendo da tale pacifica considerazione, la giurisprudenza di legittimità si è espressa, sul punto, in maniera contrastante. In applicazione di tale principio, infatti, si è ritenuto (Cass. pen., sez. V, 25.2.1997, n. 4114)

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che “esula da tale normativa la successione di atti o fatti amministrativi che, senza modificare la norma incriminatrice o comunque su di essa influire, agiscono sugli elementi di fatto-modificandoli – sì da non renderli più sussumibili sotto l’astratta fattispecie normativa. (Fattispecie in tema di rigetto di eccepita inapplicabilità dell’art. 468 c.p., alla contraffazione dei sigilli posti sulla calotta del contatore elettrico per non essere più dell’Enel, a seguito della l. n. 359 del 1992, ente pubblico economico)”. E, più recentemente (Cass. pen. sez. III, 19.3.1999, n. 5457) la S.C. ha ribadito il principio sopra esposto, affermando che “nell’ambito di operatività dell’istituto in esame non rientrano le vicende successorie di norme exta-penali che non integrano la fattispecie incriminatrice né quelle di atti o fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, che resta , pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue che la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso. (Fattispecie relativa ad esercizio di attività venatoria vietata da una l. reg. al momento della commissione del fatto, e successivamente consentita in virtù di abrogazione della medesima legge)”. Di contro, sempre in tema di falsità in sigilli, la S.C. (Cass. pen. sez. V, 18.3.1998, n. 6690) ha affermato che “la trasformazione dell’Enel da ente pubblico in s.p.a., ad opera dell’art. 15 d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella l. 8 agosto 1992, n. 359, non rende più configurabile la fattispecie di contraffazione del sigillo in un ente pubblico, prevista dall’art. 468 c.p., commessa prima della trasformazione”., così implicitamente ritenendo che la modifica della norma extrapenale, pur non incidendo affatto sulla disposizione sanzionatoria penale, che è restata immutata, ha prodotto un fenomeno successivo “mediato”, disciplinato dall’art. 2 c.p. Nello stesso senso, ancora si è espressa la S.C. in materia di liberalizzazione del prezzo di vendita del pane (Cass. pen., sez. III, 29.12.1998, n. 4176), precisando che “qualsiasi modifica delle fonti integratrici comporta un mutamento della norma incriminatrice, mutamento che è disciplinato dai principi stabiliti dall’art. 2 c.p. (Fattispecie in tema di liberalizzazione del prezzo di vendita del pane operato con la delibera Cipe del 3 agosto 1993, che ha così modificato il contenuto precettivo dell’art. 14 del d.lg. C.P.S. 15 settembre 1947 n. 896, che punisce gli esercenti che pongono in vendita merci a prezzi superiori a quelli stabiliti)”. Il tribunale, operando in un ambito giurisprudenziale caratterizzato da pronunce che risolvono in maniera contrastante il problema della successione della legge extrapenale, ritiene di dover prendere le mosse dal principio concordemente posto a base di tutte le decisioni della S.C., unanimemente condiviso in dottrina e sopra già esposto e cioé dal principio secondo cui la retroattività della legge penale più favorevole, prevista dall’art. 2 II comma c.p., riguarda anche le norme extrapenali a condizione che queste contribuiscano a integrare la natura sostanziale e circostanziale del reato, rappresentando un presupposto del precetto o contribuendo ad individuare il contenuto sostanziale. Posto tale principio, appare eccessivamente riduttiva la tesi secondo cui si verifica successione solo nel caso in cui l’abrogazione o la modifica della norma extrapenale incida direttamente sul precetto; in tal caso, infatti, il fenomeno della successione “mediata” sarebbe circoscritto alle norme penali in bianco, oppure alle norme che comminino una pena per la violazione di un precetto previsto da un’altra disposizione legislativa successivamente abrogata o modificata. Una ricostruzione del fenomeno che tenga effettivamente conto del principio di retroattività della legge penale più favorevole, in realtà, non può prescindere dal rilievo secondo cui “norma incriminatrice” deve intendersi la norma che definisce la struttura essenziale e circostanziale del reato nel suo complesso, comprese, pertanto, le fonti extrapenali che, pur non ricomprese nel precetto penale, ne integrano, tuttavia il contenuto.

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Della legge in generale Proprio in tal senso, si è recentemente espressa la C.S. (Cass. pen. sez. III, 1.2.2005, n. 9482). Pur dovendosi prendere atto dell’esistenza in giurisprudenza del più restrittivo orientamento, deve segnalarsi che la S.C., nel ribadire che “ai fini dell’applicabilità dell’art. 2 c.p., si deve tenere conto anche di quelle fonti normative subprimarie che, pur non ricomprese nel precetto penale, ne integrano tuttavia il contenuto”, ha ravvisato un fenomeno successorio in un caso relativo al reato di esercizio di attività venatoria nei parchi ed ha ritenuto che “la riperimetrazione della riserva naturale ad opera di un provvedimento amministrativo della regione Sicilia avesse eliminato il disvalore penale del fatto commesso, in quanto era venuta successivamente a mancare la qualifica di parco dell’area di svolgimento dell’attività venatoria, elemento costitutivo della condotta punibile”. Esaminando il caso di specie secondo tale ultima considerazione, deve rilevarsi che la norma che si assume violata punisce l’inottemperanza all’ordine, impartito dal questore allo straniero, di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. Il suddetto ordine, in realtà, rappresenta l’esecuzione del provvedimento di espulsione precedentemente emesso dal prefetto ai sensi dell’art. 13 d.lgs. n. 286/1998. Tale norma prevede, tra l’altro, alle lettere a) e b) del comma II, che il prefetto ordini l’espulsione dello straniero entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera o dello straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver richiesto il permesso di soggiorno. Tali disposizioni, ovviamente, si applicano nei confronti degli stranieri extracomunitari i quali, a differenza dei cittadini di Stati appartenenti all’Unione Europea, sono soggetti, ai fini dell’ingresso in Italia, alle limitazioni previste dal citato decreto legislativo. Come sopra rilevato, i cittadini della Romania non sono più extracomunitari. È, pertanto, intervenuta una modifica della norma comunitaria che individua i Paesi appartenenti all’U.E. Tale modifica, inoltre, incide direttamente su tutta la normativa amministrativa che disciplina l’ingresso degli stranieri in Italia, atteso che, dal 1 gennaio 2007, i cittadini della Romania hanno facoltà di ingresso in Italia senza essere tenuti all’osservanza delle disposizioni contenute nel D.lgs. 286/1998. Ad avviso del Tribunale, tale modifica incide, altresì, sulla complessa fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 14 comma V ter D.lgs. 286/1998. La circostanza di essere, o meno, cittadino extracomunitario, infatti, non rappresenta una mera norma che non implica una modifica della disposizione sanzionatoria, o un mero fatto che non incide sul precetto penale. Quest’ultimo, infatti, nell’imporre l’osservanza dell’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale emesso dal questore in esecuzione di un decreto del Prefetto, non può essere insensibile alle modifiche delle norme che disciplinano i presupposti e le condizioni per l’emissione del decreto prefettizio. Ciò in quanto, nel caso di specie, la fattispecie incrimininatrice, complessivamente considerata, risulta essere composta da una serie di elementi: non solo da quelli direttamente descritti nel precetto (mancato allontanamento dal territorio nazionale, ordine di esecuzione dal questore e decreto del prefetto), ma anche dagli altri elementi che rappresentano presupposto e condizione per l’emissione del decreto di espulsione. Può, pertanto, definitivamente ritenersi che il venire meno dello status di cittadino extracomunitario, contribuendo ad integrare il contenuto del precetto penale, finisce per incidere, eliminandolo, sul disvalore penale del fatto complessivamente considerato. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’imputato dev’essere assolto dall’imputazione ascrittagli perchè il fatto – complessivamente considerato – non è più previsto dalla legge come reato>>.23 23 La questione è stata affrontata, di recente, anche dalla Corte di Cassazione, Sezione I, che l’ha rimessa alle Sezioni Unite con la seguente ordinanza (n. 17578 del 16.4.07):

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LA MODIFICA ‘MEDIATA’ DELLA LEGGE PENALE E L’APPLICAZIONE ANALOGICA DELL’ART. 2 C.P.

1. Il provvedimento normativo che ha sancito l’entrata a far parte dell’Unione europea della Romania ha riproposto all’attenzione della giurisprudenza di merito e di legittimità l’annosa questione delle cc.dd. modifiche ‘mediate’ della legge penale. Il casus belli è quello del cittadino rumeno che prima del 1° gennaio 2007, e cioè prima dell’entrata della Romania nell’Unione europea, non ha ottemperato all’ordine di espatrio impartitogli dal questore, ex art, 14, commi 5 bis e 5 ter, del D. l.vo 25/7/1998, n. 286 (contenente il “T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”), rispetto al quale è controverso se lo stesso debba essere – oggi - assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, oppure condannato, dovendosi la modifica intervenuta sul piano legislativo considerare rilevante solo per i fatti commessi dopo la fatidica data del 1° gennaio 2007. Le due pronunce sopra riportate offrono un quadro chiaro di quelle che sono le posizioni assunte dalla giurisprudenza di merito (che sembra aver optato per la prima soluzione assumendo che nessuna differenza sussiste tra le modifiche dirette e quelle cc.dd. mediate della legge penale) e dalla giurisprudenza di legittimità (la quale appare incerta su quale sia la soluzione più corretta, tenuto conto che vi sono già stati molteplici casi in cui, come, ad esempio, quello relativo al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di cui all’art. 14 dello stesso T.U., la stessa modifica ‘mediata’ è stata considerata del tutto irrilevante ai fini della valutazione dei fatti commessi prima ancora che la legge contenente la modifica entrasse in vigore)24. Proprio partendo da queste pronunce, però, alcune puntualizzazioni paiono necessarie sia sull’ambito di operatività dell’art. 2 c.p., sia sulla distinzione tra modifiche ‘dirette’ e ‘mediate’. 2. L’art. 2 c.p., com’è noto, disciplina l’introduzione di nuove norme incriminatrici e l’abrogazione o modifica di norme preesistenti25. Ed è pacifico che nel concetto di legge penale, ai

24 Cfr. le numerose pronunce cui fa riferimento l’ordinanza della Cassazione sopra riportata; nonché Cass. V, 4.2.2005, n. 8045, ric. Battaglia ed altri, in Cass. pen., 2006, 129, p. 426, con nota redazionale. 25 V. in generale, M. MUSCO, La riformulazione dei reati. Profili di diritto intertemporale, Giuffrè, 2000, passim ed in particolare pp. 53 ss.; DEL CORSO, Successione di leggi penali, in D.d.p., XIV, UTET, 1999, p. 82 ss.; SEVERINO, Successione di leggi penali nel tempo, in Enc. giur. Treccani, XXX, 1993, p. 1 ss.; SIRACUSANO, La successione di leggi penali, Messina, 1988, passim; PODO, Successione di leggi penali, in Noviss. Dig. It., (app.), VII, Utet, 1987, p. 611 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Giuffrè, 1987, p. 51 ss.; PADOVANI, TIPICITA’ E SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI. La modificazione legislativa degli elementi della fattispecie incriminatrice o della sua sfera di applicazione, nell’ambito dell’art. 2, 2° e 3° comma, c.p., in Riv. It. Dir. e proc. pen. 1982, p. 1354 ss., anche in Studi in memoria di Giacomo Delitala, II, Giuffrè, 1984 p. 988 ss.; SINISCALCO, Irretroattività delle leggi in materia penale, Giuffrè, 1969, passim ed in particolare p. 57 ss. Per una chiara e sintetica esposizione delle diverse posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza più recenti v. ROCCO, IL DELITTO DI C.D. INSIDER TRADING TRA VECCHIA E NUOVA FATTISPECIE NORMATIVA: SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI NEL TEMPO O ABOLITIO CRIMINIS?, in Cass. pen., 2007, 428.8,

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1 - Il provvedimento normativo. 2 - Articolo 2 c.p. 3 - il problema dell’applicabilità. 4 Ambito di operatività. 5 - I provvedimenti pubblicati


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Della legge in generale sensi dell’art. 2 cit., non possono non essere ricomprese anche tutte quelle leggi che, comunque, determinano un mutamento genetico della fattispecie astratta, intervenendo o sul precetto o sulla sanzione, indipendentemente dal fatto che questi si trovino collocati in una legge penale o anche extrapenale26. Per altro, sempre ai fini dell’applicabilità dello stesso art. 2 cit., non si può non riconoscere che, comunque, sarebbe opportuno altresì che ‘penali’ venissero considerati pure tutti quegli interventi legislativi che perseguono direttamente, o anche indirettamente degli obiettivi di politica criminale27. Così, ad esempio, nessun dubbio può sussistere sull’applicabilità dell’art. 2 c.p. alle nuove norme che hanno riscritto il capo del codice civile dedicato ai reati societari28, a quelle che hanno rivisitato la nozione penalistica di ‘pubblico agente’ o anche a quelle che hanno cancellato determinati dazi il cui omesso pagamento era considerato reato29. In tutti questi casi, quindi, sarebbe errato parlare di modifiche ‘mediate’, perché anche se l’intervento legislativo fosse contenuto in una legge a contenuto prevalentemente extrapenale, non vi sarebbe ragione per non considerare l’intervento penale, come il portato diretto, di una legge penale – latu senso -30. Poste queste premesse, per altro, risulta evidente che ‘mediate’ possono considerarsi soltanto quelle modifiche che si trovano in provvedimenti legislativi che non sono stati emanati per perseguire un qualsiasi obiettivo di politica criminale e, soprattutto, incidono soltanto indirettamente sull’ambito di operatività di una fattispecie, modificando quelle che possono anche essere considerate come delle mere norme parametro, ovverosia quelle norme che non possono essere lasciate in non cale ogni qual volta l’interprete è chiamato a verificare se un determinato fatto concreto è sussumibile ad una fattispecie astratta31. Così, ad esempio, non v’è dubbio che una modifica mediata può essere individuata nella legge che ha trasformato l’Enel in una società per azioni, o anche nell’introduzione delle nuove norme in materia di sicurezza sul lavoro nel momento in cui queste devono essere utilizzate per stabilire se vi è stato un agire colposo32. p. 1537 ss. Per una ricostruzione del fenomeno successorio in una prospettiva anche processuale v. GAMBARDELLA, ABOLITIO CRIMINIS: CASI E REGOLE PROCESSUALI, in Cass. Pen. 2005, 736, p. 1739 ss. 26 Sulla natura di leggi penali, ex art. 2 c.p., delle norme richiamate da norme penali in bianco e delle c.d. norme interpretative v. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Giuffrè, 1987, p. 55; contra M. MUSCO, op. cit., p. 47 ss. 27 Cfr. GAMBARDELLA, Lo straniero clandestino e la mancata esibizione del documento di identificazione, in Cass, pen. 2004, 243, p. 788, nella parte in cui riporta Cass. I, 11 novembre 1999, Karim, ivi, 2000, p. 3130. 28 Cfr. DONINI, ABOLITIO CRIMINIS E NUOVO FALSO IN BILANCIO. STRUTTURA E OFFENSIVITA’ DELLE FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI (ART. 2621 E 2622 C.C.) DOPO IL D.LG. 11 APRILE 2002, N. 61, in Cass. pen. 2002, p. 1240 ss.; M. ROMANO, Irretroattività della legge penale e riforme legislative: reati tributari e false comunicazioni sociali, in Riv. it. dir. proc. pen. 2002, p. 1248 ss. 29 Cfr. GALLO, Appunti di diritto penale, I, La legge penale, Giappichelli, 1999, p. 123. 30 Cfr. PAGLLIARO, Legge penale nel tempo, in Enc. Dir., XXIII, Giuffrè, 1973, p. 1068 ss. 31 V. PADOVANI, op. cit., in Stdi cit., p. 991, il quale, puntualmente, definisce modifiche ‘mediate’ quelle che si hanno <<allorquando la classe degli oggetti sussumibili nella fattispecie stessa muta in conseguenza di atti o fatti che non incidono sulla struttura, ma soltanto sulla possibilità di applicarla ad un determinato caso concreto: atti o fatti, dunque, che si riferiscono ad elementi concreti rilevanti per quelle normativa, non già direttamente ed immediatamente a quest’ultima>>. 32 Cfr. DEL CORSO, op. cit., p. 100.

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3. La riprova che una corretta soluzione del problema dell’applicabilità delle regole contenute nell’art. 2 c.p. alle cc.dd. modifiche ‘mediate’ non può non passare attraverso l’analogia, se applicabile, è data proprio dal T.U. sull’immigrazione e dai diversi ‘effetti’ che su questo ha avuto il provvedimento legislativo che ha sancito l’entrata della Romania nell’Unione europea. Sulla riconducibilità alle regole fissate dall’art. 2 c.p. del caso del cittadino rumeno che, prima del 1° gennaio 2007, non ha ottemperato all’ordine di espatrio del questore, ex art. 14,

33 In tal senso v. le puntualissime osservazioni di PADOVANI, op. cit., in Studi cit., p. 991 ss., il quale sottolinea che “mentre nell’ipotesi di modificazioni <<mediate>> l’alternativa essenziale consiste nello stabilire se l’art. 2, 2° comma, c.p., prevedendo l’efficacia estintiva dell’abolitio criminis, si riferisca al fatto nella sua mera consistenza normativa, nel qual caso persisterebbe la punibilità del fatto concreto che soltanto dopo la sua commissione non risultasse più sussumibile nella fattispecie astratta, peraltro non abrogata né modificata … Nell’ipotesi di modificazioni <<immediate>> l’alternative consiste, invece, nello stabilire se il fatto prevedutoi come reato dalla legge successiva sia (ed eventualmente a quali condizioni) identificabile con il fatto previsto dalla legge precedente, o se la loro diversità implichi una nuova incriminazione”. Cfr. per una sintesi delle diverse posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza FIANDACA MUSCO, Diritto penale, p. g., 2007, p. 94 ss., secondo i quali, in definitiva, una distinzione non parrebbe utile, tenuto conto che”essendo difficile stabilire con certezza in quali casi la modifica mediata incida realmente sulla fattispecie incriminatrice astratta, appare preferibile la tesi più estensiva che riporta alla disciplina dell’art. 2 tutte le ipotesi …”. Ma, che la distinzione sia opportuna che lo dimostra anche il tenore dell’art. 47, cp., che, com’è noto, fa espressamente riferimento alla legge extrapenale. Né si può considerare utile ai fini della corretta applicazione dell’art. 2, c.p., la posizione di quella giurisprudenza che ritiene che il comma 3 dell’art. 47 cit. possa trovare applicazione soltanto nei casi in cui la norma extrapenale non sia ‘integratrice’ di quella penale, visto che distinguere tra norma integratrici e non integratrici non è possibile, almeno in astratto ( cfr. op. ult. cit., p. 378 ss. Cfr., pure, RISICATO, Gli elementi normativi della fattispecie penale. Profili generali e problemi applicativi, Giuffrè, 2004, passim ed in particolare p. 225 ss.). 34 Per una riconsiderazione dell’ideale illuministico dell’interprete bocca della legge v. di recente DI GIOVINE, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo alla legge, Giuffrè, 2006, passim. Sull’analogia nel diritto penale ed in particolare sulla distinzione tra interpretazione estensiva ed applicazione analogica quale funzione integrativa che può anche essere affidata al giudice, si veda il sempre attualissimo VASSALLI, Analogia nel diritto penale, in D.d.p., I, Utet, 1987, p. 158 ss. 35 Per una attenta ‘rilettura’ dell’art. 14 delle disposizioni preliminari (il quale, com’è noto, sancisce, testualmente, che “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”) e l’art. 13 della Costituzione (nella parte in cui stabilisce che “Non è ammessa alcuna forma di detenzione … né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato della autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”) v. GALLO, op. cit., p. 94 ss.

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Ma, queste modifiche ‘mediate’ non possono non essere tenute distinte da quelle che si possono anche definire dirette, perché, mentre le prime modificano l’ambito di operatività della fattispecie astratta, queste ultime determinano soltanto, eventualmente, la non applicabilità della stessa fattispecie ad un fatto concreto33. Poi, posto che l’art. 2 c.p. serve a disciplinare tutti i casi di modificazione ‘diretta’ e considerato altresì che a questi possono anche essere assimilate, in alcuni casi, le modifiche cc.dd. ‘mediate’, nulla osta, in linea di principio, che a queste ultime siano applicate, di volta in volta, analogicamente34, le regole generali fissate dall’art. 2 c.p. per i casi di nuova incriminazione e abrogazione o modificazione di preesistenti norme incriminatici35.


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Della legge in generale commi 5 bis e 5 ter, T.U. cit., invero, non possono sussistere dubbi, perché la similitudine esistente tra questo caso e quelli di abrogazione parziale risulta evidente. L’art. 14 contempla un tipico reato proprio ed in questo caso la legge che ha allargato l’Unione europea, anche se non può considerarsi come una modifica diretta, ha modificato un elemento ‘significativo’ della fattispecie astratta, quale quello della categoria dei soggetti attivi, così come enucleata dal comma 2 dell’art. 1, dello stesso T.U., il quale sancisce che ‘stranieri’ non possono essere considerati coloro i quali sono cittadini di uno degli Stati aderenti all’Unione europea36. Per altro, rispetto all’art. 14 cit. quest’ultima disposizione rappresenta una vera e propria norma interpretativa la cui modifica anche se mediata perché passa attraverso un provvedimento comunitario, non può non essere assimilata ad una modifica diretta, visto che proprio per come è stata formulata questa disposizione sembra rappresentare una sorta di clausola di rinvio. Per ciò anche se qualificare questa modifica come una modifica ‘diretta’ non sarebbe corretto, la stessa non può non essere a queste assimilata se è vero, com’è vero, che ha espunto dall’elenco di tutti coloro che possono commettere questo reato i cittadini rumeni, che non sono più soggetti alle severe norme contenute nel T.U. sull’immigrazione. In questo caso, avendo determinato la modifica una situazione in tutto e per tutto assimilabile ad un’abrogazione parziale per specificazione, sarebbe irragionevole continuare a far espiare una pena, o anche condannare un cittadino rumeno che non è più neppure soggetto alle norme sull’immigrazione, soltanto perché ha commesso il fatto prima del 1° gennaio 2007. Al rispetto di quale valore lo si dovrebbe rieducare? Ma, alla medesima conclusione non si può giungere nel momento in cui si ferma l’attenzione sulle norme contenute nello stesso T.U. che, come l’art. 12 commi 1 e 3, puniscono il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. A tutt’oggi colui che favorisce l’immigrazione clandestina commette un reato. Né certo si può considerare rilevante il fatto che il favorire l’immigrazione di cittadini rumeni, a partire dal 1° gennaio 2007, non può più costituire reato, perché in questo caso non si può certo ravvisare una similitudine con la parziale abrogazione cui fa riferimento l’art. 2, co. 2, del c.p. Il disvalore del fatto sta nell’aver agevolato l’immigrazione clandestina degli stranieri, qualunque sia il Paese dal quale questi provengono. Ciò che la norma incriminatrice punisce è il favorire l’immigrazione di coloro che per entrare nel territorio nazionale dovrebbero attenersi a quanto previsto dallo stesso T.U. per gli stranieri. Nè si può a tal fine considerare rilevante la disposizione che precisa che stranieri non possono considerarsi i cittadini dei Paesi aderenti all’Unione europea, se è vero che in questa norma il termine ‘stranieri’ non sta ad indicare i soggetti attivi, bensì coloro che hanno un ruolo, meramente, ‘passivo’. Colui che ha favorito l’immigrazione clandestina di cittadini rumeni prima che la Romania entrasse a far parte dell’Unione europea, non vi dovrebbero essere dubbi che deve essere rieducato al rispetto di tutti quei valori che sorreggono le regole che vietano il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di ‘stranieri’. Sarebbe assurdo ipotizzare che la ‘fortuna’ di colui che è immigrato clandestinamente possa condizionare l’esistenza del reato. Anche il riconoscimento della cittadinanza italiana per particolari meriti ‘civili’ fa perdere la qualità di straniero: ma, certo sostenere che pure in questo caso si avrebbe una parziale abrogazione della fattispecie, assimilabile a quella di cui all’art. 2 c.p., sarebbe irragionevole. 4. Una modifica ‘mediata’ può essere equiparata ad una parziale abrogazione (o modifica) quando restringendo l’ambito di operatività della fattispecie astratta, cancellando quella che si

36 Sulle c.d. norme interpretative definitorie cfr. RAMACCI, Corso di diritto penale, Giappichelli, 2001, p. 216 ss.

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5. Poste queste premesse, tornando ai due provvedimenti pubblicati, dovrebbe risultare chiaro sia perché non può essere condivisa l’affermazione con la quale il Tribunale di Roma si è spinto sino ad affermare che nessuna distinzione può esser fatta tra modifiche dirette e ‘mediate’; sia perché poco convincente appare la decisione con la quale la Prima Sezione della Cassazione ha chiesto alle Sezioni Unite di redimere una volta per tutte, quello che, a ben guardare, pare più un conflitto apparente che reale. PASQUALE BARTOLO

37 Cfr. MOCCIA, Il diritto penale tra valore ed essere, Funzione della pena e sistematica teologica, E.S.I. 1992, passim ed in particolare p. 26 ss.; nonché von HIRSCH, L’esistenza della istituzione della pena: rimprovero e prevenzione come elementi di una giustificazione, in Critica e giustificazione del diritto penale nel cambio di secolo. L’analisi critica della scuola di Francoforte, a cura di STORTONI FOFFANI, Giuffrè, 2004, p. 121 ss.; NOLL, La fondazione etica della pena, in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, a cura di EUSEBI, Giuffrè, 1989, p. 29 ss.. Sui concetti di colpevolezza e pericolosità nell’esperienza tedesca cfr. pure MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco in un confronto con il sistema italiano, a cura di MILITELLO, Giappichelli, 1993, p. 125 ss. 38 Sulla distinzione tra principi e regole generali del diritto penale e sui criteri interpretativi di queste ultime cfr. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Cedam, 1996, p. 25 ss. 39 Cfr., per una critica all'analogia c.d. in bonam partem, RAMACCI, op. cit., p. 232 ss.

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potrebbe definire una <<sottofattispecie>>, fa risultare irragionevole e quindi ingiusta l’applicazione di una sanzione penale non più applicabile (o anche meno severa), risultando così la pena non più in grado di assolvere la sua funzione rieducativa. Ma, in linea di principio, una siffatta soluzione non sembra plausibile ogni qual volta la modifica ‘mediata’ non intervenendo su di un elemento ‘significativo’ della fattispecie comporta soltanto la non sussumibilità di un fatto concreto - prima tipico - alla fattispecie astratta37. Comunque, spetta all’interprete il compito di verificare, caso per caso, se sussistono i presupposti perché alle cc.dd. modifiche ‘mediate’ siano applicate, in via analogica, attraverso un giudizio di conformità, le regole generali fissate dall’art. 2 c.p.38, di modo che l’interprete chiamato ad applicarla riesca a riaffermare i giudizi di valore espressi dalle singole norme39.


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Del reato

DEL REATO Tribunale di Roma (in composizione monocratica) sezione quarta, dott. Salvatore Iulia, sentenza del 25.10.2006. Cause di giustificazione speciali - Resistenza a pubblico ufficiale – Reazione agli atti arbitrari del p.u. Erronea supposizione della scriminante – Rilevanza dell’errore. Danneggiamento – Lesioni personali – Difetto di procedibilità. Artt.: 47, 55, 59, 337, 582, 635 c.p.; 4 D.L.vo 14.9.1944 n. 288 ; << omissis.. Esaminando nel merito la posizione del M., si rileva che dalle dichiarazioni dei testi e dell’imputato emergono alcune circostanze pacifiche. In particolare, in data 3.4.2005, gli imputati, recatisi nel locale pubblico “C. d. a.”, avevano richiesto l’intervento di una pattuglia della P.S., lamentando di essere stati aggrediti e picchiati. Giunti sul posto, gli agenti operanti avevano effettivamente riscontrato che il M. si presentava con il volto coperto di sangue e lamentava di essere stato aggredito con calci e pugni all’interno del locale. Sul posto veniva fatta giungere un’ambulanza ed il personale medico prestava al Mazzei le prime cure. In ordine agli altri particolari della vicenda, invece, la versione fornita dai testi non concorda con quella dell’imputato. Il teste P. ha riferito che il M., non appena gli erano stati richiesti i documenti per l’identificazione, si era rivolto nei suoi confronti profferendo ingiurie e minacce; più specificatamente il teste ha riferito: “si era rivolto verso di me dicendo che non valevo un cazzo e che conosceva un certo ispettore Barbieri del commissariato Aurelio e che ci avrebbe fatto passare i guai; noi decidevamo di accompagnarlo al posto di polizia per l’identificazione e lui, forse sotto l’effetto di sostanze alcoliche, si divincolava e colpiva la macchina con calci e pugni e ha colpito anche me che mi frapponevo”. Il teste ha, inoltre, dichiarato che l’atteggiamento degli imputati era stato, sin dall’ini-

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zio, aggressivo nei confronti degli operanti di P.S., lamentandosi del loro modo di procedere; ha, infine, riferito che gli sembrava che sul posto non fosse presente nessun altro. La teste S. ha sostanzialmente fornito analoga versione; ha però riferito che a circa cento metri dal locale vi erano delle persone, presumibilmente degli avventori. L’imputato ha riferito che, non appena giunti sul posto, gli operanti gli avevano chiesto i documenti; egli si era subito lamentato di tale modo di agire, in quanto, pur indicando ai poliziotti le persone che poco prima lo avevano aggredito e malmenato fino a provocargli le evidenti gravi lesioni di cui gli stessi operanti si erano resi conto, nulla era stato fatto per identificare gli autori del reato. Ha precisato il M. che lui si era limitato a protestare per come veniva svolto l’intervento e che, vedendo che i poliziotti si preoccupavano soltanto di identificare lui e la T., si era rivolto verso il P. dicendogli che “non capiva un cazzo”, ma certamente non minacciandolo. L’unica sua condotta di resistenza passiva era stata posta in essere quando si era rifiutato di voler salire in macchina, cosa che non riteneva giusta in quanto, se fosse stato portato negli uffici della P.S., non sarebbero stati più identificati gli autori del reato ai suoi danni. Aveva, pertanto, poggiato le mani contro l’autovettura soltanto per opporre resistenza alla sua introduzione forzata all’interno della stessa, ma non aveva mai colpito nessuno degli agenti. Ad avviso del Tribunale deve ritenersi attendibile la versione dell’imputato nella


parte in cui ha riferito che sul posto vi erano ancora presenti le persone che l’avevano aggredito; persone che egli aveva indicato agli operanti affinché le identificassero. In tal senso depone non solo e non tanto la dichiarazione del M., quanto quella della S., che ha riferito di aver visto a distanza di circa cento metri alcune persone. Lo stesso P., del resto, non ha escluso che sul posto di fosse qualcun altro, limitandosi a riferire che gli sembrava che non ci fosse nessuno e che comunque egli non se ne era accorto perché impegnato ad identificare il M. La circostanza che erano stati proprio gli imputati a richiedere l’intervento delle forze dell’ordine, peraltro, sembra fornire riscontro alla tesi dagli stessi sostenuta. Tanto premesso, ad avviso del Tribunale, gli atti posti in essere dal M. integrano l’elemento oggettivo di tutti i reati ascrittigli. Egli, infatti, si è rifiutato di esibire i documenti di identità, come richiestogli legittimamente dagli operanti, ed ha posto in essere una condotta di reazione all’attività della P.G., tentando di impedirla o di renderla più difficoltosa. Al riguardo, deve evidenziarsi che la richiesta di documenti da parte del p.u. per l’identificazione della persona è atto tipicamente rientrante nelle sue funzioni, potendo egli identificare chiunque per motivi di sicurezza e, in concorso di talune circostanze di tempo e di luogo, anche per motivi di ordine pubblico. L’imputato ha, altresì, cagionato danni all’autovettura e lesioni personali all’agente P. Ritiene, tuttavia, il Tribunale che, nel caso di specie, l’imputato ha agito nella convinzione, anche se errata, della sussistenza di una causa di giustificazione. Come è noto, il reato di resistenza a pubblico ufficiale rientra tra quelli cui è applicabile il disposto di cui all’art. 4 del D.lgs. lt. n. 288/1944. Tale norma prevede che non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 339, 341, 342, 343 c.p. quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa

al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo, con atti arbitrari, i limiti delle sue attribuzioni. La reazione agli atti arbitrari è da qualificare come causa di giustificazione che elimina l’antigiuridicità del fatto e non come causa di non punibilità. La disposizione citata, infatti, introduce una limitazione all’operatività del precetto penale, consentendo proprio ciò che, in sua assenza, la norma penale vieta. Non può condividersi, di contro, proprio alla luce del tenore letterale della previsione normativa (“non si applicano le disposizioni degli articoli…”) la tesi secondo cui si sarebbe in presenza di una causa di non punibilità; queste ultime, infatti, non incidono sul precetto, ma introducono un limite all’applicabilità della sanzione. Il riferimento alla non applicabilità delle “disposizioni” di cui ai citati articoli, invece, incide proprio sul precetto, rappresentando un elemento costitutivo del reato, anche se in senso negativo; elementi la cui assenza, come nel caso di tutte le cause di giustificazione, è necessaria perché si integri la condotta criminosa. Ritenuto, pertanto, che l’art. 4 citato introduce una causa di giustificazione “speciale” – ulteriore, cioè, rispetto a quelle codificate – resta da chiedersi se anche con riferimento a tali esimenti siano applicabili le disposizioni relative all’eccesso colposo nelle scriminanti (art. 55 c.p.) invocato, tra l’altro, dalla difesa nel caso in esame, ed all’esistenza putativa delle stesse (art. 59 c.p.). Ad avviso del Tribunale, la disciplina dell’eccesso colposo e delle scriminanti putative è applicabile anche alle scriminanti speciali. Quanto all’art. 55 c.p., si è già ritenuto in dottrina che l’elencazione delle cause di giustificazione ivi contenuta non può essere considerata tassativa, se non altro perché, non essendo indicato l’art. 50 c.p., si finirebbe per escludere l’applicabilità della disciplina alla scriminante del consenso dell’avente diritto. La non tassatività dell’elenco, inoltre, consente di estendere il principio anche alle cause di

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Del reato


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Del reato giustificazione speciali e, indubbiamente, a quelle che, come la scriminante in questione, sono state introdotte nel nostro ordinamento in data successiva a quella di entrata in vigore del codice penale. Con riferimento all’art. 59 c.p., si rileva che tale norma al comma IV, dispone: “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. Nonostante il tenore letterale della norma, invero ambiguo, deve ritenersi che l’art. 59 IV comma c.p. si riferisce alle sole scriminanti; ciò in quanto non può riferirsi alle cause di non punibilità che, sopravvenendo dopo la consumazione del reato, non consentono di ipotizzare un errore sulla loro sussistenza già al momento della commissione del fatto criminoso. Anche tale disposizione si estende alle scriminanti speciali; non solo perché vi osta la formulazione ampia e generale della norma, quanto perché trattasi di estensione che discende dal generale principio dell’errore sul fatto. L’art. 59 IV comma c.p., infatti, rappresenta una riaffermazione del generale principio dell’errore sul fatto (contenuto nell’art. 47 comma I c.p., secondo cui l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità), riaffermazione effettuata dal legislatore con riferimento agli elementi negativi del reato (le cause di giustificazione); ne consegue che l’applicazione di tale principio a tutte le scriminanti non può trovare alcuna limitazione. Tanto premesso, osserva il Tribunale che, nel caso di specie, non è applicabile l’art. 55 c.p., che disciplina l’eccesso colposo nelle cause di giustificazione. L’eccesso, infatti, va distinto dalla scriminante putativa poiché questa, nel primo caso, esiste realmente, pur se travalicata, mentre nel secondo caso non esiste realmente, ma è solo supposta dall’agente. Ed infatti, come sopra si è già evidenziato, la richiesta di documenti da parte del pubblico

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ufficiale per l’identificazione della persona è atto tipicamente rientrante nelle sue funzioni, così come è consentito al p.u. condurre in ufficio la persona che si rifiuta di fornire le sue generalità, in applicazione di quanto previsto dall’art. 11 d.l. n. 59/78, conv. con modif. in l. n. 191/1978. Nessun eccesso colposo si ravvisa nella condotta tenuta da parte del M., atteso che la scriminante invocata non era sussistente per mancanza di arbitrarietà dell’atto posto in essere dal p.u. Deve, a questo punto, porsi il problema dell’esistenza putativa della stessa scriminante. Una premessa è necessaria in proposito. Nel nostro sistema penale l’errore sul fatto, astrattamente idoneo a scriminare la condotta, può essere determinato: - da un errore “di fatto”, inteso come erronea percezione o valutazione della realtà, con riferimento ad un elemento costitutivo del fatto reato, ovvero ad un elemento negativo dello stesso, relativo, cioè, ad una causa di giustificazione; - da un errore sulla legge extrapenale richiamata dal precetto penale, ovvero relativa ad una causa di giustificazione; - da un errore sulla legge penale richiamata dal precetto penale, ovvero relativa ad una causa di giustificazione. L’errore di fatto, sia esso riferito agli elementi positivi del fatto reato e cioè alla condotta ed alle sue modalità concrete, all’evento o al nesso causale, sia esso riferito agli elementi negativi del fatto, così attenendo all’assenza di scriminanti, esclude la punibilità qualora sia incolpevole; qualora invece sia stato determinato da colpa comporta la punibilità quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo. Sul punto, le regole dettato dall’art. 47 I c. e dall’art. 59 IV c. c.p. sono speculari. L’errore sulla legge penale, relativo, cioè, all’esistenza della norma incriminatrice, ovvero della norma che introduce la scriminante, non esclude, invece, la punibilità.


Esaminando l’atteggiamento tenuto dal M., può affermarsi che l’imputato, ritenendo non corretto il modo di operare degli agenti intervenuti – che a suo avviso stavano perdendo tempo nella sua identificazione, così non individuando i presunti autori di un reato ai suoi danni – non ha commesso un errore sul precetto, perché non ha errato sull’esistenza o sulla dimensione della scriminante, atteso che la reazione al p.u. che pone in essere un atto arbitrario scrimina la condotta di cui all’art. 337 c.p. L’imputato, invece, appare aver commesso un errore di fatto. È stato, infatti, accertato che gli operanti non hanno identificato nessun altro ad eccezione del M. e della T. Non hanno, in particolare, identificato le persone presenti sul posto, pur essendo queste state loro indicate dal M.; sul punto, non vi sono motivi per ritenere inattendibile la versione dell’imputato, atteso che lo stesso era stato picchiato, come si evince dalle lesioni riportate, di talchè appare verosimile che abbia tentato di indicare alla polizia le persone che riteneva responsabili dell’aggressione. Gli operanti hanno chiarito di non aver identificato altre persone perché impegnati, in un primo momento, a generalizzare ed a prestare assistenza al M. e perché costretti, in un secondo momento, a bloccare la reazione violenta dello stesso imputato. Appare, allora, verosimile che il M., errando sulla valutazione e percezione del comportamento di fatto tenuto dagli agenti, abbia ritenuto che questi non intendessero, volontariamente ed arbitrariamente, procedere all’identificazione dei presenti, senza comprendere che gli agenti medesimi, in quel momento, erano impegnati in altri atti d’ufficio. Né può dirsi che l’aspettativa del M. – e cioè l’identificazione dei presunti aggressori – fosse in quel momento infondata ed ingiustificata, tenuto conto delle condizioni in cui lo stesso si trovava e dell’aggressione che aveva subito.

L’errore, pertanto, è caduto proprio su un fatto che ha indotto l’imputato a prefigurarsi un comportamento arbitrario dei pubblici ufficiali, ingiustificatamente impegnati, secondo la sua prospettiva, ad identificare l’aggredito, così lasciando fuggire gli aggressori. L’imputato, pertanto, supponendo l’esistenza di una scriminante che non esisteva, ma che se fosse esistita avrebbe scriminato il fatto, ha voluto un fatto diverso da quello tipico (violenza in assenza di un atto arbitrario), commettendo un errore su un elemento negativo del fatto reato. La condotta, pertanto, pur materialmente integrante il reato di cui all’art. 337 c.p., è priva dell’elemento soggettivo del dolo. Certamente l’errore sul fatto commesso dal M. non può dirsi esente da colpa, atteso che l’imputato ha rifiutato di consegnare, in un primo momento, i suoi documenti, facendo sì che gli operanti insistessero per identificarlo, anche accompagnandolo in ufficio. Le sue stesse condizioni di salute – dal referto medico e dalle dichiarazioni dei testi risulta che presentava alito vinoso – condizioni del resto a lui stesso imputabili, non possono costituire una giustificazione per l’errore di valutazione commesso. Tuttavia, ai sensi dell’art. 59 IV c. c.p., in presenza di errore colposo, la punibilità non è esclusa soltanto quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo. Tale non è il reato di resistenza, previsto solo come reato doloso; ne deriva che per il reato di cui al capo a) va pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Alla luce delle considerazioni che precedono, si impone analoga pronuncia per il reato di danneggiamento di cui al capo c). È vero che il danneggiamento non è scriminato dalla esimente di cui all’art. 4 D. lgs. n. 288/1944; tuttavia, la condotta del M., che ha tentato di non farsi mettere in macchina per le ragioni più volte sopra evidenziate, lascia ritenere che i danni all’autovettura non fossero il frutto di

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Codice penale

Del reato


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Del reato un’azione volontaria finalizzata ad arrecarli, bensì il risultato della sua riottosità a salire in macchina, così apparendo cagionati da un comportamento meramente colposo. Anche per tale capo, pertanto, dovrà pronunciarsi sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, non essendo previsto il danneggiamento come reato colposo. Quanto al reato di lesioni contestato al capo b), ribadite le considerazioni sopra effet-

tuate con riferimento all’elemento psicologico e ritenuto, pertanto, che difetti, nella fattispecie, il dolo del reato, i fatti ascritti vanno ricondotti all’ipotesi di cui all’art. 590 c.p. (lesioni colpose), reato che, a differenza di quello contestato, non è procedibile d’ufficio. In mancanza di querela da parte delle persone offese, pertanto, va pronunciata sentenza di non doversi procedere perché l’azione penale non doveva essere iniziata>>.

Tribunale di Roma – Sezione VIII in composizione monocratica Dott. Marco Marocchi – Sentenza 23 aprile 2007 Circostanze del reato – Giudizio di comparazione ex art. 69 comma 4 c.p. - Divieto del giudizio di prevalenza ex art. 3 l. 5 dicembre 2005 n. 251 – Limiti - Applicabilità ai soli casi di concorso tra circostanze inerenti alla persona del colpevole e recidiva reiterata ovvero circostanze aggravanti ex art. 111 e 112 comma 1, n. 4, c.p. Stupefacenti – Circostanza attenuante della lieve entità del fatto – Giudizio di prevalenza sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata – Ammissibilità. <<(omissis) Alla luce della compiuta ricostruzione dei fatti, l’unico assunto accusatorio pienamente dimostrato appare quello relativo alla cessione di cocaina posta in essere da X in favore di Y, (omissis) Va, dunque, senz’altro affermata la penale responsabilità di X per il delitto di cui all’art. 73 comma 1 D.P.R. 309/90 ascrittogli. Dall’esame del certificato del casellario giudiziale emerge come X abbia riportato due sentenze di condanna irrevocabili per delitti non colposi : una prima per i delitti di cui agli artt. 648 c.p.e 2 lg n. 12 1/1987, pronunciata dal Pretore di Roma in data ... e definitiva il ... ; una seconda per i delitti di cui agli artt. 73 comma 1 D.P.R. 309/90, 2 e 5 lg n. 895/1967, 635 comma 2 e 99 c.p., pronunciata dalla Corte di Appello di Roma in data .... e definitiva in data ..... Appare, quindi, integrata la circostanza aggravante della recidiva specifica, infraquinquennale e reiterata.

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Peraltro, la rudimentalità delle modalità e dei mezzi di attuazione dell’attività di spaccio, il modesto quantitativo di cocaina detenuto e ceduto ed il profilo di assuntore di eroina dedito alla cessione al minuto di altro tipo di stupefacente allo scopo di finanziare il suo proprio consumo consentono di inquadrare la condotta criminosa di X nella fattispecie di lieve entità di cui al quinto comma dell’art. 73 D.P.R. 309/90. Il riconoscimento al giudicabile della circostanza attenuante ad effetto speciale contemplata dal quinto comma dell’art. 73 D.P.R. 309/90 (norma che , pur dopo la novella recata dalla legge n. 49/2006, continua a configurare le condotte di detenzione e di cessione illecita di minima offensività non già come fattispecie autonome e indipendenti di reato rispetto a quelle disciplinate dai commi 1 e 1 bis,. ma come fatti di identica struttura ed obiettività giuridica caratterizzati unicamente da un minor pericolo di diffusione degli stupefacenti fra i possibili assuntori) determina il


concorso eterogeneo con la circostanza aggravante della recidiva specifica, infraquinquennale e reiterata. Orbene, non vi è dubbio che il conseguente necessario giudizio di comparazione fra la riconosciuta attenuante ad effetto speciale e la circostanza aggravante della recidiva reiterata vada formulato avendo riguardo all’obiettivo consacrato nella Relazione al progetto definitivo del codice penale con riguardo al principio del bilanciamento introdotto dall’art. 69 c.p., per cui l’applicazione della pena in concreto deve essere: “il risultato di un giudizio complessivo e sintetico sulla personalità del reo e sulla gravità del reato, anziché l’arido risultato di successive operazioni aritmetiche”. È altrettanto indubbio che nel caso di specie sia proprio la minima offensività della condotta di spaccio di X a costituire la cifra ed il colore predominanti della vicenda oggetto del processo (tenuto anche conto dell’esiguo numero di precedenti dell’imputato, nonché della modesta gravità e della notevole risalenza nel tempo del primo di essi) e che alla luce di tale valutazione si imponga di ancorare il trattamento sanzionatorio alla cornice edittale disegnata dal legislatore nel quinto comma dell’art. 73 D.P.R. 309/90; è di tutta evidenza, infatti, come l’eventuale riferimento al quadro sanzionatorio previsto dal comma 1 dell’art. 73 D.P.R. 309/90 determinerebbe l’irrogazione di una pena enormemente sproporzionata all’obiettivo disvalore del fatto concreto e dunque non rispondente a quel criterio di ragionevolezza e a quella funzione di rieducazione che gli artt. 3 e 27 Cost. fissano come stelle polari del ragionamento del giudice in punto di determinazione della stessa. Un tale risultato postula necessariamente che il bilanciamento fra la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5 D.P.R. 309/90 e la recidiva specifica, infraquinquennale e reiterata si concluda con un giudizio di prevalenza della prima, esito cui non sembra ostare il novellato comma quarto dell’art. 69 c.p. In proposito mette conto richiamare l’acuta

e rigorosa interpretazione letterale del testo dell’art. 69 comma 4 c.p., quale riformato dall’art. 3 della legge n. 251/2005, proposta dalla Corte di Appello di Brescia nella sentenza n. 337/07 Reg. Sent. pronunciata in data 23.2.2007, fondata sulla collocazione nell’orditura della norma dell’inciso che ha per così dire blindato le circostanze aggravanti di cui agli artt. 99 comma 4°, 111 e 112 comma 1° n. 4 c.p. mediante la previsione del divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti. Si osserva, in particolare, come l’originaria disposizione del comma 4 dell’art. 69 c.p. recitasse : “Le disposizioni precedenti si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella originaria” e come la novella recata dalla legge n. 251/2005 si sia sostanziata nell’interpolazione dell’inciso “esclusi i casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112 primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti” “ mediante la collocazione dello stesso subito dopo la parola “colpevole” e prima della congiunzione “ed”; il risultato letterale è con ogni evidenza il collegamento dell’inciso introdotto dalla legge n. 251/05 unicamente alla prima delle due locuzioni originarie componenti la norma e, dunque, la riferibilità dell’introdotto divieto di giudizio di prevalenza al solo caso di concorso fra le circostanze blindate di cui all’art. 99 comma 4 c.p., 111 e 112 comma primo n. 4 c.p. e le circostanze attenuanti inerenti alla persona del colpevole. Deve, pertanto, ritenersi che l’art. 69 comma 4 c.p. novellato faccia salva la possibilità di concludere la comparazione fra le circostanze attenuanti ad effetto speciale costruite sul parametro dell’obiettiva minore offensività del fatto — come quella del quinto comma dell’art. 73 D.P.R. 309/90 — e la recidiva reiterata ex art. 99 comma 4 c.p. anche con un giudizio di prevalenza delle prime; conclusio-

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Del reato


Del reato ne che appare, peraltro, in linea con il principio di non contraddizione dell’ordinamento, che impone di adottare un’interpretazione della norma sul bilanciamento delle circostanze che non si risolva in un annientamento delle

valutazioni compiute dal legislatore nel prevedere e disciplinare attenuanti ad effetto speciale in presenza di un notevole ridimensionamento del disvalore e dell’allarme sociale di determinati fatti tipici>>.

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Sentenza in contrasto con la giurisprudenza dominante, costituzionale e di legittimità, in materia di limiti del divieto di prevalenza sulla recidiva ex art. 99, comma 4, c.p., come modificato dalla l. 251/05, di una o più circostanze attenuanti (ed in particolare di quella di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90) nel giudizio di comparazione ex art. 69 c.p.. Secondo Cass. Sez. V Pen. 27 febbraio – 5 aprile 2007, ric. PM presso GIP Tribunale Genova (pubblicata integralmente su Diritto e Giustizia online del 21.4.2007) in caso di concorso tra la recidiva reiterata di cui al quarto comma dell’art. 99 c.p . e la attenuante speciale dianzi menzionata, la pena va determinata con il limite massimo di un bilanciamento di equivalenza tra la concessa attenuante e la aggravante in oggetto e quindi la determinazione della pena base nella misura fissata dall’art. 73 comma 1 D.P.R. 309/90. Il principio è stato ribadito da Cass. Sez. VI Pen., 27 febbraio – 11 maggio 2007, ric. p.g. in proc. Nasrallah (pubblicata integralmente su Diritto e Giustizia online del 25.5.2007) che ha altresì affermato che la assoggettabilità della recidiva al meccanismo giuridico del giudizio di comparazione opera anche quando il giudice non ritenga di disporre l’aumento di pena. Con una pronuncia (Cass. Sez. IV Pen. 11 aprile – 3 maggio 2007, ric. Pg in proc. Serra ed altro, pubblicata su Diritto e Giustizia online del 25.5.2007) definita dallo stesso relatore “costituzionalmente orientata”, il Giudice di legittimità ha assunto una posizione più garantista, statuendo che spettando in ogni caso al giudice stabilire se la contestata recidiva reiterata ai sensi del novellato art. 99, comma 4, c.p. sia in concreto indice di maggiore pericolosità sociale, se l’aumento di pena non sia operato, la (pur riconosciuta) aggravante non fa scattare, nel giudizio di comparazione, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti. Tale ultimo orientamento è stato recepito (ed ampliato) dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 192/2007 e la ordinanza 21-30 novembre 2007, n. 409, secondo cui “nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia diventata obbligatoria [soluzione che la Corte sembra condividere ndr] è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, c.p. - unicamente quando ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea a determinare di per sé, un aumento di pena per il fatto per cui si procede: il che avviene – alla stregua dei criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa – solo allorchè il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo” nonchè “che qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall’altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all’applicazione di circostanze attenuanti concorrenti, ne deriverebbe la conseguenza – all’apparenza paradossale – di una circo-

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Del reato

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma quarto del codice penale, come modificato dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 12 (nn. 2 ordinanze) e del 24 gennaio 2006 dal Tribunale di Ravenna, del 3 marzo, del 28 febbraio, dell’8 marzo, dell’8 e del 3 aprile 2006 dal Tribunale di Cagliari, del 25 marzo 2006 dal Tribunale di Perugia, dell’11 marzo 2006 dal Tribunale di Cagliari, del 14 marzo 2006 dal Tribunale di Livorno, del 24 febbraio 2006 dal Tribunale di Firenze, del 6 aprile 2006 dal Tribunale di Perugia, del 23 giugno 2006 dal Tribunale di Cagliari e del 20 maggio 2006 dal Tribunale di Perugia, rispettivamente iscritte ai nn. 102, 103, 104, 223, 235, 295, 297, 307, 308, da 404 a 406, 408, 559 e 615 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 15, 29, 37, 42, 49, prima serie speciale, dell’anno 2006 e 3, prima serie speciale, dell’anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 4 giugno 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. (…) Considerato in diritto 3. – Le questioni sono inammissibili. 3.1. – I giudici a quibus dubitano, in riferimento a plurimi parametri costituzionali, della conformità a Costituzione dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui – nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee – vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. La maggioranza dei rimettenti sottopone a scrutinio tale divieto nella sua globalità; mentre il solo Tribunale di Perugia si duole, in modo specifico, del fatto che la preclusione del giudizio di prevalenza sia stata sancita anche in rapporto alla circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, relativamente ai delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope. Le censure formulate dai giudici a quibus trovano, in ogni caso, la loro comune premessa fondante nell’assunto per cui la norma denunciata avrebbe introdotto una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena – introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato. Si tratterebbe, peraltro, di una presunzione irrazionale, a fronte dei caratteri di “perpetuità” e “genericità” propri della recidiva, la quale – fatta eccezione per le ipotesi di recidiva aggravata previste dai numeri 1) e 2) dell’art. 99, secondo comma, cod. pen.

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stanza “neutra” agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo) nell’ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto “aggravante” - eventualmente, anche in rilevante misura – nell’ipotesi di reato circostanziato in mitius (in sostanza, la recidiva reiterata non opererebbe rispetto alla pena del delitto in quanto tale de determinerebbe, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato)”. (GIOVANNI PAGLIARULO)


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Del reato (recidiva specifica e infraquinquennale) – si configura a prescindere dal tempo trascorso dalla condanna precedente e dalla identità dell’indole fra il nuovo delitto e quelli anteriormente commessi. Ad avviso dei rimettenti, cioè, il fatto che il colpevole del nuovo reato abbia riportato due o più precedenti condanne per delitti non colposi – quali che essi siano – farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del giudizio di bilanciamento tra circostanze prefigurato dall’art. 69, quarto comma, cod. pen.: con l’effetto di “neutralizzare” – anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto – la diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche di queste ultime. Siffatto assunto poggia peraltro, a sua volta, sul presupposto – implicito e non motivato – che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria e non possa essere, dunque, discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto; con la conseguenza di rendere inapplicabile la censurata disciplina in tema di bilanciamento con le circostanze attenuanti concorrenti. 3.2. – Quella che i rimettenti danno per scontata non rappresenta, tuttavia, l’unica lettura astrattamente possibile del vigente quadro normativo. A sostegno della tesi della obbligatorietà, in ogni caso, della recidiva reiterata, regolata dal quarto comma dell’art. 99 cod. pen. (nel nuovo testo introdotto dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005) – così come della recidiva cosiddetta pluriaggravata, di cui al terzo comma del medesimo articolo – parrebbe militare, in effetti, prima facie, l’argomento letterale. L’avvenuta utilizzazione, in tali disposizioni, con riferimento al previsto aumento di pena, del verbo essere all’indicativo presente («è») – in luogo della voce verbale «può», che compariva nel testo precedente, e che figura tuttora nei primi due commi dello stesso art. 99 cod. pen., con riferimento alla recidiva semplice e alla recidiva aggravata – indurrebbe difatti a ritenere che il legislatore abbia inteso ripristinare, rispetto alle due forme di recidiva considerate, il regime di obbligatorietà preesistente alla riforma attuata dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220. Nondimeno – secondo quanto osservato da più parti – la nuova formula normativa potrebbe essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente «è» si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso. A tale conclusione indurrebbe, segnatamente, la considerazione che la recidiva pluriaggravata e la recidiva reiterata rappresentano mere “species” della figura generale delineata dal primo comma dell’art. 99 cod. pen.: il che implicherebbe che la struttura della recidiva resti quella – indubbiamente facoltativa – ivi contemplata, limitandosi i commi successivi a derogare alla relativa disciplina solo in relazione all’entità degli aumenti di pena. La soluzione interpretativa in parola risulterebbe avvalorata – ad avviso dei suoi fautori – soprattutto dal rilievo che l’unica previsione espressa di obbligatorietà della recidiva, presente nell’art. 99 cod. pen., è quella racchiusa nell’attuale quinto comma; quest’ultimo – con disposizione collocata dopo la regolamentazione di tutte le forme di recidiva – stabilisce che, «se si tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’au-

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mento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto». Da tale previsione si desumerebbe che, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate, il legislatore abbia inteso mantenere il carattere della facoltatività: e che, dunque – per quanto al presente più interessa – la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale. Avendo omesso di verificare la praticabilità di tale diversa opzione interpretativa, i giudici rimettenti non si sono posti neppure l’ulteriore problema – anch’esso rilevante, in rapporto al thema decidendum – della corretta esegesi della previsione del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., dianzi riprodotta: quello, cioè, di stabilire se – affinché divenga operante il regime di obbligatorietà della recidiva ivi prefigurato – debba rientrare nell’elenco dei gravi reati, di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., il delitto oggetto della precedente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; o, piuttosto, indifferentemente l’uno o l’altro, o addirittura entrambi; soluzioni, queste, tutte alternativamente prospettate dai primi interpreti della norma, a fronte del suo dettato letterale. 3.3. – Nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è d’altro canto possibile ritenere – come rilevato, nella sostanza, anche dall’Avvocatura dello Stato – che venga meno, eo ipso, anche l’«automatismo» oggetto di censura, relativo alla predeterminazione dell’esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee sulla base di una asserita presunzione assoluta di pericolosità sociale. Conformemente, infatti, ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo. Di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti. I giudici a quibus non indicano, del resto, quali argomenti si oppongano ad una simile conclusione. In particolare, essi non si chiedono se la conclusione stessa possa trovare ostacolo nell’indirizzo dominante della giurisprudenza di legittimità – formatosi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (e peraltro avversato dalla dottrina largamente maggioritaria) – in forza del quale la facoltatività della recidiva atterrebbe unicamente all’aumento di pena, e non anche agli altri effetti penali della stessa, rispetto ai quali il giudice sarebbe comunque vincolato a ritenere esistente la circostanza; o se assuma, al contrario, rilievo dirimente – pure nella cornice di detto indirizzo – la considerazione che il giudizio di bilanciamento attiene anch’esso al momento commisurativo della pena. In effetti, qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall’altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all’applicazione di circostanze attenuanti concorrenti – siano esse ad effetto comune o speciale – ne deriverebbe la conseguenza, all’apparenza paradossale, di una circostanza “neutra” agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpe-

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Del reato volezza o pericolosità del reo), nell’ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto “aggravante” – eventualmente, anche in rilevante misura – nell’ipotesi di reato circostanziato “in mitius”. In altre parole, appare assai problematico, sul piano logico, supporre che la recidiva reiterata non operi rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determini, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato: profilo problematico, questo, con il quale i giudici a quibus avrebbero dovuto necessariamente misurarsi. 3.4. – In tale ottica, l’eventuale esclusione dell’obbligatorietà della recidiva reiterata, nei termini precedentemente indicati, verrebbe dunque ad inficiare tanto la motivazione sulla rilevanza che quella sulla non manifesta infondatezza delle questioni, formulate dai rimettenti. Sotto il primo profilo, vale infatti osservare che, alla stregua di quanto riferito nelle ordinanze di rimessione, tutti i giudici rimettenti – fatta eccezione per il solo Tribunale di Ravenna, in rapporto all’ordinanza r.o. n. 104 del 2006 – procedono per delitti non compresi nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. I delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti (oggetto dei giudizi a quibus in rapporto a tredici delle quindici ordinanze di rimessione) risultano difatti inclusi nel suddetto elenco solo ove ricorrano le ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 80, comma 2, e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990; mentre il delitto di estorsione (cui ha riguardo l’ordinanza r.o. n. 102 del 2006) vi figura solo se aggravato ai sensi dell’art. 629, secondo comma, cod. pen. (numeri 2 e 6 dell’art. 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen.). I rimettenti che procedono per i delitti ora indicati non riferiscono, peraltro, dell’avvenuta contestazione delle predette aggravanti. D’altro canto, tutte le ordinanze di rimessione – senza alcuna eccezione – o non indicano i delitti ai quali si riferiscono le precedenti condanne riportate dagli imputati, ovvero (come la citata ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006) fanno riferimento a condanne relative a delitti non compresi nell’elencazione dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. Sotto il secondo profilo, poi – al lume di quanto dianzi indicato – sia il problema dei limiti di obbligatorietà della recidiva reiterata, sia quello della necessità o meno di effettuare comunque il giudizio di comparazione, a fronte di una recidiva facoltativa, incidono anche sulla valutazione di non manifesta infondatezza della questione formulata dai singoli rimettenti: questi ultimi – espressamente o implicitamente – si dolgono tutti del fatto che la presunzione di pericolosità, sottesa alla norma denunciata, scatti a prescindere dalla natura dei reati di cui si discute. La stessa ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006 – l’unica emessa, come detto, nell’ambito di un processo per delitti inclusi nella lista dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. (in specie, rapina e violenza sessuale aggravate dall’uso di armi: numeri 2 e 7bis della citata disposizione) – afferma, del resto, expressis verbis, che la valutazione circa la ragionevolezza della scelta legislativa di limitare i possibili esiti del giudizio di bilanciamento potrebbe essere diversa, in presenza di un divieto di prevalenza delle attenuanti limitato ai soli recidivi reiterati «condannati per reati di una certa gravità»; e ciò analogamente a quanto la medesima legge n. 251 del 2005 ha previsto con riguardo alla neointrodotta limitazione alla concessione delle attenuanti generiche, di cui all’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen. (limitazione, peraltro, parimenti connessa al fatto che si discuta di uno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen., sia pure con l’ulteriore condizione che la relativa pena minima risulti non inferiore a cinque anni di reclusione). 4. – L’assenza di indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “nuova” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla data delle ordinanze di rimessione (in quanto di poco posteriori

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Del reato all’entrata in vigore della novella) – è riscontrabile anche allo stato attuale, essendosi la Corte di cassazione espressa in modo contrastante nelle prime decisioni in materia. Pertanto, la mancata verifica preliminare – da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, tra le ultime, ordinanze n. 32 del 2007, n. 244, n. 64 e n. 34 del 2006) – l’inammissibilità delle questioni sollevate.

riuniti i giudizi, dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, della Costituzione, dai Tribunali di Ravenna, Cagliari, Livorno, Perugia e Firenze con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2007.

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per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE


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Del reo e della persona offesa dal reato

DEL REO E DELLA PERSONA OFFESA DAL REATO Tribunale di Roma, sezione speciale riesame, dott. Taurisano (Pres.) dott. De Simone (Giud.) dott. Pazienza (Giud. est), ordinanza del 18.05.2006 (depositata il 31.05.2006). Imputabilità - colpevolezza – Ubriachezza quale causa di non esclusione o riduzione della capacità d’intendere e volere (1). Omicidio - Dolo eventuale - Colpa cosciente (2). Guida in stato di ebbrezza - Misure cautelari personali – Fumus commissi delicti – Potere del Tribunale del riesame di qualificare diversamente il reato contestato (3). Artt.: 43, 92, 575, 589, c.p.; 273, 274, 309 c.p.p.; 186 D.Lgs. 285/92.

<< (omissis)… Con l’ordinanza in epigrafe, il G.I.P. accoglieva l’istanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari formulata dal P.M. nei confronti di (omissis), in relazione al reato di cui all’art. 81, 575 c.p., per aver cagionato la morte di (omissis), (omissis) e (omissis), deceduti a seguito delle gravissime lesioni riportate nel sinistro stradale avvenuto frontalmente nelle prime ore del 17.4.06 sulla statale Pontina tra la Mercedes da loro occupata, e condotta da (omissis) e l’Audi A3 guidata da (omissis); questi, postosi alla guida in stato di ebbrezza, aveva percorso contromano la predetta statale per tredici chilometri e aveva raggiunto la velocità di 130 km/h, provocando l’impatto frontale con la Mercedes. In ordine alla gravità indiziaria, il G.I.P. richiamava ampiamente le risultanze in atti, con particolare riferimento alle dichiarazioni rese da (omissis), il quale, procedendo con la propria auto sulla Pontina in direzione di Latina, ed avvedutosi all’altezza dello svincolo sulla Nettunense della presenza sull’opposta semicarreggiata dell’Audi A3 che andava nella medesima sua direzione, e quindi contromano, aveva immediatamente avvertito il 113 con il cellulare, senza peraltro riuscire a mantenere la velocità dell’altra vettura che, inizialmente quantificata in 70 km/h, era successivamente aumentata a 90/100 e poi a 120 km/h. Il

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(omissis) aveva altresì notato diversi veicoli che, occupando regolarmente la semicarreggiata verso Roma, avevano miracolosamente evitato l’impatto con l’Audi accostandosi a destra; nonostante le segnalazioni con i fari dei rispettivi conducenti, l’individuo alla guida dell’Audi – poi identificato in (omissis) – aveva continuato a procedere contromano fino al momento dell’impatto frontale con la Mercedes, avvenuto dopo circa 13 chilometri dalla prima segnalazione di (omissis). L’immediato intervento della Polizia Stradale consentiva – oltre ai rilievi di rito, all’identificazione e al ricovero dei conducenti le vetture, e al purtroppo vano tentativo di soccorrere le tre vittime – di accertare: che il (omissis) aveva percorso la Pontina contromano per circa 10 minuti, superando in un tratto i 120 km/h; che egli presentava, in sede di ricovero, un tasso di alcool nel sangue pari a 243 mg/l, nonché tracce sia di oppiacei, sia di cannabinoidi (queste ultime in valori prossimi alla soglia massima consentita). Sulla scorta di tali elementi, il G.I.P. condivideva la qualificazione giuridica prospettata dal P.M.: in particolare, la conduzione dell’auto in stato di ubriachezza (e con residui di una pregressa assunzione di stupefacenti), in ora notturna e imboccando contromano un’arteria trafficata anche in quell’ora, il mantenimento di una velocità elevata per circa 13 chilometri,


nonostante gli avvisi con i fari dei conducenti delle auto riuscite ad evitare l’impatto frontale, costituivano elementi, ad avviso del G.I.P., inequivocabilmente idonei di un comportamento connotato da dolo eventuale, avendo il (omissis) accettato il rischio di un grave impatto conseguente alla sua condotta. Il G.I.P. osservava inoltre che l’ubriachezza di (omissis) non poteva avere alcuna influenza sulla colpevolezza, ma eventualmente sull’imputabilità: nella specie, peraltro, non vi era alcun elemento deponente, ai sensi dell’art. 92, per un’ubriachezza derivante da caso fortuito o forza maggiore, potendo anzi ricavarsi elementi di segno contrario dalla presenza nel sangue di significative tracce di sostanze stupefacenti. Sempre secondo il G.I.P. anzi, “l’ubriachezza dell’indagato è invece l’elemento determinante per comprendere la motivazione per la quale egli abbia posto a repentaglio la sua stessa vita ed abbia accettato consapevolmente il rischio di cagionare la morte di altri utenti della strada, viaggiando contromano di notte a velocità elevatissima sulla S.S. 148 Pontina”. Pertanto, doveva ribadirsi la sussistenza del dolo eventuale, e comunque in caso contrario si sarebbe in presenza di omicidio colposo plurimo e disastro colposo aggravato.…. Ritiene il Collegio che l’odierna fattispecie sia caratterizzata, con ogni evidenza, dal contemporaneo rilievo applicativo di delicate problematiche inerenti l’elemento psicologico del reato, quali, da un lato, l’ubriachezza e – qualora essa non derivi da caso fortuito o forza maggiore, e dunque non escluda né elimini l’imputabilità, ai sensi dell’art. 92 c.p. – la sua incidenza nella valutazione della colpevolezza dell’agente; dall’altro, la necessità di distinguere le condotte criminose connotate da dolo eventuale, da quelle riconducibili nell’alveo della colpa con previsione. Sotto il primo profilo, va richiamato il consolidato e condivisibile indirizzo della Suprema Corte secondo cui “nel caso di ubriachezza volontaria, colposa o preordina-

ta, la presunzione legale d’imputabilità non è sufficiente a fondare un giudizio di responsabilità penale, occorre, infatti, accertare la colpevolezza dell’ubriaco secondo i normali criteri di individuazione dell’elemento psicologico del reato e, poiché l’art. 92 c.p. nel disciplinare l’imputabilità, nulla dice in ordine alla di lui colpevolezza, questa va valutata alla stregua delle regole dettate dagli artt. 42 e 43 c.p. È dunque necessario prendere in considerazione la condotta dell’ubriaco, al momento della commissione del fatto, per stabilire se egli ha agito con dolo o colpa. Ciò perché, secondo il vigente sistema penale, l’ideazione e la volizione dell’ubriaco vanno indagate e valutate dal giudice, nonostante la perturbazione psichica e la riduzione del senso critico determinate dall’alcool” (Cass., sez. I, 22.5.90, n. 7157). Sotto il secondo profilo, può dirsi pacifico l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui “il dolo eventuale si contraddistingue dalla colpa cosciente per l’elemento della volontà, in quanto in entrambe le ipotesi il soggetto si rappresenta l’evento antigiuridico che è conseguenza della sua azione od omissione, ma mentre nel primo caso agisce, accettando il rischio che l’evento possa verificarsi, nel secondo caso agisce nella certezza che l’evento non si verificherà e, in ogni caso, egli non vuole, neanche per ipotesi, che l’evento si verifichi. Per poter accertare l’elemento soggettivo del reato occorre valutare le circostanze di fatto esistenti e note all’agente nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, desumendone dalle stesse l’atteggiamento psichico” (Cass., Sez. I, 19.6.02, n. 28647). Per entrambe le questioni prospettate, le soluzioni interpretative della Suprema Corte evidenziano quindi una imprescindibile necessità di analizzare la concreta condotta posta in essere dall’agente, dovendo dalla stessa necessariamente desumersi le indicazioni essenziali per giungere a conclusioni appaganti. Nell’odierna fattispecie, il dato certo da

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Del reo e della persona offesa dal reato cui partire è costituito dal fatto che (omissis) si è posto alla guida della propria autovettura, pur avendo nel sangue un tasso alcolico quasi cinque volte superiore alla soglia consentita dalle norme in tema di circolazione stradale. Allo stato, l’ipotesi dell’ubriachezza derivata da caso fortuito o forza maggiore deve essere esclusa, non essendo stata tra l’altro minimamente dedotta neppure da parte della difesa: sul punto, anzi, appaiono del tutto condivisibili le considerazioni deduttive svolte dal G.I.P. sulla base dell’accertata presenza, nel sangue dell’odierno indagato, di residui di sostanze stupefacenti. Si può dunque ritenere, in via di prima approssimazione, che il (omissis), nel momento in cui si è posto alla guida, abbia volontariamente commesso il reato di guida in stato di ebbrezza, rappresentandosi altresì la concreta possibilità del verificarsi di eventi dannosi ad altri utenti della strada (una totale, assoluta obnubilazione delle facoltà mentali – tale quindi da impedire anche la suddetta rappresentazione – sembra ragionevolmente da escludere, in considerazione dell’ampiezza del tragitto percorso senza perdere il controllo dell’auto, prima dell’impatto frontale). Tale affermazione appare peraltro, alla luce degli insegnamenti giurisprudenziali sopra richiamati, del tutto insufficiente ai fini che qui specificamente interessano: non potendosi apoditticamente ed automaticamente ascrivere a titolo di dolo quanto meno eventuale, ad un soggetto postosi alla guida nelle condizioni del (omissis), qualsiasi tipo di evento lesivo cagionato durante la circolazione; né, altrettanto apoditticamente ed automaticamente, formulare al riguardo imputazioni di colpa cosciente. In realtà, come già accennato, “occorre valutare le circostanze di fatto esistenti e note all’agente nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, desumendone dalle stesse l’atteggiamento psichico” (Cass., Sez. I, 26.2.98, n. 5969). In una fattispecie di omicidio con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, tale

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indagine non può arrestarsi alla decisione di porsi alla guida in stato di ubriachezza, ma deve prendere in esame la specifica condotta antidoverosa che ha determinato l’evento: nella specie, l’aver imboccato e poi percorso la strada statale Pontina contromano fino all’impatto frontale con l’auto condotta da (omissis) e occupata dalle tre vittime. In particolare, risulta essenziale stabilire se il (omissis) abbia – anche a causa dell’alterazione alcolica – posto in essere volontariamente tale specifica condotta di guida, accettando gli eccezionali rischi da essa derivanti proprio sulla scorta di tale alterazione; ovvero se la condotta in questione – a causa dell’ubriachezza – di un clamoroso errore di manovra iniziale (imbocco dell’arteria), non percepito neanche nei chilometri successivi nonostante le segnalazioni visive degli automobilisti incrociati lungo il tragitto. Nell’impugnata ordinanza, il G.I.P. si è senza riserve espresso per la prima alternativa: “la sensazione apparente di sicurezza che derivava dall’elevata assunzione di alcolici, infatti rendeva il (omissis) (omissis) immune da timore per la propria incolumità ed indifferente per l’accettazione del rischio di privare altre persone della vita, come poi effettivamente verificatosi” (pag. 4 dell’ordinanza). Ritiene peraltro il Collegio che tale assunzione non sia adeguatamente supportata dalle risultanze processuali. Invero, che il (omissis) abbia scientemente organizzato un “tentativo di suicidio”, o comunque abbia deliberatamente voluto giocare anzitutto con la propria vita, prima ancora che con quella degli altri, decidendo di imboccare e percorrere per chilometri e chilometri la Pontina contromano, per di più in ora notturna, appare allo stato un’affermazione di tipo congetturale, non confortata da alcun tipo di elemento anche solo dichiarativo (es. persone a conoscenza di un suo stato di disperazione o di una volontà di togliersi la vita, ecc.). Al contrario, lo stato di abnorme alterazione alcolica in cui il (omissis) versava in quello specifico frangente consente di rite-


nere, in assenza di ulteriori indicazioni, assai più vicina alla realtà l’ipotesi che egli – proprio a causa di tale stato, che pure non lo aveva dissuaso dal mettersi alla guida – abbia commesso senza volerlo una tra le più eclatanti e gravi violazioni delle norme del codice stradale (quale l’imbocco contromano di un’arteria a scorrimento veloce) ed abbia poi continuato nella marcia senza rendersi conto dell’eccezionale pericolosità di quest’ultima. In tale prospettiva, evidentemente, il fatto per cui è causa deve essere ricondotto nell’alveo dell’art. 589 commi 2 e 3, 61 n. 3 c.p.. Diversamente opinando, del resto, si dovrebbe sostenere – in assenza, si ripete, di qualsiasi elemento idoneo a far ritenere cosciente e volontaria la guida contromano da parte del

(omissis) – che l’odierno ricorrente debba essere ritenuto responsabile a titolo di dolo per essersi posto alla guida in stato di ubriachezza, accettando il rischio di compiere gravissime violazioni del codice della strada quale quella che è costata la vita ai tre giovani occupanti della Mercedes. In tal modo, ad avviso del Collegio, si finirebbe per dar luogo ad una inaccettabile estensione applicativa del dolo eventuale, ed in particolare del criterio dell’<accettazione del rischio> che connota tale istituto. È infatti evidente che, nell’ottica che qui si contesta, detto criterio verrebbe applicato non già all’evento dannoso cagionato dall’agente, ma – ben prima, e del tutto indebitamente – al comportamento antidoveroso posto in essere…(Omissis)>>.

(1) Sul rapporto tra imputabilità e colpevolezza cfr. Cass. Pen., sez. I, 30 aprile 1990, Picchedda, in Cass. pen. 1991, I,1982 (“nel caso di ubriachezza volontaria, colposa o preordinata, la presunzione legale d’imputabilità non è sufficiente a fondare un giudizio di responsabilità penale. Occorre, infatti, accertare la colpevolezza dell’ubriaco secondo i normali criteri d’individuazione dell’elemento psicologico del reato e, poiché l’art. 92 c.p. nel disciplinare l’imputabilità nulla dice in ordine alla di lui colpevolezza, questa va valutata alla stregua delle regole dettate dagli artt. 42 e 43 c.p. È, dunque, necessario prendere in considerazione la condotta dell’ubriaco, al momento della commissione del fatto, per stabilire se egli ha agito con dolo o colpa. Ciò perché, secondo il vigente sistema penale, l’ideazione e la volizione dell’ubriaco vanno indagate e valutate dal giudice, nonostante la perturbazione psichica e la riduzione del senso critico determinate dall’alcool”); nonché Cass., 20.11.1995, Flore, C.E.D. 204070. Contra, Pretura Lucca, 18 gennaio 1989, Maggi, Giur. merito 1990, 619 Pretura Lucca, 18 gennaio 1989, Maggi, Giur. merito 1990, 619 (“qualora un fatto costituente reato sia stato commesso da persona in stato di ubriachezza piena, non derivata da caso fortuito o forza maggiore, per stabilire se sussistano gli estremi soggettivi del reato occorre aver riguardo all’atteggiamento psicologico che l’agente aveva nel momento in cui si ubriacò. L’agente risponderà del reato contestatogli qualora, trattandosi di reato punito a titolo di dolo, si sia ubriacato nonostante la previsione della verificazione del fatto ed accettandone il rischio e, trattandosi di reato punito a titolo di colpa, si sia ubriacato nonostante che il fatto fosse anche soltanto prevedibile ed evitabile quale conseguenza dell’ubriachezza. Se, invece, il fatto fu commesso in stato di ubriachezza parziale, anch’essa non derivata da caso fortuito o forza maggiore, l’agente ne risponderà secondo i canoni ordinari in tema di accertamento dell’elemento soggettivo del reato”). (2) Sulla distinzione tra colpa cosciente e dolo eventuale v., in dottrina, per una rassegna delle teoriche più accreditate, PULITANÒ, Diritto penale, I ed., Torino, 2005, 354 ss.¸in

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giurisprudenza Cass. pen., sez. I, 23 ottobre 1997, n. 5969, Held, in Riv. pen. 1998, 342 (“il dolo eventuale si contraddistingue dalla colpa cosciente per l’elemento della volontà, in quanto in entrambe le ipotesi il soggetto si rappresenta l’evento antigiuridico che è conseguenza della sua azione o omissione, ma mentre nel primo caso agisce, accettando il rischio che l’evento possa verificarsi, nel secondo caso agisce, nella certezza che l’evento non si verificherà ed, in ogni caso, egli non vuole, neanche per ipotesi, che l’evento si verifichi. Per poter accertare l’elemento soggettivo del reato occorre valutare le circostanze di fatto esistenti e note all’agente nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, desumendone dalle stesse l’atteggiamento psichico. - Fattispecie relativa all’uccisione della figlia da parte di soggetto, in stato di ubriachezza, il quale, per scherzo, aveva volontariamente sparato in un locale di limitate dimensioni, alla presenza di 5 persone. La S.C. ha confermato l’imputazione dell’omicidio a titolo di dolo eventuale-”); nonché Cass. pen., sez. I, 14 giugno 2001, n. 775, Lucini, in Studium Juris 2002, 799. Cfr. pure Cassazione penale, sez. I, 08 novembre 1995, n. 832, Piccolo, Cass. pen. 1997, 991 (“il dato differenziale tra dolo eventuale e colpa cosciente va rinvenuto nella previsione dell’evento. Questa, nel dolo eventuale, si propone non come incerta, ma come concretamente possibile e l’agente nella volizione dell’azione ne accetta il rischio, così che la volontà investe anche l’evento rappresentato. Nella colpa cosciente la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta che nella coscienza dell’autore non viene concepita come concretamente realizzabile e, pertanto, non è in alcun modo voluta”); e ancora Cass. pen., sez. I, 03 giugno 1993, Piga, in Cass. pen. 1994, 2992 (“il fondamento dell’imputazione dolosa, nel dolo eventuale, in cui l’attributo eventuale non concerne il dolo che deve sussistere, ma il risultato possibile, per l’appunto eventuale, cui il dolo si riferisce, va ravvisato nell’accettazione da parte dell’agente della possibilità dell’evento, sia pure come risultato accessorio rispetto allo scopo della sua condotta. Qualora l’agente abbia, invece, escluso tale possibilità, confidando di poterla evitare, si versa nella colpa cosciente che questo non sia stato voluto nè accettato nell’ipotesi che si verifichi”). (3) Sul potere riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità di riqualificare il fatto v. Cass., SS. UU., 22.10.1996, n. 16, Di Francesco, in Codice di procedura penale, a cura di Corso, Piacenza, 2004, 915 (“...al tribunale, in sede di riesame o di appello ai sensi degli artt. 309 e 310 c.p.p., è consentito modificare la qualificazione giuridica data dal pubblico ministero al fatto per cui si procede”); ma cfr. anche Cassazione penale, sez. V, 15 luglio 1999, n. 3910, Conti, Cass. pen. 2000, 2692 (“in tema di riesame di provvedimenti restrittivi della libertà personale, non è consentito al giudice di procedere alla modificazione della qualificazione giuridica del fatto, a meno che la esigenza di tale modifica possa essere soddisfatta senza bisogno di ulteriori indagini”); nonché Cass., sez. II, 02.03.2000, n. 4638, Schettino, RV. 216348 (“anche in materia de libertate vige il principio della immutabilità del fatto contestato, inteso quale accadimento della realtà, sul quale l’indagato è stato chiamato a difendersi, non già il principio dell’immutabilità della definizione giuridica data al fatto stesso dal pubblico ministero. Ne consegue che è sempre consentito al giudice dell’applicazione della misura, o a quello del riesame o d’appello, attribuire la corretta qualificazione giuridica al fatto descritto nel capo d’imputazione; così come l’esercizio di tale potere da parte del giudice della cognizione piena non produce, ex se, effetti sul procedimento incidentale, se non quelli derivanti dal mutamento stesso della qualificazione giuridica”). (ANTONELLO MADEO)

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<< (omissis) A seguito di arresto eseguito nella flagranza dei reati di cui agli artt. 628 c. 2, 582, 585 c.p., […] B. S. veniva presentato innanzi a questo Tribunale in composizione monocratica per la convalida dell’arresto ed il contestuale giudizio direttissimo. [….] Il B. chiedeva di essere giudicato con il rito abbreviato condizionato all’espletamento di una perizia psichiatrica per accertare se, al momento del fatto, fosse capace d’intendere e volere […] Questo giudice accoglieva la richiesta formulata e disponeva perizia psichiatrica. […] Ritiene questo Giudice che le risultanze istruttorie […] consentano di escludere l’imputabilità del B. perché affetto da vizio totale di mente al momento di commissione dei reati contestati. […] È necessario premettere qualche breve considerazione in materia d’imputabilità e di cause della sua esclusione previste e disciplinate dagli artt. 85 ss c.p. Come è noto, l’imputabilità è uno status, cioè un modo di essere della persona che consente ad un soggetto di rendersi conto del valore sociale dei propri atti e di autodeterminarsi liberamente. In particolare, la capacità d’intendere e volere è la sua idoneità a valutare il significato e gli effetti della propria condotta e quindi a comprenderne il disvalore sociale, mentre la capacità di volere è la sua attitudine ad autodeterminarsi in relazione ai normali impulsi che motivano l’azione e, comunque, in modo coerente con le rappresentazioni apprese. In breve, è capace d’intendere e di volere il soggetto che è in grado di rappresentarsi

l’evento, quale conseguenza diretta ed immediata della propria attività, di valutare e riconoscere gli effetti della propria condotta, e di autodeterminarsi nella selezione dei molteplici motivi che esercitano nella sua coscienza una particolare spinta o una qualsiasi inibizione dirette l’una a concretare e l’altra a paralizzare l’impulso dell’azione. L’indagine sull’imputabilità è necessariamente distinta da quella sulla colpevolezza e dunque sul dolo poiché l’imputabilità è un presupposto per l’affermazione della responsabilità penale in ordine al reato commesso, che pertanto dovrà essere compiutamente integrato nelle sue componenti oggettive e soggettive. […] Il perito ha ritenuto che l’imputato nel momento in cui ha commesso il fatto contestato, non fosse in grado di valutare il significato e la portata della propria condotta e dunque rendersi conto del disvalore sociale del proprio comportamento, nonché di autodeterminarsi, cioè di controllare gli impulsi ad agire e conseguentemente determinarsi secondo quello che appare il motivo più ragionevole in base ad una determinata concezione di valore. Secondo le risultanze peritali, tale vizio è dovuto ad un’infermità di mente che colpiva il soggetto ed in particolare un disturbo bipolare in fase di eccitamento maniacale. […] Secondo il perito, […] l’imputato non solo non era affatto in grado di valutare adeguatamente il rapporto tra la sua azione e le sue conseguenze, ma non era neanche in condizioni psichiche di scegliere liberamente tra i vari comportamenti da tenere, controllando i freni di stimolo e d’inibizione che presiedono alla scelta comportamentale del soggetto in

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Tribunale di Roma, sez. IV in composizione monocratica, dott.sa Antonella Capri, sent. 16397/06 del 19/09/2006. Imputabilità – Capacità d’intendere e volere – Presupposto della responsabilità penale - Vizio di mente. Pericolosità sociale – Valutazione - Esclusione Artt. 85, 88 c.p.


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Del reo e della persona offesa dal reato quanto affetto da “un disturbo bipolare che compromette un’adeguata analisi della realtà e nelle fasi di espansione dell’umore favorisce una marcatissima impulsività”. Ritiene questo Giudice che il giudizio medico-legale psichiatrico formulato dal perito nominato e confermato dal consulente di parte sia condivisibile. […] Deve escludersi, alla luce delle risultanze peritali, che l’imputato sia soggetto pericoloso socialmente al quale dunque applicare la misura di sicurezza del ricovero in o.p.g. previsto dalla legge.

[…] L’imputato ha evidenziato un marcato passaggio da una condizione di scompenso clinico […] ad una situazione di sostanziale normalità […]. Tale circostanza costituisce un indice prognostico favorevole nell’ambito della patologia psichiatrica del soggetto. Non solo ma il B. ha evidenziato compiuta consapevolezza della propria malattia e della necessità di sottoporsi ad adeguato trattamento farmacologico […] L’imputato va pertanto assolto per difetto d’imputabilità al momento del fatto.>>

Corte di Appello, sezione seconda, dott. V. Savini (Pres.), dott. B. Fasanelli (Cons.), dott. E. Canale (Cons.), sentenza del 14.6.2006. Capacità d’intendere e volere – Resistenza a p.u. – Lesioni personali Connessione teleologica – Procedibilità. Rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale – Assunzione di prova nuova sulla imputabilità – Onere di allegazione in capo alla difesa. Artt: 85, 89, 337, 582 c.p.;12, 603 c.p.p.

<< Al termine del dibattimento il Procuratore Generale concludeva per la rinnovazione parziale dell’istruzione dibattimentale, al fine di espletare perizia psichiatrica sulla persona del F., richiesta cui aderiva il difensore del prevenuto. Sulla base degli elementi probatori acquisiti la Corte ritiene che le argomentazioni e la motivazione formulate dal primo giudice a sostegno della declaratoria di responsabilità dell’imputato in ordine ai reati ascritti sono da condividere e vanno pertanto confermate, mentre appaiono infondate le censure espresse con l’atto di impugnazione, che deve essere respinto. Il primo motivo di gravame non può essere accolto. Al riguardo è necessario evidenziare che dall’esame degli atti processuali non risulta che nelle precedenti fasi del giudizio siano stati richiesti accertamenti sulla capacità di intendere e volere del prevenuto all’epoca dei fatti, né sono emersi elementi che in qualche

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modo abbiano prospettato la necessità di provvedere a tale incombente. Infatti le modalità del suo comportamento, concretatasi nell’opporre resistenza ai carabinieri operanti – che erano intervenuti sul posto ove stava infastidendo i passanti – mediante spintoni, calci e pugni per impedire che fosse tradotto in caserma ed ivi identificato, costituisce una condotta criminosa che integra gli estremi dei reati contestati, ma non presenta connotati particolarmente significativi, che demotiva un difetto di imputabilità. È da aggiungere che non è stata prodotta alcuna documentazione sanitaria che in qualche modo attesti il ricorso del prevenuto a cure presso una struttura di igiene mentale per sindrome schizofrenica, patologia questa dichiarata per la prima volta nell’atto dell’impugnazione, ma della quale non è stata prodotta alcuna certificazione, né offerto alcun principio di prova. Anche il secondo motivo di appello deve essere respinto.


La Corte ritiene che il reato di lesioni sub A) sia procedibile d’ufficio, in quanto aggravato dalla connessione teleologica con il delitto di resistenza. Infatti l’appuntato dei C.C. F. V. ha attestato in dibattimento che l’imputato, richiesto di esibire un documento identità, si era rifiutato di mostrarlo, né aveva declinato le proprie generalità, profferendo nei confronti dei militari intervenuti espressioni ingiuriose. A questo punto gli operanti lo avevano invitato a salire in macchina ed a seguirli in caserma, ma egli si era rifiutato di ottemperare, reagendo in malo modo, colpendo con le mani il verbalizzante al volto, e giungendo ad una vera e propria colluttazione, allorquando veniva caricato in macchina. Pertanto è da ravvisare una stretta connessione tra la resistenza opposta dall’imputato e la richiesta dei verbalizzanti di seguirli in caserma, salendo

sull’auto di servizio, in quanto chiaramente diretta ad impedire la sua identificazione e quindi che i medesimi compissero un atto del loro ufficio. È da precisare, pertanto, che la Corte ritiene di condividere la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale “è compatibile l’aggravante teleologica con l’applicazione della continuazione perché diversa è la natura dei due nessi, l’uno (la connessione teleologica) essendo fondato sulla maggiore pericolosità del colpevole e l’altro (la continuazione) trovando la sua ragione di essere nella unicità del disegno criminoso, sicché non può confondersi l’elemento psichico che sorregge il reato continuato con i vari momenti, volitivi e rappresentativi, propri della commissione dei singoli reati (Cass. Pen., Sez. II, 1.7.1986, n. 6698; Cass. Pen., Sez. V, 23.10.1995, n. 10508) >>.

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Della estinzioine del reato e della pena

DELLA ESTINZIONE DEL REATO E DELLA PENA Tribunale di Roma (in composizione monocratica), VII sezione, dott. Alfonso Sabella, ordinanza del 31.01.2006. Principi di ragionevolezza ed uguaglianza - Prescrizione dei reati – Criteri per la determinazione del termine di prescrizione Circostanze ad effetto speciale – Irragionevolezza della norma sui termini di prescrizione nella parte in cui preclude il giudizio di bilanciamento (tra aggravanti ed attenuanti ad effetto speciale). Ricettazione – Ipotesi lieve. Artt.: 3, 27 Cost.; 63, 157 ss., 648 c.p. <<Il Tribunale in composizione monocratica, nella persona del dott. Alfonso Sabella, nel procedimento nei confronti di (omissis) imputato del reato di cui all’art. 648 comma II c.p., perchè, al fine di procurarsi un profitto acquistava o comunque riceveva un telefono cellulare (omissis) denunciato rubato da (omissis) in data 10 novembre 1997 osserva quanto segue. Con decreto di citazione emesso in data 4 gennaio 2005 (a seguito di dichiarazione di nullità di un precedente analogo decreto del 14 ottobre 2003), 1’odierno imputato veniva tratto a giudizio avanti al Tribunale di Roma in composizione monocratica per rispondere dell’ipotesi attenuata di ricettazione di cui all’art. 648 comma II c.p., delitto commesso in epoca antecedente e prossima al novembre 1997 e punito con la pena della reclusione fino a sei anni e della multa fino a 516,00. L’udienza di prima comparizione, fissata per 1’8 aprile 2005, veniva differita d’ufficio a causa dei funerali del Santo Padre, per cui, fino alla data odierna, non interveniva alcuna dichiarazione di apertura del dibattimento; conseguentemente, al delitto per cui si precede, risultano applicabili, ex art. 10 comma III Legge 5 dicembre 2005 n. 251, i termini di prescrizione introdotti dall’art. 6 della Legge citata, comunque più favorevoli rispetto a quelli di cui alla previgente disciplina degli art. 157 n. 3) e 160 comma III c.p.. Se, poi, si considera quale pena massima cui far

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riferimento ai fini del calcolo dei termini di prescrizione quella del delitto, contestato dal P.M., di cui all’art. 648 comma II c.p., in luogo di quella prevista al primo comma per la c.d. ipotesi base di ricettazione, il reato per cui si precede risulterebbe gia prescritto per intervenuta prescrizione c.d. prolungata. Infatti per i delitti puniti con pena fino a sei anni di reclusione 1’analogo termine di prescrizione ordinaria, ex art. 161 comma II c.p., può essere prolungato, in caso di imputato non recidivo (come è, appunto, 1’A.), nella misura massima di un ulteriore quarto e, dunque, di un anno e mezzo. Alla data odierna il complessivo termine di anni sette e mesi sei risulterebbe definitivamente decorso e per accertare e dichiarare, ex art. 469 c.p.p., la sussistenza della conseguente causa di estinzione del reato non sarebbe necessario procedere al dibattimento. A siffatto risultato potrebbe agevolmente pervenirsi laddove si dovesse ritenere che 1’ipotesi di cui all’art. 648 comma II c.p. preveda un’autonoma fattispecie delittuosa e non un’ipotesi circostanziata del delitto indicato al comma precedente, conclusione, invero, diversa da quella cui e sempre giunta la Giurisprudenza di merito e di legittimità in materia che 1’ha sempre, correttamente, considerata quale mera circostanza attenuante del delitto previsto al primo comma. La conseguenza, in termini di prescrizione, a seguito della recente novella dell’art. 157 comma II c.p., introdotta dall’art.


6 della L. 251/2005 citata, risulta particolarmente rilevante in quanto, per determinare il tempo necessario a prescrivere, si deve aver riguardo alla pena stabilita per il reato, escluse tutte le circostanze ad eccezione delle aggravanti speciali o ad effetto speciale. Tale ultima eccezione presenta, a giudizio del Tribunale, profili di incostituzionalità nella parte in cui esclude dal calcolo della pena ai fini della prescrizione le analoghe circostanze attenuanti speciali o ad effetto speciale, quale deve appunto ritenersi quella di cui al comma II dell’art. 648 c.p. La circostanza suddetta, infatti, ancorché stabilisca una diminuzione nel massimo (da otto a sei anni) inferiore al terzo, opera molto più significativamente sui minimi edittali che, in concreto, passano da due anni a quindici giorni di reclusione, minimi di cui, indubbiamente, deve tenersi conto ai sensi del secondo capoverso dell’art. 63 c.p., come agevolmente si ricava dall’interpretazione letterale della medesima disposizione. Infatti 1’art. 63 comma III c.p. qualifica circostanze ad effetto speciale “quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo”, senza distinguere tra massimi e minimi edittali, con la conseguenza che entrambi tali limiti vanno valutati al fine di determinare la “specialita” di una determinata circostanza. Ad uguale risultato, peraltro, si perviene ricorrendo al canone ermeneutico della interpretazione storico - sistematica della medesima disposizione e di quella di cui all’art. 648 comma II c.p. Invero la categoria delle circostanze ad effetto speciale è stata introdotta dall’art. 5 Legge 31 luglio 1984 n. 400 che ha sostituito 1’art. 63 comma III c.p. laddove prevedeva, oltre alle circostanze per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa, quelle per le quali la misura della pena era stabilita “in modo indipendente dalla pena ordinaria del reato”, come 1’ipotesi attenuata di ricettazione per cui si procede. La dottrina prevalente, correttamente, sulla base della ratio della riforma, ha sempre sostenuto che la categoria introdotta dalla legge del 1984 com-

porta la necessita di un c.d. ideale calcolo frazionato al fine di verificare quando la pena fissata in misura indipendente da quella ordinaria sia superiore o inferiore di un terzo rispetto a quella ordinaria, calcolo che, come si e visto, conduce, relativamente al minimo edittale, ad una riduzione della pena ben superiore al terzo. Allo stesso modo deve concludersi anche se si ritiene di far riferimento alla sola disposizione di cui all’art. 648 comma II c.p. introdotta nell’ordinamento dall’art. 15 L. 22 maggio 1975 n. 152, provvedimento legislativo che, oltre ad inasprire il trattamento sanzionatorio per la c.d. figura base, ha previsto 1’attenuante speciale proprio al fine di consentire, in concreto, una sensibile diminuzione della pena, in termini di gran lunga superiori al terzo, per i fatti di particolare tenuta, valutati anche indipendentemente dalla sussistenza dell’attenuante ordinaria di cui all’art. 62 comma 4) c.p. che può, addirittura, concorrere con quella in esame pur essendo, in parte, coincidente. In ogni caso nessun dubbio ha mai avuto in merito la Giurisprudenza di legittimità, che, non solo ha sempre formalmente definito “speciale” 1’attenuante suddetta (cfr., tra le tante, Cass. pen., Sezioni Unite, 11 ottobre1989, n. 13330, e Cass. pen., sez. 1°, 7 luglio 1995, n. 7610) ma che, nell’unico caso, in tema di applicazione di amnistia, in cui la questione ha avuto fin qui rilevanza pratica, ha ritenuto di doverla ricomprendere tra le circostanze di cui al secondo capoverso dell’art. 63 c.p. (cfr. Cass. pen., sez. II, 12 maggio 1992, n. 5520 e Cass. pen., sez. 5^ 15 marzo 1993, n.2417). Appare dunque evidente la rilevanza, nel presente procedimento, della questione di costituzionalità cui si e fatto cenno e che riguarda, appunto, la mancata previsione da parte dell’art. 157 comma II c.p., come modificato dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005 n. 251, delle circostanze attenuanti speciali e ad effetto speciali quali elementi di cui si deve tener conto al fine di determinare il tempo necessario a prescrivere. Siffatta disposizione, infatti, appare violare, a giudizio del

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Della estinzioine del reato e della pena


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Della estinzioine del reato e della pena Tribunale, 1’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza. Quanto al primo aspetto si rileva che la evidente ratio della disposizione della cui costituzionalità si dubita va individuata nella necessita di isolare a priori, e in maniera quanto più oggettiva possibile, criteri che consentano di diversificare ragionevolmente i termini di prescrizione del reato e che l’attuale legislatore ha ritenuto di individuare nella gravita del reato e - con un significativo aspetto di novità riguardo al sistema normativo precedente — nella pericolosità sociale dell’imputato. Al fine di determinare quest’ultima il legislatore ha reputato di far ricorso alla recidiva, elemento che — per quanto in talune circostanze risulti tutt’altro che indicative di una reale pericolosità dell’imputato (si pensi ad esempio al caso, tutt’affatto infrequente, del cittadino extracomunitario pluricondannato per non aver ottemperato all’ordine di espulsione) e, dunque, lascia spazio a profili di incostituzionalità — quantomeno appare ancorato al dato oggettivo costituito da precedenti condanne. Lo stesso, invece, non può dirsi relativamente al criterio della gravita del reato, laddove solo apparentemente il legislatore non si è discostato dalla precedente normativa che individuava 1’elemento obiettivo di riferimento di siffatto canone nei massimi edittali stabiliti per ogni singola fattispecie delittuosa. Secondo il previgente sistema la gravita del reato poteva essere verificata in concreto dal Giudice (con le necessarie conseguenze in tema di prescrizione) mediante 1’applicazione delle circostanze e 1’eventuale giudizio di comparazione delle stesse, evenienza che consentiva di attenuare le conseguenze negative cui ogni metodo di applicazione automatica delle norme inevitabilmente conduce. L’odierna scelta legislativa, escludendo dal calcolo le circostanze ordinarie, ha, praticamente, privato il Giudice di ogni discrezionalità nella quantificazione della pena ai fini della prescrizione e ha reso il processo di determinazione del tempo necessario a pre-

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scrivere quanto più rigido e rigoroso possibile, introducendo nell’ordinamento una sorta di presunzione iuris et de iure di gravità del reato. Se tutto ciò, pero, può essere astrattamente ricondotto ad una legittima, per quanto da molti ritenuta poco condivisibile, scelta del legislatore che, con un salto indietro di oltre due secoli, ha ritenuto di dover tornare ai sistemi fissi di calcolo delle pene di memoria prenapoleonica, appare, a giudizio del Tribunale, palesemente lesiva del canone di ragionevolezza la ulteriore decisione di computare, nella determinazione della pena ai fini prescrittivi, solo le circostanze aggravanti speciali o ad effetto speciale e non le corrispondenti attenuanti. La parziale eccezione contenuta nell’ultima parte dell’art. 157 comma III c.p.p., infatti, si rivela irragionevole, illogica ed immotivata in quanto somma al criterio, comunque oggettivo, del massimo edittale di pena, un ulteriore elemento di calcolo che si sostanzia in una incoerente e contraddittoria determinazione legislativa della gravita del reato. In altri termini se il legislatore ha ritenuto, per determinare la gravita del reato cui, a sua volta, agganciare i termini differenziati di prescrizione, di ricorrere ai massimi edittali escludendo dal calcolo le circostanze ordinarie (attenuanti o aggravanti che siano) e impedendo, comunque, qualsivoglia possibilità di ricorrere al bilanciamento, la successiva scelta di utilizzare contra reum le circostanze aggravanti speciali e ad effetto speciale senza tener conto delle analoghe circostanze attenuanti, non trova alcuna valida spiegazione, atteso che queste ultime concorrono a determinare, al pari delle prime, la gravita dell’illecito penale. Delle due 1’una: o il legislatore, per determinare il tempo necessario a prescrivere, ha inteso abbandonare il preesistente criterio della gravità del reato e, dunque, di tener autonomamente conto dei massimi edittali in sé, oppure ha — coerentemente con le precedenti scelte legislative — utilizzato siffatti massimi quale mero indice convenzionale del citato canone che ha deciso di irrigidire ulteriormente esclu-


dendo le circostanze ordinarie e valorizzando solo quelle che incidono più significativamente sulla pena (e, dunque, sulla stessa determinazione legislativa di gravità di un dato fatto di reato). Nel primo caso pero non si spiega il ricorso ad elementi esterni al reato quali le circostanze sia pur speciali o ad effetto speciale, mentre nel secondo - che è quello indubbiamente da preferire in quanto altrimenti, a tacer d’altro, rimarrebbe priva di valida giustificazione la mantenuta differenziazione tra delitti e contravvenzioni - rimane oscura la ragione per cui si è ritenuto di escludere dal novero le attenuanti speciali e ad effetto speciale. Se allora il riferimento non può che essere alla gravità del reato, non possono residuare dubbi sul fatto che, una volta operata la scelta di far intervenire nel calcolo della pena anche le circostanze aggravanti speciali e ad effetto speciale, ragionevolmente, debbano essere valutate anche quelle attenuanti che, al pari delle prime quantunque in senso opposto, incidono astrattamente sulla gravità dell’evento criminoso. Che questa sia la corretta chiave di lettura della questione risulta chiaramente dalle conseguenze in termini di violazione del principio di uguaglianza cui conduce la nuova disciplina. Invero, non aver operato la coerente e ragionevole scelta logica di valutare anche le attenuanti speciali o ad effetto speciale, porta ad ingiustificate disparità di trattamento laddove, come nel caso di specie, il reato attenuato da circostanze ad effetto speciale, verrebbe a prescriversi in un termine di gran lunga superiore a quello stabilito per altri delitti puniti con la medesima pena stabilita per 1’espressa ipotesi delittuosa attenuata. Ciò, in realtà, potrebbe anche rispondere ad una precisa scelta discrezionale del legislatore che, per una o più determinate categorie di crimini, per intuibili ragioni che possono ricercarsi nella complessità dell’accertamento processuale, nell’allarme sociale destato da determinati fenomeni criminali o nel concreto pregiudizio arrecato alle persone offese, decida di aumentare i termini di prescrizione come, per

esempio, ha ritenuto fare per i delitti di cui al novellato art. 157 comma VI c.p. Nel caso di specie, però, trattandosi di una disposizione applicabile a tutte le fattispecie criminose per cui sono previste circostanze (aggravanti o attenuanti) speciali o ad effetto speciale, non può individuarsi alcuna delle ragioni suddette o di altre a queste analoghe, in quanto proprio per 1’effetto generale della norma, non possono venire in considerazione speciali presupposti di qualsivoglia natura a seguito dei quali il legislatore – sempre nei limiti del citato principio di ragionevolezza e nel corretto bilanciamento di altri interessi e valori costituzionalmente protetti - può essersi determinato ad introdurre termini diversificati di prescrizione. Conseguentemente non possono ritenersi sussistenti apprezzabili motivi per differenziare la posizione di chi debba rispondere di un delitto il cui massimo edittale sia, per restare al caso di specie, di sei anni riguardo a chi sia imputato di altro delitto per cui la pena massima in concreto irrogabile sia identica, pur quale conseguenza di una circostanza ad effetto speciale; e tutto ciò senza voler considerare la ancor più rilevante disparità di trattamento che, in relazione alla gravità dell’illecito, potrebbe verificarsi tra chi debba rispondere di un delitto variamente aggravato da circostanze ordinarie ma punito, nella figura base, con pena uguale a quella prevista per un’ipotesi di altra fattispecie criminosa attenuata da circostanze speciali o ad effetto speciale. La citata evidente disparita di trattamento, che, come si e visto, trasmoda, in concreto, in un regolamento irrazionale di identiche situazioni sostanziali, produce un’ulteriore conseguenza in termini di ragionevolezza se sol si consideri che, nel caso in esame (in mancanza di aggravanti contestate e, comunque, esclusa, ex art. 157 comma III c.p., la possibilità di operare, ai fini prescrizionali, il giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p.), 1’odierno imputato non potrebbe in alcun caso riportare una pena superiore a sei anni di reclusione, mentre il tempo necessario a prescrivere andrebbe cal-

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Della estinzioine del reato e della pena


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Della estinzioine del reato e della pena colato su una pena massima diversa (quella di anni otto prevista al primo comma) e, soprattutto, sostanzialmente estranea e, comunque, inapplicabile alla fattispecie. Siffatti motivi, una volta accertata la rilevanza della questione nel presente procedimento, conducono a ritenere non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 157 comma II c.p., per violazione dell’art. 3 Cost.,

sotto il duplice profilo del canone di ragionevolezza e del principio di uguaglianza, nella parte in cui non prevede che, per determinare il tempo necessario a prescrivere debba tenersi conto, almeno, della diminuzione minima prevista per le circostanze attenuanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale.

P.Q.M. visti gli artt. 1 L. Cost. 9 febbraio 1948 n. 1 e 23 L. 11 marzo 1953 n. 87; DICHIARA rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 157 comma II c.p. come novellato dall’art. 6 legge 5 dicembre 2005 n. 251 nella parte in cui non prevede che, per determinare il tempo necessario a prescrivere, debba tenersi conto della diminuzione minima prevista per le circostanze attenuanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale; DISPONE per 1’effetto, 1’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il presente giudizio; DISPONE altresì, che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza, di cui viene data lettura nel pubblico dibattimento, sia notificata ai Sigg. Presidenti delle Camere del Parlamento e al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri. Manda alla Cancelleria per gli altri adempimenti di competenza>>.

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Dei delitti contro la pubblica amministrazione

DEI DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

<<Preliminarmente va affermata la competenza territoriale di questo Ufficio, ancorché risulti già che il dr. N. sia stato nuovamente trasferito presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Roma, perché attualmente detta assegnazione non è ancora efficace ed il dr. N. non esercita quindi in concreto le proprie nuove funzioni nella Procura di Roma, per cui non può operare lo spostamento di competenza di cui all’art. 11 del c.p.p., che presuppone l’esercizio effettivo, da parte del magistrato sottoposto a procedimento penale, delle funzioni giudiziarie suscettibili di pregiudicare l’imparzialità del Giudicante (cfr. Cass. 6.4.2004, Seni). Ciò premesso, a conclusione della odierna udienza preliminare si osserva brevemente quanto segue in ordine al sopra indicato capo di imputazione. Il dr. N. è accusato di avere illegittimamente (ossia violando le disposizioni richiamate nel capo di imputazione) conferito, nella qualità di Capo di Gabinetto dei Ministro della Giustizia, un incarico di consulenza esterna finalizzato alla redazione - prevista dal combinato disposto degli artt. 14 del d.lgs. 29/93 (ora art. 14 dei d.lgs. 165/01, secondo cui il Ministro esercita le funzioni di indirizzo politico amministrativo, e, “a tal fine periodicamente, e comunque ogni anno entro dieci giorni dalla pubblicazione della legge di bilancio... definisce obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare ed emana le conseguenti direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione”) ed 8 del d.lgs. 286/99 (che disciplina il contenuto e gli effetti della direttiva annuale del Ministro, stabilendo che

“la direttiva identifica i principali risultati da realizzare ... e determina.. .gli obiettivi di miglioramento... La direttiva ... definisce altresì i meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e valutazionee dell’attuazione”) - della direttiva annuale per l’anno 2002, in tal modo procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale (pari al compenso erogato) al consulente incaricato (la s. r..l. …), ed un correlativo danno ingiusto per l’Amministrazione di appartenenza (il Ministero della Giustizia). Orbene ad avviso del sottoscritto Giudicante i risultati delle indagini preliminari non forniscono elementi sufficienti - e comunque integrabili in dibattimento - a giustificare il rinvio a giudizio. L’accusa trova il proprio fondamento nei rilievi formulati dal G.I.P. nell’ordinanza con cui il 14.12.2006 è stata - in difformità alla richiesta di archiviazione originariamente presentata dal P.M. sulla scorta di un’asserita inconfigurabilità del dolo intenzionale previsto dalla legge - ordinata la formulazione dell’imputazione del reato di abuso d’ufficio a carico del dr. N. Il G.I.P, ha cioè dato per “scontata” la configurabilità dell’elemento oggettivo del reato ipotizzato (adozione di un attività amministrativo-negoziale da parte del dr. N. in violazione delle specifiche regole di condotta già ipotizzate dal Procuratore Regionale della Corte dei Conti: se ne legga la descrizione nel capo di imputazione, che ha recepito le indicazioni del G.I.P. che ai rilievi del suddetto Procuratore Regionale aveva fatto riferimento; per maggiori particolari può essere fatto utile rinvio

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Tribunale di Roma, G.U.P. dott. Claudio Tortora, sentenza del 20.03.2007. Abuso d’ufficio – Elementi strutturali della fattispecie – La c.d. doppia ingiustizia – Dolo intenzionale . Competenza per territorio nei procedimenti riguardanti Magistrati . Artt.: 323 c.p.; 11, 425 c.p.p.


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Dei delitti contro la pubblica amministrazione anche alla sentenza n. 2644/05 emessa il 28.11.2005 dalla Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Lazio nel giudizio di responsabilità instaurato nei confronti del dr. N., ed ai successivi motivi dell’appello presentato dalla Procura Regionale presso la sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione Lazio avverso la suddetta sentenza, che ha condannato il dr. N. - per il danno erariale arrecato con le condotte di cui sopra, al pagamento a favore dell’Erario della somma di 36.000,00 - oltre gli accessori di legge e le spese giudiziali - dopo avere ritenuto le medesime condotte assistite, non dal dolo, ma dalla sola colpa grave), ed ha desunto la possibilità di configurare il dolo dell’abuso di ufficio dalla insistenza del dr. N. sull’inesistenza presso il Ministero di adeguato personale svolgente incarichi dirigenziali destinato all’elaborazione della direttiva (insistenza ritenuta sintomatica della coscienza dell’illiceità dell’incarico conferito a consulente esterno, in quanto la legge demanda all’Ufficio di Gabinetto del Ministro il compito di elaborare la direttiva, e ad un apposito servizio interno di controllo [Se.C.In.: d’ora in poi SECIN] unicamente i compiti di monitoraggio e valutazione dell’attuazione della medesima direttiva], e la stessa direttiva elaborata ha poi previsto la costituzione del SECIN da parte dei Ministro), nonché sull’urgenza dell’incarico conferito il 14.1.2002 al proprio Ufficio di Gabinetto di elaborare la direttiva (deduzione, questa della necessità di una consulenza esterna in ragione dell’urgenza della elaborazione della direttiva, da considerare ad avviso del G.I.P. pretestuosa, tenuto conto del personale quello, interno, coordinato dal dr. B. - che materialmente ebbe poi a predisporre il documento, e dei tempi tecnici in concreto osservati per l’elaborazione, che si è conclusa ai primi di giugno del 2002), ed ha paragonato l’attività posta in essere dal dr. N. a quella dei Giudice che affidi ad un perito-giurista l’incarico di redigere la motivazione di una propria sentenza, sottolineando così la compresenza,

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nella condotta dell’odierno imputato, di un fine pubblico (la predisposizione di una direttiva prevista dalla legge) e di un fine privato (l’agevolazione immotivata di una società di consulenza esterna). Al contrario la difesa dell’imputato ha, con plurimi scritti e con la pregevole difesa svolta all’odierna udienza, sostenuto addirittura l’inconfigurabilità dell’elemento oggettivo del reato ascritto al dr. N., assumendo che: a) il SECIN (all’epoca dell’incarico esterno assente presso il Ministero della Giustizia, presso cui lo stesso è stato istituito solo i1 2.5.2002) era in realtà destinato a supportare l’attività di programmazione strategica e di indirizzo politico amministrativo, e quindi in sostanza a svolgere un ruolo specifico nella redazione (e non già solo nella verifica dell’attuazione) della direttiva annuale, come è stato riconosciuto dal Secondo Rapporto (sull’andamento della programmazione strategica e dei sistemi di controllo interno nei vari Ministeri) redatto nel gennaio 2003 dal Comitato Tecnico Scientifico della Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla scorta delle direttive emanate nel 2002; b) il Direttore Generale dell’Ufficio Bilancio del Gabinetto del Ministro della Giustizia aveva segnalato al N. che l’elaborazione della Direttiva annuale si presentava difficile a causa dell’assenza, all’interno del Gabinetto, di professionalità in grado di svolgere tale compito e della necessità di completare il lavoro entro il febbraio del 2002; c) l’urgenza della elaborazione della Direttiva derivava dai ristretti tempi che la legge imponeva per la sua adozione, ossia preesisteva alla decisione dell’affidamento dell’incarico a consulente esterno, per cui irrilevante doveva essere considerata, ai fini della valuta-


zione dell’illiceità del comportamento, la data di consegna effettiva (fine maggio-primi di giugno) dell’elaborato; d) la direttiva elaborata nel 2002 dal Ministro della Giustizia era stata particolarmente apprezzata per la qualità medio-alta della sua elaborazione sia dal Comitato Tecnico sopra menzionato sia dalla stampa specializzata (cfr. Sole 24 Ore del 31.3.2003) e la società di consulenza L. ed Associati era stata remunerata con una somma sensibilmente inferiore alla iniziale richiesta (di 70.000 euro + IVA) ed oggetto di spesa iscritta nel capitolo di bilancio destinato alla formazione del personale; e) non era stata dimostrata - né era altrimenti dimostrabile - una qualsivoglia comunanza di interessi tra la società di consulenza ed il dr. N.; f) il paragone col Giudice che affidi ad un terzo la stesura della motivazione di una sentenza era inconferente, non essendo la direttiva un atto “proprio” del Capo di Gabinetto, che si limita a dirigere uno “staff” incaricato di coadiuvare il Ministro nell’elaborazione della direttiva (che quindi è firmata dal Ministro, che ne assume la “paternità” anche se si avvale del suo Gabinetto per la stesura del materiale dell’atto). In relazione al dolo intenzionale richiesto dalla legge la difesa ha poi contestato l’opinione del G.I.P. in ragione dei fatto che il dr. N. aveva chiaramente operato in vista della realizzazione di un interesse pubblico preminente – quello di realizzare, in un tempo molto breve, un atto di programmazione complesso e difficile quale la direttiva annuale del 2002 rispetto al quale l’eventuale vantaggio ingiusto procurato alla società di consulenza doveva essere considerato una semplice conseguenza accessoria, come tale inidonea ad esprimere l’intenzionalità richiesta dalla legge.

Ad avviso del sottoscritto Giudicante le pur pregevoli considerazioni difensive sono condivisibili solo in parte. È noto che ogni ente pubblico, dallo Stato all’ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale. A volte confortato con l’estensione analogica di norme dettate specificamente per l’amministrazione statale, come l’art. 380 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3, o l’art. 152 del d.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1077, o col più valido richiamo all’art. 97 della Costituzione, il principio trova in realtà il suo fondamento nella considerazione che - atteso che ogni ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale - è con questa organizzazione e con questo personale che l’ente deve attendere alle sue funzioni. La possibilità di far ricorso a personale esterno può essere ammessa se, nei limiti ed alle condizioni in cui la legge lo preveda, od anche quando sia impossibile provvedere altrimenti ad esigenze eccezionali e impreviste, di natura transitoria. La norma generale in tema di incarichi conferiti dalle Pubbliche amministrazioni a soggetti esterni è contenuta nell’art. 7, comma 6, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il quale così stabiliva: “per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”. Un punto fermo è costituito dal carattere straordinario del ricorso ad apporti esterni. La pubblica amministrazione deve di norma perseguire i fini istituzionali utilizzando il proprio personale, talché l’incarico esterno è lecito solo qualora ciò non sia ragionevolmente possibile, o perché l’attività che deve essere svolta richiede un apporto professionale particolarmente elevato sotto il profilo tecnico-scientifico, oppure perché, per ragioni contingenti e

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Dei delitti contro la pubblica amministrazione transitorie (quali l’insufficienza del personale in organico a far fronte al carico di lavoro), anche compiti, che sarebbero normalmente assolti con l’utilizzo della struttura interna, rendono viceversa necessario avvalersi di personale esterno. È affermazione conseguente che sia da reputare illecito l’incarico che si risolva in una mera duplicazione di attività che dovevano essere svolte dagli uffici, proprio perché in questo caso dal soggetto esterno non viene all’ente alcun effettivo ausilio. Altrettanto conseguente è la necessità di un’adeguata motivazione delle scelte compiute. Altro punto fermo è che l’incarico deve avere un oggetto determinato, al fine di poter concretamente apprezzare l’effettivo adempimento della prestazione da parte del consulente e l’utilità della stessa per l’amministrazione committente, utilità che peraltro deve risultare remunerata in modo proporzionale. Venendo al caso in esame, si osserva che l’elaborazione della direttiva annuale è atto proprio del Ministro, in questo caso del Ministro della Giustizia. Ciò deriva chiaramente dagli artt. 3 e 14 dei d.lgs. 29/93 (trasfusi nel d.lgs. 165/01), secondo cui gli organi di governo, e quindi i Ministri, esercitano funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo periodicamente - e comunque ogni anno entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore della legge di bilancio - obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione. Per la definizione della direttiva generale il Ministro deve avvalersi di uffici di diretta collaborazione istituiti con regolamento governativo di organizzazione, i c.d. Uffici di Gabinetto, di cui l’art. 14 citato si preoccupa di definire la composizione della dotazione di personale. Nel caso di specie, l’art. 6, comma1, del d.p.r. 315/01 ha stabilito che per lo svolgimento del suddetto compito (e degli altri di cui ai citati artt. 3 e 14 del d.lgs. 29/93) il Ministro della Giustizia deve avvalersi dell’Ufficio di Gabinetto, che è destinato a

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servirsi delle informazioni trasmesse dagli altri Uffici e dai dipartimenti del Ministero, e a curare l’attività di supporto per la definizione degli obiettivi. La legge presuppone, quindi, che il Ministro, avvalendosi del proprio Ufficio di Gabinetto (che necessariamente è destinato a mettersi in relazione con i dirigenti generali a cui è affidata la cura dei singoli settori in cui si ripartisce l’organizzazione ministeriale destinati a fornire gli indispensabili elementi di valutazione), adotti l’atto generale di programmazione di cui si discute, che ha natura sostanzialmente politica in quanto definisce gli “obiettivi prioritari e strategici” dell’azione amministrativa, e indica le risorse umane e finanziarie necessarie per la loro realizzazione e i meccanismi per pervenire a risultati sempre migliori. Nel caso di specie la direttiva del 2002 era destinata a conformarsi agli indirizzi dettati in via generale dalla Presidenza del Consiglio, che il 15.11.2001 aveva emanato una vera e propria “direttiva madre” al riguardo. L’accenno a tale direttiva madre appare importante, perché la stessa presenta (soprattutto nella parte in cui si sottolinea la necessità di indicare il sistema di monitoraggio, secondo criteri oggettivi e verificabili [costituenti veri e propri indicatori di efficienza], della misura del raggiungimento degli obiettivi, e un complesso sistema di valutazione della dirigenza) significativi elementi di discontinuità rispetto alle precedenti direttive madri (come emerge dal confronto dei documenti programmatici in questione, contenuti nell’all. n. 6 del Faldone 3), elementi ispirati agli indirizzi (indicati nella direttiva 11.10.2001 della medesima Presidenza del Consiglio) per l’attuazione del programma del Governo Berlusconi di recente instauratosi e tali da rendere certamente più difficile il compito che si presentava agli Ufficio di Gabinetto capeggiato dal dr. N., in quanto lo stesso era destinato, non già a ripercorrere “strade già battute” in sede di elaborazione delle precedenti diret-


tive, ma a compiere un lavoro originale (destinato peraltro ad orientare il processo di elaborazione delle future direttive generali: si ribadisce, al riguardo, che il Governo Berlusconi si era da poco insediato e la direttiva in questione era la prima che avrebbe dovuto elaborare il Ministro della Giustizia di tale Governo, e quindi era destinata, quale atto di programmazione strategica, a dettare le linea della “politica della Giustizia” che intendeva perseguire il Governo in esame, fissando principii destinati ad essere seguiti nell’arco, quanto meno, della intera legislatura) idoneo, secondo gli obiettivi palesati dalla Presidenza del Consiglio, a trasformare la direttiva annuale in uno strumento, per usare un’espressione usata dallo stesso dr. N. (cfr. memoria depositata il 21.4.2005), di vera e propria “governance”, in conformità ad un’impostazione “aziendalistica” dell’azione amministrativa, che aveva trovato espressione nella previsione di specifici indirizzi per l’attuazione del programma governativo (elaborati nella direttiva dell’11.10.2001: semplificazione amministrativa, contenimento della spesa, miglioramento della qualità del servizio, digitalizzazione), cui avrebbe dovuto uniformarsi il contenuto della direttiva, e addirittura di un Ministro (Stanca) destinato a controllare l’attuazione di tale programma. Tale circostanza, unitamente al fatto che nella riunione svoltasi il 14.1.2002 presso il Dipartimento della Funzione Pubblica (per definire criteri di elaborazione delle direttive, che dovevano essere emanate da parte di tutti i Ministri, comuni e coerenti con la direttiva madre della Presidenza del Consiglio) era stata rappresentata, non solo la “diversità” della direttiva che avrebbe dovuto essere emanata, ma anche la sopravvenuta scadenza del termine di elaborazione della direttiva annuale, e la necessità di predisporre immediatamente, nonostante fosse ancora in corso il processo di attuazione della riforma del Ministero (i cui Capi Dipartimento erano stati nominati da qualche mese, mentre non vi erano ancora

le altre strutture di vertice), quanto necessario ad assicurare un adempimento destinato a fungere da ineludibile punto di riferimento del sistema di programmazione strategica ministeriale (si consideri - sotto questo profilo - che il Gabinetto ministeriale avrebbe dovuto sia elaborare la direttiva in questione, il cui termine di emissione era già da tempo scaduto, sia iniziare a lavorare sulla direttiva del 2003, che avrebbe dovuto conformarsi a quella dell’anno precedente), rende plausibile la conclusione, secondo l’esigenza della elaborazione della direttiva in questione si è presentata con caratteristiche (urgenza, eccezionalità, imprevedibilità, transitorietà) idonee a legittimare, ricorrendo gli altri presupposti di legge, il ricorso alla consulenza esterna. Sotto questo profilo appare condivisibile il rilievo, secondo cui l’assenza del presupposto dell’urgenza non può farsi derivare dalla data di consegna dell’elaborato da parte del consulente, perché ciò che conta è che l’urgenza, quale presupposto della decisione di ricorrere ad un incarico a soggetti esterni all’Amministrazione, possa ritenersi sussistente prima della decisione di conferimento dell’incarico, e tale conclusione appare avvalorata da quanto si è detto (sopravvenuta maturazione della scadenza del termine di adozione della direttiva, la cui predisposizione, per ovvie ragioni collegate alla necessità di predisporre subito gli indispensabili obbiettivi destinati ad orientare il concreto atteggiarsi dell’azione amministrativa e le risorse destinate per il loro raggiungimento, non poteva che essere effettuata all’inizio dell’esercizio annuale ed entro tempi ben precisi, come dimostra la previsione del breve termine finale collegato al bilancio annuale dello Stato). Sotto questo profilo vanno attentamente considerate le affermazioni del dr. B., Direttore Generale del Bilancio dell’Organizzazione Giudiziaria e Responsabile dell’Ufficio Bilancio del Gabinetto, perché, quale capo dello staff di cui avrebbe potuto avvalersi il dr. N., nessuno meglio di tale per-

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Dei delitti contro la pubblica amministrazione


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Dei delitti contro la pubblica amministrazione sona poteva fornire elementi di valutazione per una corretta ricostruzione della vicenda. Il dr. B. ha dichiarato che, all’esito della riunione del 14.1.2002, ha segnalato chiaramente al dr. N. che l’ufficio di Gabinetto non era, in ragione della sua composizione quali-quantitativa, munito delle professionalità necessarie allo svolgimento del compito che la legge, come si è detto, gli assegnava, per cui era opportuno, se non necessario, avvalersi dell’opera di un consulente esterno, che è stato individuato nella società L. ed Associati in ragione dell’esperienza da questa maturata nella partecipazione all’elaborazione della “migliore” direttiva del passato di cui si era a conoscenza, quella del 2000 del Ministro delle Finanze. In tali decisive informazioni va individuata la genesi della decisione del dr. N. di fare ricorso all’ausilio di tale società. Le dichiarazioni del B. sono però rilevanti, perché consentono di affrontare un’altra questione, il ruolo del Servizio di Controllo Interno (d’ora in poi: SECIN) presso il Ministero della Giustizia, o meglio la rilevanza della mancata istituzione - all’epoca del conferimento dell’incarico per cui si procede - del SECIN (il cui Responsabile, il dr. P., è stato nominato solo il 9.5.2002). Si è già fatto cenno all’importanza annessa dalla difesa a tale organismo. Lo stesso B., a conforto delle considerazioni esposte dal difensore e dallo stesso imputato (cfr. memoria 21.4.2005), ha dichiarato che “doveva essere il SECIN a predisporre la direttiva” (cfr. s.i.t. 9.5.2005, pag. 8 della trascrizione). Ma tale affermazione non trova riscontro nella legge, che come si è visto demanda agli Uffici di Gabinetto dei Ministri il compito di elaborare il testo delle direttive annuali relegando il ruolo del SECIN a quello di strumento di monitoraggio e di valutazione dell’attuazione degli obiettivi posti dalla Direttiva annuale (cfr. il d.lgs 286/99, in particolare gli artt. 1 [“Le PP.AA...si dotano di strumenti adeguati a...valutare l’adeguatezza delle scel-

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te compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti (valutazione e controllo strategico) ... L’attività di valutazione e controllo strategico supporta l’attività di programmazione strategica e di indirizzo politico-amministrativo di cui agli artt. 3, comma 1, lettere b) e c), e 14 del decreto n. 29”] e 8 [“La direttiva annuale del Ministro di cui all’art. 14 del decreto n. 29 ...avvalendosi del supporto dei servizi di controllo interno di cui all’art. 6, definisce altresì i meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e valutazione dell’attuazione”]). Il problema è, però, un altro. Nella direttiva del Presidente del Consiglio del 15.11.2001, cui avrebbe dovuto conformarsi l’attività di elaborazione della direttiva annuale in questione, il ruolo del SECIN è delineato in modo ambiguo. Nel punto 4, infatti, tale ruolo è indicato in quello del monitoraggio dell’attuazione degli indirizzi impartiti e della formulazione di indicazioni per migliorare la funzionalità dell’azione amministrativa ed assicurare coerenza e cogenza al processo di programmazione e controllo. Invece nelle Linee Guida sulla struttura delle direttive generali annuali (allegate alla direttiva del 15.11.2001, di cui sono parte integrante, e destinate a fornire ulteriori precisazioni di dettaglio e specificazioni) si dice che al SECIN è affidato, tra l’altro, il compito di “assicurare il supporto metodologico alle strutture amministrative, sia in fase di elaborazione della direttiva che di monitoraggio della stessa” e si impone “il pieno coinvolgimento del SECIN da parte degli organi titolari dell’indirizzo politico, in fase di elaborazione e monitoraggio della direttiva...”, così legittimando la conclusione circa la destinazione del SECIN (e quindi della professionalità dei suoi componenti) anche al processo di elaborazione della direttiva ministeriale annuale. Si comprende, quindi, come il dr. N. - che


della necessità di conformarsi alla direttiva del 15.11.2001 nel curare la predisposizione della direttiva annuale del Ministro della Giustizia era sicuramente consapevole - abbia potuto equivocare sul ruolo del SECIN e lamentare la sua mancata istituzione per giustificare la necessità di dotarsi delle professionalità di cui, giuste le inequivocabili affermazioni del dr. B., non disponeva. Ma ciò - ed è questo il punto che preme di sottolineare - sotto un profilo meramente soggettivo (che rende inconfigurabile, in presenza di un una direttiva cogente che si esprimeva ambiguamente sul ruolo del SECIN, il dolo intenzionale richiesto dall’art. 323 del c.p.: vedi, però, quanto si dirà oltre su tale punto), perché dal punto di vista oggettivo il dr. N. non avrebbe dovuto trascurare il fatto che la legge prevede l’intervento del SECIN per la valutazione e il controllo strategico delle scelte già compiute in sede di elaborazione dello strumento di programmazione, e il monitoraggio dell’attuazione degli indirizzi con tali scelte impartiti, mentre la direttiva del Presidente del Consiglio, quale atto amministrativo secondario, non poteva apportare deroga alla legge. Appare, peraltro, logico - e ciò spiega il senso delle indicazioni (seguite dal dr. N.) della direttiva presidenziale del 15.11.2001, che appare ispirata, come la citata direttiva dell’11.10.2001 circa la fissazione degli indirizzi per l’attuazione del programma di Governo, da un’impostazione “aziendalistica” dell’attività amministrativa e dei controlli ad essa inerenti - ritenere che l’attività del SECIN sia in ultima analisi destinata ad influire sui processi di elaborazione degli atti di programmazione, perché tale è la funzione che nelle grandi aziende finisce per svolgere il c.d. internal audit, ossia il sistema interno dei controlli, in quanto questo, attraverso il continuo monitoraggio che gli compete ed il continuo flusso di informazioni che scambia con le unità revisionate (discutendo i risultati dei monitoraggio, impartendo le necessarie raccomandazioni e verificando la loro esecuzione), è in condizione di essere continuamen-

te aggiornato sui cambiamenti strutturali che intervengono nella struttura controllata e quindi è in condizione di apportare un naturale contributo all’aggiornamento dell’attività di pianificazione degli obiettivi strategici, che poi costituisce una condizione dell’efficacia dello stesso sistema dei controlli. In ultima analisi, quindi, la mancata istituzione del SECIN non poteva giustificare, di per se stessa, il ricorso alla consulenza esterna, fermo rimanendo - tuttavia - il fatto che nel Gabinetto del Ministro non erano obiettivamente individuabili professionalità adeguate all’elaborazione della nuova e complessa direttiva annuale. Ciò premesso, non sembra tuttavia che la pur abile difesa dell’imputato sia riuscita ad infirmare la concludenza degli ulteriori rilievi di illegittimità formulati dalla Corte dei Conti (ferma rimanendo la necessità di impostare la questione del dolo intenzionale richiesto dalla fattispecie penale in modo sensibilmente diverso rispetto a quello descritto dalla Procura Regionale della Corte dei Conti, che riguarda l’aspetto “contabile” della vicenda). Nelle considerazioni precedenti sono state esposte le ragioni che inducono a non condividere l’assunto della suddetta Procura Regionale in ordine alla mancanza dei presupposti relativi all’assoluta impossibilità per il Ministero di avvalersi unicamente delle proprie risorse interne per l’elaborazione della direttiva, e alla competenza del consulente. Si può, sotto altro profilo, convenire - sempre alla luce delle illuminanti dichiarazioni del citato dr. B. - che l’attività svolta dalla L. abbia avuto le caratteristiche delineate nella lettera-contratto (svolgimento di una attività di formazione del personale destinato ad elaborare, o a contribuire ad elaborare, materialmente la direttiva annuale secondo le indicazioni, sotto più aspetti innovative, fornite dalla Presidenza del Consiglio), dal momento che il B. ha sostanzialmente confermato (cfr. esame del 9.5.2005, pagg. 17-19 del verbale trascritto) la parte della memoria consegnata il

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Dei delitti contro la pubblica amministrazione 21.4.2005 dall’imputato in cui si dice che “la prestazione della L. … qualificabile come attività di formazione manageriale si è svolta attraverso una serie di workshop ... un primo workshop presieduto dal Capo di Gabinetto... con la presenza di tutti i Capi Dipartimento... ulteriori workshop all’interno di ciascun Dipartimento con finalità tecnico organizzative con la presenza del Capo Dipartimento e dei Direttori Generali... altri Workshop con la presenza della struttura tecnica costituita da un Coordinatore e dai rappresentanti designati da ciascun Dipartimento, aventi lo scopo di illustrare le istruzioni tecnicoorganizzative predisposte dalla Consulenza contenenti la procedura e la metodologia per la predisposizione della Direttiva 2002”, attività questa cui è seguita, prima un’attività di affiancamento dei responsabili dei diversi Dipartimenti e del gruppo tecnico finalizzata all’esame, secondo la metodologia predisposta dal Consulente, della coerenza dei rispettivi e definiti obiettivi con quelli generali del Ministero, e poi un’attività di verifica finale e di supporto alla stesura finale della direttiva. Con ciò fornendo (il predetto B.) elementi di conferma dello svolgimento dì un’attività (del Consulente prescelto) in senso lato formativa dei personale destinato a predisporre materialmente il testo della direttiva. Quel che, invece, non sembra giustificabile e corretto (alla stregua della normativa contabile vigente in materia) nel comportamento del N. è, invece: a) la mancata sottoposizione al Ministro della lettera-contratto relativa all’incarico alla L. ai fini della approvazione necessaria a conferire efficacia ad un negozio foriero di non irrilevanti spese per la P.A.; b) l’omessa emanazione di qualsivoglia atto di impegno contabile nel momento della stipula dell’accordo con la L. (tale circostanza ed il fatto che nelle dotazioni di bilancio dei Gabinetto non era previsto un Capitolo riservato alle spese destinate alla formazione ed all’aggiornamento del personale hanno verosimilmente indotto il dr. N. a chiedere il

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16.10.2002 al Direttore generale del personale, dr.ssa F., l’”utilizzo” dello stanziamento di bilancio previsto nel Capitolo “Funzionamento” del Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi), ciò che avrebbe richiesto il ricorso alla procedura del riconoscimento del debito, non già a quella (non prevista dalla legge) dell’emissione di un ordine di pagare contemporaneo all’impegno di spesa (e questo pur superando tutte le perplessità circa la realtà dell’attività di formazione svolta dalla L.); c) la mancata giustificazione del ricorso - specificamente remunerato con la somma di cui all’imputazione, “trovata” mediante l’impiego dei fondi stanziati nel suddetto Capitolo “Funzionamento” autorizzato dalla dr.ssa F. alla Consulenza esterna in questione in presenza dì un incarico di consulenza e supporto (che vi è motivo di ritenere noto al dr. N., in quanto dello stesso si è parlato nel corso della riunione del 14.1.2002) previamente conferito dal Dipartimento della Funzione Pubblica, tramite il Formez, alla medesima L. al fine di acquisire, nell’interesse di tutti i Ministeri, (e, quindi, anche di quello della Giustizia) “un servizio di assistenza per la definizione dei contenuto delle direttive ministeriali 2002”, e svolto dalla medesima L. Tale diverso incarico (ovviamente oggetto di remunerazione da parte del suddetto diverso Dipartimento, e per esso dal Formez: 199.020 euro, in relazione all’attività che la L. si è obbligata a svolgere a favore di tutti i Ministeri, e non solo di quello della Giustizia) sembra, infatti, una sorta di “duplicato” di quello conferito dal dr. N., che pertanto avrebbe dovuto meglio indicare le ragioni di rilevante interesse pubblico, che suggerivano il ricorso ad un “maggiore coinvolgimento” della L. nell’attività di supporto del procedimento di elaborazione della direttiva annuale dei Ministero della Giustizia. Proprio la circostanza da ultimo sottolineata, che sembra evidenziare la sostanziale inutilità di un incarico in realtà al medesimo consulente esterno già conferito e pagato (ma sul


punto si tornerà oltre), sia pure da diversa Amministrazione, pone al riparo da un’ulteriore obiezione, che: sul piano oggettivo potrebbe essere sollevata dalla difesa dell’imputato, quella relativa alla necessaria configurabilità, ai fini dell’integrazione del delitto di abuso di ufficio, del requisito della c.d. doppia ingiustizia (violazione di legge o regolamento e ingiustizia del vantaggio conseguito o del danno arrecato: cfr. Cass. 26.11.2002, De Lucia), perché certamente una doppia remunerazione dei medesimo incarico non può essere considerata conforme al diritto. Stando così le cose, appare tuttavia arduo riconoscere una violazione di legge strumentale ad un intenzionale procacciamento di un ingiusto vantaggio patrimoniale in atti che costituivano niente altro che la conseguenza di scelte dell’Amministrazione imposte dalla assoluta inidoneità del personale interno a disposizione a fronteggiare le esigenze connesse allo svolgimento dei difficili compiti oggetto dell’incarico, e dalla necessità di avvalersi di personale adeguato alla complessità dei compiti da svolgere. È noto sotto questo profilo l’approfondimento di cui in dottrina e giurisprudenza è stato oggetto il requisito del dolo intenzionale richiesto dall’art. 323 del c.p.. Gli approdi più recenti possono essere sintetizzati nelle seguenti affermazioni derivate da due sentenze, l’una della Cassazione, l’altra (in realtà non alternativa, ma solamente chiarificatrice) della Corte Costituzionale: a) il dolo intenzionale…deve essere escluso quando il P.U., nonostante l’obiettiva illegittimità dell’atto, abbia operato in vista della realizzazione di un interesse pubblico preminente, che assorbe l’ingiusto vantaggio procurato al privato, non voluto direttamente ma solo previsto ed accettato come conseguenza accessoria dell’atto (cfr. Cass. 19.6.2006, n. 21123; conf. Cass. 8.10.2003, Mannello). In questa prospettiva, la Cassazione ha chiarito che costituiscono elementi sintomatici, da cui è desumibile il dolo intenzionale, l’evidenza della violazione di

legge, la specifica competenza professionale dell’agente, la motivazione apparente - o manifestamente pretestuosa - del provvedimento, e gli eventuali rapporti personali tra l’agente ed il privato che abbia tratto il vantaggio ingiusto (cfr. Cass. 9.11.2006 n. 41365, ric. Fabbri); b) non è esatto che la mera compresenza di una finalità pubblicistica basti ad escludere la sussistenza del dolo intenzionale previsto dall’art. 323 del c.p., ovvero che “intenzionalmente” significhi “al solo scopo di”, mentre è necessario a tale scopo che il fine pubblico sia stato (sia pura contestualmente) perseguito dall’agente come proprio obiettivo principale, perché solo così il dolo di danno o di vantaggio “degrada” da dolo di tipo intenzionale a mera previsione, od accettazione dei rischio di verificazione, dell’evento (cfr. C. Cost. 251/06). Orbene già è stato sottolineato come nella fattispecie non fosse affatto esclusa la necessità e l’urgenza del provvedimento e l’assenza dei personale interno munito di professionalità adeguate alle difficoltà del compito di predisposizione della direttiva relativa al 2002, così come la scelta della L. si fosse imposta per i buoni risultati (segnalati dal B., ossia da colui che doveva dirigere lo staff incaricato di predisporre materialmente il testo della Direttiva) che la stessa aveva assicurato in precedenza per un caso analogo occorso a diversa Amministrazione. In sostanza al dr. N. si è presto imposta la necessità della predisposizione di un atto complesso (non assimilabile a quelli adottati nel recente passato) e urgente, e nel contempo si è prospettata l’assenza in seno al proprio Gabinetto delle professionalità all’altezza di tale compito. In questa prospettiva non è irragionevole pensare che la scelta della società L. possa in un certo senso essere apparsa “obbligata” (con conseguente giustificata elusione dell’obbligo di esperimento di una vera e propria gara per la scelta del contraente), trattandosi dell’unico consulente prospettato al dr. N. come in grado, per la sua pregressa esperienza, di poter far fronte, nei

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Dei delitti contro la pubblica amministrazione


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Dei delitti contro la pubblica amministrazione ristretti tempi a disposizione, al difficile compito, un consulente peraltro la cui affidabilità l’imputato aveva avuto modo di ritenere acquisita “sul campo”, se è vero che il Formez se ne era già assicurato i servizi di consulenza a beneficio di tutti i Ministeri. Proprio in ciò si annida il vizio che ha informato l’attività posta in essere dal dr. N., il cui particolare zelo (preordinato, beninteso, allo scopo di realizzare nel più breve tempo possibile una direttiva in grado di rispondere nel modo più adeguato alla “sfida” finalizzata al raggiungimento di una maggiore efficienza complessiva all’interno della P.A., che aveva “lanciato” il da poco insediatosi Governo Berlusconi) lo ha portato a maturare il convincimento della necessità di assicurarsi una collaborazione del suddetto consulente molto più ampia di quella, sostanzialmente destinata a tradursi in semplici “interviste” coi vertici del Ministero, prevista dall’accordo Formez-L.. Di qui la “fretta” che ha caratterizzato il conferimento dell’incarico in questione, che, lungi dall’essere finalizzato ad una mera delega della predisposizione spettante al proprio Ufficio (come dimostra l’attività formativa di cui ha parlato il teste B.), ha però finito per comportare la sostanziale elusione vuoi dell’obbligo di motivare ) la scelta di tale “più

intensa” collaborazione e la conseguente necessità dell’esborso nuovo e maggiore che da essa derivava, vuoi della ordinaria disciplina contabile dell’approvazione del contratto e dell’imputazione necessaria della spesa ad uno specifico Capitolo di bilancio. Tuttavia la mancata dimostrazione di rapporti personali del dr. N. con la società L. tali da poter apparire sintomatici di una strumentalizzazione dell’attività latu sensu amministrativa posta in essere a fini meramente privatistici del contraente (o, peggio, personali dell’imputato), e la realtà effettiva del “bisogno” della P.A., alla cui soddisfazione è stato indirizzato il conferimento dell’incarico in questione, non consentono di ipotizzare una mera contestualità e compresenza di fini pubblici e privati, perché l’imputato ha agito al precipuo scopo di tutelare un’esigenza dell’Amministrazione di appartenenza, quella di dotare la medesima in tempi brevi dello strumento di programmazione previsto dalla legge e dalla direttiva madre della Presidenza del Consiglio, sia pure finendo per accettare il fatto che, con la mancata motivazione delle proprie scelte e l’elusione della normativa contabile, il vantaggio assicurato al consulente prescelto potesse apparire, come in effetti è apparso, ingiustificato alla stregua della normativa vigente.

P.Q.M. II Giudice dell’Udienza Preliminare, visti gli artt. 424 e 425 c.p.p.,’ dichiara non luogo a procedere nei confronti di N. S. in ordine all’imputazione ascrittagli nella richiesta depositata il 3.1.2007 perché il fatto non costituisce reato>>.

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Reati contro l’amministrazione della giustizia

REATI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA Tribunale di Roma, Sez. X, in composizione monocratica, dott. Miceli, sent. n. 11307 del 12.5.2003. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Calunnia - Sussistenza - Falsa testimonianza – Configurabilità (1). Artt. 81, 368, 372 c.p. persona di cui si conosce l’innocenza, mentre la norma che incrimina la seconda è volta, pur nell’ambito dell’identica tutela, a colpire la violazione del dovere incombente al testimone di dire la verità>>.

(1) In senso conforme v. Sez. VI, 24 febbraio 1998, Iantorno, in Cass. pen., 1999, p. 2139; Sez. VI, 19 novembre 1982, Catapano,in Giust. pen., 1983, II, c. 423; Sez. II, 30 aprile 1980, Candeori, ivi, 1981, II, c. 289. In dottrina, in ordine alla possibilità di un concorso tra la calunnia e la falsa testimonianza, v. PEZZI, voce Calunnia ed autocalunnia, in Enc. giur Treccani, vol. V, Roma, p. 5 ss. In termini difformi, v. FIANDACA- MUSCO (in Diritto Penale, parte speciale, Vol. 1, Bologna, 2001, p. 361, i quali distinguono a seconda che la falsa testimonianza segua una precedente condotta calunniosa dello stesso soggetto ovvero sia resa contemporaneamente alla falsa incolpazione: nel primo caso secondo gli Autori - il delitto di falsa testimonianza non è configurabile, stante la causa di esclusione del reato prevista dall’art. 384 c.p. (l’affermazione del vero esporrebbe il testimone a procedimento penale per la calunnia antecedentemente commessa); nel secondo caso, invece, il concorso è in astratto configurabile, ma va risolto nel senso dell’applicabilità della sola calunnia in base al principio della consunzione. Sul punto, v. Sez. VI, 8 gennaio 2003, Cavalieri, in Riv. pen., 2003, p. 879. in base alla quale non è punibile, per il principio “nemo tenetur se detegere” di cui all’art. 384 cpv. c.p., la persona che sia stata costretta a rendere falsa testimonianza nel procedimento promosso su sua querela, così sostenendo l’accusa al fine di evitare l’incriminazione per calunnia. in termini sostanzialmente analoghi v. Sez. VI, 3 ottobre 2002, A., in Cass. pen., 2004, p. 3632. (MARGHERITA PICCARDI)

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<<La calunnia e la falsa testimonianza sono delitti tra loro distinti per diversa obiettività giuridica, essendo la norma che incrimina la prima diretta a colpire, ai fini della corretta amministrazione della giustizia, la violazione del dovere di non incolpare di un reato una


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Reati contro l’amministrazione della giustizia Corte di Appello di Roma, Sez. I Penale, Pres. dott. Catenacci, Est. dott. Albano, sent. n. 6294 del 17.10.2006. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Calunnia - Elemento soggettivo - Dolo - Contenuto - Intenzionalità dell’incolpazione e certezza dell’innocenza dell’incolpato.(1) Art. 368 c.p. << (omissis) la T. elaborò intimamente il convincimento di essere stata ingannata dal S. e dall’H. perché, avendo consegnato a costoro la non irrilevante somma di 20.000.000 di lire per una “bustarella” utile e indispensabile a molto facilitare l’acquisto di un appartamento a prezzo “d’affare”, si era avveduta che l’esborso di tanto denaro non aveva avuto alcuna incidenza nell’iter dell’acquisto immobiliare, era stato incamerato dai due senza

alcuna giustificazione o causale, rispetto alla prospettazione iniziale di una necessaria “lubrificazione” monetaria degli ingranaggi, facenti capo alla Agenzia S.I. (omissis) Orbene, poiché le circostanze riportate nell’esposto-querela della T. del 9/5/1992 sono risultate accertate e non contestate, non può non convenirsi che la medesima non ha accusato il S. e l’H. di inganno con la consapevolezza di saperli innocenti …>>.

(1) Ai fini della configurabilità del dolo del reato di calunnia è necessario che colui che formula la falsa accusa abbia intenzionalmente voluto incolpare di un reato altra persona avendo la certezza della sua innocenza. L’intenzionalità dell’incolpazione e la sicura conoscenza dell’innocenza dell’accusato sono due dati che vanno tenuti concettualmente distinti e che devono entrambi ricorrere per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato de quo, che è infatti integrato solo nel caso in cui vi sia esatta corrispondenza tra momento rappresentativo e momento volitivo, v. Sez. VI, 12 aprile 2006, Perfetto, in Guida dir., 2007, fasc. 35, p. 82. In senso conforme, Sez. VI, 10 luglio 2000, Cotronei, in Cass. pen., 2001, p. 1783. L’immanente consapevolezza della non colpevolezza dell’accusato, costituente l’essenza del dolo nel delitto di cui all’art. 368 c.p., non è certamente ravvisabile, pertanto, nelle ipotesi in cui l’accusatore incorra nel dubbio o nell’errore ragionevole. L’erronea o la tenue convinzione circa la responsabilità del soggetto nei confronti del quale vengono rivolte le false accuse vale, infatti, ad esclude il dolo, v. Sez. VI, 10 dicembre 1996, Scigliano, in Cass. pen., 1998, p. 803. Sul punto, v. pure Sez. VI, 17 dicembre 1993, Grandis, in Riv. pen., 1994, p. 493; Trib. Roma, 17 marzo 1993, Rienzi, in Foro it., 1994, II, c. 51; Sez. VI. 1° giugno 1990, Pantanella, in Giust. pen., 1991, II, c. 293. L’accusa così formulata non può infatti ritenersi offensiva dell’interesse tutelato dalla norma penale, atteso che il nocumento di tale interesse, attinente al pericolo di deviazioni nell’amministrazione della giustizia, è correlato, non già a qualsiasi denuncia che risulti in prosieguo infondata, ma ad un’incolpazione orientata a procurare siffatto risultato in forza della consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato, v. Sez. VI, 16 marzo 2000, D’Aleo, in Cass. pen., 2001, p. 2686. Per l’affermazione della responsabilità dell’imputato - e, dunque, della sussistenza dell’elemento psicologico - occorre, pertanto, acquisire la prova certa che il predetto abbia accusato la vittima, pur essendo pienamente ed assolutamente consapevole della sua innocenza nel momento dell’incolpazione. v. Sez.. VI, 28 luglio 1992, Chirico e altro, in Giust. pen., 1993, II, c. 296. Prova

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che può anche risultare da indizi, purché si fondino su elementi di fatto seri, certi ed univoci, v. Sez. VI, 4 maggio 1998, Dalò, in Cass. pen., 1999, p. 1443. In senso conforme v. Sez. VI, 20 novembre 1991, Castelli, ivi, 1993, p. 1406. In dottrina, sul metodo per l’accertamento del dolo nel delitto di calunnia, v. VIGNERA, L’innocenza dell’incolpato nel delitto di calunnia. Considerazioni in tema di prova, in Riv. pen. 1992, p. 915. Invero, l’individuazione dell’elemento soggettivo del delitto di calunnia è, di norma, evidenziata dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto agente. Ne consegue che l’accertamento del dolo consiste nella considerazione e nella valutazione delle circostanze e delle modalità della condotta che palesano la cosciente volontà dell’imputato e sono indicative dell’esistenza di una compiuta rappresentazione del fatto, v. Sez. VI, 24 maggio 2004, Prandelli, in Cass. pen., 2005, p. 3358. La motivazione relativa alla prova della consapevolezza da parte dell’accusatore che l’incolpato è innocente si immedesima, pertanto, con l’accertamento delle predette circostanze, v. Sez. VI, 5 dicembre 2002, Greco, in Cass. pen., 2004, p. 93, nonché Sez. VI, 22 maggio 1991, Sanguinetti, in Giust. pen. 1992, II, p. 158. Ciò in quanto l’accusa ad un soggetto di aver commesso atti penalmente illeciti - che è cosa ben diversa dalla coscienza della sua innocenza - non comporta, di per sé, la necessaria sussistenza di tutti gli elementi integranti il dolo della calunnia, abbisognando ciascuno dei predetti elementi di un’approfondita ed adeguata valutazione da parte del giudice di merito. Sul punto v. Corte Appello Perugia, 3 febbraio 2001, Novelli, in Riv. pen. 2001, p. 565. (MARGHERITA PICCARDI)

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Reati contro l’amministrazione della giustizia


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Dei delitti contro la fede pubblica

DEI DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA Tribunale di Roma in composizione monocratica, Sez. VI, Dott.ssa A. Cantillo, sent.n.7439/07 del 20.03.2007 Falso ideologico - Funzione “probatoria” delle attestazioni contenute nello stesso atto – Denuncia di inizio attività quale dichiarazione di volontà di attività non ancora iniziata – Atto con funzione “probatoria” – Esclusione - D.lvo 5 febbraio 1997 n. 22, Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/Ce sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio – reato di inconfigurabilità. Art. 31, co 7 , D.lvo 22/97 e art. 483 c.p. << Con decreto di citazione diretta ritualmente notificato, L.I.Z. è stata rinviata a giudizio dal Tribunale di Roma in composizione monocratica per rispondere dei reati di cui ai capi d’imputazione [a) art 31, c. 7 ,D.lvo 2/97, in rel. art 21 L. 241/90 e art 483 c.p.; b) art 51, c. 1° lett. a) D.lvo n. 22/97 ; c) art 51, c 4° D.lvo 22/97]. (omissis) La Z. è chiamata a rispondere dei reati sopra indicati nella sua qualità di titolare della ditta (omissis), centro di autodemolizione e di recupero di rifiuti. A lei è stato contestato al capo a) di imputazione, di aver rilasciato false dichiarazioni alla Provincia di Roma per poter usufruire della procedura semplificata prevista dagli artt. 31 e 33 D.lvo n. 22/97, in relazione alla tipologia di rifiuti trattati ed alla destinazione dei rifiuti ad un impianto di recupero. (omissis) Quanto al reato di falso ideologico, contestato al capo a) deve osservarsi che, per sua natura, la denuncia di inizio attività non contiene l’attestazione di elementi esistenti al momento della dichiarazione, dei quali è destinata a provare la verità, ma è una dichiarazione di volontà, ossia la comunicazione di una intenzione, relativa ad un’attività ancora non iniziata e che si intende iniziare in futuro. Pertanto, le difformità rispetto agli elementi indicati nella denuncia di inizio attività,

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accertate successsivamente, rilevano per ritenere l’illegittimità dell’attività svolta, ma non può, (omissis),integrare il reato di falso ideologico, che presuppone l’esistenza di un atto con una “funzione probatoria”, destinato cioè a provare la verità delle attestazioni ivi contenute. Di recente, la Suprema Corte, decidendo in un’ipotesi diversa, ma assimilabile nella sostanza, ha statuito, con riferimento alla relazione allegata alla DIA in materia urbanistica, che la stessa non ha natura di “certificato”, in quanto, a differenza di quest’ultimo, non è destinato a provare la oggettiva verità di ciò che in essa è affermato, ma, per la parte progettuale, manifesta una intenzione e non registra una realtà oggettiva (Cass.,sez. V, 2674/05, n.23668). Ciò in conformità al principio generale sancito da S.U., 9/3/00, Gabrielli, secondo cui il delitto di falso ideologico è configurabile solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero. (omissis) La Z. deve essere conseguentemente assolta dai delitti a lei contestati perché il fatto non sussiste.>>


Dei delitti contro la famiglia

DEI DELITTI CONTRO LA FAMIGLIA

< < …All’imputato è contestato il reato di cui agli artt. 81 e 570, I e II co., c.p., perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, si sottraeva agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà di genitore e faceva mancare alla figlia minore V.G. i mezzi di sussitenza omettendo, tra l’altro, di corrispondere alla madre della minore C.F.N. l’assegno mensile di L. 600.000 per il mantenimento così come disposto dalla sentenza del Tribunale di Roma, Sezione prima civile nella causa (omissis) depositata il 31.07.1995. In Roma fino al 28.02.03. Come risulta dalla modifica del capo d’imputazione disposta all’udienza del 15.12.05, la data del commesso reato è quella dal luglio 1995 ad oggi. (omissis) Non vi sono elementi per assolvere l’imputato nel merito. La teste C. ha riferito che il G. non aveva mai versato la somma di L 200.000, né la somma di L. 600.000, determinata dal Giudice e ha riferito altresì che di lei e della figlia minore si era sempre occupato il figlio che la P.C. aveva avuto da precedente matrimonio (omissis). Riferisce ancora la p.o. che il G. non aveva provveduto al mantenimento della figlia nemmeno in altro modo (omissis). Con riguardo alle condizioni di vita dell’obbligato, afferma la Suprema Corte che le disagiate condizioni economiche non fanno venir meno il dovere alla corresponsione del-

l’assegno salvo che sia accertata una indisponibilità assoluta ed incolpevole, che, in virtù del principio “ad impossibilia nemo tenetur”scrimina la condotta omissiva. Non può ritenersi provata una situazione di indisponibilità assoluta in capo all’imputato che non ha corrisposto le somme di denaro convenzionalmente stabilite con la C. né quelle successivamente determinate in via giudiziale, deducendo di non poterle corrispondere: il G. non ha peraltro impugnato la sentenza di primo grado e non ha chiesto la riduzione della somma stabilita dal Giudice. Sotto altro profilo, la sussitenza dello stato di bisogno non è esclusa dal fatto che l’altro obbligato (madre) e terze persone (fratello, nonni materni) provvedano ala soministrazione dei mezzi di sussistenza all’avente diritto ciò costituendo viceversa prova dello stato di bisogno in cui versa l’interessato (cfr., fra le altre, Cass. 6/05/03 Manfredi, CED 225575; Cass. 21/09/01, Mangatia ,CP 03., 534). Il reato permenete ascritto al G. deve peraltro ritenersi commesso fino al 16/12/98, data nella quale la figlia V. ha raggiunto la maggiore età e da tale data sono perciò decorsi i termini massimi di prescrizione (anni 7 e mesi 6) applicabili alla specie. Deve quindi essere dichiarati il NDP nei confronti del G. essendo il reato a lui ascritto estinto per intervenuta prescrizione >> .

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Tribunale di Roma in composizione monocratica, Sez. VIII, dott.ssa L. Martoni , sent. n. 24253/06 del 5.12.2006 Violazione degli obblighi di assistenza familiare – Mancata corresponsione assegno di mantenimento al minore – Disagiate condizione economiche dell’obbligato – Irrilevanza della somministrazione dei mezzi di sussistenza all’avente diritto da parte di terzi. Reato permenente - Maggiore età – Decorrenza termini di prescrizione. Art. 570, co. II n. 2), c.p.


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Dei delitti contro la persona

DEI DELITTI CONTRO LA PERSONA Tribunale di Roma, Sez. dei Giudici per le indagini preliminari, dott.ssa Di Girolamo, sent. del 19.10.2005 (depositata il 17.1.2006). Riduzione in schiavitù - Stato di soggezione - Nozione Stato di soggezione attuato mediante approfittamento di una situazione di necessità – Nozione - . Art. 600 c.p. << (omissis) Ciò posto, sulla base delle suesposte risultanze probatorie, tutte utilizzabili per la scelta del rito abbreviato, va in primo luogo affermata la penale responsabilità dell’imputato N. per tutti i reati ascrittigli. In particolare, per quanto riguarda il delitto di riduzione in schiavitù di cui all’art. 600 c.p., recentemente riformulato ad opera della legge 11.8.2003 n. 228, lo stato di assoggettamento della parte lesa appare avvalorato dalla perdita assoluta della libertà di movimento, assicurata attraverso la costante vigilanza e lo stretto controllo dell’imputato, nonché con l’uso sistematico di violenze e minacce da parte del N.; e ciò al fine di indurre la parte offesa a prostituirsi per lui ed a compiere o subire rapporti sessuali, sottoponendola, in caso di rifiuto o trasgressione, a trattamenti disumani e degradanti, anche procurando alla predetta lesioni personali. Il verificarsi della condizione analoga alla schiavitù, per consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. in ultimo Cass. 12.4.2005 n. 33757 e Cass. Sez. II n. 37489 del 23.9.2004), “non si esaurisce nelle specifiche previsioni delle Convenzioni di Ginevra del 1926 e 1956 e sussiste tutte le volte in cui sia dato verificare l’esplicazione di una condotta alla quale sia ricollegabile l’effetto del totale asservimento di una persona al soggetto responsabile della condotta stessa. Tale asservimento equivale alla condizione di un individuo che venga a trovarsi ridotto nella esclusiva signoria del-

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l’agente, il quale materialmente ne usi, ne tragga profitto e ne disponga con conseguente disconoscimento della soggettività e capacità di determinazione dell’offeso nella comunità in cui il fatto si verifica”. (omissis) È pacifico infine che i fatti di cui si è reso responsabile l’odierno imputato, come sin qui descritti, integrino l’ulteriore previsione introdotta dal legislatore del 2003 (art. 600 co. II c.p.), secondo cui lo stato di soggezione in cui la vittima è costretta a svolgere determinate prestazioni deve essere ottenuto dall’agente con minaccia, violenza, inganno, abuso di autorità, o approfittando di situazioni di inferiorità o di necessità. La Corte di Cassazione ha infatti in più occasioni ribadito che lo stato di necessità vada inteso come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale, adatta a condizionare la volontà della persona (cfr. Cass. Sez. III n. 3368 del 2.2.2005). Il N. costringeva la p.o. alla prostituzione approfittando appunto del suo stato di necessità, derivante dall’essere clandestina in Italia e senza passaporto, sottrattole del N., ma anche sistematicamente percotendola, minacciandola (anche di morte per sé o i suoi familiari) e sottoponendola a torture per essersi ribellata. Di qui la perfetta riconducibilità delle condotte perseguite dal N. al paradigma criminoso di cui al capo A). (omissis) >>.


Dei delitti contro la persona

<< (omissis) Questi i fatti così come ricostruiti sulla scorta degli elementi acquisiti nel corso del dibattimento. Tali fatti appaiono idonei a conferire riscontro all’ipotesi accusatoria. Osserva, al riguardo, il tribunale che, in via generale, le dichiarazioni della persona offesa sono equiparabili, da punto di vista del valore probatorio, a quelle rilasciate da qualsiasi altro teste, di guisa che un giudizio di condanna può fondarsi anche sulla sola testimonianza di tale parte processuale. Non è, pertanto, necessario che tali dichiarazioni debbano trovare conferma in ulteriori indizi o elementi di prova, come è invece espressamente richiesto dal codice di rito in altre circostanze. In particolare, non si applicano in tal caso le regole di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p., che presuppongono l’esistenza di altri elementi di prova unitamente ai quali le dichiarazioni devono essere valutate per verificarne l`attendibilità. Tuttavia, sulla scorta della costante giurisprudenza di legittimità, può ritenersi che, per effetto del particolare interesse che la persona offesa riveste in ordine alla vicenda processuale, è necessario sottoporre ad un preciso vaglio la sua attendibilità e credibilità. Ciò, in particolar modo, se trattasi di fatti che possono interagire con i delicati aspetti della personalità. come nel caso dei reati in materia di libertà sessuale. In considerazione delle complesse implicazioni che detta materia comporta, infatti, la valutazione del contenuto della dichiarazione della persona offesa deve contenere, in primo

luogo, un accurato esame della coerenza e logicità intrinseca delle dichiarazioni e, in secondo luogo, una comparazione tra le dichiarazioni medesime e gli elementi estrinseci acquisiti; tale ultimo giudizio, ovviamente, non ai fini di riscontrare le dichiarazioni, ma al solo fine di valutare l’attendibilità della persona offesa. … I fatti così come accertati integrano, senza dubbio, tutti i reati contestati. Quanto al reato sub A), deve premettersi, in proposito, che la nuova espressione atti sessuali” contenuta nell’art. 609 bis c.p. include tutti quegli atti che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale. Il riferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali, ma comprende anche quelle ritenute dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica ed antropologico-sociologica, erogene e tali da dimostrare l’istinto sessuale. In sostanza, nella nozione di atti sessuali confluiscono tutte le fattispecie ricomprese nella vecchia nozione di violenza carnale e cioè il coito vaginale, orale o anale, nonché quelle ricomprese nella nozione di atti di libidine violenti e dunque ogni abbraccio o toccamento imposto alla vittima, benché fugace e nonostante avvenga su parti del corpo non scoperte purché determinato allo scopo di eccitamento o di soddisfazione sessuale dell’agente. Ai fini della comprensione e qualificazione del gesto assumono, inoltre, rilevanza le

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Tribunale di Roma (in composizione collegiale) sezione quarta, dott. Stefano Meschini – Pres. – dott. Carlo Sangiorgio – Giud. - dott. Salvatore Iulia – Giud. est. -, sentenza del 13.04.2007. Violenza sessuale – Valenza probatoria delle dichiarazioni della p.o. – Sussistenza della costrizione nell’ambito di una relazione sentimentale precedente e successiva alla violenza – Lesioni personali – Violenza privata. Artt.: 609 bis, 582, 585, 610 c.p.; 192 c.p.p.;


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Dei delitti contro la persona modalità della condotta posta in essere dall’agente. Nel caso di specie, deve ritenersi che l’inserimento degli oggetti simulanti la forma del pene nella vagina e nell’ano, coinvolgendo in maniera palese le zone genitali della donna, costituisce senz’altro atto sessuale nel senso sopra specificato, pur non essendo stati interessati l’organo genitale o altre zone erogene del corpo dell’imputato. L’atto sessuale, per essere punito, deve essere violento. La condotta posta in essere dal C. si mostra caratterizzata da due diverse modalità di violenza. In una prima fase, quando cioè egli si trovava in auto con la S., la violenza si è esplicata nella causazione di lesioni personali e, pur non essendo, in quel momento, direttamente finalizzata a soddisfare un istinto sessuale, appare comunque idonea a coartare la volontà della vittima ed a fiaccarne la resistenza nel momento in cui sono stati compiuti gli atti sessuali. Proprio la precedente condotta violenta, in altre parole, ha consentito al C. di compiere gli atti sessuali avvalendosi della paura ingenerata nella vittima, indotta a sottostare al suo volere senza reagire per il timore di un’ulteriore e più violenta reazione (“Quando mi ha

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dato la coltellata lì mi sono spaventata e ho cercato di assecondarlo in tutto quello che mi -diceva. Avevo paura che mi avrebbe fatto di peggio che un coltellata insomma... “, ha riferito la S.). In una seconda fase, coincidente con il compimento degli atti sessuali, il C. ha comunque esercitato ulteriore violenza, intesa come vera e propria forza fisica, sulla vittima, allo scopo di fiaccarne le ultime, timide resistenze ed imporle la sua volontà (“Io cercavo di dirgli di no, che non volevo .. e lui mentre mi picchiava insisteva;… schiaffi, pugni, capelli tirati, ha riferito la S.). I certificati medici in atti consentono di ritenere provata anche l’ipotesi ascritta al capo B); l’uso dell’arma integra altresì l’aggravante di cui all’art. 585 c.p. contestata in rubrica. Quanto al reato sub C), osserva il tribunale che il C., avendo costretto la S. a seguirlo in bagno, a mettere la testa nel water ed a tollerare che le urinasse sul viso, ha gravemente coartato la volontà della vittima, fino, di fatto, ad annullarla, al punto da costringerla a sopportare una così grave umiliazione. La condotta, pertanto, integra il reato contestato. La dichiarazione della penale responsabilità dell’imputato, per tutti i reati ascritti rubrica, pertanto, si impone.>>.


Dei delitti contro il patrimonio

DEI DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO

<<omissis>> Pur nel contesto di una truffa consumata ai danni di istituti bancari, il rinvenimento di ulteriore documentazione, della cui veridicità vi è fondato sospetto, relativa ad operazioni finanziarie, non è sufficiente a raggiungere il livello di univocità degli atti al raggiungimento del fine illecito e, soprattutto, di idoneità per la realizzazione del fine criminoso, trattandosi al più di condotte verosimilmente prodromiche e preparatorie di iniziative truffaldine che non risultano aver poi raggiunto un livello esecutivo giuridicamente qualificabile come tentativo ai sensi dell’art. 56 c.p. (“Più specificamente, se è indubbio che sono stati acquisiti, peraltro in copia, una serie di documenti di natura bancaria o più in generale finanziaria di sicuro sospetto per la loro provenienza e veridicità, sì da far pensare alla

programmazione di progetti truffaldini ai danni di istituti bancari, è pur evidente, per un verso, come l’enormità delle cifre che sarebbero state oggetto degli illeciti e la natura delle garanzie offerte - spesso rappresentate da improbabili titoli obbligazionari - avrebbero di certo allertato a tal punto la prudenza degli Istituti bancari da contattare che assai fondatamente è lecito dubitare della concreta efficacia ingannatoria di quelle ipotetiche richieste di finanziamento che sarebbero state avanzate in forza dei citati documenti ed infatti non è emerso che alcun Istituto di credito, in particolare quelli specificati nelle operazioni oggetto di contestazione, avesse poi ricevuto in concreto richieste di finanziamento ovvero che fossero state avviate operazioni finanziarie e, tantomeno, che tali eventuali richieste fossero state solo prese in considerazione”).

(1) Nello stesso senso, in ordine al concetto di idoneità degli atti: cfr. Cass., Sez. VI, sent. n. 23706, 17.02.2004, rv. 229135; Cass., Sez. II, sent. n. 36283, 4.07.2003, rv. 228310, Cass., Sez. I, sent. n. 1365 del 2.10.1997, rv. 209688; Cass., Sez. I, sent. n. 7317, 201738; per quanto attiene al concetto di univocità: cfr. Cass., Sez. 3, sent. n. 14806, 2.03.2004, rv. 227964; Cass., Sez. 3, sent. n. 13124, 12.02.2003, rv. 224473; Cass., Sez. U, sent. n. 28, 25.10.2000, rv. 217295.

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Tribunale di Roma – Sezione Gip – dott. Di Lorenzo – sent. n. 3108/06 ud. 1.12.2006 (dep. 12.12.2006) Truffa in danno di istituti bancari – Artifici e raggiri – Tentativo – Atti idonei e diretti in modo non equivoco alla realizzazione della truffa – Sussistenza – Esclusione.(1)


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Dei delitti contro il patrimonio Tribunale di Roma – Sezione IV Penale – Sentenza 10 maggio 2007 – Pres. Argento – Rel. Rapina - Rapina impropria – Sottrazione di beni in un centro commerciale – Violenza immediatamente successiva all’impossessamento della cosa altrui posta in essere per non subire una perquisizione personale condotta con modalità arbitrarie dal personale di vigilanza – Dolo di rapina – Esclusione – Furto tentato - Sussistenza Artt. 56, 624, 625 n. 2, 628, comma 2, c.p. OMISSIS <<Le risultanze processuali consentono il riconoscimento della penale responsabilità del solo imputato XXX, riqualificato il fatto ai sensi degli artt. 56. 624, 625 n. 2, c.p.. Emerge infatti dagli atti che a sottrarre dal banco di vendita del centro commerciale YYY la merce indicata nel verbale di sequestro, previa effrazione delle placche antitaccheggio è stato unicamente il predetto imputato, il quale ha ammesso a riguardo l’addebito, mentre non si desumono elementi univoci in ordine al concosro del coimputato, evincendosi dal verbale di arresto la descrizione di una condotta assolutamente equivoca e non suscettibile pertanto di fornire la prova certa di un suo consapevole contributo all’azione criminosa posta in essere dal fratello, XXX, né traspare dagli atti di indagine alcuna circostanza indicativa di una conoscenza comunque acquisita dal ZZZ dell’avvenuta illecita sottrazione, considerato che la merce -di modeste dimensioniera stata facilmente occultata nella tasca dei pantaloni dell’autore del fatto. Rileva il Collegio che le modalità della condotta dei due imputati, al momento del

controllo attuato dagli addetti alla vigilanza del centro commerciale, così come descritta nel verbale di arresto, alla luce delle concordanti dichiarazioni degli imputati, che sono apparse spontanee e genuine, non appaiono del tutto convincenti e inducono, di conseguenza, a non escludere che l’imputato ZZZ abbia inteso solo contestare il controllo, reputandolo ingiustificato e, comunque, non corretto nelle forme, e l’imputato XXX, pur consapevole di aver sottratto della merce, abbia inteso reagire non già al fine di assicurarsi l’impunità o il profitto del reato, ma, analogamente, per l’atteggiamento assunto nei loro confronti dal personale di vigilanza, ritenuto non consono all’azione commessa, soprattutto con riferimento al modesto valore dell’oggetto della sottrazione. Deve altresì ritenersi, con riguardo alla condotta dell’imputato XXX, che l’azione integri gli estremi del tentativo di furto aggravato, atteso che la stessa si è svolta nella sua intera evoluzione sotto il controllo ininterrotto del personale addetto alla vigilanza, che perciò avrebbe potuto interrompere in ogni momento l’azione criminosa (omissis). >> (1)

(1) Una sentenza garantista, giuridicamente ineccepibile, che, nella sua semplicità, ha valutato in una prospettiva diversa dal solito un caso scolastico, il tentativo di furto seguito dalla violenza esercitata nei confronti della persona offesa (o di soggetti che agiscano per conto di questa) che, nel frattempo intervenuta, abbia impedito la consumazione del reato. La vicenda sottesa è banale quanto frequente: un individuo si è impossessato di beni all’interno di un supermercato, e, scoperto e bloccato dal personale di vigilanza, ha opposto resistenza. Quasi sempre tale caso integra gli estremi della rapina impropria, ricorrendone (apparentemente) tutti gli elementi costitutivi: l’impossessamento della cosa altrui

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e l’esplicazione di violenza nei confronti di chi sia nel frattempo intervenuto per evitare il verificarsi dell’evento criminoso, al fine di assicurarsi l’impunità ovvero il possesso di quanto sottratto (sul punto la casistica è abbondante; ex plurimis, si veda Cass. Sez. II Pen. 14 ottobre 2003, Monaco, in Cassazione Penale, 2005, m. 1092, pag. 2599, relativa proprio ad un episodio di sottrazione di beni dai banchi di un supermercato) Ciò che caratterizza il caso in oggetto è la finalità per cui l’autore del tentato furto ha contrastato il personale di vigilanza, elemento che ha portato l’organo giudicante alla derubricazione del delitto di rapina impropria, contestato dal PM, in quello di tentato furto aggravato. L’imputato, infatti, stando alla sua versione dei fatti, ha rifiutato di subire una perquisizione personale secondo le modalità prospettategli dagli addetti alla sicurezza del supermercato (che avrebbero voluto condurlo in uno sgabuzzino ndR), temendo per la propria incolumità fisica, ed esigendo l’intervento delle Forze dell’Ordine; egli ha opposto violenza, dunque, non già per assicurarsi l’impunità o il possesso della cosa sottratta, ma per la tutela, sia fisica che morale, della propria persona. Il Tribunale ha creduto all’imputato e ha conseguentemente escluso la configurabilità del reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p., non ritenendo sussistente, nei fatti di causa, il dolo specifico tipizzante la rapina impropria. Può darsi che gli accadimenti annotati costituiscano un caso realmente poco frequente; potrebbe pure essere, però, che fatti del genere si verifichino più sovente di quanto si pensi. Ci auguriamo che la decisione pubblicata possa offrire uno scrupolo interpretativo in più su vicende scolastiche spesso affrontate (da tutti i soggetti processuali) frettolosamente proprio per la loro apparente semplicità. (GIOVANNI PAGLIARULO).

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Dei delitti contro il patrimonio


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RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA

Procedura penale

IL CODICE CODICE DI PROCEDURA PENALE


Procedura penale

Soggetti

SOGGETTI Corte di Appello di Roma, Sezione Quarta Penale, ordinanza del 19 ottobre 2006 Giudizio di impugnazione – Appello avanti la stessa Corte c he ha giudicato un coimputato del medesimo reato – Incompatibilità Sussistenza. Art. 34 cpp; Sentenza della Corte Costituzionale n. 371/1996 Con atto presentato in data 15.9.2006 l’avvocato omissis nella qualità di procuratore speciale di omissis presentava la dichiarazione in premessa deducendo l’incompatibilità dei due magistrati, in forza della sentenza della Corte Costituzionale 371 del 96. A sostegno della dichiarazione di ricusazione esponeva quanto segue. Nei confronti dei fratelli omissis e omissis, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Velletri, nell’ambito del procedimento 4492/02 RG NR, esercitava l’azione penale, chiedendone il rinvio a giudizio, per rispondere, in concorso tra di loro e con altri dell’omicidio in danno di omissis e di altri reati, tutti consumati in Santa Maria delle Mole in data omissis. Nel corso della udienza preliminare, omissis formulava l’istanza di giudizio abbreviato condizionato, all’esito del quale veniva condannato dal GUP di Velletri con sentenza 12.7.2004, alla pena di anni 30 di reclusione. Quest’ultima veniva confermata dalla Corte di Assise di Appello di Roma, con sentenza 27.5.2005, presieduta dal Presidente Cappiello e, con il dottor Mauro in qualità di giudice a latere. Il omissis, reputando la definizione del processo allo stato degli atti, anche con eventuali integrazioni probatorie, del tutto inadeguata alla necessità di approfondimento probatorie richieste dal processo a suo carico, optava invece per il giudizio ordinario e veniva rinviato a giudizio innanzi alla Corte di Assise di Frosinone. Il dibattimento innanzi la Corte di Assise

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di Frosinone si concludeva con sentenza 11.7.2005. Avverso quest’ultima veniva proposto appello da imputato e PM, innanzi la Corte di Assise di Appello di Roma - Sezione 1^ - i cui componenti togati sono i consiglieri Antonio Cappiello (Presidente) ed Eugenio Mauro (Giudice a latere), ossia gli stessi che avevano partecipato al giudizio di appello - svoltosi all’esito del giudizio abbreviato - a carico di omissis. Il dichiarante, pertanto deduceva l’incompatibilità dei giudici in quanto, nella sentenza a carico del fratello omissis, avevano valutato e conseguentemente esternato giudizi concernenti le proprie responsabilità in ordine ai reati scaturiti dall’azione delittuosa originata dalla rapina in banca e culminata con il conflitto a fuoco con i militari dell’Arma, nel corso del quale rimaneva ucciso il omissis. Disposto udienza camerale, all’esito della discussione PG, parte civile e difesa concludevano come in atti; in particolare il PG chiedeva l’accoglimento della dichiarazione. La sentenza della Corte Costituzionale 371/ 96 ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’articolo 34 c.p.p. nella parte in cui esso non prevedeva la ricusabilità del giudice che avesse pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, in cui la posizione dell’imputato, ancora da giudicare in ordine alla sua responsabilità penale, fosse stata già comunque valutata. Inoltre la successiva sentenza della stessa Corte Costituzionale 283 del 2000 ha si dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ar-


ticolo 37 comma 1 c.p.p. “nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti di giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto”, ma nella stessa sentenza è precisato che, per il verificarsi dell’effetto pregiudicante, “non è sufficiente che il giudice abbia in precedenza avuto mera conoscenza dei fatti di causa, raccolto prove, ovvero si sia espresso su particolari aspetti della vicenda processuale sottoposta al suo esame”, essendo invece “necessario, perché si verifichi un pregiudizio per l’imparzialità, che il giudice sia chiamato ad esprimere una valutazione di merito collegata alla decisione finale” attinente alla responsabilità penale. Cosicché l’incompatibilità del giudice per atti compiuti nel dibattimento si verifica solo qualora risulti che egli abbia in concreto proceduto a valutazioni di merito suscettive di avere riflesso e vulnerare direttamente la posizione di un terzo, nei cui confronti si determinerebbe conseguentemente il pericolo di pregiudizio con riguardo alla contestazione mossa medesimo (Cass. Pen. sez. V, 5 marzo 2001, n. 9239, Foscale; Cass. Pen. sez. III,14 novembre 2001, n. 40511, Martinenghi). Per essere ricusato il giudice deve cioè avere espresso una valutazione di merito, consistente in una anticipazione di giudizio sia in ordine alla sussistenza del fatto reato, sia in ordine alla riconducibilità della responsabilità di tale fatto al ricusante (cfr. Cass. Pen. sez. IV, 15 dicembre 2003, Gonella; Cass. Pen. sez. IV, 22 dicembre 2003 n. 49111, Vitalone; Cass. Pen. sez. IV, 4 dicembre 2003 n. 46771, Schiamone). In particolare, sul tema qui considerato la Suprema Corte ha ulteriormente chiarito che “non costituisce causa di incompatibilità ex articolo 34 c.p.p. per il giudice dell’udienza preliminare l’aver disposto, in un separato procedimento, il rinvio a giudizio nei confron-

ti di altri imputato dello stesso reato, quando alla mera comunanza dell’imputazione faccia riscontro una pluralità di condotte distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, tali da formare oggetto di autonome valutazioni, scindibili l’una dall’altra (Cass. Pen. sez. VI, 1 dicembre del 2005, n. 4297, Cesarano). Alla stregua di tali puntualizzazioni appare chiaro che nel caso in esame si sono realizzati i presupposti necessari per la dedotta causa di ricusazione. Nella sentenza riguardante omissis si afferma testualmente (pag. 5): “questa Corte sia per non pregiudicare la sua competenza in merito a quest’ultimo processo sia per non creare intromissioni con le relative conseguenze in un processo in corso altrove, si asterrà rigorosamente dall’esame di altre corresponsabilità, dato che il processo lo permette, per cui ad eccezione della contestazione nei capi d’imputazione, irrilevante ai fini dell’incompatibilità, non si farà alcun riferimento all’identificazione dei complici pur essendo storicamente provato che sul posto ne erano presenti almeno altri due oltre a omissis”. “Non si versa nell’ipotesi del concorso necessario ipotizzato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza per cui quella parte della sentenza di primo grado che si occupa di tale problema non verrà presa in esame ma ci si limiterà ad esaminare la responsabilità del solo omissis, unico imputato in questo giudizio di appello”. Nonostante un più che lodevole sforzo per ottemperare a tale intento, ritiene questa Corte che nella sentenza suddetta sono state compiute ed esternate alcune valutazioni concernenti anche l’attuale dichiarante e che non possono quindi che determinare incompatibilità dei giudici ricusati a compiere il giudizio concernente quest’ultimo. Ciò in quanto la posizione di questi nel giudizio di appello desunta dall’amplissimo atto di impugnazione della sentenza di primo grado può essere riassunta in due doglianze: la

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Procedura penale

Soggetti


Procedura penale

Soggetti mancata partecipazione all’azione incriminata e (da intendersi invece subordinata) il mancato o ridotto apporto causale agli eventi di reato, tale da configurare l’ipotesi prevista dall’articolo 116 cp (c.d. concorso anomalo). Non può esservi dubbio alcuno che ai giudici ricusati sono sfuggite alcune espressioni che pur nella loro sinteticità lasciano trapelare dei giudizi che non possono non lasciar intendere un loro intimo convincimento concernente la responsabilità di omissis. Ciò, quanto al primo motivo di impugnazione formulano un giudizio del tutto negativo concernente le dichiarazioni di omissis per quel che concerne l’identità dei suoi complici. Testualmente (pagina 20): “Ergo, il omissis non c’era e il omissis ne ha fatto il nome in quanto era a conoscenza che era defunto nel corso di altra rapina successiva a quella de quo...”. “In realtà sin dal primo momento ha sempre voluto tacere sui nomi dei complici... per cui ha indicato due persone, una ormai morta che non può difendersi e l’altra, un perfetto sconosciuto”. “Il suo comportamento, invece, è stato sempre omertoso nel non voler rivelare il nome dei complici veri...”. Ma è sul secondo “thema decidendum” che

si sono esternate in modo molto più esplicito ed incisivo le convinzioni dei giudici, là dove è detto testualmente (pagina 12): “quindi tutti e tre i rapinatori erano armati e tutte erano armi vere perché hanno tutte sparato”. Il che, a giudizio di questa Corte non può avere altro significato che, una volta risolta in senso sfavorevole la questione della presenza o meno di omissis, con tale perentoria puntualizzazione, i giudici hanno espresso il proprio pieno ed immediato convincimento in ordine alla valutazione giuridica del suo apporto causale agli esiti delittuosi. Con il che si rientra in pieno nelle ipotesi di incompatibilità designata dalla sopra citata sentenza della Corte Costituzionale. Resta da accennare un ultimo punto. I giudici ricusati, quali giudici di appello di un processo celebrato con rito abbreviato, hanno preso cognizione di tutti quanti gli atti delle indagini preliminari. Si sono venuti pertanto a trovare in una posizione non prevista dal legislatore, in quanto, nel processo a carico di omissis avrebbero dovuto avere cognizione dei soli atti previsti dall’articolo 431 c.p.p. Allo stato degli allegati, la Corte non è in grado di indicare atti da salvaguardare ai sensi dell’articolo 42/2 c.p.p.

P.Q.M. visti gli articoli 34 e segg. c.p.p.; accoglie la dichiarazione di ricusazione presentata da omissis nei confronti di: dott. Antonio Cappiello e dott. Eugenio Mauro, rispettivamente presidente e giudice a latere della 1^ Corte di Assise di Appello di Roma. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di rito.

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Prove

PROVE Tribunale di Roma, Sezione Gip, dott. ssa Figliolia, ordinanza del 20 gennaio 2007. Ricognizione di persona – Persona offesa minore straniera analfabeta - Invito a descrivere la persona da riconoscere – Impossibilità. (1) Artt. 213 commi 1 e 3, c.p.p.. << Il Giudice dato atto che non è possibile nella specie invitare il minore a descrivere la persona indicando i particolari che ricorda, in quanto il predetto non conosce il nome degli indagati ad esclusione di pochissimi casi, in cui sa solo il soprannome, ed essendo lo stesso sprovvisto, stante l’età e a condizione di stra-

niero, anche avuto riguardo alla sua condizione di analfabeta, di quelle necessarie conoscenze linguistiche per fornire una compiuta descrizione delle caratteristiche somatiche dei soggetti con i quali ha avuto rapporti sessuali. Vedasi al riguardo anche quanto riferito dalla dott. ssa Giganti Angela nella sua consulenza al p.m. >>

La decisione del Tribunale della Libertà in sede di riesame dell’ordinanza cautelare emessa a seguito della ricognizione. ( 2 )

<< (omissis ) Né va trascurato che in numerosi casi al verbale di ricognizione è allegata una “ordinanza”, in cui il Gip da atto dell’impossibilità di invitare il minore a fornire una preventiva descrizione del soggetto da riconoscere in quanto “non conosce il nome degli indagati ad esclusione di pochissimi casi, in cui sa solo il soprannome, ed essendo lo stesso sprovvisto, stante l’età e a condizione di

straniero, anche avuto riguardo alla sua condizione di analfabeta, di quelle necessarie conoscenze linguistiche per fornire una compiuta descrizione delle caratteristiche somatiche dei soggetti con i quali ha avuto rapporti sessuali”, in patente contrasto con quanto prescritto dall’art. 213 co, 1 c.p.p. e conseguente nullità della ricognizione prevista dal comma 3 della norma indicata ( omissis )>>

(1-2) Nell’ambito di un procedimento caratterizzato da una pluralità di indagati per il reato di cui all’art. 609 quater c.p., commesso nei confronti della medesima persona offesa, straniera analfabeta, era stata disposta, in sede di incidente probatorio, la ricognizione personale degli stessi, con omissione delle formalità ex art. 213 c. 1 c.p.p. per le ragioni indicate nel provvedimento in esame, allegato al verbale. La c.t. del pubblico ministero, chiamata a valutare l’idoneità del minore a rendere testimonianza, ne aveva rappresentato, nell’ambito di una capacità ad esprimersi “in maniera adeguata, appropriata, congrua e coerente sia sul piano della forma che dei contenuti” che lo rendeva idoneo ai fini indicati, “alcune lacune espressive causate dalla difficoltà ad esprimersi sempre e chiaramente nella lingua italiana”. In ragione degli esiti della ricognizione era stata emessa dal Gip ordinanza custodiale nei confronti degli indagati riconosciuti, poi annullata con l’ordinanza annotata, anche a causa della dedotta e rilevata nullità della prova così assunta. (EUGENIO ZINI)

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Procedura penale

Tribunale di Roma, Sezione Riesame, Pres. Taurisano Est. Criscuolo, ordinanza del 24 aprile 2007.


Prove Giudice di pace di Roma, II sezione dibattimentale, dott.ssa Chiessa, sentenza del 22 novembre 2006 Prova penale – Comportamento processuale dell’imputato Rilevanza. (1) Artt.: 24 Cost., 64, 125, 606 lett. e) c.p.p., << (omissis) la responsabilità del (omissis) è stata dimostrata con la testimonianza rese dai due passeggeri che per le linee essenziali è stata univoca. Alcune piccole discrepanze non sono indispensabili per rendere non attendibili i testi. D’altro canto il comportamento processuale dell’imputato che ha preferito non pre-

sentarsi per essere escusso, depone a favore di una ammissione della responsabilità perché è vero che l’imputato ha facoltà di non rispondere, ma è anche vero che presentandosi una occasione per dire la propria versione e non è stata raccolta, evidentemente non aveva nulla da dire in sua difesa…>>

Procedura penale

(1) La sentenza annotata contrasta con i più elementari principi del sistema processuale vigente. Invero, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di valutazione della prova, non è consentito al giudice valorizzare, ai fini della decisione, comportamenti commissivi od omissivi dell’imputato che siano manifestazioni di diritti soggettivi e facoltà processuali che l’ordinamento gli attribuisce quali espressione del diritto di difesa e di libera scelta della strategia processuale ritenuta più opportuna, strategia che ben può porsi in atto attraverso il silenzio, il quale non potrà assumere connotazioni negative (Cass., Sez. III, 26.10.1995, Flamini, in www.sentenzeonline.it). (ANTONELLO MADEO)

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Misure cautelari

MISURE CAUTELARI

<< omissis. Rilevato che detta istanza è stata presentata dopo la condanna del A, a seguito di giudizio abbreviato, per i fatti contestati con la seconda ordinanza cautelare; considerato che nella giurisprudenza formatasi sotto il codice vigente si sono delineati due indirizzi, in ordine alla possibilità o meno di dichiarare la perdita di efficacia della misura per decorrenza dei termini di custodia in fase successiva; rilevato che secondo un primo orientamento la scadenza del termine cautelare verificatasi in una fase precedente può essere dichiarata in una fase successiva (cfr. tra le altre Cass. Sez. Fer. 12.9.1991, Raso; Cass. Sez. I, 4.7.1995, Tommasello ); atteso che, invece, secondo l’opposto orientamento, l’imputato ha diritto alla scarcerazione per il decorso del termine massimo della fase e grado in cui pende il procedimento e non anche per la scadenza del termine eventualmente verificatosi in una fase e grado

ormai conclusi, perché, una volta definita una delle fasi previste dall’art. 303, 1° comma c.p.p., la durata della custodia cautelare in detta fase non espande i propri effetti in quella successiva che è governata da altro autonomo termine massimo (cfr. Cass., 20.1.1997, n. 248, Micheletti; Cass., Sez. I, 13.7.1998, n. 4271; Cass., Sez. V, 19 aprile 2000, n. 2488); considerato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 26350 del 2002, hanno aderito al primo indirizzo rilevando che la scarcerazione per decorrenza termini può essere disposta in ogni stato e grado del giudizio “ora per allora”; atteso che, come evidenziato nella citata sentenza delle Sezioni Unite, la scarcerazione per decorrenza dei termini tutela un diritto primario e costituzionalmente garantito e che pertanto, deve essere disposta, senza preclusioni di sorta, in ogni stato e grado del giudizio (omissis).

P.Q.M. Visti gli artt. 299, 297 comma ,3 c.p.p. Dichiara la perdita di efficacia della misura della custodia cautelare in carcere applicata a A con ordinanza del 4.4.2006 (omissis)>>.

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Tribunale di Roma, Sezione G.I.P., dott. Vardaro, ordinanza del 5 giugno 2007. Custodia Cautelare - Sopravvenuta inefficacia per decorrenza del termine di fase a seguito di retrodatazione ex art. 297 terzo comma c.p.p. – Istanza presentata in fase successiva e dopo la sentenza di condanna – Diritto alla scarcerazione “ora per allora” - Sussistenza. Artt. 297 comma 3, 303 c.p.p..


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Misure cautelari Tribunale di Roma, Sezione Distrettuale per il riesame, Pres. Lo Surdo (Pres.), Est. Della Casa, ordinanza del 7 dicembre 2006. Misure cautelari reali – Ritardo dell’A.G. nella trasmissione degli atti al Tribunale – Irrilevanza - Omessa valutazione delle investigazioni difensive – Poteri del Tribunale. Artt.: 477 c.p.; 321, 324,; 44 lett. c) D.P.R. 380/01 <<il GIP di Velletri ha emesso il decreto di sequestro preventivo in data 11.10.06 sull’immobile sito nel Comune di Ardea in via V. angolo via M. nei confronti della ditta D., amministrata dal D. V.. A carico della ditta, committente i lavori, si ipotizzano i reati di violazione urbanistica ed edilizia, nonché reato di falso materiale con riferimento al permesso di costruire n…, apparentemente rilasciato il 23/6/05 dal dirigente UTC Arch P. Con il ricorso si chiede preliminarmente la declaratoria di inefficacia per omessa trasmissione degli atti al Tribunale del Riesame entro il termine di cui all’art. 324 comma 3 del c.p.p.; nel merito si chiede l’annullamento dei provvedimento per insufficiente motivazione e comunque per insussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora e, in subordine, la revoca parziale dei vincolo. Nella sostanza il ricorrente lamenta la insussistenza di elementi probatori idonei ad ipotizzare il reato di falso. Quanto alla prima questione si osserva che lo stesso difensore spiega -pur contestandolo nei motivi depositati- che il codice di procedura non commina alcuna sanzione all’omesso rispetto del termine di cui al comma 3 dell’art. 324 c.p.p., così come per il procedimento sul riesame dei provvedimenti restrittivi per la libertà personale. La questione proposta è dunque infondata. Come più volte enunciato dalla giurisprudenza della Suprema Corte il legislatore ha stabilito l’intervento modificativo con la L. 818195 n. 332, introducendo la declaratoria di inefficacia della misura nel comma 10 dell’art. 309 c.p.p., soltanto quanto alle misura cautela-

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ri personali, in ragione della diversa rilevanza degli interessi sottesi ( cfr. per es. Cass, sez III, 11.01.02 n. 34576). Pertanto, sarebbe illegittima una declaratoria di inefficacia pronunciata per inosservanza del termine sulla trasmissione degli atti che la legge, nel caso di riesame del sequestro, non commina. Quanto ai profili di merito del ricorso, la lettura del provvedimento deve essere integrata nella parte motiva -per espresso richiamo con allegazione al decreto- dalla richiesta di convalida del sequestro di PG e la richiesta di sequestro preventivo proposta dal P.M.. Non configura ipotesi di illegittimità del provvedimento la allegazione con rinvio quanto alla parte motiva (motivazione per relationem), qualora l’interessato sia posto nella condizione di leggere e prendere visione delle ragioni giustificative il provvedimento ( sul punto è costante la Cassazione v. per es. Cass. pen sez. V 19/3/02 n. 11191 ). In ogni caso occorre ricordare che in materia di sequestro preventivo il Tribunale investito del riesame del provvedimento è legittimato ad integrare la motivazione eventualmente carente del provvedimento impugnato a differenza che nel sequestro probatorio - ( sul punto cfr. Cass pen. Sez. I n. 244/99; Cass. Pen. N. 4460 del 18/12/95 ). Nel corso delle indagini preliminari, la Procura di Velletri ha preso atto del sequestro di PG operato di iniziativa, ed ha evidenziato alcune importanti irregolarità del titolo abilitativo alla realizzazione dello stabile comprensivo di 24 appartamenti realizzato dalla ditta: il rilascio dei titolo abilitativo in contrasto con le norme di PRG; il disconoscimento della firma


apposta sul titolo da parte dell’Arch. P.; a ciò si aggiunge un successivo verbale di s.i.t. del D. A. G., che nega di avere mai inoltrato la richiesta di permesso di costruire -come risulta sul titolo abilitativo, che esordisce con le parole “Vista la domanda registrata dal Signor D. G. in qualità di proprietario....’ e nega di essere mai stato proprietario dell’area, ammettendo soltanto di aver avviato alcune trattative per l’acquisto dell’area, mai portate a compimento. Come noto il provvedimento cautelare si giustifica quando sussistano i requisiti del fumus con riferimento ai reati oggetto di indagine e il periculum in mora con riferimento alla libera disponibilità del bene. Sulla scorta dell’indagine sin qui svolta si ipotizzano correttamente i reati di illecito urbanistico ed edilizio, conseguenti alla illegittimità ed illiceità del titolo abilitativo. Il Tribunale del Riesame del resto, non può che valutare la astratta configurabilità dei reati oggetto di indagine, alla fattispecie concreta che ruota attorno alla realizzazione dell’immobile. La verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del Tribunale del Riesame non può tradursi in una anticipa-

ta decisione sulle questioni di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione sulla sussistenza di gravi indizi (Cass. S. U. 4/5/00 n. 7, Mariano). Con riferimento al periculum in mora, esattamente il GIP invoca sia la necessità di interrompere l’attività edilizia illecita, in corso (alcuni dei singoli appartamenti sono stati compromessi in vendita e dunque si profilano -all’atto della stipula- reati di falso in atti pubblici per induzione in errore del Notaio rogante), sia in ogni caso l’aggravio del carico urbanistico che deriverebbe dall’utilizzazione della struttura secondo la prevista destinazione d’uso. Invero, anche a voler ritenere l’avvenuta ultimazione dell’opera, persiste la necessità di tutelare l’assetto territoriale ed urbanistico del territorio, turbato non solo dalla realizzazione di abusi edilizi ma anche dalla domanda di servizi ed infrastrutture destinata appunto ad aggravare il carico urbanistico. Pertanto il provvedimento impugnato deve essere confermato>>.

La Suprema Corte (Cass. Sez. III, Pres. dott. PAPA, cons. rel. dott. DE MAIO, udienza del 6.6.2007, sentenza depositata il 7.8.2007, n. 619) sul ricorso proposto dall’indagato, sentite le conclusioni del P.G. dr. IZZO che ha chiesto il rigetto del ricorso, ha annullato con rinvio la rassegnata ordinanza del Tribunale del riesame, con motivazione particolarmente attenta alle prerogative della difesa, che si reputa interessante riportare.

<<…Tali censure sono nel loro complesso fondate, in quanto il Tribunale – in un caso, come quello in esame, di particolare rilevanza e complessità – ha limitato il suo intervento, quanto al fumus dei reati ipotizzati, a poche e generiche osservazioni, in sostanza a una sola proposizione, per di più apodittica (“sulla scorta dell’indagine sin qui svolta si ipotizzano correttamente i reati di illecito urbanistico ed edilizio, conseguente alla illegittimità ed illiceità del titolo abilitativo”); nemmeno un cenno alle numerose deduzioni difensive (che sono sopra state riportate proprio nella prospettiva che qui di seguito sarà chiarita), all’attività in genere svolta dalla difesa, alle investigazioni difensive, alla perizia grafologica di parte prodotta…, al punto che deve riconoscersi essere vero che nell’ordinanza impugnata si ravvisa “il più totale disinteresse del giudicante per la produzione documentale difensiva”. Né tale abulia investigativa può essere anco-

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Misure cautelari


Procedura penale

Misure cautelari rata, come ha fatto l’ordinanza impugnata, all’insegnamento di questa Corte Regolatrice (SS. UU. 4.5.2000 n. 7, Mariano), secondo cui la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del Tribunale del Riesame non può tradursi in una anticipata decisione sulle questioni di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione sulla sussistenza di gravi indizi. Interpretare tale principio, di innegabile esattezza, nei riduttivi termini intesi dal Tribunale nella vicenda in esame significa negare il controllo di legalità del Tribunale del Riesame, svilirne la funzione di garanzia, fino a confinarla in un ambito di acritica, e per ciò inaccettabile, accettazione dell’impostazione di una delle parti, il P.M. Il Tribunale ha, in particolare, del tutto trascurato che, se è indiscutibilmente vero che la funzione del giudice del Riesame è quella di stabilire la astratta configurabilità del reato ipotizzato, tale astrattezza non va intesa nel senso di una limitazione dei poteri del giudice a una mera presa d’atto della tesi accusatoria che non comporti lo svolgimento di alcun’altra attività, ma determina soltanto l’impossibilità di esercitare una verifica in concreto della sua fondatezza. Ciò significa che il Tribunale non deve, come si è soliti affermare, instaurare un processo nel processo, ma che, in rigoroso parallelismo, neppure può abdicare al potere-dovere, proprio della giurisdizione, di espletare, come si diceva, il controllo di legalità, sia pure, in considerazione della natura ed entità della fase, nell’ambito delle indicazioni di fatto offerte dal P.M. In altri termini, il Tribunale – chiamato ad esercitare la sua funzione decisoria su un provvedimento emesso da un altro giudice – deve ripercorrerne, con pari ampiezza di cognitio, il vaglio critico in ordine al materiale indiziario e al suo collegamento con i fatti enunciati. Ciò significa che il ruolo di garanzia che è proprio del Tribunale del Riesame non può essere svolto senza tenere nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta e senza esaminare l’integralità dei presupposti che legittimano il sequestro. È proprio alla natura ed entità della fase in cui si inserisce il procedimento incidentale che deve conformarsi il limite, di indubbia delicatezza, del grado e livello della conoscenza che, come si diceva, non potrà essere quella approfondita e completa del giudice del merito, senza che ciò comporti l’ignoranza delle prospettazioni difensive. In considerazione della molteplice varietà dei casi pratici, non è possibile formulare un principio-limite di ordine generale, valido cioè in relazione a tutti i casi concreti. Si può ben dire che il livello di conoscenza è rimesso alla sensibilità del giudice necessariamente, per un verso, attenta alle esigenze di giustizia di cui è portatore il PM e, per l’altro, non ignara delle esigenze difensive. Ne deriva che, come indicazione di ordine generale, può dirsi che l’indagine dovrà, in sostanza, aderire alle grandi linee della prospettazione del PM, ma non potrà ignorare le contro-deduzioni della difesa, sia pure nei termini di sommarietà e provvisorietà propri della fase delle indagini preliminari. Da tali principi si è discostata l’ordinanza impugnata che, avendo del tutto trascurato le argomentazioni difensive quanto al fumus dei reati ipotizzati, va annullata con rinvio allo stesso Tribunale che, nel conseguente giudizio, si uniformerà ex art. 627 c. 3 c.p.p. a quanto qui enunciato>>.

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<<sulla richiesta di riesame presentata il 28-2-07 nell’interesse di D. V. R., avverso il decreto di sequestro preventivo emesso in data 15-2-07 dal G.I.P. del Tribunale di Velletri. Il Tribunale, sciogliendo la riserva formulata all’udienza del 13-3-07, osserva quanto segue. Con il provvedimento in epigrafe, il G.I.P. accoglieva l’istanza di convalida del sequestro di P.G., e di emissione di decreto di sequestro preventivo, formulata dal P.M. nell’ambito del procedimento penale instaurato nei confronti dell’odierno ricorrente e di M. A. in relazione al reato di cui all’art. 44 lett. b) d.P.R. 380/01, per aver realizzato - in totale difformità dal permesso di costruire e successiva sanatoria rilasciati dal comune di Anzio - un villino plurifamiliare con trasformazione degli otto garage in altrettante cucine (con predisposizione degli impianti idrici e termici, di scarico, del gas, con realizzazione di dislivelli ed apposizione di infissi impeditivi dell’ingresso dei veicoli, e con realizzazione di un’altezza di m. 2,7 in luogo di m. 2,40: in tal modo, veniva incrementata la superficie residenziale del villino di mq 140 e il volume di mc 65 circa). Nella motivazione, il G.I.P. recepiva integralmente le valutazioni e le conclusioni formulate nella richiesta del P.M., il quale aveva evidenziato: - che altro abuso, che aveva determinato un sequestro nel luglio 2006, era stata sanata con provvedimento emesso nel mese di dicembre; - che la trasformazione aveva riguardato tutte le abitazioni, le quali risultavano tutte prive di predisposizioni degli

impianti della cucina in locali diversi dal garage; - che ciascun garage aveva un’altezza di 30 cm superiore a quanto assentito, appunto per dare l’altezza dei locali residenziali; - che erano stati così realizzati mq 594 di superficie residenziale in luogo dei possibili mq 450, con superamento degli standard urbanistici; - che secondo quanto riferito dall’unica persona già abitante uno degli appartamenti, gli impianti cucina erano installati in garage già in occasione del primo accesso al cantiere; - che era stato in tal modo (ovvero con un ulteriore aumento di cubatura rispetto al provvedimento di condono del dicembre 2006) realizzato un aumento del carico urbanistico. Dopo aver richiamato - ai fini del fumus il contenuto del verbale di sequestro e degli allegati, il G.I.P. sosteneva la sussistenza di esigenze preventive anche in considerazione della non ultimazione definitiva del manufatto. Avverso tale provvedimento, il difensore del D. V. proponeva richiesta di riesame, evidenziando (anche attraverso allegati e motivi aggiunti depositati all’odierna udienza camerale): la mancanza di adeguata motivazione e l’insufficienza della relatio operata in riferimento alla richiesta del P.M.; l’insussistenza del fumus del reato contestato, non potendosi in particolare desumere detto requisito dalla mera predisposizione degli impianti o degli infissi, né dal dislivello rispetto al piano di campagna; l’insussistenza di esigenze preventive, anche in relazione all’avvenuta ultima-

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Procedura penale

Tribunale di Roma, Sezione Distrettuale per il riesame, Pres. Lo Surdo (Pres.), Est. Della Casa, ordinanza del 7 dicembre 2006. Misure cautelari reali – Violazioni della legge edilizia – Variazione di destinazione d’uso ai sensi dell’art. 44 D.P.R. 380/01 – Finalità del sequestro preventivo nelle costruzioni ultimate Artt.: 321, 324,; 44 lett. b) D.P.R. 380/01


Procedura penale

Misure cautelari zione dei lavori, non essendosi determinato alcun aumento del carico urbanistico (come del resto confermato dal fatto che l’unità abitativa già occupata non era stata sottoposta a sequestro). Su tali basi, all’odierna udienza camerale, la difesa insisteva per l’annullamento dei decreto. Le censure difensive appaiono infondate. Non può essere condivisa, anzitutto, la doglianza relativa alla nullità del decreto per insufficienza della motivazione: il rinvio operato dal G.I.P. all’assai articolata richiesta del P.M., e alle risultanze del verbale di arresto e relativi allegati, deve ritenersi sufficiente ai fini predetti, salva la possibilità delle opportune integrazioni da parte del Collegio investito del riesame. Infondato appare anche il rilievo di fondo operato in ordine alla sussistenza del fumus, secondo cui la valorizzazione della mera predisposizione degli impianti, degli infissi ecc., e dello stesso dislivello rispetto al piano di campagna, darebbe luogo ad una sorta di processo alle intenzioni, essendo tra l’altro del tutto lecito adibire i locali garage a caldaia o lavanderia, e quindi predisporre e realizzare a tal fine i necessari impianti. Risulta decisivo, al riguardo, il rilievo degli operanti concernente l’assenza, in tutte le unità abitative, di predisposizione di impianti per la cucina in locali diversi dal garage: ciò che evidentemente esclude - a meno di voler ipotizzare una realizzazione e vendita, da parte del D. V., di appartamenti privi di cucina - la fondatezza della tesi difensiva, secondo cui quanto rilevato nei garage era in realtà finalizzato all’utilizzo dei garage come caldaia o lavanderia. Né può ritenersi che la situazione apprezzata dagli operanti fosse ancora in divenire o comunque suscettibile di modificazioni, attesa

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la dichiarazione di completa ultimazione dei lavori in data 22-12-06, presentata dal M. al comune di Anzio in data 3-1-07. Deve quindi ritenersi pienamente sussistente il requisito del fumus del reato urbanistico così come ipotizzato dal Pubblico Ministero. Quanto poi alle esigenze preventive, ritiene il Collegio del tutto pertinente e condivisibile il richiamo operato dal P.M., nella propria richiesta di emissione del decreto, alla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui, oltre alla valutazione dell’incremento dei carico urbanistico secondo le indicazioni fornite dalle Sezioni unite (sent. 29-1-03, Innocenti), è necessario aver riguardo alle ulteriori situazioni illecite prodotte dalla libera disponibilità della cosa, tra le quali - e nonostante non possa ormai più parlarsi di “agevolazione alla commissione di ulteriori reati” - l’abitazione di edifici sforniti del certificato di agibilità (cfr. Cass., Sez. III, 5-7-05, Cappa; Sez. III, 21-1-05, D’Amario). In tale prospettiva, ritiene il Collegio che l’aumento di superficie residenziale in ben otto unità abitative, per un totale di oltre 140 mq nell’ambito del medesimo immobile, dia luogo ad un aumento del carico urbanistico di sicura rilevanza ai fini che qui specificamente interessano. Per altro verso, la misura reale disposta dal G.I.P. appare tuttora pienamente giustificata nell’ottica interpretativa appena richiamata dalla necessità di impedire che anche le altre sette unità abitative realizzate abusivamente dal D. V., e perciò incommerciabili, siano in concreto utilizzate ed abitate (non per lottava, occupata da B. R. in vista del rogito e non sottoposta a sequestro: cfr. pag. 25 del fascicolo processuale). Le considerazioni svolte impongono la conferma del provvedimento impugnato>>.


Misure cautelari

<< Il Tribunale, sciogliendo la riserva formulata all’udienza del 14-5-07, osserva quanto segue. In data 13-9-06, personale della Guardia di Finanza (compagnia di Pomezia) procedeva al sequestro di iniziativa dell’immobile sito in Ardea via… di proprietà di D. V. G., rilevando (dai certificati dell’Ufficio Urbanistica del comune) la sussistenza del vincolo dell’uso civico, e riscontrando il mancato rispetto del vincolo stradale ed una serie di difformità strutturali dal permesso di costruire ottenuto dal D. V.. Sempre in data 13-9-06, gli operanti procedevano ad altro sequestro di iniziativa in Ardea, questa volta nell’ambito di un complesso esafamiliare di villini, riscontrando la realizzazione di cubatura eccedente quella consentita nel permesso di costruire rilasciato a D. V. R. In particolare, dopo aver ispezionato l’unico villino in quel momento abitato (ed aver così rilevato la trasformazione del posto auto in cucina abitabile, camera, disimpegno e bagno, nonché la realizzazione di ulteriori volumi - due camere e bagno - al piano interrato, adiacenti alla cantina, e la trasformazione della parte interrata non residenziale in sala hobby), i Finanzieri ritenevano di non sottoporre a sequestro il predetto immobile, né gli altri due verosimilmente abitati ma non ispezionati per mancanza di abitanti: il vincolo ablativo veniva invece apposto sugli altri tre villini, per i quali risultava “l’aumento di cubatura mediante trasformazione del posto auto coperto attraverso tamponatura ed infissi, dei quali però non è stato possibile accertare la destinazione”. In data 15-9-06, il P.M. richiedeva la convalida dei sequestri di iniziativa, contestando a

D. V. G. e D. V. R. i reati di cui: all’art. 44 lett. c) d.P.R. 380/01 (per aver realizzato in area vincolata gli interventi - sopra richiamati - in “difformità essenziale” dal permesso di costruire, ed in particolare, quanto a D. V. R., «per aver incrementato la cubatura residenziale assentita trasformando i locali cantina e il garage in locali residenziali con impianti elettrici idrici igienici»); nonché - sempre nell’ambito del testo unico edilizia - agli artt. 71 (esecuzione delle opere in questione senza progetto esecutivo e senza tecnico abilitato), 72 (omessa denuncia ex art. 65), 73 (omesso adempimento della prescrizione di cui all’art. 66), 75 (utilizzo delle opere prima del certificato di collaudo) e 95 (omesso avviso e mancata autorizzazione, trattandosi di zona sismica). Infine, il P.M. contestava ai D. V. il reato di cui all’art. 181 d.l.vo 42/04, per aver realizzato i lavori predetti in assenza di nulla osta, pur trattandosi di bene vincolato per l’esistenza dell’uso civico. Con un provvedimento motivato unicamente attraverso un integrale rinvio a quanto osservato dal P.M. nella propria richiesta, il G.I.P., in data 22-9-06, convalidava il sequestro di iniziativa e disponeva il richiesto sequestro preventivo. Avverso tale provvedimento, la difesa dei D. V. proponeva richiesta di riesame, che veniva accolto da questo Collegio con ordinanza del 26-10-06. In particolare, quanto a D. V. R., l’annullamento del decreto veniva disposto non solo per esser venuto meno il vincolo da uso civico (essendo stata interamente versata la somma stabilita per l’affrancazione), ma anche perché il sequestro era stato apposto su beni (tre dei sei villini) non ispezionati dagli

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Procedura penale

Tribunale di Roma, Sezione Distrettuale per il riesame, Pres. Taurisano (Pres.), Est. Pazienza, ordinanza del 14 maggio 2007. Misure cautelari reali – Reiterazione del sequestro preventivo in violazione al c.d. giudicato cautelare - Annullamento Artt.: 321, 324,; 44 lett. c), 71, 72, 73, 75, 95 D.P.R. 380/01, 181 D.L.vo 42/04


Procedura penale

Misure cautelari operanti, e che pertanto l’incolpazione di aver realizzato un aumento di cubatura “trasformando i locali cantina e il garage in locali residenziali con impianti elettrici idrici igienici” risultava priva di qualsiasi supporto dimostrativo, salvo una sorta di “assimilazione” ai rilievi operati nell’unico villino ispezionato. In data 13-3-07, il P.M. formulava al G.I.P. nuova richiesta di emissione di decreto di sequestro preventivo, sostenendo che in data 3-11-06 la Guardia di Finanza aveva ultimato le verifiche ai singoli villini, unitamente a personale dell’ufficio tecnico comunale. In ordine al fumus del reato di cui all’art. 44 lett. b (unico contestato a D. V. R.), il P.M. rilevava - sulla scorta degli ulteriori accertamenti espletati - che la chiusura dei posti auto e la loro trasformazione in locali residenziali aveva di fatto comportato la trasformazione del manufatto in qualcosa di completamente diversa da quanto era stato autorizzato: era stato realizzato un incremento abusivo di superficie pari a mq 163, e dunque un’edificazione pari al doppio dell’assentito (mq 353 in luogo di 189), con aumento degli standards di piano (aumento di mq 120 dei limiti tabellari). Con il provvedimento in epigrafe, il G.I.P. accoglieva l’istanza, riportandosi all’originario verbale di sequestro d’iniziativa del 13-906 “in riferimento al procedimento n. 6049/06 R.G.N.R. nei confronti di D. V. R., e di D. V. G., entrambi residenti ad Ardea in relazione ai reati di cui all’allegato foglio”: e ciò non solo per l’individuazione dell’oggetto del sequestro, ma anche per l’enunciazione del fumus, evincibile secondo il G.I.P. da una (non meglio identificata) “informativa in atti e dai suoi allegati (in particolare, dallo stesso verbale di sequestro e dai rilievi fotografici)”. Quanto alle esigenze preventive, il G.I.P. riteneva la loro sussistenza richiamandosi alla categoria dei “reati di pericolo presunto”. Avverso tale decreto, proponevano richiesta di riesame i difensori del D. V. R., nonché - in proprio, quali proprietari degli immobili – D. L., V. M., P. L., S. L. e M. C. Nel corso del-

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l’udienza camerate, in cui i procedimenti incidentali venivano riuniti per evidenti ragioni di connessione, i difensori rilevavano: 1) l’illegittimità del decreto per violazione del bis in idem, essendo stata reiterata la misura nell’ambito del medesimo procedimento in violazione del c.d. giudicato cautelare, non avendo il P.M. proposto ricorso per cassazione avverso la pronuncia di annullamento emessa dal Tribunale del Riesame; 2) la nullità del decreto per la genericità del richiamo al procedimento n. 6049/06); 3) il vizio di motivazione sul fumus e sul periculum, essendovi unicamente un rinvio ad alcuni atti del procedimento; 4) l’assenza, in ogni caso, dei richiamati presupposti per l’emissione del decreto di sequestro. Su tali basi, i difensori insistevano per l’accoglimento dei gravami, e dunque per l’annullamento del decreto del G.I.P.. I gravami sono fondati. Va preliminarmente osservato che il decreto oggetto dell’odierno procedimento incidentale contiene un riferimento alla posizione di D. V. G. che appare frutto di errore materiale, essendo il predetto indagato del tutto estraneo alle vicende per cui è causa (cfr. supra). Altrettanto incongrua appare la relatio, operata nella motivazione circa la sussistenza del fumus, alle risultanze dell’originario sequestro di iniziativa, con una completa pretermissione delle ulteriori attività di indagine e delle argomentazioni svolte dal P.M. - proprio sulla scorta degli esiti di tale attività - a sostegno della nuova richiesta. Anche a voler ritenere superabile tale discrasia motivazionale, alla luce dei noti principi in tema di poteri integrativi sussistenti in capo al Collegio investito del riesame del sequestro preventivo, deve peraltro osservarsi, con specifico riguardo alla censura difensiva sopra riassunta sub 1): - che l’annullamento del precedente decreto di sequestro preventivo è stato disposto - come sopra rappresentato per ragioni di ordine sostanziale (carenza di elementi dimostrativi del fumus),


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con conseguente necessità, per il P.M. richiedente, di proporre ricorso per cassazione onde evitare la formazione del c.d. giudicato cautelare, e la conseguente impossibilità di reiterare il sequestro, salva la sopravvenienza di ulteriori elementi idonei a far ritenere_ sussistente_ un mutamento della situazione valutatain sede di annullamento; che il P.M., ponendosi nell’ottica da ultimo citata, ha reiterato l’istanza di sequestro sulla scorta delle ulteriori attività investigative, sostenendo che la Guardia di Finanza, in data 3-11-06, “ultimava le verifiche ai singoli villini’ (cfr. pag. 2 della richiesta); che tale assunto non appare in linea con le risultanze acquisite, da cui emerge inequivocabilmente l’ispezione di soli tre villini; che in particolare, dal verbale 23-1006, emerge (pag. 2) che “gli operanti hanno avuto modo di effettuare operazioni di ricognizione su di un solo villino in quanto si è scelto di operare in modo meno invasivo possibile onde non arrecare danni eccessivi agli immobili in parola il villino di che trattasi dovrebbe avere numerazione 10A”. Per altro verso, dal verbale di perquisizione delegata del 3-11-06, emerge (pag. 2) che “gli operanti hanno avuto modo di effettuare operazioni di ricognizione su due dei villini, contraddistinti dai civici 10/8 e 10/C, in quanto le rimanenti porzioni immobiliari risultano attualmente nella disponibilità di terzi”; che la mancata ispezione di tutti i villini oggetto di sequestro determina, inevitabilmente, la riemersione - quanto agli immobili tuttora mai sottoposti a valutazione tecnica - dei medesimi profili di censura posti alla base della precedente pronuncia di annullamento di

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questo Collegio (cfr. supra); che inoltre - ed anzi soprattutto, rispetto alla censura sub 1) - gli atti di indagine non consentono in alcun modo di stabilire se i villini ispezionati coincidano, in tutto o in parte, con quelli precedentemente sottoposti a sequestro. Su tale aspetto - com’è ovvio decisivo, al fine di stabilire l’effettiva sussistenza, ed eventualmente i limiti, del bis in idem denunciato dalla difesa - nessuna indicazione è possibile trarre direttamente dall’analisi degli atti inviati a seguito della richiesta di riesame, né, indirettamente, dall’esame del fascicolo trasmesso in occasione della precedente procedura incidentale (fascicolo non richiamato dal P.M. nella nuova trasmissione ex art. 324 comma 3 c.p.p., e tuttavia acquisito nel corso dell’udienza camerale, nulla opponendo le difese). Va anzi sottolineato che, nell’originario verbale di sequestro di iniziativa, l’unico villino ispezionato non viene in alcun modo individuato, se non attraverso le seguenti, singolari modalità di pseudo identificazione degli occupanti: “all’atto dell’intervento gli operanti, attesa l’assenza del proprietario degli immobili, hanno potuto ispezionare solamente un villino che attualmente è in uso a tale R. M., i cui dati sono stati forniti dalla sedicente moglie” (soggetto, quest’ultimo, neppure nominativamente indicato nel verbale). Si è dunque addirittura nell’impossibilità di escludere che il villino in questione sia tra quelli ispezionati anche nella seconda fase delle indagini; che in tale situazione di assoluta incertezza in ordine alla operatività del bis in idem non può che pervenirsi, anche quanto ai villini ispezionati, ad una pronuncia di annullamento del decreto impugnato>>.

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Misure cautelari


Procedura penale

Misure cautelari Tribunale di Roma, Sezione Distrettuale per il riesame, Pres. Taurisano, Est. Pazienza, ordinanza del 26 ottobre 2006. Misure cautelari reali – Fumus boni iuris – Poteri di accertamento del Tribunale del riesame (1) – Violazioni edilizie di cui agli artt. 44 lett. c) D.P.R. 380/01 e 181 D.L.vo 42/04 (2) – Investigazioni difensive – Sequestro d’urgenza operato dalla p.g. (3) Artt.: 321, 324, 391 bis e ss. c.p.p.; 44 lett. c) D.P.R. 380/01, 181 D.L.vo 42/04 << (omissis) il Tribunale, sciogliendo la riserva formulata all’udienza del 26.10.2006, osserva quanto segue. In data 13.09.06, personale della G.d.F. procedeva al sequestro dell’immobile sito in (omissis) di proprietà di (omissis) rilevando (dai certificati dell’Ufficio Urbanistica del comune) la sussistenza del vincolo dell’uso civico, e riscontrando il mancato rispetto del vincolo stradale ed una serie di difformità strutturali dal permesso di costruire ottenuto da (omissis) (destinazione dell’intercapedine a locali con allacci idrici ed elettrici; altezza del locale commerciale inferiore al consentito; realizzazione di una piscina; mancato rispetto delle distanze dal confine nella realizzazione delle scale; copertura del lastrico solare con muratura perimetrale, vani per finestre e infissi; impianti elettrici e termici, ecc.; realizzazione di un bagno in luogo del lavatoio; assenza di solaio strutturale al piano superiore; altezza del solaio del piano interrato ad un’altezza superiore a quella assentita ed approvata). Sempre in data 13.9.2006, gli operanti procedevano ad altro sequestro di iniziativa in (omissis) questa volta nell’ambito di un complesso esafamiliare di villini, riscontrando la realizzazione di cubatura eccedente quella consentita nel permesso di costruire rilasciato a (omissis). In particolare, dopo aver ispezionato l’unico villino in quel momento abitato (ed aver così rilevato la trasformazione del posto auto in cucina abitabile, camera, disimpegno e bagno, nonché la realizzazione di ulteriori volumi – due camere e bagno – al piano interrato, adiacenti alla cantina, e la tra-

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sformazione della parte interrata non residenziale in sala hobby), i finanzieri ritenevano di non sottoporre a sequestro il predetto immobile, né gli altri due verosimilmente abitati ma non ispezionati per mancanza di abitanti: il vincolo ablativo veniva invece apposto sugli altri tre villini, per i quali risultava “l’aumento di cubatura mediante trasformazione del posto auto coperto attraverso tamponatura ed infissi, dei quali però non è stato possibile accertare la destinazione”. In data 15.9.2006 il P.M. richiedeva la convalida dei sequestri di iniziativa, contestando a (omissis) i reati di cui agli artt. 44 lett. c) D.P.R. 380/01 (per aver realizzato in area vincolata gli interventi –sopra richiamati – in “difformità essenziale” dal permesso di costruire); nonché – sempre nell’ambito del testo unico edilizia – agli artt. 71 (esecuzione delle opere in questione senza progetto esecutivo e senza tecnico abilitato), 72 (omessa denuncia ex art. 65), 73 (omesso adempimento della prescrizione di cui all’art. 66), 75 (utilizzo delle opere prima del certificato di collaudo) e 95 (omesso avviso e mancata autorizzazione, trattandosi di zona sismica). Infine, il P.M. contestava a (omissis) il reato di cui all’art. 181 D.l.vo 42/04, per aver realizzato i lavori predetti in assenza di nulla osta, pur trattandosi di bene vincolato per l’esistenza dell’uso civico. Analoghe imputazioni venivano formulate nei confronti di (omissis): in particolare, quanto all’art. 44 lett. c) D.P.R. 380/01, veniva contestata la “difformità essenziale” dal permesso di costruire “per aver incrementato la cubatura residenziale assentita trasformando i locali cantina e il garage in


locali residenziali con impianti elettrici idrici igienici”. Con il provvedimento in epigrafe, motivato unicamente attraverso un integrale rinvio a quanto osservato dal P.M. nella propria richiesta, il G.I.P. convalidava il sequestro di iniziativa e disponeva il richiesto sequestro preventivo. Avverso tale provvedimento, la difesa di (omissis) proponeva richiesta di riesame, formulando alcune eccezioni formali in ordine alla notifica del provvedimento – cui peraltro rinunciava nel corso dell’udienza camerale – e contestando, anche attraverso ampia produzione documentale e consulenze di parte, la sussistenza sia del fumus dei reati contestati, sia delle esigenze preventive ravvisate dal P.M. e recepite dal G.I.P. Il gravame è fondato. Deve invero osservarsi che, se è vero che il Tribunale investito del riesame di un provvedimento di sequestro deve limitarsi, quanto al fumus, alla verifica dell’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato, è anche vero che detta valutazione deve essere effettuata sotto il profilo della congruità degli elementi fattuali rappresentati dall’A.G. procedente, in quanto il presupposto de quo deve essere sempre riferito “ad un’ipotesi ascrivibile alla <<realtà fattuale>> , e non a quella <<virtuale>>” (in tal senso cfr. Cass., Sez. un., 20.11.96, imp. Bassi); in tale prospettiva, la Suprema Corte ha escluso la legittimità del sequestro nelle ipotesi in cui il reato sia ipotizzabile in base a supposti e del tutto eventuali ulteriori sviluppi delle indagini (v. al riguardo Cass., 17.2.03, imp. Parrella). Da ultimo, si è ulteriormente precisato che “la verifica delle condizioni di legittimità da parte del Tribunale non può tradursi in una anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità dell’indagato in ordine al reato oggetto di indagine, ma deve limitarsi a un controllo di compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata, mediante la valutazione dell’<<antigiuridici-

tà>> penale del fatto così come contestato, tenendosi conto, nell’accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti, degli elementi dedotti dall’accusa e risultanti dagli atti processuali e dalle relative contestazioni difensive” (Cass., Sez. III, 10.2.04, n. 23214, imp. Persico). Alla luce di tali condivisibili insegnamenti, ed iniziando dalle contestazioni mosse a (omissis), ritiene il Collegio che la produzione difensiva consenta di escludere la sussistenza del fumus dei reati di cui all’art. 44 lett. c) D.p.r. 380/01 e 181 D.L.vo 42/04. Infatti, il permesso a costruire rilasciato al ricorrente (doc. 5 difesa) attesta inequivocabilmente (capi da 14 a 18) l’intervenuta estinzione del vincolo, ai sensi delle leggi regionali 27.1.05 n. 6 (attributiva ai comuni di funzioni e compiti amministrativi in materia di usi civici) e 9.12.04 n. 18 (il cui art. 8 dispone che il pagamento del capitale di affrancazione estingue l’uso civico ed il conseguente vincolo paesistico). In particolare, il permesso di costruire dà atto dell’avvenuto versamento, da parte di (omissis), della somma determinata – attraverso apposita perizia redatta dall’ufficio tecnico comunale – ai fini della liquidazione dell’uso civico. È appena il caso di ricordare che il compito di questo Tribunale si concreta e si esaurisce, come chiarito dalla Suprema Corte, nel “controllo di compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata, mediante la valutazione dell’<<antigiuridicità>> penale del fatto così come contestato (cfr. Cass., n. 23214/04, cit.) senza alcuna possibilità di operare qualificazioni giuridiche diverse da quella ipotizzata dal Pubblico Ministero e fatta propria dal G.I.P. La difesa di (omissis) ha poi contestato la sussistenza del fumus degli altri reati, anche attraverso produzioni documentali (omissis). Peraltro, ritiene il Collegio che l’esame delle singole censure formulate in ordine al fumus dei vari reati ascritti sia in questa sede ultroneo, dal momento che ogni questione ineren-

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Procedura penale

Misure cautelari


Misure cautelari te la sussistenza di esigenze preventive idonee a legittimare il mantenimento in sequestro delle opere (con particolare riguardo al concreto apprezzamento dell’aumento del carico urbanistico, secondo gli insegnamenti della recente pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione) non può che postulare la sussistenza del fumus del reato specificamente relativo alla abusiva realizzazione delle opere stesse: sussistenza che, per quanto sopra osservato in relazione agli artt. 44 lett. c) e 181 d.l.vo 42/04, non può nella specie ravvisarsi. Per ciò che riguarda invece il fumus dei reati ascritti a (omissis), deve osservarsi – prima ancora del richiamo alle medesime considerazioni svolte per (omissis), risultando anche in questo caso interamente versata la

somma stabilita per l’affrancazione dell’uso civico (cfr. i capi 11 e 12 del permesso a costruire, doc. 14 difesa) – che il sequestro è stato apposto su beni non ispezionati dagli operanti, e che pertanto l’incolpazione di aver realizzato un aumento di cubatura “trasformando i locali cantina e il garage in locali residenziali con impianti elettrici idrici igienici” risulta priva di qualsiasi supporto dimostrativo, salvo una sorta di “assimilazione” ai rilievi operati nell’unico villino ispezionato. Tale modus operandi non può essere in alcun modo condiviso – basti rilevare che la difesa ha addirittura eccepito l’insussistenza, nei tre villini in sequestro, del piano interrato – ed impone l’annullamento, anche in parte qua, del decreto di sequestro preventivo per insussistenza del fumus.

Procedura penale

(1) Nell’ordinanza in rassegna il Tribunale della libertà di Roma ha annullato il decreto impositivo di un sequestro preventivo disposto su due distinti immobili, confermando i più recenti assunti - condivisi dalla giurisprudenza della Corte Regolatrice - in punto di valutazione della sussistenza del fumus boni iuris in sede di riesame. Richiamando – tra le altre - la nota sentenza “Bassi” della Suprema Corte a Sezioni Unite, il giudice del gravame cautelare focalizza la valutazione della sussistenza del fumus non già sulla realtà virtuale, bensì su quella fattuale, escludendo così la legittimità del sequestro preventivo adottato “con la speranza” di eventuali ulteriori sviluppi delle indagini (cfr. in tal senso, Cass., sez. III, 27.01.2000, Covagnuoli, in Arch. n. proc. pen. 2000, p. 271; in dottrina, ADORNO, Il riesame delle misure cautelari reali, Giuffrè, 2004, 381 ss.). Si è, a tal fine, precisato che il giudicante deve valutare la congruità degli elementi di fatto indicati dall’accusa per stabilire se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica, essendogli “soltanto inibito l’espletamento di un’attività dimostrativa della fondatezza concreta” della tesi accusatoria (Cass., SS. UU., 25.10.2000, Poggi Longostrevi, in Dir. pen. e proc., 2001, pag. 58). (2) Quanto al merito dell’ipotizzato fumus, il Tribunale de libertate attribuisce significativa valenza euristica alle indagini difensive, ritenendo così mancante nella vicenda in esame la compatibilità tra la fattispecie concreta e le contestate violazioni edilizie, in quanto, secondo le leggi regionali vigenti in materia, il pagamento del capitale di affrancazione estingue l’uso civico ed il conseguente vincolo paesistico. (3) Sotto distinto ma connesso profilo, il Tribunale del riesame romano censura la conformità a legge delle attività poste in essere dalla p.g. operante (che aveva proceduto ad effettuare rilievi descrittivi/fotografici sugli immobili sequestrati e, ritenendo sussistente il pericolo che lo stato delle cose e dei luoghi potesse essere alterato o modificato - stante l’impossibilità del P.M. di intervenire tempestivamente - aveva sottoposto gli immobili de quibus a sequestro preventivo ex art. 321 comma 3 bis c.p.p., sostanzialmente sot-

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Misure cautelari

Procedura penale

toponendo a vincolo cautelare reale un immobile non oggetto di preventiva ispezione) in maniera implicita richiamando le responsabilità del G.I.P. emittente, che in sede di convalida avrebbe dovuto effettuare un approfondito controllo sulla legittimità del sequestro preventivo. Esonerare d’altro canto il giudice adito per l’emissione del provvedimento di sequestro dall’obbligo di motivazione, assumendo che il tribunale del riesame possa sanare l’inadempienza, significherebbe snaturare la stessa funzione del rimedio, che da strumento di legalità diviene meccanismo – paradossalmente rimesso all’iniziativa dello stesso interessato - di supporto nei confronti dell’autorità procedente (Fadalti, nullità dell’ordinanza custodiale e poteri del tribunale del riesame, in arch. n. proc. pen., 1999, 189). Sulla scorta di tale assunto, la Suprema Corte ha ritenuto che “la nullità del provvedimento per omessa indicazione della esigenza del sequestro ai fini dell’accertamento dei fatti non è sanabile dal tribunale del riesame, il quale può si far valere ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione dell’atto a lui sottoposto, a condizione che l’atto in questione sia, per l’appunto, in qualche modo motivato, essendo invece tenuto ad annullare il provvedimento se esso si limiti alla constatazione che oggetto del sequestro è un corpo del reato” (Cass., sez. VI, 20.05.1998, Ferroni, in C.E.D. Cass., n. 211711). (ANTONELLO MADEO)

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Procedura penale

Indagini preliminari e udienza preliminare

INDAGINI PRELIMINARI E UDIENZA PRELIMINARE Tribunale di Roma, Sez. VII, in composizione monocratica, sentenza 8 febbraio 2007 Divieto di un secondo giudizio – Decreto che dispone il giudizio – Successivo decreto di archiviazione per il medesimo fatto e nei confronti della stessa persona – Preclusione alla continuazione dell’azione penale nel primo procedimento – Sussistenza (1) Artt. 649 e 409 c.p.p. È da riconoscersi efficacia preclusiva al provvedimento di archiviazione intervenuto successivamente all’emissione di decreto di rinvio a giudizio per il medesimo fatto e nei confronti della stessa persona. (Nella fattispecie la medesima querela aveva dato impulso a due procedimenti paralleli. Il primo sfociava in un decreto di rinvio a giudizio; il secondo, iscritto in epoca successiva, veniva invece archiviato per infondatezza della notizia di reato con provvedimento di data posteriore

alla emissione del menzionato decreto che disponeva il giudizio. Nel corso del dibattimento relativo al primo procedimento il giudice, appresa l’esistenza del parallelo procedimento conclusosi con l’archiviazione, riconosceva a tale sopravvenuto provvedimento efficacia preclusiva all’utile prosecuzione dell’azione penale, richiamando in motivazione quanto affermato da SS.UU., 28 giugno 2005, n. 34655, P.G. in proc. Donati).

(1) Massima di grande interesse giacché, pur richiamando il noto intervento delle Sezioni Unite del 2005, sembra discostarsene nella parte in cui riconosce efficacia preclusiva ad un provvedimento di archiviazione per il medesimo fatto e nei confronti della stessa persona intervenuto successivamente all’esercizio dell’azione penale in un procedimento parallelo. La giurisprudenza del Supremo Collegio, invece, ha sempre riconnesso l’operatività del divieto di bis in idem alla decisione di epoca anteriore, con conseguente dovere per il giudice del secondo procedimento di dichiarare in ogni stato e grado del giudizio pronuncia di non doversi procedere. Circa l’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione, oltre alla sentenza richiamata in motivazione, v. Corte Cost., 19 gennaio 1995, n. 27; Cass. SS.UU., 22 marzo 2000, Finocchiaro, in C.E.D. Cass., n. 216004. (Giacomo Satta) Tribunale di Roma, Sez. VI, in composizione collegiale, Pres. Barbarinaldo, ordinanza del 27 ottobre 2004. Udienza preliminare – Richiesta rito abbreviato condizionato – Rigetto della richiesta e contestuale pronuncia del decreto che dispone il giudizio – Nullità del decreto – Sussistenza. Art. 438 c.p.p.

“omissis Il Tribunale sulla eccezione di nullità dell’udienza preliminare sollevata dal difensore, rilevato che, come risulta dai processi verbali dell’udienza preliminare contenuti nel fascicolo del P.M., nell’udienza del 28.5.2004 il GUP, su richiesta di giudizio abbreviato condiziona-

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Indagini preliminari e udienza preliminare to avanzata dall’imputato, effettivamente si ritirò in camera di consiglio e, prese le sue decisioni, rigettò la richiesta dell’imputato, nello stesso contesto ordinando il rinvio a giudizio del medesimo senza che tanto l’accusa quanto la difesa avessero rassegnato le proprie conclusioni e richieste; considerato che il decreto che dispone il giudizio risulta deliberato senza che alle parti fosse stato consentito, ai sensi dell’art. 421 c.p.p., discutere e concludere; che tale violazione dell’art. 421 c.p.p. si concreta nella violazione dell’art. 178 lett. B) e C) c.p.p., in quanto integra violazione dei diritti dell’accusa e della difesa; che dunque il decreto che dispone il giudizio risulta affetto da nullità, la quale è stata tempestivamente dedotta, P.Q.M. ai sensi dell’art. 185 c.p.p. dichiara la nullità per le ragioni di cui sopra del decreto che dispone il giudizio, ordina la trasmissione atti al GUP in sede perché sani la rilevata nullità”. Tribunale di Velletri, GUP dott. Audino, ordinanza del 20 novembre 2006 Udienza preliminare – Rito abbreviato – Istanza di rinvio per legittimo impedimento – Rigetto dell’istanza e contestuale revoca dell’ordinanza di ammissione al rito speciale – Prosecuzione con rito ordinario.(1) Artt. 420-ter e 438 c.p.p.

(1) Sulla mancata previsione normativa circa il potere del giudice di revocare l’ordinanza di ammissione al rito abbreviato condizionato cfr. Cassazione penale, sez. II, 13 aprile 2007, n. 15117: “ La scelta del rito abbreviato è tendenzialmente irrevocabile, anche se la violazione di questa regola non è assistita da una sanzione specifica (cfr. Cass. Sez. 1^, sent. n. 3600 dep. il 9 agosto 1996), e trova la propria attuazione nel principio secondo cui l’imputato ha comunque diritto alla diminuente di un terzo se sussistevano i presupposti per procedere con rito abbreviato. Non è dunque possibile supporre che il giudice, una volta ammesso il rito alternativo, lo possa revocare indipendentemente da una qualsiasi manifestazione di volontà dell’imputato. È proprio il pericolo di questa sovrapposizione della volontà del giudice a quella dell’imputato che risiede alla base delle recenti pronunce che hanno utilizzato la nozione di abnormità per sanzionare la revoca dell’ordinanza di ammissione del rito ad iniziativa esclusiva del giudice (cfr., oltre il precedente citato, anche Cass. Sez. 1^, sent. n. 17317 dep. il 14 aprile 2004). Nè può disegnarsi, alla stregua del diritto vigente, una norma speciale per l’abbreviato condizionato, anche quando l’integrazione probatoria non possa aver luogo per circostanze imprevedibili e sopraggiunte, perchè comunque non sarebbe concepibile una revoca unilaterale da parte del giudice, che presuppone valutazioni di opportunità esclusivamente pertinenti alla persona dell’imputato”. (ALESSIA SANGIORGIO)

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Procedura penale

“omissis il P.M. si oppone sulla istanza di rinvio per legittimo impedimento. Il GUP stante l’assenza di tutti i difensori di fiducia rigetta l’istanza di rinvio per legittimo impedimento poiché i procedimenti indicati nell’istanza provengono da udienze celebrate in altro giorno in data successiva al 3/05/06 nella quale già fu disposto il rinvio a giudizio P.Q.M. revoca l’ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato, dispone stralciarsi la posizione di (omissis) per cui si procede al rito del patteggiamento come da stampato che si allega e dispone quindi procedersi oltre con il rito ordinario per gli altri”


Indagini preliminari e udienza preliminare Tribunale di Velletri, GUP dott.ssa Ilari, ordinanza del 27 ottobre 2006 Udienza preliminare – Richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’escussione del coimputato in procedimento connesso – Rigetto per mancanza del requisito della necessità e insussistenza per il testimone dell’obbligo di rispondere – Assenza del teste in aula (1) Art. 438 c.p.p. Il PM. si oppone alla condizione dell’esame della coimputata Il GUP sulla richiesta di abbreviato condizionato, rilevato che l’integrazione probatoria non è necessaria ai fini della decisione anche in considerazione del fatto che non è stata indicata la specifica circostanza sulla quale la teste dovrebbe rispondere e considerato altresì che la stessa riveste la qualità di originaria coindagata nei cui confronti è stata emessa sentenza di NLP per perdono giudiziale, che non avendo mai reso alcuna dichiarazione non ha neppure l’obbligo di deporre ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p.; ed inoltre l’integrazione probatoria con è compatibile con le finalità di economia processuale, tenuto conto che la stessa non è presente

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P.Q.M. respinge l’istanza di abbreviato condizionato.respinge l’istanza di abbreviato condizionato.

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Procedimenti speciali

PROCEDIMENTI SPECIALI Tribunale di Velletri, Presidente Giannino, ordinanza dell’8 marzo 2007. Rinnovata richiesta di abbreviato condizionato rigettata in udienza preliminare – Ingiustificato rigetto del GUP - Requisito della economicità in relazione al mezzo istruttorio richiesto ed il materiale probatorio acquisito – Irrilevanza della facoltà di non rispondere – Accoglimento - Richiesta del P.M. a prova contraria – Rigetto (2). Art. 438 c.p.p.

P.Q.M. ammette C. al giudizio abbreviato condizionato richiesto. Il P.M. a questo punto chiede a prova contraria l’esame degli agenti operanti. Il Tribunale, ritenuto che la circostanza accertata a mezzo dei verbalizzanti e risultante delle relazioni di servizio sono state cristallizzate in tali atti e sono dunque utilizzabili in sede di abbreviato, rigetta la richiesta del P.M.

(1-2) Il difensore dell’imputato, trattandosi di imputazione ex art. 73 D.P.R. 309/90 in concorso con imputata minore giudicata con sentenza di non luogo a procedere per perdono giudiziale, aveva formulato richiesta di rito abbreviato condizionato all’esame della coimputata. Peraltro, già nella fase delle indagini preliminari, aveva ripetutamente ma invano chiesto al P.M. di sentire la minore in quanto nel procedimento a suo carico non aveva mai reso alcuna dichiarazione che potesse essere acquisita. Sul requisito della necessarietà dell’integrazione probatoria, cfr. Cassazione Sezioni Unite sent. n. 44711 del 27.10.2004: “la prova deve apparire indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico e valutativo per la deliberazione in merito ad un qualsiasi aspetto della regiudicanda” nonché Cassazione, Sez. III sent. n. 219 del 21.10.2004 secondo la quale “ai sensi del comma 5 dell’art. 438 del c.p.p. il giudice dell’udienza preliminare deve disporre il giudizio abbreviato “condizionato” solo in presenza di due requisiti dell’integrazione probatoria richiesta: la sua “necessità”ai fini del giudizio finale sull’im-

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La difesa rinnova la richiesta di rito abbreviato condizionato all’esame della teste, coimputata in procedimento connesso, richiesta non congruamente rigettata dal GUP. Il PM si oppone alla richiesta facendo rilevare che l’esame di (omissis) avrebbe comportato anche l’esame dei verbalizzanti a prova contraria e quindi snaturato il rito. Il Tribunale, ritenuto infondato il rigetto pronunciato dal GUP di Velletri con riguardo alla richiesta di abbreviato condizionato alla testimonianza della coimputata C.N. formulata dalla difesa all’udienza del 27 ottobre 2006, in considerazione della circostanza che la valutazione di economicità deve riguardare non il tempo di assunzione delle prove richieste ad integrazione ma il rapporto tra il mezzo richiesto ed il materiale probatorio già contenuto nel fascicolo del P.M.; ritenuto, altresì, che l’eventuale facoltà della coimputata di non rispondere non può condizionare l’ammissione del mezzo e la mancata indicazione delle circostanze di prova deve ritenersi superata dalla qualità di coimputata di N.C., mai sentita nel corso delle indagini, e dalle ripetute richieste formulate al PM dalla difesa già nel corso delle indagini preliminari ed in cui si evidenzia la finalità di provare l’estraneità del C. ai fatti contestatigli;


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putazione e la sua “compatibilità” con le finalità di economia processuale proprie del rito abbreviato. Il giudizio abbreviato è un rito premiale, in quanto consente la rapida definizione del procedimento penale, evitando, così, l’onerosa attività processuale connessa ai tempi lunghi dell’ordinario giudizio dibattimentale; tale ratio di economia processuale, strettamente connessa all’utilità del rito abbreviato, è stata conservata anche a seguito delle modifiche legislative introdotte con la c.d. Legge Carotti (L. 479/99); in particolare, il novellato art. 438 c.p.p., al comma 5°, nel consentire all’imputato di subordinare la richiesta di abbreviato ad una integrazione probatoria, impone al giudice, però, di rigettare la richiesta quando la stessa non sia necessaria ai fini della decisione, o quando sia incompatibile con la finalità di economia processuale propria del rito; orbene deve, senz’altro, ritenersi non necessario un atto istruttorio corrispondente ad un atto investigativo già assunto nella fase delle indagini preliminari, o comunque relativo a circostanza di fatto già approfondita in tale fase; in altri termini, l’integrazione probatoria di cui all’art. 438 c.p.p., co. 5°, non può consistere in una verifica generale degli esiti delle indagini preliminari, sotto forma di ripetizione degli stessi atti compiuti dagli inquirenti, o in un’assunzione di nuove prove su aspetti già ampiamente chiariti dalle indagini, richiedendosi, perciò, ed invece, una lacuna investigativa su oggetti essenziali della prova, o, almeno, la necessità di approfondire aspetti importanti ma scarsamente valorizzati nella fase delle indagini preliminari”. Sul punto, cfr. Ordinanza emessa il 28.09.2006 dal G.I.P. del Tribunale di Nola Dr. Aldo Polizzi: “Un’attenta lettura del complessivo quadro normativo segna, tuttavia, il limite naturale delle ulteriori acquisizioni probatorie, nel senso che esse debbano essere soltanto integrative, non sostitutive, del materiale già acquisito ed utilizzabile come base cognitiva (Cass. Sez. VI, 8 aprile 2003, Bonasera, rv 225678), ponendosi, siccome circoscritte e strumentali “ai fini della decisione” di merito, quale essenziale e indefettibile supporto logico della stessa. Ne consegue che, per l’identificazione del carattere di “necessità” della integrazione probatoria richiesta, debba farsi riferimento ad un titolo specifico della prova, più stringente di quella provvista dei tradizionali requisiti di pertinenza/rilevanza e non superfluità previsti dall’articolo 190.1 del codice di rito, a norma del quale il giudice può escludere solo “le prove vietato dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue e irrilevanti”. Il valore probante dell’elemento da acquisire, cui fa riferimento l’articolo 438.5 Cpp, va sussunto piuttosto nell’oggettiva e sicura utilità/idoneità del probabile risultato probatorio ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio, nell’ambito dell’intero perimetro disegnato per l’oggetto della prova dalla disposizione generale di cui all’articolo 187 Cpp. Di talché, la doverosità dell’ammissione della richiesta integrazione probatoria ne riflette il connotato di indispensabilità ai fini della decisione e trova il suo limite nella circostanza che un qualsiasi aspetto di rilievo della regiudicanda non rimanga privo di solido e decisivo supporto logico-valutativo.” Avverso la decisione del Giudice dell’Udienza Preliminare circa l’ammissibilità ex art. 438 c.p.p. del giudizio abbreviato condizionato all’assunzione di una integrazione probatoria, non esiste alcun mezzo di impugnazione. Ai sensi del sesto comma dell’art. 438 c.p.p., come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 169/2003, esiste però la possibilità di riproporre la stessa richiesta che il G.U.P. ha rigettato nelle formalità di apertura del dibattimento, in modo che il Giudice del Dibattimento possa valutare una seconda volta la fondatezza delle doglianze formulate dall’imputato (ALESSIA SANGIORGIO).

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Procedimenti speciali Tribunale di Roma, Sezione G.I.P., dott. ssa Agrimi, ordinanza del 6 luglio 2007. Giudizio immediato – Termine per la richiesta di giudizio abbreviato ex art. 458 comma 1 c.p.p. – Revoca del precedente difensore da parte dell’imputato in prossimità della scadenza del termine – Diritto ad un termine a difesa ex art. 108 c.p.p. per il nuovo difensore nominato Insussistenza. (1) Artt. 297 comma 3, 303 c.p.p.. difesa ha natura relativa a richiesta di proroga del termine ex art. 458 c.p.p., stabilito a pena di decadenza e quindi non prorogabile.>>

(1) Non si rinvengono precedenti negli esatti termini. Il difensore, nominato con revoca della precedente difesa, solamente alcuni giorni prima della scadenza del termine per la richiesta di eventuali riti alternativi ex artt. 458 c.p.p., nell’ambito di un delicato procedimento in cui era stato pronunciato decreto di giudizio immediato, aveva fatto richiesta di termine a difesa rappresentando l’impossibilità, data anche la mole degli atti e la gravità dell’imputazione (omicidio), di maturare, entro lo spirare del termine, una scelta consapevole, condivisa con la parte, in merito a quale opzione processuale attivare. Aveva poi comunque formulato, onde non rischiare di incorrere nella relativa decadenza, e apparendo, allo stato, la scelta più appropriata, richiesta di giudizio abbreviato. Dichiarando espressamente che la stessa non era comunque da intendersi quale rinuncia al termine, o acquiescenza, derivando esclusivamente dalla necessità di tutelare in ogni caso il proprio assistito. Il giudice, col provvedimento che si annota, ha ritenuto, in buona sostanza, inapplicabile la disciplina di cui all’art. 108 c.p.p. in pendenza del termine, risolvendosi la relativa richiesta in istanza di proroga, non ammissibile ex art. 173 c.p.p. La questione appare delicata, involgendo fortemente il diritto di difesa. È indubitabile infatti la sicura necessità della assistenza tecnica in merito alle scelte processuali derivanti dalla notifica del decreto ex art. 456 c.p.p.. Evidenziata peraltro dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 120/02 di declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 456 c.p.p. “nella parte in cui prevede che il termine entro cui l’imputato può chiedere il giudizio abbreviato decorre dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, anziché dall’ultima notificazione, all’imputato o al difensore, rispettivamente del decreto ovvero dell’avviso della data fissata per il giudizio immediato”, ove si mette in luce come tale opzione implichi “cognizioni e valutazioni squisitamente tecnico-giuridiche, estranee al patrimonio di conoscenze dell’imputato”, anche in relazione alla possibilità di proporre richiesta “condizionata” ex. art. 438 comma 5 c.p.p.. Opzione, quest’ultima, complessa sotto più profili, in fatto e in diritto, oltre che aperta ad ulteriori “complicazioni”. Si consideri, per esemplificare, l’ipotesi in cui difficilmente possa ritenersi conveniente il giudizio immediato (ad es. rischio di condanna a pena particolarmente elevata a fron-

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Procedura penale

<< Visto, Non Luogo a Procedere. Essendo stato richiesto in data odierna il giudizio abbreviato. Si rileva in ogni caso come la richiesta qualificata come di termine a


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te di indagini tendenzialmente complete), dovendosi dunque, in quel caso, valutare la possibilità - rischiosa in quanto non consente nuove modulazioni di quanto già richiesto - di attivare il sindacato del giudice dibattimentale sulla legittimità dell’eventuale rigetto da parte del Gip dell’istanza “condizionata”, ai sensi della sentenza n. 169/03 della Corte; ovvero di subordinare, nel medesimo atto, una richiesta di giudizio abbreviato “secco”, all’eventuale possibile esito negativo di quella subordinata ad integrazione probatoria (nel senso della legittimità di tale soluzione, dichiarando infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale, ex artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 458 c. 2 c.p.p., in relazione all’art. 438 c. 6, non richiamato in sede di disciplina del giudizio immediato, che consente all’imputato di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato in caso di rigetto di quella “condizionata”, C. Cost. ord.n. 273/03 in C. P. 2003 p. 3774). (EUGENIO ZINI)

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Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica

PROCEDIMENTO DAVANTI AL TRIBUNALE IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA Tribunale di Roma, Sezione Sesta in composizione monocratica, dott.ssa Campolo, ordinanza del 13 giugno 2007 Casi di citazione diretta a giudizio – Art. 2 comma 3 del D. Lvo 74/2000 - Determinazione della pena– Esclusione a tal fine delle circostanze attenuanti. (1) Art. 2 comma 3 del D. Lvo 74/2000; artt. 550 e 4 cpp delle circostanze del reato fatta eccezione di quelle aggravanti e di quelle ad effetto speciale; ritenuto altresì che per giurisprudenza costante la dicitura “quelle ad effetto speciale” si riferisce unicamente alle circostanze e aggravanti e non anche a quelle attenuanti; ritenuto che nella fattispecie in esame l’ipotesi delittuosa contestata, sia pure nella forma attenuata, comporta che il PM eserciti l’azione penale attraverso l’udienza preliminare che nelle fattispecie in esame non è stato esercitata; PQM visto l’articolo 550 comma 3 cpp dispone trasmettersi gli atti al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale mediante udienza preliminare.

(1) La decisione riprende una giurisprudenza costante sull’argomento: “L’art. 4 c.p.p., nel prevedere la rilevanza, ai fini della determinazione della competenza, delle circostanze ad effetto speciale, si riferisce unicamente alle circostanze aggravanti e non anche a quelle attenuanti.”(Cass. pen., Sez. I, 03/03/1993, Aprile e altri, Cass. Pen, 1994, 1253, Mass. Cass. Pen., 1993, fasc. 7, 107), ed in maniera più dettagliata “L’art. 4 c. p. p. esclude ogni incidenza delle circostanze attenuanti, quale che sia la loro natura, nella determinazione della competenza (la Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha evidenziato che il pronome indicativo <quelle>, usato nella parte terminale del suddetto articolo, va riferito al precedente termine <circostanze aggravanti>)”. (Cass. pen., Sez. III, 08/11/1990, Filomeno, Arch. Nuova Proc. Pen., 1991, 623) (LUCA ZENNARO)

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Preliminarmente il difensore dell’imputato eccepisce la ritualità del rinvio a giudizio mediante citazione diretta osservando che nella fattispecie in esame non è stata celebrata l’udienza preliminare [...]. Il giudice sull’eccezione avanzata dalla difesa: rilevato che ai sensi dell’articolo 550 c.p.p. il pubblico ministero esercita l’azione penale con la citazione diretta nei casi di delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni; rilevato altresì che nel medesimo articolo è previsto che per la determinazione della pena si fa riferimento ai criteri cui all’articolo 4 c.p.p. ove è espressamente previsto che non si tiene conto


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RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA

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Urbanistica

URBANISTICA Tribunale di Roma, Sez.VI in composizione monocratica, Dott.ssa M. Cipriani, Ordinanza del 14.06.2006. Urbanistica - Condono edilizio - Dichiarazione USCE di assenza di elementi ostativi al rilascio della concessione - Necessità del decorso di 36 mesi dopo l’ultimo pagamento per ottenere il condono - Richiesta di dissequestro dell’immobile - Rigetto dell’istanza (1) Art. 32 D. L. 269/03 (convertito con L.326/03) << (omissis) ritenuto che i fini del perfezionamento dell’iter amministrativo per il rilascio del condono edilizio è normativamente previsto il decorso dei 36 mesi quale elemento costitutivo; e che peraltro è doveroso il mantenersi del

sequestro probatorio in quanto l’USCE del Comune di Roma può ritenere necessario inviare i tecnici sul posto al fine di verificare la situazione di fatto e la conformità tra lo stato dei luoghi e quanto dichiarato anche al fine della dichiarazione di congruità

P.Q.M. rigetta l’istanza. (omissis) >>.

Tribunale di Roma, Sez.VII in composizione monocratica, Dott. R. Amoroso, Sentenza del19.01.2005 (depositata il 25.01.2005). Urbanistica - Condono edilizio - Assenza di elementi ostativi al rilascio della concessione - Necessità del decorso di 36 mesi dopo l’ultimo pagamento per dichiarare l’estinzione dei reati – Insussistenza (2) Art. 32 D. L. 269/03 (convertito con L.326/03)

<<(omissis) all’udienza del 18 ottobre 2004 il difensore produceva copia della domanda per il rilascio della sanatoria edilizia ex art.32 del DL 269/03 e copia delle ricevute di pagamento dell’oblazione autodeterminata ed integralmente versata. Previa sospensione del processo penale disposta anche ai sensi dell’art. 38 co.1 L. 47/85, richiamato dall’art. 32 co. 25 del DL 269/03, all’udienza del 19 gennaio 2005, veniva sentito un funzionario del competente ufficio tecnico del Comune di Monterotondo, il quale, previa verifica delle opere abusive, attestava la congruità dell’oblazione interamente versata, la mancanza di vincoli di inedificabi-

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lità, la suscettibilità delle opere abusive di ottenere il rilascio del titolo edilizio in sanatoria. Conseguentemente, con riferimento ai reati edilizi previsti dall’art. 20 della legge n.47/85 ed ai connessi reati di cui al capo b), si deve dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale, essendo gli stessi estinti ai sensi degli artt. 38 e 39 della legge n. 47/85, applicabili in forza del richiamo operato dal co.25 dell’art.32 del DL 269/03, per l’intervenuto pagamento dell’oblazione, che è stata ritenuta versata nel suo integrale importo dal Comune competente, come confermato dalla testimonianza resa dal responsabile dell’anzidetto ufficio, e tenuto


Urbanistica conto della veste di comproprietari rivestita da entrambi gli imputati e conseguente operatività dell’effetto estintivo anche per T.R., persona diversa dalla intestataria della domanda di condono (ex art. 38 L. 47/85). Invero, non si ritiene necessario attendere il decorso del termine di 36 mesi dopo l’ultimo pagamento, previsto dal co.36 dell’art.32 DL 269/03 per dichiarare l’estinzione dei reati, se attraverso gli accertamenti disposti per verificare i presupposti dell’ammissibilità della sanatoria, è risultato che l’opera è suscettibile di ottenere il condono edilizio, che l’oblazione è stata versata integralmente e determinate in modo congruo, senza infedeli dichiarazioni. Il termine di 36 mesi assume invece rilevanza solo al fine di precludere ogni ulteriore questione sulla congruità dell’importo versato a titolo di oblazione, essendo espressamente ricollegato al decorso di tale termine la prescrizione dei diritti al conguaglio (da parte del Comune) o al rimborso (da parte dell’interessato). Ciò significa che decorso tale termine senza che il Comune abbia reclamato il pagamento di conguaglio sull’oblazione autodeterminata e versata dall’interessato, i reati si

estinguono in ogni caso, nonostante eventuali errori nella determinazione dell’importo dell’oblazione versata dall’interessato. Ma se ancor prima del decorso dei 36 mesi si è accertato che l’oblazione è congrua sulla base delle verifiche doverose eseguite dal Comune e comunicate all’A.G., e che non sussistono cause ostative al rilascio della sanatoria (opera ultimata entro il 31 marzo 2003, in zona non vincolata, contenuta nei limiti volumetrici previsti dalla normativa statuale), non vi è ragione di non dichiarare immediatamente l’estinzione del reato. In tal caso, potrà quindi essere dichiarata l’estinzione del reato a norma dell’articolo 38 co.2 L.47/85, applicabile in forza del generale richiamo della normativa del vecchio condono operato dal co. 25 dell’art. 32 DL 269/03, non ravvisandosi alcuna incompatibilità con la norma di cui al co. 36 che disciplina un’ipotesi estintiva diversa, e per così dire residuale, ossia quella sopra descritta correlata all’inerzia dell’amministrazione comunale, che non abbia cioè entro il predetto termine di 36 mesi eseguito accertamenti per verificare la congruità dell’oblazione e che non abbia richiesto il versamento dei conguagli eventualmente dovuti.

(1-2) I provvedimenti in esame meritano un esame congiunto per la diversa interpretazione data dagli organi giudicanti alla normativa di cui al comma 36 dell’art.32 del D.L. 269/03 (c.d. condono edilizio). Detto comma testualmente recita: “La presentazione nei termini della domanda di definizione dell’illecito edilizio, l’oblazione interamente corrisposta nonché il decorso di 36 mesi dalla data da cui risulta il suddetto pagamento, producono gli effetti di cui all’articolo 38, comma 2, della legge 28 febbraio 1985 n.47. Trascorso il suddetto periodo di 36 mesi si prescrive il diritto al conguaglio o al rimborso spettante.” Nella prima delle decisioni in esame il Giudice, pur in presenza di una dichiarazione dell’Ufficio per il Condono Edilizio del Comune attestante la completezza della documentazione presentata a corredo della domanda di condono, l’insussistenza di vincoli

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P.Q.M. Visto l’art.531 c.p.p. DICHIARA non doversi procedere nei confronti di M.G. e T.R. per i reati ascritti perché estinti per pagamento dell’oblazione.>>


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sulla particella ove era stato realizzato il manufatto, la correttezza e congruità dei pagamenti effettuati in anticipo e a saldo anche per gli oneri concessori, l’assenza di elementi ostativi al rilascio della relativa concessione e l’impossibilità di prevedere la data del rilascio della concessione medesima, rigettava l’istanza di dissequestro dell’immobile sulla scorta di un’interpretazione assai restrittiva della normativa. Ha ritenuto infatti il giudice che la decorrenza del termine di 36 mesi dalla data da cui risulta effettuato il pagamento dell’oblazione sia elemento costitutivo della fattispecie estintiva del reato ivi prevista; sulla scorta di tale considerazione considera doveroso il mantenimento del sequestro probatorio disposto poiché, nel medesimo termine, il Comune può ritenere necessario inviare propri tecnici sul posto al fine di verificare la situazione di fatto, la conformità allo stato dei luoghi a quanto dichiarato e, conseguentemente, la congruità di quanto pagato. Di converso il secondo provvedimento esclude il decorso del termine dei 36 mesi dai requisiti necessari al rilascio della sanatoria edilizia, identificati esclusivamente nella precisa elencazione ivi riportata (opera ultimata entro il 31 marzo 2003, in zona non vincolata, contenuta nei limiti volumetrici previsti dalla normativa statuale, oltre che la congruità dell’oblazione versata) attribuendo al decorso di tale previsione temporale una valenza residuale posta a pena di decadenza dei diritti al conguaglio da parte del Comune o al rimborso da parte dell’interessato degli importi versati a titolo di oblazione. Completamente diversa appare pertanto la valutazione di tale elemento temporale all’interno della regolamentazione del condono edilizio: nell’un caso elemento costitutivo del procedimento amministrativo per il rilascio della sanatoria, con la conseguenza che l’estinzione del reato non potrà pronunciarsi se non dopo la scadenza di tale termine, nell’altro caso prescrizione temporale posta a decadenza dei diritti al conguaglio o al rimborso degli importi versati, con la conseguenza che, decorso tale termine nell’inerzia dei controlli della pubblica amministrazione, la congruità dei versamenti si deve dare per presunta ove non accertata in concreto e, pertanto, se in presenza degli altri requisiti, il reato va dichiarato estinto. La Cassazione è attestata sulla posizione più rigida e formalistica cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13773 del 06.03.2007 (“Il D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 36, convertito dalla L. n. 326 del 2003, richiede espressamente, perché si verifichi l’effetto estintivo del reato edilizio e degli altri previsti, ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 38, comma 2, oltre all’integrale pagamento dell’oblazione dovuta, anche il decorso del termine di 36 mesi dalla data in cui risulta essere stato effettuato detto pagamento. Ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 38, comma 2, invece, l’effetto estintivo della violazione edilizia e degli altri reati prevista dalla norma citata si verificava a seguito del solo pagamento della intera oblazione dovuta. Va ancora rilevato che la L. n. 47 del 1985, art. 35, comma 18 ultima parte, come modificato dal del D.L. 12 gennaio 1988 n. 2, art. 4, comma 6 convertito con modificazioni dalla L. 13 marzo 1988, n. 68, disponeva inoltre che, trascorsi trentasei mesi dalla presentazione della domanda di condono, “si prescrive l’eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettanti. Analoga disposizione è, poi, contenuta nel citato D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 36, ultima parte, convertito in L. n. 326 del 2003, con decorrenza, però, dalla data del pagamento. Si palesa, pertanto, evidente che il legislatore, nell’ultima formulazione delle disposizioni sul condono edilizio di cui al decreto legge citato, ha voluto rendere effettiva la pos-

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sibilità di verifica da parte della pubblica amministrazione competente della Congruità delle somme dovute e corrisposte dall’istante per il condono, oltre che della sussistenza delle altre condizioni richieste dalla legge, affinché detto pagamento produca l’effetto estintivo dei reati, introducendo l’ulteriore requisito sopra citato del decorso del termine di trentasei mesi dal pagamento. Decorso tale termine, infatti, un eventuale controllo tardivo in ordine alla congruità delle somme dovute si palesa superfluo, essendosi prescritto il diritto della pubblica amministrazione ad ottenere il conguaglio. Per completezza di esame deve essere inoltre rilevato che, anche in applicazione del D.L. n. 269 del 2003 e relativa legge di conversione, l’effetto estintivo del pagamento dell’oblazione sui reati prescinde dall’effettivo rilascio del permesso di costruire (cfr. sez. un. 10.1.1994 n. 72; sez. 3^, 20.11.1997 n. 10512; sez. 3^, 17.10.1997 n. 9367; sez. 3^, 26.5.1998 n. 6160). Si palesa, tuttavia, indubbio che detto effetto si produce solo se l’opera risulti effettivamente condonabile […]Va, infine, osservato che solo per effetto dell’eventuale rilascio, prima del decorso del termine di trentasei mesi, del permesso di costruire in sanatoria può ritenersi superfluo l’ulteriore decorso del termine prescritto dalla norma. Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, infatti, presuppone non solo il pagamento di tutte le somme dovute dall’istante e la verifica della loro congruità da parte dell’ufficio competente, ma altresì l’accertamento della esistenza delle altre condizioni di legge perché operi la sanatoria; sanatoria che, peraltro, sia pure in presenza di condizioni diverse, è dotata di autonomo effetto estintivo del reato per la violazione edilizia”); nponchè Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6433 del 12.01.2007 (“Invero, il D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 32, comma 36, convertito con modificazioni nella legge 24 novembre 2003, n. 326, prevede che, affinché si determini l’effetto estintivo del reato, non è sufficiente la presentazione della domanda di condono edilizio, anche se accompagnata dalla attestazione di congruità delle somme versate, ma occorre il rilascio effettivo del condono (provvedimento finale) ovvero il verificarsi di tutte le condizioni ivi indicate (presentazione nei termini della istanza di condono, oblazione interamente corrisposta, decorso di trentasei mesi dalla data da cui risulta il suddetto pagamento). Solo il verificarsi di tutte queste condizioni (compreso il decorso del termine) determina il cd. silenzio assenso, che sostituisce e produce gli stessi effetti del provvedimento positivo (ossia gli effetti di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 38, comma 2), e cioè l’estinzione dei reati indicati, sempre subordinata (ovviamente) all’accertamento da parte del giudice penale della effettiva condonabilità delle opere e della sussistenza di tutti gli altri presupposti e condizioni richiesti dalla legge. Sulla base delle disposizioni dell’ultimo condono edilizio, quindi, la semplice presentazione della domanda di condono edilizio, anche se accompagnata dalla dichiarazione di congruità delle somme versate, può determinare - sempre che si tratti di opere realmente condonabili - solo la sospensione dei processi in corso fino alla definizione della procedura relativa al rilascio del condono, e non anche l’effetto estintivo del reato, il quale si verifica - sempre che sussistano gli altri presupposti - solo dopo che sia stato rilasciato il provvedimento finale di sanatoria ovvero dopo che sia decorso il suddetto termine di 36 mesi”). (VALENTINA ANGELI)

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STUPEFACENTI Tribunale di Roma, sez. G.U.P., dott.sa Mariagiula De Marco, sent. 846/2007 del 15/03/2007 Stupefacenti – Detenzione a fine di cessione a terzi – Sussistenza Lieve entità del fatto – Esclusione Attenuante di cui al c. 7 art. 73 D.P.R. 309/90 – Esclusione Artt. 110 c.p., 73 d.p.r 309/90 <<(omissis)[…] All’udienza l’imputato Z. avanzava richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’esame del Carabiniere L. perché riferisse in ordine alla circostanza se ebbe ad essere l’imputato ad indicare agli operanti l’abitazione con la precisazione che lì sarebbero state rinvenute altra sostanza ed altre persone. La richiesta d’integrazione probatoria, con parere favorevole del PM, veniva disattesa. Lo Z. , su sua ulteriore richiesta, veniva ammesso al giudizio abbreviato allo stato degli atti. […] L’esito della consulenza tecnica confermava che le sostanze in sequestro erano derivati della cannabis, per un totale di 2440 singole dosi d’uso. […] Nessun dubbio può sussistere sulla responsabilità del prevenuto in ordine ai fatti a lui ascritti in concorso con M. e F. La quantità di sostanza rinvenuta ed il numero di dosi singole ricavabili, il materiale per il confezionamento rinvenuto nella stanza in uso all’imputato […] nonché quanto rinvenuto nelle stanza in uso agli altri coimputati […], unitamente ad ogni altra circostanza e modalità del fatto, non consentono di ritenere né la destinazione della sostanza ad un uso personale né la lieve entità del fatto. Infatti, il materiale sequestrato, di diverse tipologie e confezionamento, i bilancini di precisione, il denaro ed i coltelli con tracce di stupefacente, ma soprattutto gli appunti dall’inequivoco significato di quanto ivi scritto, relativo a conteggi e comunicazioni attinenti alla florida attività, all’evidenza dimostrano una detenzione della sostanza a fine di spaccio a terzi.

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[…]Deve concludersi per la non occasionalità della condotta del Z., sicuramente inserito con stabilità in ambienti criminali dediti al traffico di stupefacenti. […] Ed allora deve essere riconosciuta la responsabilità del prevenuto al quale, contrariamente a quanto sollecitato dalla difesa, non può riconoscersi l’attenuante sollecitata di cui al c. 7 dell’art. 73 DPR 309/90 in quanto nessun contributo risulta aver fornito l’imputato alle indagini, considerato che, comunque, dopo il rinvenimento della sostanza addosso ad una persona si procede sempre anche alla perquisizione domiciliare, che avrebbe consentito di rinvenire l’altro stupefacente. Inoltre non risulta che ai Carabinieri operanti, l’imputato abbia “confessato” il reale domicilio a fronte di quello risultante dai documenti, anzi tenuto conto delle modalità del controllo […] si deve ritenere la non occasionalità dello stesso e piuttosto che gli operanti abbiano effettuato un servizio mirato e finalizzato a riscontro di emergenze di attività infoinvestigativa. Tutto ciò consente una inequivoca lettura delle emergenze in atti in termini di assoluta assenza di qualsivoglia collaborazione. Tenuto conto quindi degli elementi tutti di cui all’art. 133 c.p. […] concesse le attenuanti generiche solo in considerazione dell’incensuratezza e della giovane età dell’imputato, diminuita la pena di un terzo ex art. 442 c.c.p., pena equa da irrogare si ritiene quella di anni 3 di reclusione ed Euro 14.000 di multa con interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni 5.>>


Stupefacenti

<< (omissis) In data 28.2.2007 ufficiali ed agenti di P.G. traevano in arresto S.D. per il reato di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90. Presentato tempestivamente in udienza l’arrestato per la convalida, il giudice convalidava l’arresto senza applicazione di misura cautelare. Alla stessa udienza, il giudice disponeva procedersi al dibattimento nelle forme del rito direttissimo. L’imputato chiedeva di essere ammesso al patteggiamento ai sensi dell’art. 444 c.p.p. nei termini di mesi otto di reclusione e euro 2.000,00 di multa; la richiesta veniva subordinata alla concessione della sospensione condizionale della pena. Il P.M. esprimeva il proprio consenso. Osserva il tribunale che allo stato degli atti si evidenziano le condizioni per l’emissione di sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. I fatti per cui è processo possono essere ricostruiti sulla base del verbale d’arresto e delle dichiarazioni rese dall’operante in udienza. È, in particolare, stato accertato che, nel corso di un servizio di osservazione posto in essere nei confronti di tale T.E. e predisposto a seguito di segnalazione da parte di fonte confidenziale, veniva notata un’autovettura Fiat Punto, con a bordo tre persone e condotta dall’imputato, avvicinarsi al negozio di termoidraulica sito in via (Omissis) ed in cui risulta prestare attività lavorativa il T. Si evince, ancora dal verbale d’arresto che l’imputato scendeva dalla macchina ed effettuava una telefonata; poco dopo, il T. usciva

da un cancello pedonale adiacente al negozio – che era chiuso – si avvicinava all’imputato ed entrava con lui nel negozio. Dopo qualche minuto, l’imputato usciva dal negozio. A quel punto, gli operanti decidevano di seguire l’autovettura, che veniva fermata poco distante. A seguito di perquisizione personale sull’imputato, veniva rinvenuta, occultata negli slip, sostanza risultata essere stupefacente del tipo cocaina avvolta in un involucro di cellophane. L’imputato ha ammesso di aver acquistato la sostanza, ma ha precisato che la stessa era stata acquistata per uso personale. Ritiene il tribunale che l’ipotesi di reato ascritta all’imputato e, precisamente, quella di detenzione a fine di spaccio di sostanza stupefacente, è da considerarsi sfornita di ogni riscontro, di talchè deve pronunciarsi sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 129 c.p.p., nonostante le parti hanno chiesto l’applicazione di una pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. Osserva, in particolare, il tribunale che, nonostante l’introduzione dell’art. 73 c. 1 bis D.P.R. 309/90, la mera detenzione di sostanza stupefacente non costituisce reato, se la detenzione medesima non è destinata allo spaccio. Il dato quantitativo – o meglio, la detenzione di sostanza in quantità superiore a quella determinata dal legislatore – rappresenta soltanto uno degli elementi da cui poter desumere la finalità di spaccio, ma non è di per sé sufficiente a far ritenere che la sostanza non fosse destinata ad esclusivo uso personale. Così come, del resto, la detenzione di quantitativo inferiore a quello indicato dalla legge non

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Tribunale di Roma (in composizione monocratica) sezione quarta, dott. Salvatore Iulia, sentenza del 01.03.2007. Stupefacenti – Elementi sintomatici della detenzione ai fini di spaccio a seguito dell’introduzione del criterio del c.d. “quantitativo minimo” – Proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. in sede di applicazione concordata della pena. Artt.: 73 c. 1 bis D.P.R. 309/90; 129, 444, 448, 449 c.p.p.;


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Stupefacenti esclude che la sostanza possa essere destinata a terzi. Nel caso in esame, il dato quantitativo si mostra del tutto neutro, ai fini della prova della destinazione della sostanza; trattasi, infatti, come accertato dalla consulenza, di cocaina contenente principio attivo pari a complessivi 2166 mg. e idoneo al confezionamento di circa 14 dosi medie singole (tenuto conto che per una dose sono necessari 150 mg.). Si tratta, in sostanza, di un quantitativo di certo compatibile con la riferita destinazione all’uso personale. Nessun altro indizio tipico della destinazione allo spaccio è stato rinvenuto.

La sostanza non era confezionata in dosi singole, che avrebbero potuto far sospettare la destinazione alla cessione, ma era riposta in un unico involucro. Indosso agli altri occupanti della vettura non è stato rinvenuto alcunché, né sono stati rinvenuti nell’autovettura e presso il domicilio dell’imputato, sottoposti a perquisizione, strumenti per la preparazione di singole dosi o altra sostanza. In conclusione, non è stato rinvenuto alcun elemento idoneo a far ritenere che la sostanza era destinata allo spaccio, di talchè si impone una pronuncia di assoluzione per insussistenza del fatto…>>.

Tribunale di Roma (in composizione collegiale) sezione quarta, dott. Stefano Meschini – Pres. – dott. Carlo Sangiorgio – Giud. - dott. Salvatore Iulia – Giud. est. -, sentenza del 6.6.2007. Detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti – Rilevanza del mero dato quantitativo ai fini della circostanza aggravante di cui all’art. 80 c. 2 D.P.R. 309/90 – Insufficienza del parametro della “saturazione del mercato” – Recidiva reiterata. Artt.: 99 c.p.; 73, 80 c. 2 D.P.R. 309/90 << (omissis) C. F., tratto in arresto il 29.5.2007 da personale CC Roma Centro, veniva presentato in data 30.5.2007 a questo tribunale in composizione collegiale per la convalida dell’arresto in relazione all’imputazione indicata in epigrafe, così come formulata dal P.M. e per il contestuale giudizio direttissimo. All’esito dell’udienza veniva convalidato l’arresto del C., cui veniva applicata la misura cautelare della custodia in carcere. All’udienza del 6.6.2007, fissata a seguito di richiesta di temine a difesa, il P. M. integrava il capo d’imputazione contestando la recidiva reiterata; l’imputato chiedeva definirsi il procedimento nelle forme del rito abbreviato ed il tribunale disponeva in conformità; si procedeva, pertanto, alla discussione, al termine della quale il P.M. ed il difensore concludevano come trascritto a verbale ed in epigrafe riportato.

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Dall’esame degli atti acquisiti al fascicolo del pubblico ministero, dalle dichiarazioni rilasciate dall’arrestato nel corso dell’udienza di convalida e dai verbali di arresto e sequestro, sono emerse piene ed incontrovertibili prove della penale responsabilità del C. in ordine al reato ascrittogli. Il giorno 29.5.2007, intorno alle ore 16,30, personale di P. G., a seguito di segnalazione da parte di fonte confidenziale, sottoponeva ad osservazione e controllo il titolare di un negozio di parrucchiere sito in via di Centocelle ….; nel corso dell’attività gli operanti notavano che la persona segnalata si trovava all’interno del negozio e che, all’esterno, in doppia fila era parcheggiata l’autovettura Audi A2 tg. Omissis… che la fonte aveva riferito essere intestata al parrucchiere. Dopo alcuni minuti di attesa i militari decidevano di eseguire una perquisizione sia nel


locale che nell’autovettura. Venivano controllate tutte le persone presenti all’interno del negozio ed il titolare veniva identificato nell’odierno imputato. Si dava, quindi, corso alla perquisizione del veicolo che, dopo numerose insistenze da parte dei carabinieri, veniva aperto dal C. con un telecomando in suo possesso; nel vano posteriore portabagagli veniva rinvenuto uno zaino contenente quattro pani di sostanza, ciascuno del peso di kg. 1, per un totale di 4 kg. lordi. La perquisizione eseguita nel negozio e sulla persona del C. dava, invece, esito negativo. Successivi narcotest e consulenza tecnica hanno confermato che trattasi di sostanza stupefacente del tipo hashish idonea al confezionamento di circa 12.294 dosi singole medie. Gli operanti, inoltre, hanno accertato che l’autovettura è effettivamente intestata al C. L’imputato, nel corso dell’udienza di convalida non ha contestato la circostanza che l’autovettura, oltre ad essere a lui intestata, si trovasse in suo possesso, ma ha negato di aver mai ricevuto o acquistato la sostanza, riferendo che qualcuno l’aveva, a sua insaputa, riposta nel portabagagli dell’autovettura. Ha aggiunto il C. che, poco prima dell’intervento dei carabinieri, aveva sentito suonare l’allarme del veicolo e che era subito uscito da locale senza tuttavia notare nessuno vicino al veicolo stesso; con il telecomando, quindi, aveva prima disinserito l’allarme per evitare che continuasse a suonare e, subito dopo, l’aveva riattivato, rientrando poi nel negozio. L’imputato non è stato in grado di ricordare se, nel momento in cui aveva parcheggiato l’autovettura, aveva o meno inserito l’antifurto. Questi ì fatti così come ricostruiti sulla base degli elementi contenuti nel fascicolo processuale. Sulla scorta di tali elementi, deve ritenersi che l’ipotesi accusatoria ha trovato concreto riscontro. Il C., infatti, è stato trovato in possesso di un quantitativo di sostanza stupefacente idoneo al confezionamento di ben 12.294 dosi

singole medie. Non v’è dubbio che la sostanza fosse detenuta dal C., in quanto è pacificamente emerso che l’autovettura, non solo era intestata all’imputato, ma si trovava anche nella disponibilità di costui, come dimostra il fatto che il C. era in possesso delle chiavi e del telecomando; la circostanza, del resto, è stata ammessa dallo stesso imputato nel corso dell’interrogatorio. La versione del C., secondo cui lo stupefacente sarebbe stato messo nel portabagagli da un terzo a sua insaputa probabilmente nel momento in cui aveva sentito scattare l’allarme, è inverosimile e contraddittoria; ed infatti -premesso che nessun estraneo avrebbe avuto interesse a lasciare, di fatto abbandonandolo, un ingente quantitativo di sostanza stupefacente di notevole valore economico-, si rileva che né i carabinieri, né lo stesso imputato hanno riscontrato forzature nella serratura del portabagagli; deve, pertanto, osservarsi che se il C. aveva lasciato l’antifurto inserito, non si spiega come sia stato possibile ad un terzo estraneo aprire il portabagagli senza forzarlo, mentre, se l’antifurto non era stato inserito, non è possibile che il C. abbia sentito suonare la sirena dell’allarme. Del resto, lo stesso atteggiamento tenuto dal C. al momento del controllo (i carabinieri hanno dato atto di aver indotto il giovane ad aprire il veicolo con il telecomando solo dopo numerose insistenze) rappresenta un ulteriore indizio del fatto che l’imputato ben sapeva cosa fosse custodito all’interno del bagagliaio. La detenzione della sostanza stupefacente, in conclusione, va attribuita senza alcun dubbio all’imputato. Tanto premesso, osserva il tribunale che, nonostante l’introduzione dell’art. 73 I comma bis d.p.r. 309/90, la mera detenzione di sostanza stupefacente non costituisce reato, se la detenzione medesima non è destinata allo spaccio. Il dato quantitativo -o meglio, la detenzione di sostanza in quantità superiore a quella determinata dal legislatore- rappresenta sol-

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Stupefacenti tanto uno degli elementi da cui poter desumere la finalità di spaccio, ma non è di per sé sufficiente a far ritenere che la sostanza non fosse destinata ad esclusivo uso personale. Così come, del resto, la detenzione di quantitativo inferiore a quello indicato dalla legge non esclude che la sostanza possa essere destinata a terzi. Nel caso in esame il dato quantitativo (oltre 12.000 dosi) depone inequivocabilmente nel senso di una detenzione finalizzata alla cessione a terzi, risultando assolutamente incompatibile con una destinazione all’uso personale; del resto, lo stesso imputato ha riferito di non essere un consumatore di hashish. In conclusione, la dichiarazione della penale responsabilità del C. in ordine al reato ascrittogli si impone. Sussistono, inoltre, sia l’aggravante di cui all’art. 80 Il comma d.p.r. n. 309/90 che la recidiva reiterata contestate in rubrica. Quanto all’aggravante, è pacifico in giurisprudenza che la valutazione circa la sua sussistenza è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, tant’è che la relativa valutazione, intesa a stabilire se una determinata quantità possa o no considerarsi ingente, sfugge, se congruamente motivata, al sindacato di legittimità della corte di cassazione (così, tra le altre, cass. pen. sez. VI, 13 novembre 1992, De Vitis; cass. pen. sez. VI, 20 febbraio 1991, Strangio ed altro). Secondo un primo orientamento, il giudice, a tal fine, deve tenere conto, in primo luogo, della quantità oggettiva e della qualità della sostanza e, in secondo luogo, della situazione del mercato nel quale la sostanza è destinata ad essere introdotta. La giurisprudenza, in particolare, ha osservato che la base di partenza per ricostruire il concetto in parola deve essere rappresentato dal dato lessicale utilizzato dai legislatore con l’aggettivo “ingente”, che indica uno dei livelli più elevati nella scala degli aggettivi di quantità ed esprime pertanto la necessità che questa, pur non immensa, sia peraltro in grado, alla luce delle caratteristiche

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della sostanza e delle dosi in concreto estraibili, di soddisfare un notevole numero di tossicodipendenti e per un periodo piuttosto lungo, saturando così una area parte del mercato, ovvero producendo una modificazione notevole dell’offerta sul mercato medesimo (ex pluribus, cass. pen. sez. VI, 14 maggio 1996, Merlini ed altri; e, più di recente, cass. pen. sez. V, 28 giugno 2000, Buscicchio ed altri). Ad avviso del tribunale, possono assolutamente condividersi gli assunti di partenza della ricostruzione sopra riportata e, cioè, la rimessione al prudente apprezzamento del giudice di merito della valutazione circa la sussistenza dell’aggravante e la rilevanza del dato lessicale che indica, appunto, un quantitativo di sostanza idoneo a soddisfare un notevole numero di tossicodipendenti. Non può, invece, condividersi il riferimento alla saturazione del mercato, pur contenuto in molte pronunce della S. C. Ciò perché trattasi sia di un elemento assolutamente estraneo al dato normativo, sia di un dato. Ed invero, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte -con motivazione del tutto condivisibile- la ratio legis dell’aggravante in questione è da ravvisare nell’incremento del pericolo per la salute pubblica e ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un elevato numero di tossicodipendenti, secondo l’apprezzamento del giudice del merito (Cass. SS.UU., 21.6.2000, n. 17). In tale contesto, pertanto, alcun rilievo assume l’eventuale saturazione o meno del mercato, elemento di giudizio, questo, del tutto ultroneo rispetto alla precitata ratio legislativa e non direttamente ricavabile dal dato normativo, oltre che estremamente incerto, difficilmente accertabile in concreto, variabile, estraneo ad una logica e consapevole valutazione da parte del giudice e che, comunque, si presta ad interpretazioni distorte atteso che


Stupefacenti Quanto alla recidiva, si ritiene che correttamente il pubblico ministero ha contestato quella reiterata, essendo stato il C. condannato per due volte per il reato di furto, come si evince dal certificato penale in atti. Non può accedersi, al riguardo, alla tesi prospettata dalla difesa secondo cui la recidiva reiterata non può fondarsi sul mero dato formale dell’esistenza di precedenti condanne, ma presuppone una precedente dichiarazione di recidiva effettuata dal giudice con sentenza passata in giudicato. Sulla scorta di costante giurisprudenza, ritiene il tribunale che la dichiarazione giudiziale di recidiva semplice non costituisce antecedente necessario per quella di recidiva reiterata, nonostante il III comma dell’art. 99 c.p. faccia riferimento al “recidivo” che commette un altro delitto; il temine “recidivo”, infatti, è stato evidentemente usato dal legislatore per comodità di esposizione e per non ripetere la definizione contenuta nel I comma dello stesso articolo e non già per indicare una qualità del soggetto che richiede un accertamento giudiziale (in tal senso, già cass. pen. 20.12.1974, Arrighini e, ancora, cass. pen. sez. III n. 6424/1993 e, da ultimo, cass. pen. sez. VI 6.5.2003, CED n. 225233).>>.

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lo stesso quantitativo di sostanza stupefacente (astrattamente idoneo a soddisfare le esigenze del medesimo numero di consumatori) può essere considerato, o meno, “ingente” a seconda del luogo in cui viene detenuto o ceduto (in tal senso, cass. pen. sez. IV, 23.6.1999, n. 11244; cass. pen. sez. IV, 9.10.2003, n. 45427; cass. pen. sez. IV, 24.9.2003, n. 44518; cass. pen. sez. IV, 27.11.2003, n. 12186; cass. pen. sez. IV, 2.12.2003, n. 11510; cass. pen. sez. IV, 28.9.2004, n. 47891 e, da ultimo, cass. pen. sez. IV n. 30075, 21.6.2006/12.09.2006). Con riferimento al caso di specie, deve rilevarsi che la quantità della sostanza repertata (del peso di circa quattro chilogrammi) è idonea al confezionamento di ben 12.294 dosi medie giornaliere, pari, in realtà, ad un numero ancora maggiore di dosi commerciali confezionabili, di talché il numero di tossicodipendenti astrattamente interessato dallo spaccio della sostanza è oggettivamente elevato, a prescindere dalla situazione del “mercato’’ nella zona in cui la sostanza è stata rinvenuta; proprio la destinazione della sostanza al consumo di un elevato numero di tossicodipendenti, in conclusione, determina quell’incremento del pericolo per la salute pubblica che costituisce la ratio della norma in esame.

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INDICE STREPITUS FORI n.00/2007 L’Editoriale (Avv. Gian Domenico Caiazza)....................... 1

in carcere 26.06.2007 - G.I.P. dott.ssa Figliolia ............................................. 16

IL PUNTO SU … ................................................. 3 Il presupposto delle misure cautelari di cui all’art.274, lett. c), c.p.p.: il pericolo di reiterazione e la motivazione ‘apparente’ dei provvedimenti cautelari. .......................... 3

Tribunale per il Riesame di Roma, ord. 17.7.2007 - Pres. Taurisano, Est. Criscuolo, Giudice Balduini ........................ 18

Il pericolo di recidiva tra presunzione di non colpevolezza e l’obbligo di una razionale giustificazione (Avv. Filippo Dinacci)...................................... 4 Ordinanza di custodia cautelare in carcere 9.11.2005 - G.I.P. dott.ssa Figliolia R.G. G.I.P. 25335/05 ...................................... 11 Tribunale Riesame Roma, ord. 1.12.2005, RGTL 3131/2005 - Pers. D’Arma, est. Asaro, giud. Preziosi. .............. 12 Ordinanza di custodia cautelare 28.11.2005 G.I.P dott.ssa Figliolia RG GIP 25335/05 ........................................... 12 Tribunale Riesame Roma, ord. 15.12.2005 - Pres. D’Arma, est. Asaro, giud. Pazienza.............................. 13 Ordinanza di custodia cautelare in carcere 3.2.2006 - G.I.P. dott.ssa Figliolia ........................................................... 14 Tribunale Riesame Roma, ord. 23.2.2006 Pres. D’Arma, Est. Schipani, Giudice Scicchitano .................................................... 14 Corte di Cassazione sez. V, ord. n. 1231 del 5.10.2006, Pres. Calabrese, Est. Vessichelli (sul ricorso proposto da uno degli indagati avverso la ordinanza del Tribunale del Riesame da ultimo riportata) ............................................ 15

Ordinanza di applicazione della misura cautelare dell’obbligo di dimora (alla scadenza del termine di fase della misura cautelare degli arresti domiciliari) Tribunale di Roma, sez. IV coll., 19.7.2007 - Pres. Argento, est. Bonaventura, giudice Di Gioia ..................... 19

Tribunale per il Riesame di Roma Ord. 19.1024.10.2007 (sull’appello proposto avverso l’ordinanza del Tribunale di Roma, sez. IV Collegiale, sopra riportata)................................................. 20 Tribunale di Roma, sezione per il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, ordinanza del 6 aprile 2007 Custodia Cautelare - Esigenze cautelari di cui all’art. 274 lett. c – Circostanza che gli indagati non rivestano più la carica in virtù della quale avrebbero potuto commettere i reati contestati – Irrilevanza ................................................... 21

Tribunale di Roma, sezione per il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, ordinanza del 1 marzo 2007 Custodia cautelare - Esigenze cautelari di cui all’art. 274 lett. c – Circostanza che gli indagati non svolgano più l’attività lavorativa nell’ambito della quale avrebbero potuto commettere i reati contestati – Attenuazione delle esigenze cautelari - Rilevanza ............. 21

RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA Codice Penale ................................................. 25 Ordinanza di custodia cautelare

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Della legge in generale................................... 26 Tribunale di Roma (in composizione monocratica) sezione quarta, dott. Salvatore Iulia, sentenza del 29.01.2007. Abolitio criminis –– Irrilevanza della distinzione tra successione ‘immediata’ e successione c.d. ‘mediata’ di leggi penali Inottemperanza del cittadino rumeno all’ordine di espulsione impartito dal questore – Fatto commesso prima dell’allargamento della Unione europea - Fatto non più previsto dalla legge come reato ................................... 26 La modifica ‘mediata’ della legge penale e l’applicazione analogica dell’art. 2 c.p. (Avv. Pasquale Bartolo) .......................................... 29

Imputabilità - colpevolezza – Ubriachezza quale causa di non esclusione o riduzione della capacità d’intendere e volere. Omicidio - Dolo eventuale - Colpa cosciente. Guida in stato di ebbrezza - Misure cautelari personali – Fumus commissi delicti – Potere del Tribunale del riesame di qualificare diversamente il reato contestato........................................................ 46 Tribunale di Roma, sez. IV in composizione monocratica, dott.sa Antonella Capri, sent. 16397/06 del 19/09/2006. Imputabilità – Capacità d’intendere e volere – Presupposto della responsabilità penale - Vizio di mente. Pericolosità sociale – Valutazione - Esclusione ......................................................................... 51

Del reato.......................................................... 34 Tribunale di Roma (in composizione monocratica) sezione quarta, dott. Salvatore Iulia, sentenza del 25.10.2006. Cause di giustificazione speciali - Resistenza a pubblico ufficiale – Reazione agli atti arbitrari del p.u. Erronea supposizione della scriminante – Rilevanza dell’errore. Danneggiamento – Lesioni personali – Difetto di procedibilità. .............................................. 34

Corte di Appello, sezione seconda, dott. V. Savini (Pres.), dott. B. Fasanelli (Cons.), dott. E. Canale (Cons.), sentenza del 14.6.2006. Capacità d’intendere e volere – Resistenza a p.u. – Lesioni personali - Connessione teleologica – Procedibilità. Rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale – Assunzione di prova nuova sulla imputabilità – Onere di allegazione in capo alla difesa. .. 52

Tribunale di Roma – Sezione VIII in composizione monocratica – Dott. Marco Marocchi – Sentenza 23 aprile 2007 Circostanze del reato – Giudizio di comparazione ex art. 69 comma 4 c.p. - Divieto del giudizio di prevalenza ex art. 3 l. 5 dicembre 2005 n. 251 – Limiti - Applicabilità ai soli casi di concorso tra circostanze inerenti alla persona del colpevole e recidiva reiterata ovvero circostanze aggravanti ex art. 111 e 112 comma 1, n. 4, c.p. Stupefacenti – Circostanza attenuante della lieve entità del fatto – Giudizio di prevalenza sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata – Ammissibilità. ............................................... 38 Del reo e della persona offesa dal reato ........ 46

Tribunale di Roma (in composizione monocratica), VII sezione, dott. Alfonso Sabella, Principi di ordinanza del 31.01.2006. ragionevolezza ed uguaglianza - Prescrizione dei reati – Criteri per la determinazione del termine di prescrizione - Circostanze ad effetto speciale – Irragionevolezza della norma sui termini di prescrizione nella parte in cui preclude il giudizio di bilanciamento (tra aggravanti ed attenuanti ad effetto speciale). Ricettazione – Ipotesi lieve ........................... 56 Dei delitti contro la pubblica amministrazione .. 59

Tribunale di Roma, sezione speciale riesame, dott. Taurisano (Pres.) dott. De Simone (Giud.) dott. Pazienza (Giud. est), ordinanza del 18.05.2006 (depositata il 31.05.2006).

Della estinzione del reato e della pena .......... 54

Tribunale di Roma, G.U.P. dott. Claudio Tortora, sentenza del 20.03.2007. Abuso d’ufficio – Elementi strutturali della fattispecie – La c.d. doppia ingiustizia – Dolo intenzionale . Competenza per territorio nei procedimenti riguardanti Magistrati . ........ 59

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Dei delitti contro l’amministrazione della giustizia .................................................. 69 Tribunale di Roma, Sez. X, in composizione monocratica, dott. Miceli, sent. n. 11307 del 12.5.2003. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Calunnia - Sussistenza - Falsa testimonianza – Configurabilità................... 69 Corte di Appello di Roma, Sez. I Penale, Pres. dott. Catenacci, Est. dott. Albano, sent. n. 6294 del 17.10.2006. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Calunnia - Elemento soggettivo - Dolo - Contenuto - Intenzionalità dell’incolpazione e certezza dell’innocenza dell’incolpato.................................................. 70 Dei delitti contro la fede pubblica.................. 72 Tribunale di Roma in composizione monocratica, Sez. VI, Dott.ssa A. Cantillo, sent.n.7439/07 del 20.03.2007 Falso ideologico - Funzione “probatoria” delle attestazioni contenute nello stesso atto – Denuncia di inizio attività quale dichiarazione di volontà di attività non ancora iniziata – Atto con funzione “probatoria” – Esclusione - D.lvo 5 febbraio 1997 n. 22, Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/Ce sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio - – reato di inconfigurabilità ........................................ 72 Dei delitti contro la famiglia .......................... 73

Tribunale di Roma in composizione monocratica, Sez. VIII, dott.ssa L. Martoni , sent. n. 24253/06 del 5.12.2006 Violazione degli obblighi di assistenza familiare – Mancata corresponsione assegno di mantenimento al minore – Disagiate condizione economiche dell’obbligato – Irrilevanza della somministrazione dei mezzi di sussistenza all’avente diritto da parte di terzi. Reato permenente - Maggiore età – Decorrenza termini di prescrizione .................................. 73 Dei delitti contro la persona........................... 74

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Tribunale di Roma, Sez. dei Giudici per le indagini preliminari, dott.ssa Di Girolamo, sent. del 19.10.2005 (depositata il 17.1.2006). Riduzione in schiavitù - Stato di soggezione Nozione - Stato di soggezione attuato mediante approfittamento di una situazione di necessità – Nozione ........................................................ 74 Tribunale di Roma (in composizione collegiale) sezione quarta, dott. Stefano Meschini – Pres. – dott. Carlo Sangiorgio – Giud. - dott. Salvatore Iulia – Giud. est. -, sentenza del 13.04.2007. Violenza sessuale – Valenza probatoria delle dichiarazioni della p.o. – Sussistenza della costrizione nell’ambito di una relazione sentimentale precedente e successiva alla violenza – Lesioni personali – Violenza privata ......................................................................... 75 Dei delitti contro il patrimonio....................... 77 Tribunale di Roma – Sezione Gip – dott. Di Lorenzo – sent. n. 3108/06 ud. 1.12.2006 (dep. 12.12.2006) Truffa in danno di istituti bancari – Artifici e raggiri – Tentativo – Atti idonei e diretti in modo non equivoco alla realizzazione della truffa – Sussistenza – Esclusione ........ 77 Tribunale di Roma – Sezione IV Penale – Sentenza 10 maggio 2007 – Pres. Argento – Rapina - Rapina impropria – Sottrazione di beni in un centro commerciale – Violenza immediatamente successiva all’impossessamento della cosa altrui posta in essere per non subire una perquisizione personale condotta con modalità arbitrarie dal personale di vigilanza – Dolo di rapina – Esclusione – Furto tentato - Sussistenza ..... 78 Il Codice di Procedura Penale ....................... 81 Soggetti............................................................ 82 Corte di Appello di Roma, Sezione Quarta Penale, ordinanza del 19 ottobre 2006 Giudizio di impugnazione – Appello avanti la stessa Corte che ha giudicato un coimputato del medesimo reato – Incompatibilità Sussistenza...................................................... 82


Prove................................................................ 85 Tribunale di Roma, Sezione Gip, dott. ssa Figliolia, ordinanza del 20 gennaio 2007. Ricognizione di persona – Persona offesa minore straniera analfabeta - Invito a descrivere la persona da riconoscere – Impossibilità ................................................... 85 Tribunale di Roma, Sezione Riesame, Pres. Taurisano Est. Criscuolo, ordinanza del 24 aprile 2007 ................................................................. 85 Giudice di pace di Roma, II sezione dibattimentale, dott.ssa Chiessa, sentenza del 22 novembre 2006 Prova penale – Comportamento processuale dell’imputato Rilevanza ........................................................ 86 Misure cautelari.............................................. 87 Tribunale di Roma, Sezione G.I.P., dott. Vardaro, ordinanza del 5 giugno 2007. Custodia Cautelare - Sopravvenuta inefficacia per decorrenza del termine di fase a seguito di retrodatazione ex art. 297 terzo comma c.p.p. – Istanza presentata in fase successiva e dopo la sentenza di condanna – Diritto alla scarcerazione “ora per allora” - Sussistenza ... 87

Tribunale di Roma, Sezione Distrettuale per il riesame, Pres. Lo Surdo (Pres.), Est. Della Casa, ordinanza del 7 dicembre 2006. Misure cautelari reali – Ritardo dell’A.G. nella trasmissione degli atti al Tribunale – Irrilevanza - Omessa valutazione delle investigazioni difensive – Poteri del Tribunale 88 Tribunale di Roma, Sezione Distrettuale per il riesame, Pres. Lo Surdo (Pres.), Est. Della Casa, ordinanza del 7 dicembre 2006. Misure cautelari reali – Violazioni della legge edilizia – Variazione di destinazione d’uso ai sensi dell’art. 44 D.P.R. 380/01 – Finalità del sequestro preventivo nelle costruzioni ultimate ........................................................... 91 Tribunale di Roma, Sezione Distrettuale per il riesame, Pres. Taurisano (Pres.), Est. Pazienza,

ordinanza del 14 maggio 2007. Misure cautelari reali – Reiterazione del sequestro preventivo in violazione al c.d. giudicato cautelare - Annullamento ............ 93 Tribunale di Roma, Sezione Distrettuale per il riesame, Pres. Taurisano, Est. Pazienza, ordinanza del 26 ottobre 2006. Misure cautelari reali – Fumus boni iuris – Poteri di accertamento del Tribunale del riesame – Violazioni edilizie di cui agli artt. 44 lett. c) D.P.R. 380/01 e 181 D.L.vo 42/04 – Investigazioni difensive – Sequestro d’urgenza operato dalla p.g. ......................................................... 96 Indagini preliminari e udienza preliminare 100 Tribunale di Roma, Sez. VII, in composizione monocratica, sentenza 8 febbraio 2007 Divieto di un secondo giudizio – Decreto che dispone il giudizio – Successivo decreto di archiviazione per il medesimo fatto e nei confronti della stessa persona – Preclusione alla continuazione dell’azione penale nel primo procedimento – Sussistenza ........... 100

Tribunale di Roma, Sez. VI, in composizione collegiale, Pres. Barbarinaldo, ordinanza del 27 ottobre 2004. Udienza preliminare – Richiesta rito abbreviato condizionato – Rigetto della richiesta e contestuale pronuncia del decreto che dispone il giudizio – Nullità del decreto – Sussistenza.................................................... 100 Tribunale di Velletri, GUP dott. Audino, ordinanza del 20 novembre 2006 Udienza preliminare – Rito abbreviato – Istanza di rinvio per legittimo impedimento – Rigetto dell’istanza e contestuale revoca dell’ordinanza di ammissione al rito speciale – Prosecuzione con rito ordinario ...................................................... 101 Tribunale di Velletri, GUP dott.ssa Ilari, ordinanza del 27 ottobre 2006 Udienza preliminare – Richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’escussione del coimputato in procedimento connesso – Rigetto per

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mancanza del requisito della necessità e insussistenza per il testimone dell’obbligo di rispondere – Assenza del teste in aula ...... 102 Procedimenti speciali.................................... 103 Tribunale di Velletri, Presidente Giannino, ordinanza dell’8 marzo 2007. Rinnovata richiesta di abbreviato condizionato rigettata in udienza preliminare – Ingiustificato rigetto del GUP - Requisito della economicità in relazione al mezzo istruttorio richiesto ed il materiale probatorio acquisito – Irrilevanza della facoltà di non rispondere – Accoglimento - Richiesta del P.M. a prova contraria – Rigetto........................................................... 103 Tribunale di Roma, Sezione G.I.P., dott. ssa Agrimi, ordinanza del 6 luglio 2007. Giudizio immediato – Termine per la richiesta di giudizio abbreviato ex art. 458 comma 1 c.p.p. – Revoca del precedente difensore da parte dell’imputato in prossimità della scadenza del termine – Diritto ad un termine a difesa ex art. 108 c.p.p. per il nuovo difensore nominato Insussistenza................................................. 105 Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica ........................... 107 Tribunale di Roma, Sezione Sesta in composizione monocratica, dott.ssa Campolo, ordinanza del 13 giugno 2007 Casi di citazione diretta a giudizio – Art. 2 comma 3 del D. Lvo 74/2000 - Determinazione della pena– Esclusione a tal fine delle circostanze attenuanti...................................................... 107 Le Leggi Speciali .......................................... 109 Urbanistica .................................................... 110 Tribunale di Roma, Sez.VI in composizione monocratica, Dott.ssa M. Cipriani, Ordinanza del 14.06.2006. Urbanistica - Condono edilizio - Dichiarazione USCE di assenza di elementi ostativi al rilascio della concessione - Necessità del decorso di 36 mesi dopo l’ultimo pagamento per ottenere il condono - Richiesta di dissequestro dell’immobile - Rigetto dell’istanza.................................................... 110

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Tribunale di Roma, Sez.VII in composizione monocratica, Dott. R. Amoroso, Sentenza del19.01.2005 (depositata il 25.01.2005). Urbanistica - Condono edilizio - Assenza di elementi ostativi al rilascio della concessione Necessità del decorso di 36 mesi dopo l’ultimo pagamento per dichiarare l’estinzione dei reati – Insussistenza..................................... 110 Stupefacenti................................................... 114 Tribunale di Roma, sez. G.U.P., dott.sa Mariagiula De Marco, sent. 846/2007 del 15/03/2007 Stupefacenti – Detenzione a fine di cessione a terzi – Sussistenza - Lieve entità del fatto – Esclusione - Attenuante di cui al c. 7 art. 73 D.P.R. 309/90 – Esclusione.............. 114 Tribunale di Roma (in composizione monocratica) sezione quarta, dott. Salvatore Iulia, sentenza del 01.03.2007. Stupefacenti – Elementi sintomatici della detenzione ai fini di spaccio a seguito dell’introduzione del criterio del c.d. “quantitativo minimo” – Proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. in sede di applicazione concordata della pena.................................. 115 Tribunale di Roma (in composizione collegiale) sezione quarta, dott. Stefano Meschini – Pres. – dott. Carlo Sangiorgio – Giud. - dott. Salvatore Iulia – Giud. est. -, sentenza del 6.6.2007. Detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti – Rilevanza del mero dato quantitativo ai fini della circostanza aggravante di cui all’art. 80 c. 2 D.P.R. 309/90 – Insufficienza del parametro della “saturazione del mercato” – Recidiva reiterata. ....................................................... 116


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