Sex work is work | Giulia Zollino

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BOOK COLB 10

GIULIA ZOLLINO

SEX WORK

IS WORK


Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org. Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione.

Collana BookBlock Collana diretta da: Rachele Cinerari Cover design e grafica: Gabriele Munafò Redazione: Anna Matilde Sali, Sonny Partipilo

© Copyright 2021, Eris (Ass. cult. Eris) © Giulia Zollino Eris (Ass. cult. Eris) Piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Aprile 2021 ISBN 9788898644872 Stampato presso Geca Industrie Grafiche Via Monferrato 54, S. Giuliano Milanese (MI)


Introduzione «Sai che esci di casa, ma non sai se ci ritorni.» Questa frase la sentii per la prima volta da V. e pochi anni dopo in un documentario sulle condizioni delle lavoratrici trans del Bois de Boulogne in Francia. Che una persona possa anche solo pensare una frase del genere mi terrorizza, mi raggela, mi offende come essere umano. Eppure fare sex work, oggi, vuol dire anche questo. Significa scontrarsi con violenze, pregiudizi e stigma, subire gli effetti di politiche ipocrite e proibizioniste. Purtroppo significa anche temere per la propria vita. Questo libro non ha la pretesa di essere esaustivo, ma vuole essere un piccolo contributo in direzione della normalizzazione del lavoro sessuale, e soprattutto della lotta contro lo stigma che colpisce le persone coinvolte nei mercati sessuali. Partendo dal presupposto che si tratta di un lavoro e che ogni persona è meritevole di fondamentali diritti umani, parleremo di sex work, tentando di sfatare miti e pregiudizi. Prima però – con la consapevolezza che un testo inevitabilmente riflette le esperienze, le culture, le storie di vita di chi lo crea – vorrei partire da me, dai miei privilegi e dalle mie vulnerabilità, sperando che vi sia utile per capire meglio questo breve saggio. Sono nata e cresciuta come donna, ma preferisco definirmi una persona. Sono giova3


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ne, bianca, di classe media, laureata, transfemminista e temporaneamente normoabile. Per tutta l’adolescenza, che ho vissuto in un contesto cattolico e puritano, ho avuto un rapporto conflittuale con il mio corpo e la mia sessualità. Mi sono sentita presa in giro, umiliata, castigata. In questa lotta, decisamente non ad armi pari, ho incontrato il lavoro sessuale. Avevo 20 anni la prima volta che ho fatto sex work. Ero intimorita, agitata, ma non avevo dubbi: il sex work sarebbe stato parte della mia rinascita, il mio personale modo di affermare la mia soggettività. Non è semplice scriverlo, sapendo che quel «la prima volta che ho fatto sex work» resterà così, impresso nero su bianco. Lo stigma mi fa paura, ma ho fatto una scelta politica e ho scelto di usare il mio privilegio per trasmettere un messaggio. In questo testo però non ci sono solo io. Troverete storie, racconti, aneddoti di sex worker che ho incontrato, intervistato o di cui semplicemente ho letto e ascoltato le brillanti riflessioni. Nella discussione sul lavoro sessuale le persone che fanno sex work non sono quasi mai protagoniste, ma compaiono piuttosto come oggetti di studio. Per questo ho voluto dare valore al sapere prodotto dall* sex worker e dimostrare che siamo tant* e siamo in grado di parlare per noi stess*. Ringrazio Eris per aver compreso e accettato questa scelta politica. Questo libro vuole includere chi è invisi4


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bile, chi non è pront* a parlare e chi non può farlo. Spero davvero che vi sarà utile a sentirvi meno sol* e ad abbattere pregiudizi e stereotipi. Note: • Le citazioni di interviste orali sono di persone che hanno espresso direttamente il loro consenso a essere citate. In molti casi si troveranno delle iniziali puntate: si tratta di iniziali di fantasia; • In questo libro, invece del maschile plurale generalizzato, si è scelto di utilizzare l’asterisco, che permette di superare il binarismo di genere femminile/maschile; • Termini come “prostituzione”, “prostitut*”, “puttan*” hanno assunto nel tempo un significato negativo e denigratorio. In linea con parte dei movimenti internazionali di sex worker, in questo libro ho scelto di utilizzare questi termini in quanto credo fortemente nella riappropriazione politica di termini connotati negativamente; • Trigger warning: nel capitolo 4 si fa riferimento a episodi di violenza e stupro a danno di sex worker.

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1. Una panoramica del sex work Se affrontiamo la questione da un punto di vista simbolico il lavoro sessuale è un oggetto controverso: ci attrae e al tempo stesso ci respinge, ci costringe a interrogarci e a mettere in discussione i nostri valori. Parlarne significa anche riflettere sui rapporti di genere, le disuguaglianze, il potere e la sessualità. Ma che cos’è veramente? Quante tipologie di sex work esistono? Solitamente con lavoro sessuale si intende qualsiasi attività che prevede un accordo commerciale esplicito tra due o più parti (chi vende e chi compra), con il quale si stabilisce una retribuzione economica (sotto forma di denaro o doni) in cambio di un servizio sessuale/erotico/romantico concordato e limitato nel tempo. Sex work è quindi un termine ombrello che racchiude molteplici tipologie di attività, tra cui il lavoro indoor offline (appartamenti, night club, centri massaggi), quello outdoor (in strada), ma anche la pornografia, la vendita di contenuti audiovisivi o intimo usato, le linee erotiche, le cam e così via. A seconda della tipologia di lavoro esistono poi una serie di attività che vanno ben oltre il sesso e che spesso fatichiamo a prendere in considerazione: mansioni organizzative e amministrative, gestione dei social, creazione e promozione dei propri contenuti e servizi, e molto altro. 6


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In questo libro tenteremo di andare oltre l’aspetto simbolico per analizzare il sex work su un piano pratico e concreto, focalizzandoci sull’aspetto più urgente e talvolta dimenticato: i diritti umani e lavorativi. Sex work: un termine politico Prostituta, puttana, meretrice, lucciola, peripatetica, zoccola. I termini impiegati nel corso della storia per descrivere il lavoro sessuale e le persone, soprattutto donne, che lo esercitano sono molteplici ed esprimono un giudizio morale preciso. Sul finire degli anni ’70 nacque un nuovo termine che rivoluzionò sia linguisticamente che culturalmente i discorsi sulle prostituzioni: sex work. Era il 1978 e a San Francisco il collettivo femminista anti-porno Women Against Violence in Pornography and Media organizzava la prima conferenza sul tema. Carol Leigh (aka The Scarlot Harlot) attivista, femminista e, come recita il titolo del suo libro, «puttana ostinata» propone di titolare un panel Sex Work Industry, invece di Sex Use Industry, com’era stato proposto dalle organizzatrici. Il termine diventa poi di uso comune nel 1987 con la pubblicazione del testo Sex Work: Writings by Women in the Industry a cura di Frédérique Delacoste e Priscilla Alexander. E in Italia? Siamo nel 1994, anno cruciale della lotta antiprostituzione, quando Pia Covre, fondatrice (con Carla Corso) e presidente del Comitato per i diritti civili delle prostitute, indice una riu7


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nione con le vecchie amiche sex worker. Il giorno successivo, racconta Roberta Tatafiore in Sesso al lavoro: «Pia mi telefona per raccontarmi com’è andata. “Sai”, annuncia, “abbiamo deciso di non chiamarci più prostitute, bensì sex workers!”» L’introduzione del termine rappresenta un momento cruciale per la storia dei movimenti e determina una rivendicazione politica ben precisa: si tratta di sesso, ma soprattutto di lavoro. In un settore in continua espansione e diversificazione, utilizzare termini “neutri” e non (almeno tradizionalmente) connotati negativamente sembra essere la scelta migliore per includere non solo la pluralità delle soggettività coinvolte nei mercati sessuali, ma anche la grande varietà dei servizi. Tuttavia, in modo particolare all’interno dei movimenti spagnoli e latino-americani, negli ultimi anni si è assistito a una riqualificazione e risignificazione di termini che hanno una lunga storia di oppressione. È questo il caso della parola puttana. Georgina Orellano, segretaria generale di ammar (Asociación de Mujeres Meretrices de Argentina), durante un’intervista me lo spiega così: All’inizio è difficile riappropriarsi dell’insulto e accogliere come identità politica parole che hanno un peso sociale così negativo, così stigmatizzante. Di fatto noi eravamo le prime a rifiutare che ci chiamassero puttane, che ci chiamassero prostitute. […] La battaglia culturale bisogna farla 8


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anche con una lotta del linguaggio perché tutto il linguaggio è politico e da qui abbiamo capito che già avevamo regalato troppo al patriarcato e continuare a regalargli le nostre parole, le nostre identità ci fa retrocedere.

Riconoscersi puttana, gridarlo al mondo o, come ha fatto Georgina, tatuarselo su un braccio, è un atto politico e rivoluzionario, ma è imprescindibile rispettare la libertà delle persone di scegliere le parole per definirsi. Per alcune persone, probabilmente per effetto dello stigma interiorizzato, definirsi o essere definite sex worker è persino un’offesa. Ricordo quando N. mi rimproverò dicendomi che non si definiva una lavoratrice sessuale, quello per lei non era nemmeno un lavoro. La libertà di nominare la propria esperienza è essenziale e va tutelata. Visioni sul lavoro sessuale Sul lavoro sessuale sono state elaborate numerose teorie. I movimenti femministi per primi hanno adottato una prospettiva di genere nell’analisi dello scambio sessuo-economico, elaborando interpretazioni che possiamo riassumere in tre filoni: • «Il lavoro sessuale è un’oppressione patriarcale.» Questa visione appartiene alle cosiddette “abolizioniste”, che scelgono di definirsi così appropriandosi indebitamente del termine abolizionismo, nato come corrente di pensiero e movi9


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mento di lotta contro la schiavitù. Secondo questa concezione qualsiasi forma di lavoro sessuale sarebbe espressione dell’oggettivazione delle donne a vantaggio del maschio. In poche parole: il lavoro sessuale è schiavitù e va abolito. • «Il lavoro sessuale è emancipazione.» Questa idea del femminismo “sex radical” considera il lavoro sessuale come una forma di libertà. Chi fa sex work è soggetto di potere in grado di sovvertire l’ordine patriarcale. Il lavoro sessuale è rivendicato come una forma di empowerment. • «Il lavoro sessuale è un lavoro.» Questa è la linea di pensiero maggiormente presente all’interno dei movimenti transfemministi e si concentra sulla praticità e sulla scelta. Il lavoro sessuale è sì inserito in un sistema di diseguaglianze sociali, economiche, razziali e di genere, ma è e dev’essere un’opzione tra cui scegliere. Il lavoro sessuale è un lavoro e servono dei diritti. Sex work e patriarcato Secondo una visione tipica del femminismo “radicale” e “neoabolizionista”, il lavoro sessuale è l’espressione massima del patriarcato e le donne cisgender (una persona che si riconosce nell’identità di genere assegnatale in base al sesso biologico) che lo esercitano sarebbero le sue ancelle. Interpretato esclusivamente come prodotto della disuguaglianza sociale, economica e politica tra i 10


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generi, il lavoro sessuale contribuirebbe alla sessualizzazione del “corpo delle donne”. Insomma, se una fa la puttana, non perde solo lei, perdono tutte, e il fatto che ci siano molte più puttane che puttani lo confermerebbe. Le motivazioni per cui alcuni settori sono caratterizzati da una maggioranza di sex worker donne e clienti uomini sono molteplici e senza ombra di dubbio la cultura patriarcale c’entra qualcosa. Da un minore accesso femminile alla ricchezza e a posizioni lavorative ritenute “prestigiose”, alla presunta “naturale predisposizione” al lavoro di cura da parte delle donne. Dalla stereotipata passionalità e incontrollabilità sessuale del maschio, al presunto disinteresse femminile per il sesso. Ma confermare la matrice patriarcale non significa negare che per molte donne il sex work assuma un significato di indipendenza, libertà e autonomia. Sebbene cliente e sex worker non siano sullo stesso piano – semplicemente per il fatto che, se per il primo acquistare servizi sessuali è un “lusso”, per la seconda si tratta di una questione di sopravvivenza – non possiamo descrivere lo scambio sessuo-economico eterosessuale come univocamente sbilanciato a favore del maschio. Ogni scambio prevede un accordo: chi compra chiede, chi vende stabilisce i propri confini. L’acquisto di un servizio di natura sessuale non coincide con l’accesso incondizionato all’altra persona. 11


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Non va dimenticato poi che l’intimità non corrisponde al corpo e alla sessualità nella loro totalità, ma per ognun* è connessa a pratiche, parti del corpo specifiche o alla connessione emotiva. Chi sceglie di fare sex work nella gran parte dei casi è consapevole dei rischi emotivi, per questo mette in atto alcune strategie, che il ricercatore Santiago Morcillo ha definito frontiere incorporate. Si tratta di strategie di autotutela per separare sfera lavorativa e privata: stabilire limiti rispetto ad alcune pratiche, definire la durata del servizio, dissociarsi mentalmente e fisicamente dall’atto sessuale, preservare un distacco emotivo non provando piacere. Avremmo una visione parziale se non riconoscessimo non solo le molteplici soggettività che fanno e acquistano sex work, ma anche la complessità delle trasformazioni sociali, culturali ed economiche che concorrono nella progressiva commercializzazione del sesso. Senza contare l’enorme potenzialità che risiede proprio all’interno del sex work di rivoluzionare e sovvertire immaginari e modelli culturali egemonici (pensiamo alla pornografia indipendente e femminista). E inoltre: giudicare e trattare le donne che fanno sex work come oggetti senza capacità di scegliere e parlare per loro stesse non significa forse ripetere lo schema patriarcale?

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