Erodoto108 n°14

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La danza immobile

Scrivo questa paginetta da lontano. Da oltre oceano. Dal Nicaragua. Isabella, in questo stesso momento, è in Vietnam. È che Erodoto è rimasto in Italia. Non ha voluto seguirci. Oppure è con noi e non ce ne accorgiamo. La rivista è nata per raccontare il viaggio. Un’amica, qui, a fianco a me, in un rancho delle colline del Nicaragua, rivendica ‘il diritto al viaggio’. Sfoglio (virtualmente) questo numero: le sue pagine sono immobili, stanziali, alcune molto belle, altre meno, ma ferme come un albero (per questo vi sono articoli sugli alberi). Mi chiedo: cosa abbiamo fatto? Abbiamo ingannato le ragioni per le quali siamo nati? Noi viaggiamo, ma abbiamo lasciato a casa Erodoto? No, non credo che sia così. Penso a Bruce Chatwin, scrittore del nomadismo, capace di darci un bellissimo libro immobile come Utz, tre lettere per un titolo e colline del centroeuropa come paesaggio. Abbiamo sempre sostenuto che il viaggio è un alibi. Uno strumento. Per conoscere il mondo, per raccontarlo, per mostrarlo. Non è semplicemente l’andare, non è un collezione di luoghi, non è lo scacciapensieri dell’esotismo. Non esistono luoghi da confinare nell’esotismo, non ci interessano i diari di viaggio, ma le storie del viaggio. Vi è una maniera di guardare che è sempre viaggio. Vi sono danze immobili. Il movimento e lo stare. Un immobilismo che non è tale: i tuoi piedi sono fermi, ma ogni tuo senso è all’erta per catturare quanto passo dentro di te e appena fuori di te. In fondo, noi non vogliamo più cambiare il mondo (oh, sì, che lo vogliamo), ma cambiare i cinque metri attorno a noi, sì, questo sì. Per questo abbiamo deciso e scelto di pubblicare il racconto di Elisabetta Rondinone, story-teller (ma lei non sa di esserlo) materana, e di Zàira Mantovan, fotografa veneta (ci piace definire queste due donne con i loro ‘mestieri’, non con quelli con i quali sopravvivono: vedete i soldi hanno importanza decisiva. Nelle loro vite e nelle nostre). Ci hanno donato due racconti perfetti. Senza trucchi. Hanno messo i piedi a terra e hanno guardato (Elisabetta per una mattina, Zàira per molti anni) il mondo attorno a loro. E sono riusciti, per un momento, a farci entrare nelle loro storie. Gliene siamo grati. Per questo abbiamo voluto parlare di alberi. Una meraviglia che sta lì, sconfigge la forza della gravità, va verso l’alto, ma gli alberi non viaggiano. Aspettano i viaggiatori. Hanno atteso Lucia Zambelli, giornalista fiorentina, e, per lei e per i suoi amici, hanno trasformato i rami in letti. I sicomori e le acacie dell’Etiopia hanno aspettato per anni e anni che passasse Marco Paoli, fotografo fiorentino, per donargli la loro ombra e la loro bellezza. Questa volta siamo grati agli alberi.

Due parole sulla scuola. Non so cosa scriverà Silvia nella presentazione del dossier. È lei ad aver curato il dossier Scuola al centro della rivista. Faccio solo una notazione: è stato difficile trovare autori (scrittori e fotografi) per raccontare della scuola. L’educazione, la formazione, l’istruzione sono, diciamo, capisaldi di un mondo più giusto. Ma non siamo capaci di raccontarlo: troppi degli articoli e delle fotografie che abbiamo ricevuto trasmettevano solo immagini stereotipate dell’universo della scuola. Abbiamo bisogno di maestri e professioni (e di ragazzi e studenti) capaci di raccontare questo universo. Di farlo bene. Con profondità. Fuori da parole abusate. Altrimenti rimane un mondo a parte, mentre la scuola è la base sulla quale costruire le nostre vite. Andrea Semplici

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EDITORIALE


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