L'era atomica

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Il “caso” dell’influenza aviaria del 2005-2006 è emblematico: al ventilato rischio di una possibile pandemia originata dal virus H5N1 (mai esplosa), gli italiani reagirono con la più alta preoccupazione di ogni altro paese UE, come rilevato da una ricerca di Eurobarometro. A fronte di nessun pollo risultato infetto (solo un’anatra selvatica e qualche cigno), in pochi mesi il mercato avicolo italiano subì un crollo delle vendite con punte del 70% e un danno stimato di 800 milioni di euro, che mise in ginocchio il settore. Si scatenò una vera e propria “psicosi” e si registrarono comportamenti altamente irrazionali: alcuni direttori di negozio riportarono che i consumatori non si avvicinavano neanche ai banchi frigorifero per paura del contagio. Non sempre però i fenomeni legati alla percezione del rischio si basano su aspetti squisitamente irrazionali. È quanto emerge dallo studio americano GM foods and the misperception of risk perception di G. Gaskell, N. Allum, W. Wagner, N. Kronberger, H. Torgersen, J. Hampel e J. Bardes (2004). Gli autori, analizzando le ragioni dell’opposizione pubblica ai cibi geneticamente modificati (OGM), cercano di verificare l’ipotesi che quest’orientamento derivi più da una “mancata” percezione dei benefici che dalla percezione dei rischi, individuando un’interessante analogia con il caso del nucleare. Uno degli elementi che definiscono un’innovazione, o una nuova tecnologia, è la capacità di offrire benefici in maniera superiore a quanto al momento disponibile. Nell’accettazione di una determinata tecnologia, la percezione dei benefici sembra contare di più della percezione dei rischi: l’assunto è dimostrato dalla generale accettazione della biotecnologia per applicazioni in campo medico (finalizzate ad alleviare il dolore e curare malattie) e, al contrario, dall’opposizione alle applicazioni biotecnologiche in campo alimentare. In questo

secondo caso, infatti, non essendo percepiti vantaggi tangibili (il cibo è buono e disponibile anche ora), è la diffidenza a dominare. Quest’assunto è confermato anche dal professor Lorenzo Montali, ricercatore di psicologia sociale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca: «Le applicazioni delle biotecnologie in campo medico non sono osteggiate dall’opinione pubblica: le persone ne individuano e comprendono i benefici e, pur consapevoli dei potenziali rischi, stabiliscono in linea di massima che vale la pena correrli e che la ricerca biotecnologica medica va sviluppata. In campo alimentare, l’atteggiamento è radicalmente diverso: le persone ritengono che le biotecnologie, almeno nei paesi occidentali, siano sostanzialmente inutili, e l’inutilità è una pre-condizione che porta allo sviluppo di un atteggiamento negativo». «Il tema della percezione pubblica della scienza, della tecnologia e del rischio è il tema della modernità: per la prima volta nella storia ci troviamo nella condizione di far decidere sullo sviluppo scientifico e tecnologico le persone, che non sono esperte di queste tematiche», prosegue Montali. Ma come fanno le persone a gestire questo potere? Qual è la competenza che devono avere per poter decidere se oggi, qui e ora apriamo una centrale nucleare, permettiamo la fecondazione assistita o sviluppiamo le biotecnologie? E quali le forme che soggetti economici privati e istituzioni pubbliche dovrebbero adottare per un corretto e responsabile processo di coinvolgimento e informazione degli stakeholder? In uno studio condotto negli Stati Uniti (intitolato Public Partecipation in Hazard Management: The Use of Citizen Panels in the U.S.), Ortwin Renn, Thomas Webler e Branden B. Johnson osservano come, tradizionalmente, tecnici ed esperti abbiano sempre guardato al coinvolgimento pubblico come a un’intrusione, seppur necessaria, nei processi decisionali. Spesso viene prima


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