OXYGEN N. 24 – Europa: L'accordo perfetto

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24 10.2014


oxygen | 24 — 10.2014

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comitato scientifico Enrico Alleva (presidente) Giulio Ballio Roberto Cingolani Derrick De Kerckhove Niles Eldredge Paola Girdinio Maria Patrizia Grieco Helga Nowotny Telmo Pievani Francesco Profumo Carlo Rizzuto Francesco Starace Robert Stavins Umberto Veronesi

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direttore responsabile Andrea Falessi direttore editoriale Vittorio Bo coordinamento editoriale Luca Di Nardo Stefano Milano Anastasia Milazzo Dina Zanieri managing editor Cecilia Toso redazione Cristina Gallotti collaboratori Simone Arcagni Elisa Barberis Pino Buongiorno Andrea De Benedetti Emanuela Donetti Francesca Lozito Chiara Priante Chiara Romerio Luca Salvioli Gianluigi Torchiani Alessandra Viola Maria Chiara Voci

traduzioni Laura Culver Alessandra Recchiuti Joan Rundo

rivista trimestrale edita da Codice Edizioni

art direction e progetto grafico undesign

via Giuseppe Pomba 17 10123 Torino t +39 011 19700579 oxygen@codiceedizioni.it www.codiceedizioni.it www.enel.com

ricerca iconografica e photoediting white infografiche Centimetri distribuzione esclusiva per l’Italia Messaggerie Libri spa t 800 804 900

© Codice Edizioni Tutti i diritti di riproduzione e traduzione degli articoli pubblicati sono riservati

Oxygen nasce da un’idea di Enel, per raccontare la continua evoluzione del mondo


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sommario

Europa: l’accordo perfetto

10 ˜ editoriale Il migliore dei mondi possibili di Maria Patrizia Grieco

12 ˜ timeline Un’integrazione storica

Istituzioni, assemblee, palazzi importanti e uffici sparsi per tutti gli Stati membri: l’Unione europea a volte può sembrare distante e difficile da comprendere. Ma è più vicina di quanto sembri. È nel portafoglio, nei documenti, nella libertà, nel cibo, nel sacchetto della spesa, nel lavoro, nella scuola, nella tranquillità nazionale. E così l’Unione deve essere riconosciuta, come l’organizzazione che da molto tempo condiziona positivamente il nostro presente e il nostro futuro. In occasione dei sei mesi di presidenza italiana al Consiglio europeo, Oxygen racconta l’Europa com’è oggi e com’è stata in passato, spiegando la sua influenza positiva e riflettendo sui continui passi ancora da compiere. Perché, come sosteneva Jacques Delors, «L’Europa è come la bicicletta: se non va avanti, cade».

16 ˜ intervista a

lorenzo bini smaghi

l’unione fa la forza di Vittorio Bo Nata come accordo economico per mettere pace tra le nazioni del vecchio continente, l’Unione europea è diventata oggi immensa e complessa: riunisce più ambiti, molti più Stati, e ricopre un ruolo internazionale fondamentale. Per ricordare l’importanza dei passi fatti, Oxygen ne parla con chi ha partecipato attivamente ad alcuni di essi.

22 ˜ contesti Guerra e pace tra nazionalismi di Louis Godart

× Unione Europea: semestre italiano ×

Gli equilibri europei si sono sempre basati sul significato più o meno ampio assunto nel tempo dal concetto di nazione. Talvolta origine di guerre, altre di sogni e di grandi proposte, ha incendiato gli animi quando è stato confuso con il nazionalismo. Una storia da conoscere per non ripetere errori già commessi.

26 ˜ data visualization Europa 1914-2014

28 ˜ opinioni Senza, per un giorno L’esperimento di Clarence di Giorgio Vasta Se il continente europeo non fosse mai esistito, sarebbe poi grave? Non ci sarebbe questa Unione, né, pensandoci, ce ne sarebbe bisogno. Oppure sì, perché l’UE è soprattutto un’occasione: l’insieme di culture che generano da sempre concetti e conquiste su cui tutto il mondo ha posto le sue basi.

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32 ˜ future tech

50 ˜ opinioni

Diari digitali, archivi partecipati di Simone Arcagni

solidità germanica di Angelo Bolaffi

34 ˜ infografica istruzioni per l’uso

36 ˜ intervista a

luca parmitano

un ambasciatore spaziale di Alessandra Viola È uno sguardo privilegiato quello di chi osserva il mondo dall’alto. Come quello dell’astronauta Ambasciatore del semestre di presidenza italiana al Consiglio europeo. Parmitano azzarda a paragonare la vita in una stazione spaziale alle difficoltà che si incontrano nel condividere un continente. I suoi pensieri su un’Europa spaziale.

40 ˜ opinioni contro l’europa di Leonardo Martinelli

Il Paese che oggi sembra gestire le sorti dell’economia dell’Unione, la Germania, vi aveva aderito in realtà in tutt’altre condizioni. Ma nel tempo il suo modello economico e la capacità di pensare le giuste strategie lo hanno convertito in ciò che conosciamo: una nazione non immune alla crisi che ha colpito l’Europa, ma molto meno esposta.

54 ˜ contesti Unito il Regno, unita l’Europa di Matthew Saltmarsh Scampato il pericolo dell’indipendenza scozzese, la Gran Bretagna sembra vivere un rinnovato sentimento europeo, che però fatica a stabilizzarsi. Se da una parte, infatti, elezioni europee e referendum hanno lanciato l’allarme di un nazionalismo dilagante, dall’altra la distanza inglese dal modello comunitario ha radici antiche.

Esponenti dei due partiti euroscettici più importanti, reduci dal recente successo alle elezioni europee, Nigel Farage e Marine Le Pen hanno più motivi di disaccordo sulle loro critiche all’Europa che punti in comune. A cominciare dal ruolo dell’Unione in ambito di politiche economiche e immigrazione: due tematiche fondamentali, sulle quali si giocano alleanze e divergenze future.

58 ˜ infografica

46 ˜ intervista a

62 ˜ scenari

andrea montanino

Istituzioni sotto una nuova luce di Maria Chiara Voci Il desiderio di ripresa economica in Europa non manca e, secondo gli esperti, le possibilità non sono così remote, anzi. L’UE mette a disposizione degli Stati membri strumenti istituzionali come il Fondo italiano di investimento, il Fondo F2I o il Fondo strategico italiano che potrebbero diventare gli attori dello sviluppo e creare un nuovo modo di fare politica economica.

i conti in tasca all’ue

60 ˜ oxygen senza confini Figli di Zeus di Emanuela Donetti

Sinergie di energie di Francesco Starace Sostenibilità ambientale, sicurezza energetica, mercato unico: sono queste le prossime sfide per l’energia europea. Ed è qui che la collaborazione tra i Paesi può costituire un’opportunità, anche a livello globale. Basta saperla cogliere, ed Enel ha tutti gli strumenti per farlo.

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66 ˜ contesti

82 ˜ approfondimento

Proiettati al 2030 di Daniela Vincenti

Ogni cosa è europea di Elisa Barberis

Maggiore importatore di energia al mondo, il vecchio continente guarda al 2030 con la consapevolezza di dover raggiungere importanti obiettivi nel campo del clima e dell’energia. E le strade da percorrere sono molte, come l’efficienza e la riduzione delle emissioni di carbonio.

86 ˜ contesti

70 ˜ scenari Un mercato interconnesso di Marco Zatterin La sicurezza energetica è una delle questioni più urgenti per il futuro dell’UE e le risorse per fare fronte alle emergenze ci sono. Mancano ancora integrazione e interconnessione energetica, obiettivi antichi quanto l’idea di Unione ma che stentano a decollare. E su di essi si basano l’economia e gli inverni futuri.

74 ˜ contesti Un dialogo per la rete elettrica di Jacopo Giliberto

Lavorare sulla realtà di Dario Di Vico Il mercato del lavoro cambia velocemente; si plasma in base alle richieste messe in atto dallo sviluppo delle tecnologie e dà spazio alla nascita di figure professionali impensabili fino a pochi decenni fa. Per dare una vera sferzata all’occupazione occorre che, accanto ai governi, si schierino anche le imprese.

90 ˜ contesti Collaborare per l’impresa di Gianluigi Torchiani Sede di molte tra le principali aziende a livello globale, l’Europa ha visto nel tempo scemare la sua credibilità. Eppure tutt’oggi questo continente è una potenza economica, e per sostenerla l’Unione ha creato molti strumenti a favore di piccole e grandi imprese.

94 ˜ intervista a

monique goyens

Dalla posta elettronica alla musica, fino alla televisione e alla mobilità: molti dei nostri gesti passano oggi attraverso l’elettricità, le cui esigenze sono necessariamente cambiate, complice anche l’avvento delle fonti rinnovabili. La rete, che in Italia è nata a Milano ben più di un secolo fa, ha bisogno di rinnovarsi; gli Stati Uniti sono già all’opera, e ora è il momento dell’Europa.

78 ˜ approfondimento La mossa per unire le differenze di Nick Butler Non esiste una politica energetica comune, eppure i 28 Stati membri dell’UE si trovano ad affrontare come un unico attore internazionale problemi globali e altre nazioni. Ma per difendere le posizioni prese contro il cambiamento climatico, l’UE deve soprattutto misurarsi con le proprie differenze interne e soddisfare le aspettative di tutti.

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In difesa del consumatore di Martino Cavalli Internet, protezione della privacy, sicurezza alimentare: molti sono gli aspetti di competenza della Commissione europea che hanno a che fare con gli interessi del consumatore. Perché questi siano sempre tutelati esiste il BEUC, diretto da Monique Goyens.

98 ˜ scenari ponti economici di carta di Alessandro Barbera Si sente spesso parlare degli anti-euro, convinti che alla base dei problemi economici di alcune nazioni come Italia e Francia ci sia la creazione della moneta unica. Ma sono poi molte queste voci, o fanno solo rumore senza costituire un’opinione diffusa? In un momento di incertezza l’unica cosa chiara è la solidità che può rappresentare l’euro.


102 ˜ intervista a

yves pascouau

Schengen: il viaggio è libero di Cecilia Toso L’abolizione delle frontiere tra diversi Stati europei è stato senz’altro un processo rivoluzionario non solo per i cittadini, ma anche per il commercio e, di riflesso, per l’economia. Eppure, ciò che oggi ci sembra un dato di fatto ha alle spalle una storia trentennale, specifici requisiti di accesso e un’idea ben precisa di libertà e sicurezza.

106 ˜ data visualization Sentimento europeo

118 ˜ approfondimento Horizon 2020 Il nuovo orizzonte della ricerca di Luca Salvioli Ricerca e innovazione sono settori strategici per la crescita economica di tutti i Paesi, e il nuovo programma di finanziamento dimostra non solo la loro crucialità ma anche l’importanza di uno scambio vivace e proficuo tra le diverse realtà. Più finanziamenti, ma anche meccanismi di accesso ai fondi più semplici, incentivi all’interdisciplinarietà e alla sana competizione.

122 ˜ approfondimento

108 ˜ speciale enel foundation

Open, data di Alberto Cottica

La città, ragion d’essere di Oriol Nel·lo

Intersecare dati, raccogliere nuove informazioni dalla commistione e dal confronto: un sapere aperto e pronto allo scambio, all’utilizzo incrociato, senza frontiere né proprietari. Questo è lo scenario che offrono gli open data, un’opportunità che l’Europa ha già in parte colto e sulla quale sta muovendo importanti passi avanti per rendere ancora più fluido il passaggio di conoscenza tra gli Stati membri.

Per fare un continente, ci vuole una città. L’Europa si basa per molti versi sulla sua urbanizzazione, un processo che l’ha resa quello che è oggi. Ma il mondo cambia, mutano le sue esigenze e affinché i Paesi del continente europeo abbiano economie e società competitive e sane, i loro cittadini e le istituzioni si devono unire per migliorare le città.

112 ˜ approfondimento Tradizioni per tutti i culti di Francesca Lozito

114 ˜ approfondimento I progressi della generazione “e” di Chiara Romerio Moltissimi studenti europei grazie all’Erasmus hanno potuto fare un’esperienza unica; studiare all’estero non significa solo apprendere meglio una lingua ma acquisire l’incredibile capacità di sentirsi cittadini del mondo. Nonostante la forte spinta verso l’internazionalizzazione degli studi che ha visto la nascita di altri programmi e riforme, esistono ancora barriere tecniche da abbattere.

126 ˜ contesti La frontiera è passata di Chiara Priante Il passaporto? Oggi un oggetto esotico, da togliere dal cassetto solo per i viaggi oltreoceano. Ma non è sempre stato così: Schengen ha ridefinito le abitudini di viaggio dei cittadini europei, liberi di muoversi senza doversi fermare alla frontiera in 29 Paesi, dando nuova linfa a un settore di importanza strategica come quello turistico.

130 ˜ la scienza della lingua globish, la lingua per tutti di Andrea De Benedetti

133 ˜ English version

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enel.com


Industria, agricoltura, arte, architettura, ingegneria, scienza. Non esiste disciplina nella quale l’Italia non sia stata grande. Non esiste settore nel quale non abbiamo brillato. Siamo stati un faro per qualunque civiltà, ora è tornato il momento di fare luce. E allora

#guardiamoavanti Costruiamo, inventiamo, produciamo, scriviamo. Facciamo qualcosa di cui essere di nuovo fieri. Perché per essere grandi come il nostro passato non serve la nostalgia. Serve l’energia.

insieme con


Cs

contributors

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Hanno contribuito a questo numero

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01˜ Alessandro

02˜ Lorenzo

03˜ Angelo

04˜ Martino

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Barbera

Bini Smaghi

Bolaffi

Cavalli

Butler

Nato a Ferrara, si è laureato in Giurisprudenza a Bologna e, dopo una breve esperienza alla Banca centrale europea, ha scelto il giornalismo. Ha iniziato all’agenzia di stampa Ap.Biscom, oggi Tmnews; da dieci anni è a La Stampa e collabora ad Aspenia.

Economista, è presidente di SNAM. Dal 2005 al 2011 è stato membro del consiglio esecutivo della BCE, di cui ha collaborato alla creazione dirigendo la divisione politica dell’European Monetary Institute di Francoforte.

Filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 ha diretto l’istituto italiano di cultura di Berlino. Tra le sue pubblicazioni, Il sogno tedesco: la nuova Germania e la coscienza europea e il recente Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea.

Caporedattore di Panorama, si è occupato a lungo di economia, finanza e di questioni europee da Milano e da Bruxelles, dove per quattro anni è stato corrispondente del Sole 24 Ore.

È stato vicepresidente delle politiche strategiche della BP, ed è consulente in materia di politiche energetiche per il Cavendish Laboratory di Cambridge. Scrive per il Financial Times. Dal 2009 al 2010 è stato consigliere del primo ministro Gordon Brown.

06˜ Alberto

07˜ Dario

08˜ Jacopo

09˜ Louis

10˜ Monique

Cottica

Di Vico

Giliberto

Godart

Goyens

Economista, è esperto di politiche pubbliche collaborative e partecipazione online. Lavora con il ministero dello Sviluppo economico italiano e il Consiglio d’Europa, oltre a essere fondatore del progetto online sulle politiche giovanili Edgeryders.

Editorialista e inviato del Corriere della Sera si occupa di economia reale, lavoro e imprese. Scrive per il quotidiano milanese dal 1989 e ne è stato vicedirettore dal 2004 al 2009. Ha appena pubblicato Cacciavite, robot e tablet. Come far ripartire le imprese per Il Mulino.

Giornalista al Sole 24 Ore, dove si occupa in prevalenza di tematiche ambientali ed energetiche, è stato portavoce dei ministri dell’Ambiente dei governi Monti e Letta. Tra le sue pubblicazioni, Le guerre dell’ambiente e No Tav, cronache di una valle arrabbiata.

Archeologo, filologo e autore di numerosi testi di storia, è consigliere per la conservazione del patrimonio artistico presso la Presidenza della Repubblica italiana, membro dell’Accademia dei Lincei, dell’Institut de France e dell’Accademia di Atene.

Direttore generale del BEUC, che rappresenta 40 associazioni nazionali di consumatori in 31 Paesi europei, ha fatto parte del Gruppo Liikanen ed è membro di diversi organismi rappresentativi e di ricerca all’interno dell’UE.

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11˜ Maria Patrizia Grieco

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Presidente del CdA di Enel da maggio 2014, è stata amministratore delegato di Siemens Informatica e dal 2008 di Olivetti, di cui è stata anche presidente del CdA fino a giugno 2014. È inoltre consigliere di amministrazione di Fiat Industrial e di Anima Holding.

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12˜ Leonardo

13˜ Andrea

14˜ Oriol

15˜ Luca

16˜ Yves

Martinelli

Montanino

Nel·lo

Parmitano

Pascouau

Caporedattore di Firstonline, ha lavorato per 20 anni al Sole 24 Ore. Corrispondente da diverse parti del mondo (da Bruxelles, dal Giappone, dal Sudamerica e da Parigi), è autore e conduttore di programmi per Radio Rai.

Direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale, è stato direttore generale al ministero dell’Economia e delle Finanze, consigliere economico del Ministro PadoaSchioppa ed economista alla Commissione europea e al Centro studi di Confindustria.

Geografo, è specializzato in studi urbani e pianificazione. È docente nel dipartimento di Geografia dell’Università autonoma di Barcellona e ha diretto l’Istituto di studi metropolitani della città dal 1988 al 1999. Ha avuto diversi ruoli nella scena politica catalana.

Astronauta dell’Agenzia spaziale europea e pilota dell’Aeronautica militare, è Ambasciatore del semestre di presidenza italiana dell’UE. Nel 2013 ha passato 166 giorni nello spazio con la missione Volare dell’Agenzia Spaziale Italiana.

Dottore di ricerca in legge presso l’Università francese di Pau sulla politica migratoria dell’UE, è direttore dell’European Policy Centre, think tank sulle politiche di migrazione e mobilità con sede a Bruxelles, dove si occupa di immigrazione, asilo e integrazione.

17˜ Matthew

18˜ Francesco

19˜ Giorgio

20˜ Daniela

21˜ Marco

Saltmarsh

Starace

Vasta

Vincenti

Zatterin

Giornalista, dopo essere stato direttore della StockWell Communications e aver lavorato a Parigi come corrispondente per l’International Herald Tribune, nel 2014 ha iniziato a lavorare per Dais Media, un’agenzia di contenuti editoriali con sede a Londra.

Amministratore delegato e Direttore generale di Enel da maggio 2014, è stato AD di Enel Green Power. Laureato in Ingegneria nucleare al Politecnico di Milano ha ricoperto ruoli in società del gruppo GE e ABB, prima di giungere in Enel nel 2000.

Scrittore, con Il tempo materiale – pubblicato in diversi Paesi europei e negli Stati Uniti – è stato selezionato al Premio Strega 2009 e finalista a diversi premi letterari. Collabora con la Repubblica, il Sole 24 Ore e il manifesto, oltre a scrivere su minima&moralia.

Laureata alla Sorbona e alla scuola di giornalismo della Columbia University, è editorin-chief del portale EurActiv.com. Come giornalista ha lavorato per più di vent’anni in Italia, Stati Uniti e Germania, dove è stata corrispondente per Il Messaggero.

Nato a Roma, ha lavorato per numerose testate, tra cui Ore12-Il Globo, Italia Oggi, L’Indipendente e La Stampa, di cui ha diretto le pagine economiche; dal 2006 è corrispondente a Bruxelles. Autore di numerosi saggi, dal 2007 cura Straneuropa, blog di cronache europee.

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Ed

editoriale

Il migliore dei mondi possibili di Maria Patrizia Grieco Presidente Enel

Il settore energetico, da sempre motore dello sviluppo economico, può rappresentare uno degli strumenti fondamentali per rilanciare il vecchio continente in termini di competitivitĂ

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ai come in questi ultimi anni il dibattitto sull’Europa e sul suo futuro è stato tanto acceso. La crisi economica ha svelato tutte le fragilità dell’Unione europea, alimentando malumori verso Bruxelles e spinte nazionaliste, oltre che riflessioni sul senso e sulle prospettive della costruzione europea. Riflessioni che sembrano minare sempre di più la popolarità di un processo che fino a pochi anni fa appariva indiscutibile. L’attenzione della classe dirigente e dell’opinione pubblica europea è sempre più concentrata sui temi dell’economia; la ricerca di un bilanciamento tra il rigore nella gestione del debito e la necessità di allargare le maglie dell’austerity, il dibattito sull’uscita dall’euro e gli squilibri macroeconomici rischiano di creare un profondo divario tra gli Stati membri e di alimentare la disaffezione e l’ostilità dei cittadini nei confronti delle istituzioni dell’Unione. La crisi economica, che è anche crisi sociale e morale, rischia in altri termini di farci dimenticare il senso ultimo del progetto europeo e tutto ciò che di positivo è scaturito dai Trattati di Roma in poi: il processo di unificazione avviato oltre sessant’anni fa ha garantito ai cittadini europei decenni di sviluppo e benessere. La tutela dei diritti, il welfare e le conquiste civili che il progetto europeo ha assicurato non hanno eguali. In settant’anni di pace e democrazia, l’Europa è stata il migliore dei mondi possibili. Il modello di cessione volontaria di sovranità e la creazione, attraverso i trattati, di istituzioni comuni hanno reso possibile la realizzazione di un mercato che ha consentito grande stabilità, sviluppo e benessere. E credo che anche i cittadini dell’Unione – nonostante tutto – ne siano ben consapevoli: se è vero che il risultato più clamoroso e preoccupante delle elezioni europee dello scorso 25 maggio è stata la forte crescita dei movimenti antieuropei, che hanno ottenuto un risultato senza precedenti, è altrettanto vero che le cinque grandi formazioni filoeuropee (partito popolare, partito

socialista, liberali, verdi e sinistra unitaria) si sono aggiudicate più di 550 seggi su 750. E l’hanno fatto dopo la legislatura economicamente più difficile e socialmente più dura della storia comunitaria. L’Unione europea si trova dunque davanti a un importante banco di prova ma anche dinnanzi a un’opportunità di cambiamento e di rilancio che il governo italiano, che ne ha appena assunto la Presidenza di turno, deve saper cogliere e guidare. La crisi ha evidenziato i limiti strutturali del nostro modello di crescita; un modello basato su un ampio sistema di welfare che non è più sostenibile e non lo sarà più in un continente con dei tassi di crescita e di produttività quali quelli attuali. È necessario pensare a un nuovo modello che tenga conto dei grandi cambiamenti che sono intervenuti e che consenta all’Europa di tornare a essere competitiva sui mercati internazionali. Il settore energetico, da sempre motore dello sviluppo economico, può rappresentare uno degli strumenti fondamentali per rilanciare il vecchio continente in termini di competitività. Attraverso la creazione di un sistema energetico che sappia coniugare ambiente ed energia, prestando al contempo particolare attenzione al tema della sicurezza energetica (che il caso ucraino ha posto in evidenza) e al completamento del mercato unico, si può nuovamente competere sulla scena internazionale. In questo contesto l’innovazione tecnologica rappresenta la leva principale su cui agire per raggiungere questi obiettivi, diversificando le fonti energetiche, limitando le emissioni di CO2 e riducendo contemporaneamente i costi dell’energia. Per un continente relativamente povero di risorse scommettere sul proprio futuro significa anche investire nella propria capacità di innovare e di guardare lontano con coraggio e ottimismo. Quel coraggio e quell’ottimismo che ebbero i padri costituenti quando, nell’Europa del dopoguerra, immaginarono un nuovo mondo possibile. Un mondo in cui tutti noi abbiamo il privilegio di vivere.

La tutela dei diritti, il welfare, le conquiste civili che il progetto europeo ha assicurato non hanno eguali. In settant’anni di pace e democrazia, l’Europa è stata il migliore dei mondi possibili

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timeline

Un’integrazione storica

Tl

Tappe europee

Nuovo Stato membro

Contesto storico

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1951

1954

1957

Trattato di Parigi Nasce la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio Robert Shuman, ministro degli esteri francese, propone a Francia, Germania e a ogni altro Paese interessato di mettere in comune le risorse di produzione di carbone e acciaio. Gestione e controllo di quell’industria ritenuta foriera di guerra sarebbero state affidate a nuove istituzioni, dotate di autorità propria.

Fallimento del trattato sulla Comunità europea di difesa Il progetto negoziato tra il 1952 e il 1953, che prevedeva la creazione di istituzioni comuni e che avrebbe accelerato il processo di unione politica europea, fu respinto il 31 agosto dall’Assemblea Nazionale francese.

Trattati di Roma CEE e EURATOM o CEEA Nasce tra i membri della CECA l’idea di un mercato unico, uno spazio integrato in cui possano circolare liberamente merci, servizi e lavoratori, in cui vi sia uguaglianza nella concorrenza e possibilità di aiuto sociale. Nascono la Comunità economica europea e la Comunità europea dell’energia atomica.

Membri CECA Belgio Francia Germania Occidentale Italia Lussemburgo Olanda

1951

1956

1960

Pace precaria Il protrarsi della guerra fredda minaccia la speranza di una pace duratura all’insegna della concordia e cooperazione tra i Paesi del vecchio continente. Si fanno strada diverse ipotesi per preservare l’unità europea.

Invasione dell’Ungheria e crisi di Suez Il timore di nuovi conflitti e soprattutto di una crisi minacciano ancora una volta l’unità.

Un’Europa più ristretta Il Congo Belga, l’Africa equatoriale e occidentale francese e il Madagascar raggiungono l’indipendenza. L’Algeria per l’autonomia dovrà attendere il 1962, e le colonie portoghesi la fine del salazarismo. I confini dell’impero coloniale cominciano a ridursi.


1965

1968

1973

1978

Trattato di Fusione La struttura organizzativa della CEE, CECA e CEEA viene riunita sotto una Commissione e un Consiglio delle Comunità europee. Le tre Comunità da questo momento condividono lo stesso bilancio.

Libero scambio I sei Paesi fondatori aboliscono i dazi doganali sulle merci d’importazione, consentendo per la prima volta la liberalizzazione degli scambi transfrontalieri. Applicano inoltre gli stessi dazi sulle rispettive importazioni dai Paesi terzi. È la nascita del più grande raggruppamento commerciale al mondo.

L’Europa dei 9 Danimarca Irlanda Regno Unito

Istituzione del Sistema Monetario Europeo Per garantire maggiore stabilità fra le valute, i tassi centrali di cambio intorno ai quali le monete possono oscillare sono determinati in funzione di una nuova unità di conto europea, l’ECU.

1981 Europa a 10 Grecia

1974 Terza ondata di democratizzazione Con la caduta del regime dei colonnelli la Grecia inaugura la terza ondata di democratizzazione a cui si uniranno il Portogallo, con la rivoluzione dei garofani del 1974, e la Spagna con la morte di Francisco Franco nel 1975. Si creano le basi perché i tre Stati possano chiedere l’adesione.

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1985 Schengen L’accordo firmato a Schengen fra il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi intende eliminare progressivamente i controlli alle frontiere comuni e introdurre un regime di libera circolazione per i cittadini degli Stati firmatari, degli altri Stati membri della Comunità o di Paesi terzi.

1986

1992

1997

Europa a 12, le nuove democrazie Spagna Portogallo

Trattato di Maastricht, nascita dell’UE Firmato nel 1992 ed entrato in vigore nel 1993, ha come finalità quella di preparare la creazione dell’Unione monetaria europea e gettare le basi per un’unione politica (cittadinanza, politica estera comune, affari interni). Istituisce l’Unione europea e introduce la procedura di co-decisione, che conferisce al Parlamento maggiori poteri nel processo decisionale. Nascono nuove forme di cooperazione tra i governi dell’UE.

Trattato di Amsterdam Il trattato, che entra in vigore nel 1999, riforma le istituzioni europee in vista dell’adesione di nuovi Stati membri. Modifica, rinumera e consolida i trattati UE e CEE, rende più trasparenti i processi decisionali proponendo un più ampio rinvio al processo di co-decisione.

1987 Atto unico europeo Completa la costruzione del mercato interno, la cui liberalizzazione non si era mai del tutto concretizzata a causa delle differenze nelle legislazioni nazionali. Si cerca di dare aria nuova, dopo le crisi economiche degli anni Settanta, e di avviare un primo embrione di unione politica, conferendo maggiori poteri al Parlamento europeo.

Quasi Europa La Svizzera domanda l’adesione all’UE, ma l’esito negativo del referendum sulla sua adesione allo Spazio economico europeo pregiudica anche la sua richiesta di adesione.

Nascita del programma Erasmus

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1995 Europa a 15 Austria Finlandia Svezia

1985

1990

1993

La Groenlandia, parte della Comunità europea come territorio danese, chiede di uscirne dopo la consultazione tramite referendum.

Germania unita Dopo la caduta del muro di Berlino del 1989, anche la Germania dell’Est può entrare a far parte della Comunità europea.

Due da una La Cecoslovacchia cessa di esistere e nascono la Repubblica Ceca e la Slovacchia.


2001

2002

2004-2005

2007

2013

Trattato di Nizza Si prospetta un nuovo allargamento dell’UE, e con il trattato di Nizza ci si prepara a riformare le istituzioni per consentire all’UE a 25 di funzionare in maniera efficiente. Le principali novità sono i metodi per modificare la composizione della Commissione e la ridefinizione del sistema di voto in seno al Consiglio.

Moneta unica L’euro entra in circolazione in 12 Stati membri dell’UE.

Costituzione europea Il progetto, denominato “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, è stato firmato a Roma dai 25 Stati membri dell’UE, ma è stato poi abbandonato per l’esito negativo dei referendum sulla ratifica svoltisi in Francia (29 maggio 2005) e nei Paesi Bassi (1° giugno 2005).

Trattato di Lisbona Entrato in vigore nel 2009, rende l’UE più democratica, efficiente e preparata ad affrontare, con un’unica voce, i problemi di portata mondiale. Sono conferiti maggiori poteri al Parlamento europeo, modificate le procedure di voto del Consiglio, istituiti un presidente permanente del Consiglio europeo, un alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e un servizio per l’azione esterna. Il trattato definisce chiaramente le competenze dell’UE, quelle degli Stati membri e quelle condivise.

Europa a 28 Croazia

1999 Euro Avvio dell’Unione monetaria.

2004 Europa a 25 Cipro Estonia Lettonia Lituania Malta Polonia Repubblica Ceca Slovacchia Slovenia Ungheria

Europa a 27 Bulgaria Romania

2003 Strumento di pace L’UE assume la direzione di missioni di mantenimento della pace nei Balcani, nell’ex Repubblica iugoslava di Macedonia e poi in Bosnia-Erzegovina. In entrambi i casi, le forze dirette dall’UE sostituiscono le unità della NATO.

2004-2005 Questioni mondiali L’Europa affronta il terrorismo con gli attentati di Madrid, a marzo 2004, e di Londra a luglio 2005, proprio nel semestre di presidenza del Regno Unito.

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In

intervista

L’Unione fa la forza Intervista a Lorenzo Bini Smaghi Economista

di Vittorio Bo

Nata come accordo economico per porre le basi di una pace duratura tra le nazioni del vecchio continente, l’Unione europea è diventata oggi immensa e complessa: riunisce più ambiti, molti più Stati, e ricopre un ruolo internazionale fondamentale. I passi fatti, però, non sono sempre chiari a tutti, e per ricordare la loro importanza Oxygen ne parla con chi ha partecipato attivamente alla realizzazione di alcuni di essi.

L’Unione europea non è perfetta, ha davanti a sé una lunga strada, costruita dai molti professionisti che vi lavorano, che in essa portano idee e impegno. È grazie a loro che l’Europa può crescere; lo ha già fatto e può farlo ancora. Un pensiero semplice ma pratico quello di Lorenzo Bini Smaghi, membro del comitato della Banca centrale europea dal 2005 al 2011, ma prima ancora, a metà degli anni Novanta, impegnato presso l’Istituto monetario europeo, a Francoforte, proprio a lavorare alla creazione della BCE. L’Unione europea si può criticare e migliorare, ma prima di tutto bisogna conoscerla, sapere con chiarezza su quali equilibri si è costituita e avere bene in mente cosa significano le scelte fatte nel tempo.


Ieri Il primo passo verso l’integrazione europea fu un accordo economico: la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Poteva sembrare un’idea banale, poco più di un accordo di produzione commerciale tra Stati, e invece fu una proposta rivoluzionaria. La pace attraverso un accordo commerciale. E da questo bisogno di equilibrio nacque un processo che ha portato all’Unione di oggi, di cui però troppo spesso secondo Lorenzo Bini Smaghi «si tendono a ricordare personaggi famosi, esponenti politici, o date storiche come la firma dell’Atto Unico, il Trattato di Maastricht o l’avvio dell’Unione monetaria il 1° Gennaio 1999». Tutte tappe importanti che, in base agli equilibri mondiali del momento, hanno indicato la strada da prendere di volta in volta. «Ma accanto a queste date simboliche non bisogna dimenticarsi che il processo di integrazione europeo è il frutto di un lavoro continuo, svolto a tutti i livelli, anche da funzionari nazionali ed europei che preparano le decisioni con proposte, negoziati, compromessi. Superare le differenze nazionali, e le resistenze degli Stati membri alla devoluzione dei poteri verso l’Unione richiede molto impegno e pazienza, che talvolta non vengono adeguatamente riconosciute. È grazie al lavoro oscuro di molte persone, spesso tacciate ingiustamente di “burocrati”, che poi il livello politico riesce a far compiere dei passi avanti importanti all’Unione». Non date e accordi, dunque, ma lavoro umano. E risposta a un’esigenza umana fu anche la CECA, la prima vera tappa dell’integrazione, un modo per creare collaborazione dopo gli strascichi lasciati dalla guerra mondiale e per “blindare” all’interno di precisi accordi una delle industrie ritenute foriere di conflitti. L’economia, dunque, al servizio della serenità umana, di quella della politica internazionale e della pace. Eppure oggi le questioni economiche mettono a rischio quegli stessi equilibri che hanno creato, ma a livello più ampio, globale. E la soluzione, perché gli Stati europei non vengano fagocitati da altri e perché l’equilibrio si mantenga, è che l’Unione resti tale. «In un mondo sempre più integrato, dove emergono nuove potenze economiche come la Cina, l’India, il Brasile, i Paesi europei presi singolarmente possono avere un ruolo solo marginale. Rimanendo da soli dovrebbero accettare le regole dettate da altri. Solo stando uniti, all’interno dell’Unione, possono difendere i loro interessi e promuovere i valori di libertà, anche economica, che hanno sancito la prosperità del continente nel dopoguerra». Oggi E non si tratta di allarmismo, la quotidianità ce lo dimostra: «I recenti problemi politici in Ucraina evidenziano ancor di più la necessità per i Paesi europei di lavorare insieme e aumentare l’integrazione delle loro politiche anche in nuovi settori, come quello energetico. Senza un processo unitario, si rischia di tornare al protezio-

Il primo passo verso l’integrazione europea fu un patto economico, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Una proposta rivoluzionaria: la pace attraverso un accordo commerciale


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nismo nazionalista, che non farebbe altro che impoverire le nostre economie». Ma l’Unione oggi sembra meno forte di quanto potrebbe essere e il problema, secondo Bini Smaghi, è da ricondursi alle autorità nazionali «che si oppongono alla devoluzione di poteri verso l’UE. Il caso più paradossale è quello degli Eurobond, ossia la possibilità di emettere titoli di Stato in comune, che viene richiesta a gran voce da molti, senza però accettare in cambio una maggior condivisione dei poteri di bilancio pubblico. Si sentono spesso i rappresentanti politici nazionali opporsi alle cessioni di sovranità, anche quando magari ciò aiuterebbe il sistema economico». Poi arrivano i momenti di crisi e allora «appare chiaro a tutti che non ha senso mantenere i poteri a livello nazionale e che solo condividendoli a livello europeo si riesce a superare le difficoltà. A questo punto le autorità nazionali accettano di fare dei passi avanti verso una maggiore integrazione». Non stiamo parlando di difetti europei, anzi: «È la natura democratica del processo di integrazione, che richiede l’accordo di tutti e che paradossalmente ne rallenta la velocità». Facendo una riflessione sul presente, tra gli elementi più criticati all’UE dai suoi Stati membri vi è il patto di stabilità e crescita (PSC), accordo del 1997 che 018

richiede ai membri dell’Unione economica e monetaria di rispettare nel tempo alcuni di quei parametri che li hanno resi idonei a far parte dell’Eurozona, e che secondo molti è ingestibile in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo. Ma secondo Bini Smaghi «un’attenta lettura delle norme, e il modo in cui sono state applicate di recente, dimostra che c’è molta flessibilità nelle regole attuali. Nessuno vuole strozzare le economie degli altri Paesi con politiche eccessivamente restrittive, ma non è nemmeno accettabile rimandare alle calende greche la correzione degli squilibri di finanza pubblica accumulati in passato». Come ridurre il debito dunque? «Ci sono due modi. Il primo è aumentare il potenziale di crescita dell’economia, attraverso riforme che accrescano la competitività del sistema. Il secondo è applicare misure di austerità. L’Europa chiede ai Paesi di mettere in atto la prima via, ma se non la vogliono percorrere, o non riescono a farlo, rimane solo la seconda». Agire è, senza dubbio, la parola d’ordine, per non rifugiarsi nell’incolpare il capro espiatorio europeo. «I Paesi che non fanno le riforme finiscono per discutere solo di finanza pubblica, ma non possono rimproverare l’Europa per la loro incapacità di agire».


il gigante si rimette in moto |

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Bisogna rafforzare ulteriormente la legittimitĂ democratica delle istituzioni europee, stabilendo un legame diretto con i cittadini, senza le mediazioni delle strutture nazionali 019


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l’unione fa la forza |

Domani Tra i nuovi strumenti che l’Unione ha adottato per fronteggiare la crisi, vi è il trattato istitutivo del meccanismo europeo di stabilità, detto anche fondo salva-Stati, entrato in vigore nel 2012. Nel 2014 è stato trovato un accordo per l’istituzione del meccanismo di risoluzione e del fondo salva-banche. Se queste misure appaiono adeguate per fronteggiare episodi isolati di insolvenza, sapranno garantire all’Unione europea una stabilità economica e finanziaria di lungo periodo? Il domani è incerto, ma secondo Bini Smaghi «questi sono passi avanti molto importanti. Si vede come oggi il sistema è meno fragile a squilibri e shock esterni. Ma ciò che è stato realizzato non è sufficiente per far ripartire l’economia e riformare il sistema, che in molte parti rimane arretrato. I rischi non sono scomparsi e possono riemergere in ogni momento. L’impalcatura europea è oggi più solida ma deve ancora essere rafforzata, ad esempio mettendo in comune programmi di sostegno all’occupazione in caso di crisi. Per fare questo ci vuole tuttavia più fiducia tra i Paesi, per sconfiggere l’impressione che ci si voglia solo approfittare dei meccanismi europei e che a pagare siano sempre gli stessi». Fiducia che può essere aiutata dal capire che l’Unione è, in tutto e per tutto, un’organizzazione altamente democratica «perché le scelte fatte a ogni passaggio istituzionale sono state ratificate dai sistemi politici nazionali». Non mancanza di democrazia, per Bini Smaghi, ma di fiducia democratica: «Bisogna rafforzare ulteriormente la legittimità democratica delle istituzioni europee, stabilendo un legame diretto con i cittadini, senza le mediazioni delle strutture nazionali. Da questo punto di vista la nomina di Jean-Claude Juncker a Presidente della Commissione europea, in seguito alla vittoria relativa del PPE alle elezioni europee, rappresenta un importante passo avanti. Non è un caso che sia stata osteggiata da molti politici nazionali, contrari a un ruolo più importante del Parlamento europeo». Per immaginare un futuro che risollevi l’economia europea, si deve sostenere la reputazione di un’organizzazione indispensabile. «Bisogna intanto cominciare a far funzionare bene le nuove istituzioni e i meccanismi, a partire dall’Unione bancaria. È necessario convincere gli scettici che la devoluzione dei poteri a livello europeo era la cosa giusta da fare, e che forse andava fatta pri-

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I Paesi che non fanno le riforme finiscono per discutere solo di finanza pubblica, ma non possono rimproverare l’Europa per la loro incapacità di agire

ma. Così si rafforza la fiducia nell’Unione, e si prepara il terreno per nuovi passi avanti, anche in altri settori come quello dell’energia. In questa fase di crisi economica c’è la naturale tendenza a ripiegarsi su se stessi, a credere che “piccolo è bello” e che i problemi si risolvono meglio tra pochi. Non è il caso solo dell’Unione ma anche degli Stati nazionali, basta vedere quello che succede nel Regno Unito o in Spagna». Si tende ad accusare l’Europa per la crisi economica dei suoi Stati membri, ma è proprio la scarsa fiducia che alcuni nutrono verso di essa che mina le nostre economie. «Questa crisi è più una crisi di identità degli Stati nazionali tradizionali che dell’Unione». 021


Co

contesti

Guerra e pace tra nazionalismi articolo di Louis Godart Storico e consigliere per la conservazione del patrimonio artistico alla Presidenza della Repubblica italiana

Gli equilibri europei negli ultimi secoli si sono basati sul significato piÚ o meno ampio assunto nel tempo dal concetto di nazione. Talvolta origine di guerre, altre di sogni e di grandi proposte, ha incendiato gli animi quando è stato confuso con il nazionalismo. Una storia che oggi dobbiamo conoscere e interpretare per non ripetere errori già commessi. 022


Alle soglie del 2015 l’Europa vive un momento difficile: il progetto di Costituzione europea è stato respinto da Francia e Olanda, due dei sei Paesi fondatori; spinte nazionaliste hanno conquistato terreno nelle ultime elezioni europee e si manifestano a volte con echi inquietanti, come in Inghilterra, Ungheria, Francia, Austria e Grecia; l’Italia stessa non è risparmiata dall’azione di forze antieuropee che vogliono abbandonare la moneta unica e smantellare l’edificio faticosamente creato con i Trattati di Roma; l’entusiasmo generato dallo slancio impresso dai padri fondatori si è largamente affievolito. In molti Paesi del vecchio continente chi contesta l’Europa unita rispolvera il concetto di “nazione” applicandolo spesso a entità locali come la “Padania”, la “Bretagna”, la “Catalogna”, le “Fiandre”, per citarne soltanto alcune. Riflettere sulle tragedie provocate proprio dall’emergere dell’idea di “nazione” può quindi rivelarsi utile. L’Europa del Settecento Nel diciottesimo secolo una repubblica europea dello spirito innalza le sue barricate contro l’intolleranza; è il momento felice che vede in Francia il termine “umanità” sostituire quello di “cristianità”. Allargando il proprio orizzonte ai confini del pianeta i cittadini d’Europa registrano con entusiasmo le grandi scoperte fatte dai navigatori che solcano gli oceani e riportano nei loro bagagli l’immagine dell’uomo nuovo, il buon selvaggio, «questo bruco rinchiuso nel suo bozzolo che un giorno diventerà farfalla», per riprendere l’espressione di Voltaire. Le grandi anime cosmopolite di cui parla Rousseau nel suo L’origine della disuguaglianza del 1762 scavalcano le barriere immaginarie che separano i popoli e iniziano a sentire come loro impegno il dovere di assicurare pace e felicità a tutte le famiglie dell’umanità. Tutti gli uomini della “repubblica delle lettere” sparsi per l’Europa dei primi tre quarti del Settecento sognano; affermano che il secolo che deve nascere non sarà più chiamato «il secolo di Augusto o di Luigi XIV, la grande epoca della Francia o dell’Italia: sarà il secolo glorioso dell’Europa intera». Il sogno non si avvererà mai. Le nazioni, infinitamente più pericolose dei sovrani, con i concetti esacerbati di nazionalità e nazionalismi erano oramai all’opera e pronte ad accendere incendi ovunque pur di far trionfare i propri fanatismi.

Per fare una nazione occorre una coscienza comune, il desiderio di costituire una fratellanza politica e nutrire amore e orgoglio per un nome che funge da vessillo per radunare uomini e donne. La Francia alla fine del Settecento comincia a pensare a un ideale che possa materializzarsi attraverso la terra dei padri. L’Europa oramai è lontana. Di fronte a lei la Francia si pone come la “Grande Nazione”, secondo la formula apparsa sotto il Direttorio e adottata dai francesi con entusiasmo. Grazie all’esempio della Francia, celebrata come nazione da Hegel, la Germania dell’inizio del diciannovesimo secolo sente germogliare in sé il concetto di nazionalità. Nasce allora il mito della Germania creatrice, capace di costruire a Colonia la regina delle chiese gotiche, inventrice della cavalleria, dei tornei,

La nascita del concetto di “nazione” Con la Rivoluzione francese il termine “nazione” ha un successo strepitoso. Un popolo intero si ubriaca pronunciandolo. Alla battaglia di Valmy del 20 settembre 1792, che vide la prima importante vittoria della Francia rivoluzionaria, i francesi si lanciavano contro il nemico gridando «Viva la Nazione!». 023


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della Scolastica, della polvere da cannone e, grazie a Gutenberg, della stampa a Magonza. La Germania punta sulla tradizione, sulle acquisizioni storiche, sul genio della razza che ha saputo inventarle. Il “Volkstum” di Friedrich Ludwig Jahn, che nasce all’inizio del diciannovesimo secolo, contiene tutti gli embrioni dei conflitti futuri. La nazionalità, prodotto della nazione, fa emergere due concetti terribili: il primo è quello della razza, potenza animale e misteriosa, antinomica a qualsiasi essere umano escluso dal branco; il secondo è il passato inteso come giustificazione del primato della razza ed elevato al rango di massa poderosa in grado di soffocare il presente. Lo scontro del 1870 tra la Germania e la Francia contribuisce alla creazione di una Germania imperiale posta sotto l’egida della Prussia. Si tratta di un conflitto nuovo rispetto a quelli che nel corso dei secoli avevano visto opporsi il regno di Francia a quello d’Austria. Intorno a Sedan si affrontano eserciti profondamente diversi da quelli del passato, formati da militari di professione; questa volta a cercare di annientarsi sono armate di cittadini che sentono di appartenere a una ben precisa nazione. Dal 1870 l’Europa è diventata un continente popolato da nazioni ardenti, desiderose di incrementare i loro possedimenti o di vendicare offese o smacchi subiti. In un tale contesto parlare di “unione europea”, o di “repubblica europea” sembrava una provocazione. La nazione si è armata e ha cominciato a mobilitare la scienza per metterla al servizio della guerra. L’industria, nome applicato una volta a una qualità dell’intelligenza, diventa il termine usato per qualificare una macchina dotata di un potere enorme, che i responsabili delle nazioni utilizzano per scopi che sono tutt’altro che pacifici. Krupp a Essen e Schneider a Le Creusot fabbricano cannoni sempre più potenti e sofisticati. Sono soprattutto la Francia e la Germania a soffiare sul fuoco: la disfatta francese del 1870, con la conseguente perdita dell’Alsazia e della Lorena, alimenta nel Paese un forte sentimento di revanscismo nei confronti dei tedeschi; la Germania in piena espansione, con un esercito potente e grandi ambizioni coloniali, è pronta allo scontro. Altri Paesi sono in fermento. La Gran Bretagna, preoccupata di mantenere il suo dominio sui mari, intende contrastare l’espansionismo tedesco. La Russia e l’Austria-Ungheria si scontrano sulla questione balcanica: la Russia protettrice delle popolazioni slave tenta di imporre la propria

presenza nel Mediterraneo e si trova a sbarrare la strada all’Austria-Ungheria, decisa a spezzare il nazionalismo slavo sostenuto dalla Serbia e dal suo re Pietro I, salito al trono nel 1903. Il 28 giugno 1914, dopo l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria da parte di un militante serbo, l’Austria decide di intervenire per schiacciare il focolaio di nazionalismo serbo e il 28 luglio dichiara guerra alla Serbia. Per via del gioco delle alleanze, il conflitto che si sarebbe potuto circoscrivere ai soli Balcani, degenera in una guerra dalle proporzioni devastanti. Nel 1918 la disfatta della Germania porta all’abdicazione dell’imperatore Guglielmo II. Il nuovo regime non può far fronte alle difficoltà crescenti della Germania del dopoguerra: la violenza della crisi economica del 1929 evidenzia la sua impotenza di fronte alla disoccupazione e alla miseria dilagante e favorisce l’emergere di movimenti estremisti di cui sa approfittare il nazionalsocialismo. Ferita e frustrata dalla sconfitta del 1918, la Germania si lascia sedurre dalla voce appassionata di Adolf Hitler che predica l’odio nel nome della razza e vuole sottomettere l’intera Europa al suo regime perverso. Il 30 gennaio 1933 il presidente Hindenburg nomina Hitler cancelliere. In brevi tappe Hitler e i suoi complici impongono una dittatura basata sul virulento antisemitismo che sbocca in una persecuzione atroce costata la vita a sei milioni di ebrei. Attribuitosi pieni poteri, Hitler prepara la Germania alla guerra con una politica di grandi lavori all’interno e di aggressione nei confronti dei suoi vicini: nuova militarizzazione della Renania, Anschluss (ovvero annessione dell’Austria), smembramento della Cecoslovacchia, invasione della Polonia il 1° settembre 1939, che scatena la seconda guerra mondiale. Sei anni dopo, nel 1945, il continente europeo è un immenso campo di macerie. Il 17 gennaio 1995 François Mitterrand, nel suo ultimo discorso al Parlamento europeo, gridando «Le nationalisme c’est la guerre!» “Il nazionalismo è guerra!” ha mirabilmente sintetizzato il pericolo immane rappresentato dalla deriva generata da chi scommetteva sulla nazione a scapito dell’Europa. Per sconfiggere i mostri che l’hanno insanguinata, occorre ritrovare la passione che animava i padri fondatori memori del dramma della seconda guerra mondiale, e persuasi della necessità imprescindibile di un’unione fra Paesi che condividono gli stessi valori e sono pervasi della stessa cultura.

Dal 1870 l’Europa è diventata un continente di nazioni ardenti, desiderose di incrementare possedimenti o vendicare offese: parlare di “unione europea”, o di “repubblica europea” sembrava una provocazione

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Nel suo ultimo discorso al Parlamento europeo del 1995, Mitterrand grida «Le nationalisme c’est la guerre!» 025


Dv

data visualization

1914

Europa 1914-2014

1400/2500

a cura di Oxygen Due mondi distinti: l’Europa che conosciamo oggi e quella che esisteva nel 1914. Ma soprattutto due modi opposti di affrontare l’“essere europei”. Se a inizio secolo prevaleva una cultura bellica – sostenuta da un’economia di guerra, da mire imperialiste e da un modo diverso di intendere i diritti umani –, oggi l’Europa è composta da più Paesi di un tempo, uniti però tra loro da intenti e scopi economici simili, con un’industria forte e varia e una società partecipe e sana. E ha scelto la più conveniente cultura di pace, portando giovamenti all’economia, alla politica e alle persone.

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1914

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milioni di km2

Impero britannico Le ambizioni imperialiste europee furono alla base delle invidie tra Francia, Germania e l’Inghilterra. L’impero britannico fu il più vasto del Novecento, con colonie – dal Labrador a Ceylon – che facevano crescere del 146% il PIL nazionale.

Dimensioni continentali Oggi, che non esistono più colonie com’erano intese a inizio Novecento, i chilometri quadrati di superficie occupati dagli Stati sovrani geograficamente europei non arrivano a 11 milioni.

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Territorio Economia Società 026

miliardi $

miliardi $

Una spesa mondiale I Paesi coinvolti nel primo conflitto mondiale hanno speso per la guerra una cifra calcolata tra i 1400 e i 2500 miliardi di dollari, all’incirca la cifra che oggi si spende a livello mondiale nello stesso settore.

Un business in calo La spesa mondiale militare annuale non arriva ai 2000 miliardi di dollari. Il 2013 è il secondo anno di contrazione di questo settore.

2014

milioni di km2

1914

1747

2014

43

2014

paesi

paesi

Un’Europa a meno voci Nel 1914 l’intero continente era composto da soli 22 Paesi: un’unione imperiale e artificiale che pretendeva di governare culture completamente diverse tra loro.

Un’unione corale Nel 2014 possono definirsi geograficamente e culturalmente europei ben più di 40 Stati. Un’apparente frammentazione che l’Unione europea con i suoi 28 Stati membri contribuisce, invece, a unire.


32,3%

1914

71%

2014

dei lavoratori

dei lavoratori

Concentrati nell’industria Dal 1914 il 32,3% dei lavoratori europei era impiegato nell’industria, in particolare quella bellica, che solo in Italia dava lavoro a 200.000 donne. La produzione di acciaio, principale materia prima per gli armamenti, vedeva tra i capifila la Germania con 14 milioni di tonnellate all’anno.

Una popolazione al terziario Oggi solo il 25% dei lavoratori europei lavora nel settore secondario e l’acciaio è destinato solo in minima parte alla produzione militare. È invece il terziario a occupare più dei due terzi dei lavoratori.

49,9

1914

39.290 $

Ricchezza prebellica Alla vigilia della grande guerra, il PIL pro capite europeo medio era di 2643$. Il più alto, 5176$, era quello britannico.

Benessere diffuso Oggi, il PIL pro capite medio europeo testimonia un certo benessere. Il più alto è quello del Principato di Monaco (171.465$).

1914

+300% dei prezzi

44%

2014

donne

donne

Solo uomini A inizio Novecento, nessun Paese europeo permetteva alle donne di avere un ruolo politico.

Un nuovo spazio Oggi la Svezia è il primo, tra i Paesi europei per presenza di parlamentari donne, con quasi il 45% dei seggi occupati. Seguono Finlandia, Islanda, Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio e Spagna.

76

2014

2014

2643 $

Illusione bellica Con la prima guerra mondiale l’inflazione di buona parte dei Paesi coinvolti è cresciuta di più del 100%. Quella tedesca del 300%. Il loro PIL è calato circa del 30% tra inizio e fine del conflitto, a eccezione dell’Inghilterra.

0

1914

1914

10%

1914

anni

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di arruolati

Speranza di vita Nel 1914 la speranza di vita in Italia era in media di 49,9 anni. I francesi erano i più longevi (58,7) e gli spagnoli i meno (42,8).

Vecchio continente L’età media degli europei è in continua crescita: i più longevi oggi sono gli spagnoli e gli italiani, che vivono in media fino a 82 anni.

Una popolazione in guerra Circa il 10% della popolazione europea fu coinvolta nel conflitto. Dei 40 milioni di arruolati ne morì circa il 20%.

2%

2014

di inflazione Concretezza europea Il Consiglio direttivo della BCE si propone di mantenere l’inflazione dell’Eurozona nel medio periodo attorno al 2%. Una stabilità, impossibile senza l’euro, che fa aumentare la spesa e dà ossigeno a famiglie ed economia.

2,7%

2014

di arruolati Un’Europa pacifica Oggi poco più di 7 milioni di europei fanno parte delle forze dell’ordine. E sono solo una decina gli Stati europei che mantengono obbligatorio il servizio militare. Il primo Paese a sospendere l’obbligo di leva è stato il Regno Unito.

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Cosa accadrebbe in un giorno senza l’Europa? Senza cioè la possibilitĂ di usare quanto la cultura materiale ma soprattutto immateriale del vecchio continente ha saputo nel tempo generare e metterci a disposizione?

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Op

opinioni

Senza, per un giorno

L’esperimento di Clarence articolo di Giorgio Vasta Scrittore

Se il continente europeo non fosse mai esistito, sarebbe poi grave? Non ci sarebbe questa Unione, né, pensandoci, ce ne sarebbe bisogno. Oppure sì, perché l’UE è soprattutto un’occasione: l’insieme di più culture che da sempre hanno generato concetti elaborati e conquiste su cui tutto il mondo ha posto le sue basi. E sulle quali ha creato la sua e la nostra storia. In La vita è meravigliosa, il capolavoro di Frank Capra del 1946, l’angelo “di seconda classe” Clarence sottopone George Bailey, il protagonista del film interpretato da James Stewart, a una specie di esperimento esistenziale mostrandogli cosa sarebbe stata la vita delle persone che lo circondano se lui, George Bailey, non fosse mai esistito. Tramite una serie di incontri Bailey si rende conto di come e quanto la sua esistenza, intersecando e modificando quella degli altri, sia stata e sia ancora importante. Cosa succederebbe se provassimo a ripetere la simulazione di Clarence modificandone i termini e ipotizzando di far scomparire non una singola esistenza ma quella di un’intera regione geografica del globo terrestre? Cosa accadrebbe, per esempio, se provassimo a immaginare un nostro normalissimo

lasso di vita quotidiana senza una specifica porzione di terra emersa? Un giorno, per esempio, senza l’Europa. Senza cioè la possibilità di usare quanto la cultura materiale ma soprattutto immateriale del vecchio continente ha saputo nel tempo generare e metterci a disposizione. Senza, dunque, tutte le conquiste etiche, politiche e sociali su cui si è costruita la nostra storia. All’inizio di questo esperimento Clarence potrebbe decidere di condurci in un’epoca – il 461 a.C. – e in un luogo – Atene – che hanno giocato un ruolo fondativo per la cultura europea (quando la stessa cognizione fisica e politica di Europa era ancora inesistente). Secondo il nostro esperimento, e quindi contraddicendo la Storia, nel 461 a.C. Pericle, colui che raffinerà l’esperienza della polis in una prospettiva radicalmente democratica, non 029


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pronuncia il suo famoso discorso («Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così») le cui premesse e i cui effetti, – questa è la logica del gioco – non innerveranno di sé il pensiero sociale e politico dei secoli a venire. Senza la Grecia antica, senza l’isonomia propria della polis, ovvero il sottostare di ogni cittadino alle medesime norme, senza l’aeropago in cui si definiva il diritto e si amministrava la giustizia e, ancora, senza la dialettica ius-lex meravigliosamente illustrata dall’Antigone di Sofocle, il Mediterraneo non sarebbe diventato il teatro fertile di quel “pensiero meridiano” di cui scrisse Albert Camus connettendo tra loro cultura e topologia. Un pensiero della luce che riconosceva nel mare – confine naturale di tutta l’Europa australe – un insostituibile patrimonio collettivo. Tramite un arditissimo salto storico-geografico Clarence potrebbe decidere adesso di risalire da sud a nord per approdare in un frammento di territorio vulcanico al limite dell’oceano Atlantico Settentrionale, ed esattamente a Thingvellir, non lontano dall’odierna Reykjavík. Obiettivo del nostro angelo di seconda classe è mostrarci come, nel 930 d.C., in questo territorio di rocce e di faglie non nascerà l’Althing, vale a dire la prima esperienza assembleare di cui si abbia notizia. Per quando l’Islanda non sia oggi parte dell’Unione europea colpisce però verificare come l’esigenza di parlamentarismo, dunque la vocazione alla dimensione legislativa, sia stata un’attitudine comune a regioni una agli antipodi dell’altra. A dimostrazione del fatto che partecipazione e collaborazione sono a qualsiasi latitudine pratiche imprescindibili. Proseguendo il suo viaggio sperimentale Clarence ci porterebbe al 1513 per mostrarci in che modo, non scrivendo Il principe, Niccolò Machiavelli non fonderà la scienza politica moderna. Nella sua opera, il filosofo fiorentino ha avuto la capacità di descrivere planimetricamente i fenomeni più manifesti così come le implicazioni più sottili dell’agire politico, l’inscindibilità di luce e buio, il nesso tra 030


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disincanto e pragmatismo. Qualità comuni a quell’altro indispensabile manuale di cultura politica che fu Il cortegiano di Baldassarre Castiglione. La sua assenza dalla nostra enciclopedia di riferimento comporterebbe ancora una volta un limite d’ordine non tanto speculativo quanto del tutto pratico: senza la riflessione critica del Cortegiano sui vizi e sulle virtù del potere, non avremmo infatti a nostra disposizione quello strumento di mediazione e, a volte, persino di ricomposizione dei conflitti che è la conversazione, dunque la particolare declinazione del linguaggio che nell’immaginare alternative e nel formulare ipotesi può condurre al cambiamento. Ed è a questo punto che l’esperimento di Clarence prevedrebbe altre due tappe – ancora due tempi e due luoghi – necessarie alla comprensione di ciò che saremmo senza l’Europa. Prima di tutto dovremmo raggiungere il 14 giugno 1985, giorno in cui non vengono ratificati gli accordi di Schengen e lo spazio europeo non conosce una necessaria straordinaria rivoluzione. Considerato che il passaggio da un tempo di separazioni a un’epoca di attraversamenti, da un’Europa compartimentata a una cultura della permeabilità e della fluidità corrisponde a una

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specie di ingresso collettivo nell’età adulta e al contempo, realizzando in una chiave geografica l’insegnamento di Baldassarre Castiglione, ha fatto dell’Europa un conversare di spazi e di culture, immaginare che tutto ciò non accada, immaginare il venire meno di una reciproca apertura e di un’altrettanto reciproca disponibilità, è a dir poco disorientante (del resto disorientarci è lo scopo di questo esperimento). La meta successiva (e ultima) del viaggio di Clarence è il 7 febbraio 1992, quando presso una cittadina dei Paesi Bassi, precisamente nella provincia del Limburgo, non viene firmato il Trattato di Maastricht e dunque non nasce l’Unione europea. Nel non verificarsi di una serie di processi storici verrebbe inevitabilmente vanificato uno dei valori cardine dell’Unione: quello per cui ognuno dei 28 Stati membri cede una parte della propria sovranità agli organismi comunitari. Si tratta di un principio etico e solidale, una reciproca assunzione di responsabilità che ha le sue radici in tutto ciò che è successo nel corso del tempo. Soltanto che senza il discorso di Pericle sulla democrazia, senza l’esperienza di condivisione assembleare dell’Althing islandese, senza la cultura rinascimentale espressa da Il principe e da Il cortegiano, senza il pensiero cooperativo alla base degli accordi di Schengen, senza un’incalcolabile quantità di metamorfosi traumatiche, di evoluzioni e di involuzioni, di progressioni e di arresti, in sostanza senza quella che è stata l’avventura di un’idea che non ha mai smesso di farsi realtà, non saremmo approdati alla continua reinvenzione critica di se stessa che è l’Europa contemporanea. Prendiamo dunque congedo da Clarence con una consapevolezza che ereditiamo proprio dal suo esperimento: quello di cui parliamo quando parliamo d’Europa non è semplicemente uno spazio geografico ma un giacimento di contraddizioni, di possibilità e di visioni. Una forma di conoscenza. Un’occasione che, per fortuna, non cessa mai di accadere.

Quello di cui parliamo quando parliamo d’Europa non è semplicemente uno spazio geografico ma un giacimento di contraddizioni, di possibilità e di visioni. Una forma di conoscenza. Un’occasione che non cessa mai di accadere

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future tech

Diari digitali, archivi partecipati articolo di Simone Arcagni Giornalista fotografie di Europeana

Materiali di ogni genere, reperti che raccontano storie, incroci e scoperte: questo è Europeana 19141918, iniziativa della biblioteca digitale dell’UE che riunisce tre grandi progetti europei per raccontare la grande guerra attraverso la digitalizzazione e condivisione di documenti e ricordi, il tutto rigorosamente in ottica Creative Commons. Perché un rinnovato sentimento comunitario nasce innanzitutto da conoscenza e partecipazione.

La grande guerra è stato il momento storico – drammatico e spaventoso – che ha però ridefinito gli assetti nazionali europei. Sono state proprio le tragedie delle due guerre mondiali a spingere politici e intellettuali a ideare un’Europa delle nazioni collaborativa, che poi sarebbe diventata l’Unione europea. Dalla prima guerra mondiale, quella delle trincee, dei bombardieri, dei carri armati, della mitragliatrice, emerge un’Europa nuova che vede la caduta definitiva degli imperi (tedesco, austro-ungarico, ottomano, russo) a favore degli Statinazione. Un processo traumatico che ha lasciato una serie di nodi politici ed economici irrisolti che, infatti, sono poi sfociati in un’altra tragica guerra mondiale. Ora, nell’anno del centenario, le nazioni una volta in guerra decidono di partire dai documenti per rievocare un processo storico considerato centrale nella storia comune, e provare così a creare unione e partecipazione laddove

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c’era stata divisione e violenza. Questo l’obiettivo di Europeana, la biblioteca digitale dell’UE che, con Europeana 1914-1918, riunisce tre grandi progetti europei che si occupano di diversi materiali relativi alla prima guerra mondiale. “Le storie del pubblico”, in collaborazione con l’Università di Oxford, Facts & Files e numerosi partner in tutta Europa, raccoglie materiali diversi per digitalizzarli e condividerli sul web. Con “Collezioni nazionali” il progetto Europeana Collections 1914-1918 ha raccolto (dal 2011 a oggi) in un’unica collezione digitale pezzi tratti dal patrimonio delle biblioteche nazionali di otto Paesi europei, tra cui l’Italia che partecipa con l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche italiane e la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Si tratta di una raccolta di oltre 400.000 tra libri, giornali, riviste, mappe, documenti, filmati, manifesti, fotografie, memorabilia (medaglie, monete, uniformi, bandiere). E infine “Cineteche”: Il


progetto European Film Gateway 1914 che ha raccolto 650 ore di filmati e materiale audiovisivo sulla prima guerra mondiale che comprendono reportage, documentari, film di fiction e video di propaganda o contro la guerra. Europeana 1914-1918 è un progetto innovativo di archiviazione digitale partecipata. Una biblioteca che prevede l’immissione, e quindi la compresenza, di testi molto eterogenei in un’unica piattaforma. Un archivio “aperto” che si basa sull’adozione di Creative Commons per far sì che gli utenti possano liberamente accedere ma anche servirsi dei documenti (ovviamente citando la fonte). Un archivio “aperto” anche perché è stato reso disponibile alla partecipazione dal basso: gli utenti hanno potuto inserire i loro testi o direttamente dal sito o partecipando ai diversi Collection Day, momenti di incontro tra quanti hanno materiale sulla guerra che vogliono far digitalizzare e mettere a disposizione. Chi portava una foto, chi lettere, chi oggetti dal fronte. Chi provava a ricostruire i percorsi del proprio avo e magari ha incrociato quelli di altri militari, persino su fronti opposti. Il lavoro di crowdsourcing e di sharing di questa documentazione sta davvero creando nuovi percorsi trasversali che superano le divisioni, che accolgono, comparano, mettono in relazione. Il progetto di Europeana sulla grande guerra sfida l’idea stessa di guerra costruendo un movimento opposto di riconoscimento e condivisione. In questo senso un ruolo fondamentale lo svolgono anche i social network (Facebook, Twitter, Linkedin, Google Plus, Youtube, Vimeo, Flickr e Pinterest) e i blog (uno per il pubblico e uno per gli studiosi) che il progetto ha aperto e che permettono un dialogo costante e aggiornato tra i membri della comunità di studiosi, appassionati, ma anche solo curiosi. L’idea di Europeana 1914-1918 è che da questo enorme archivio partecipato e condiviso possano nascere anche diversi percorsi di ricerca e di interpretazione, oltre che una nuova e più radicata sensibilità europea.

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CONSIGLIO EUROPEO

Istruzioni per l’uso

Definisce gli orientamenti politici generali. Guidato da un presidente nominato dal Consiglio stesso con un mandato di due anni e mezzo, e costituito dai capi di Stato o di governo degli Stati membri e dal presidente della Commissione, si riunisce almeno ogni 6 mesi

PAESI

UE

LE IST IT UZ IO N I

CONSIGLIO DELL'UNIONE EUROPEA (Potere legislativo)

Infografica a cura di Centimetri

28

LA L E D

È costituito dai ministri degli Stati membri. Insieme al Parlamento approva o modifica le proposte della Commissione. È presieduto a rotazione semestrale da uno degli Stati membri

Il Parlamento è l’unico organo europeo eletto con voto popolare diretto da tutti i cittadini dei 28 Stati dell’Unione. Il numero di seggi assegnati per Paese è calcolato sulla base della popolazione rappresentata

EUROPARLAMENTO PRESIDENZA ATTUALE DEL CONSIGLIO DELL'UE

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CORTE DI GIUSTIZIA

Interpreta il diritto UE affinché esso venga applicato allo stesso modo in tutti i Paesi dell'Unione. Giudica le controversie tra i governi degli Stati membri e le istituzioni dell'UE. I privati cittadini, le imprese o le organizzazioni possono portare un caso all'attenzione della Corte se ritengono che un'istituzione dell'Unione abbia leso i loro diritti

751 SEGGI

REGNO UNITO

Europa della libertà e della democrazia diretta (EFDD)

IRLANDA

ITALIA

70

dal 1º luglio al 31 dicembre 2014

FUTURE PRESIDENZE

(data inizio: mese-anno)

(2012, in milioni)

034

221

FRANCIA

PORTOGALLO

Partito Popolare Europeo Democratici Europei (PPE)

Lettonia: 01-2015 Lussemburgo: 07-2015 Paesi Bassi: 01-2016 Slovacchia: 07-2016 Malta: 01-2017 Regno Unito: 07-2017 Estonia: 01-2018 Bulgaria: 07-2018 Austria: 01-2019 Romania: 07-2019 milioni Finlandia: 01-2020

503,6 POPOLAZIONE

Conservatori e riformisti europei (ECRG)

SPAGNA


BANCA CENTRALE EUROPEA

COMMISSIONE (Potere esecutivo)

Gestisce la politica monetaria nella zona euro preservando la stabilità dei prezzi attraverso la modulazione dei tassi di interesse per i prestiti CORTE alle banche commerciali. La BCE DEI CONTI promuove inoltre l'occupazione Composta da un e la crescita economica membro per ciascun sostenibile nell'Unione Stato dell'UE. Ha il compito europea di controllare che i fondi dell'Unione europea siano raccolti EUROPARLAMENTO e utilizzati correttamente contribuendo (Potere legislativo) così a migliorare la gestione finanziaria dell'UE. La Corte agisce come un revisore È co-legislatore in quasi tutti i settori del diritto esterno indipendente dalle altre istituzioni dell'Unione. Insieme al Consiglio, il Parlamento approva o modifica le proposte presentate dalla Commissione e adotta europee e dai governi il bilancio dell'Unione. È l'unica istituzione europea degli Stati membri ad essere eletta direttamente dai cittadini ed è una delle assemblee democratiche più grandi del mondo. Il suo mandato è di 5 anni Fissa obiettivi e priorità di azione, può fare proposte legislative, gestisce e attua le politiche e il bilancio europeo. È composta da 28 membri, uno per Paese, e si riunisce una volta alla settimana

PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE Eletto dall'Europarlamento su nomina del Consiglio europeo ALTO RAPPRESENTANTE POLITICA ESTERA Capo della diplomazia europea e vicepresidente della Commissione

SVEZIA

FINLANDIA

ESTONIA DANIMARCA LETTONIA PAESI BASSI

Non iscritti

LITUANIA

52

POLONIA

GERMANIA BELGIO LUSSEMBURGO

Sinistra Europea Sinistra Verde Nordica (GUE-NGL)

REP. CECA SLOVACCHIA AUSTRIA UNGHERIA

50

ROMANIA CROAZIA SLOVENIA

BULGARIA Alleanza dei socialisti e dei democratici (S&D)

ITALIA

191

GRECIA

MALTA

Alleanza dei Liberali e Democratici per l’Europa (ALDE)

67

CIPRO Verdi Europei Alleanza Libera Europea (Verdi-ALE)

52 035


In

intervista

un ambasciatore spaziale Intervista a Luca Parmitano Astronauta

di Alessandra Viola Giornalista

È uno sguardo privilegiato quello di chi osserva il mondo dall’alto. Come quello dell’astronauta Ambasciatore del semestre di presidenza italiana al Consiglio europeo. Parmitano azzarda a paragonare la vita in una stazione spaziale alle difficoltà che si incontrano nel condividere un continente. I suoi pensieri su un’Europa spaziale.

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Siciliano, italiano, europeo: Luca Parmitano, astronauta classe 1976 dell’European Space Agency, dopo 166 giorni nello spazio, nella missione di lunga durata Volare dell’Agenzia Spaziale Italiana, potrebbe a buon diritto definirsi semplicemente “cittadino del mondo”. Eppure l’identità per lui è ancora importante. «Essere europei – ci ha spiegato – è una grandissima opportunità e non significa certo smettere di essere italiani, francesi o tedeschi, ma costruire un’identità comune più grande nella quale beneficiare dell’esperienza altrui e portare la nostra». Militare di grande talento anche insignito di prestigiosi riconoscimenti, Parmitano è al tempo stesso un giovane semplice e spontaneo – che in questa intervista si è prestato a farsi dare del “tu” come un vecchio amico –, e un professionista dalla parte dei giovani, cui vuole trasmettere un messaggio di apertura, ottimismo e fiducia nei confronti delle possibilità offerte dall’Europa. La sua stessa vita del resto dimostra quali e quante siano le opportunità che un contesto europeo e internazionale può offrire all’Italia e a ognuno dei suoi cittadini: per questo – oltre che per ribadire l’assoluta eccellenza della ricerca italiana – il governo del nostro Paese lo ha scelto come Ambasciatore del semestre italiano alla presidenza europea. In cosa consiste il tuo lavoro di Ambasciatore? Il mio non è un lavoro diplomatico ma di comunicazione: un ambasciatore rappresenta quello che il Paese vuol far sapere di sé durante la sua presidenza. Il bello di questo lavoro è che non devo inventare niente: quando parlo di Europa come di una risorsa inesauribile per la crescita, parlo semplicemente della mia esperienza. Da giovane ho lasciato la Sicilia per unirmi all’Aeronautica Militare, e quindi a un settore dell’eccellenza italiana. Poi, grazie agli accordi di difesa esistenti tra l’Italia e le altre nazioni, sono partito per integrarmi in un contesto europeo. Un percorso culminato con l’esperienza da astronauta quando sono entrato a far parte dell’Agenzia Spaziale Europea. In definitiva, è stata l’Europa a rendere possibile la mia carriera. Quella di ambasciatore è comunque una missione molto diversa da quella nella Stazione Spaziale Internazionale alla quale hai recentemente partecipato. In che modo quest’ultima esperienza ti ha preparato al ruolo che ricopri oggi? In 166 giorni di missione ho fatto molte cose diverse. Ero ingegnere di bordo, l’equivalente di un copilota responsabile dei sistemi di volo, e nella stazione spaziale questo significa fare un po’ di tutto: esperimenti scientifici, attività extraveicolari, attività a bordo. Mi sono dovuto interfacciare con un ambiente internazionale, perché c’erano per-

Sentirsi europei non significa rinunciare a essere italiani ma crescere come italiani, portare il proprio contributo alla comunità, e al tempo stesso prendere dalle altre culture quanto c’è di buono per migliorarsi 037


sone di altre lingue e culture. Ho capito che sentirsi europei non significa rinunciare a essere italiani ma crescere come italiani, portare il proprio contributo allo sviluppo della comunità, e al tempo stesso prendere dalle altre culture quanto c’è di buono per migliorarsi. Com’è l’Europa vista dallo spazio? Quali considerazioni ha prodotto in te vederla da lassù? Il Mediterraneo, che è quello che considero la nostra casa, è un velluto blu su cui l’Italia è poggiata come un gioiello. Da lassù è meravigliosa e sempre riconoscibile. Vedere l’Europa dall’alto fa riflettere: queste frontiere che la nostra storia e il nostro retaggio culturale hanno inventato, sono immaginarie. Di giorno non esiste nessun confine, e le terre fluiscono una nell’altra riconoscibili solo dalle forme più particolari, come lo stivale italiano, la tigre scandinava o il quadrato spagnolo. Sparisce l’uomo, spariscono i laghi, i fiumi, persino le montagne sono mere entità bianche senza altezza. Di notte invece l’uomo compare in tutta la sua creatività e trasforma la terra in una costellazione di luce sfavillante, un cielo stellato in cui le nostre città sono tutte collegate da autostrade e ferrovie, in cui tutto è visibile e riconoscibile. In cui l’Europa è veramente interconnessa.

buon siciliano ho chiesto anche... la parmigiana di melanzane. Il lavoro di astronauta è strettamente legato alla ricerca scientifica e l’Italia rappresenta un’eccellenza mondiale in questo settore. Quali nuove occasioni ti aspetti per la ricerca nel semestre di presidenza italiana? Una grossa occasione si aprirà fra qualche mese, quando il nostro ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sarà impegnato nella conferenza in cui tutte le agenzie spaziali si incontrano per decidere il futuro dello spazio. Sarà l’opportunità per ribadire il nostro ruolo di leadership e il livello di assoluta avanguardia raggiunto dall’Italia nelle costruzioni aeronautiche. Non mi occupo di scienza in particolare, ma ho visto per esempio che nella missione spaziale di Samantha Cristoforetti sono previsti moltissimi esperimenti italiani, il che dimostra l’interesse dell’Italia per lo spazio e per la ricerca. Questo mi rende ottimista: puntare sulla ricerca è il modo giusto per uscire dalla crisi, come ci dimostra anche la storia.

Quando rifletto su come si lavora nella Stazione Spaziale, è immediato pensare all’Unione europea: anche lì le nazioni cedono parte della loro sovranità per il bene comune, e questo conduce a grandi risultati, quelli dell’Europa che mi piace

Cosa significa per un italiano essere anche europeo? Cosa ha significato per te essere italiano ed europeo nello spazio? Da quando ho iniziato questo lavoro, ho sempre sentito che noi europei abbiamo un ruolo ben preciso che è quello d’interfaccia tra i colleghi russi e americani. Grandi professionisti che lavorano però in modo profondamente diverso e che ci riconoscono un ruolo di mediazione. Noi ci portiamo dietro duemila anni di storia e questo sulla stazione orbitante diventa importante. La nostra capacità di creare legami viene dalla nostra cultura, e quale cultura migliore e più universalmente apprezzata della nostra arte culinaria? Per questo, quando mi hanno offerto di personalizzare il menu standard per la missione spaziale, ho pensato di creare un cibo spaziale che potesse essere condiviso, per creare un clima conviviale e legami basati sull’amicizia, sull’essere rilassati, e non solo sul lavoro. Ho puntato su parole internazionali come lasagna e risotto, ma da 038

Ti è capitato di paragonare lo spazio all’Unione europea. Quali affinità trovi tra due concetti e due luoghi così differenti? Mi rendo conto che sembri un volo pindarico. Eppure è molto semplice. La Stazione Spaziale è basata su un concetto straordinario: la cooperazione. Alla fine della guerra fredda, due nazioni storicamente nemiche come gli Stati Uniti e l’URSS si misero d’accordo per crearla, avviando un progetto pacifico in cui gli interessi dell’umanità vennero messi davanti a quelli della politica e dei governi per creare qualcosa di storico. È stato un passo gigantesco, ed è incredibile pensare che questo qualcosa funzioni ancora oggi: anche con tutte le tensioni politiche dei nostri giorni, nella Stazione Spaziale si continua infatti a lavorare. Quando penso a come si lavora lassù, è immediato il collegamento con l’Unione europea: anche lì le nazioni cedono parte della loro sovranità per il bene comune, e questo conduce a grandi risultati, quelli dell’Europa che mi piace. Che ci piace. Allo stesso modo, come cittadini europei, dobbiamo cedere una piccola parte della nostra identità nazionale per riconoscerci in un’entità più grande, che ci aiuta a crescere e che noi a nostra volta aiutiamo a crescere.


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Op

opinioni

contro l’europa articolo di Leonardo Martinelli Giornalista

Esponenti dei due partiti euroscettici più importanti, reduci dal recente successo alle elezioni europee, Nigel Farage e Marine Le Pen hanno più motivi di disaccordo sulle loro critiche all’Europa che punti in comune. A cominciare dal ruolo dell’Unione in ambito di politiche economiche e immigrazione: due tematiche fondamentali, sulle quali si giocano alleanze e divergenze future. 040


Entrambi ritengono l’euro una delle principali cause della crisi economica del vecchio continente, ammirano Vladimir Putin e si vogliono paladini del ceto medio impoverito 041


oxygen | 24 — 10.2014

Si fa presto a dire «contro l’Europa». In realtà i due campioni dell’eurofobia, il britannico Nigel Farage e la francese Marine Le Pen, al di là di tanti proclami e posizioni simili, viaggiano su due strade diverse. E nei corridoi dei palazzi europei, quando s’incrociano, a fatica si salutano: anche caratterialmente s’intendono ben poco. Lo scorso primo luglio, alla seduta inaugurale del nuovo Europarlamento, quando l’orchestra Filarmonica di Strasburgo eseguì l’Inno alla gioia di Beethoven, Farage e gli altri parlamentari del suo partito, l’UKIP, girarono le spalle al palco, mentre la Le Pen e compagnia, eletti per il Front National, restarono seduti. Anche fisicamente, due modi di dire no. I due campioni dell’anti Europa Farage e la Le Pen sono stati i principali vincitori delle ultime elezioni europee, lo scorso maggio. Si sono addirittura imposti al primo posto con i loro partiti nei rispettivi Paesi: l’UKIP, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, con il 27,5%, e il Front National (FN) con il 24,85%. I due hanno all’incirca la stessa età: classe 1964 l’inglese, 1968 la francese. Ma due storie diverse. Figlio di un broker della City, Farage era uno studente modello al liceo che però rinunciò all’università per andare anche lui a lavorare in Borsa. Militava nel partito conservatore: lo lasciò quando, nel 1992, il premier britannico John Major, il successore di Margaret Thatcher, firmò il

I due campioni dell’anti Europa, Farage e la Le Pen, sono stati i principali vincitori delle ultime elezioni europee, lo scorso maggio. Si sono addirittura imposti al primo posto con i loro partiti nei rispettivi Paesi 042

trattato di Maastricht. In seguito Farage e pochi altri diedero vita all’UKIP. Da allora è stato assorbito dalla politica a tempo pieno, radicalizzando sempre più le proprie posizioni. Per la Le Pen, invece, la scelta politica è stata più scontata fin dagli inizi: è la figlia di Jean-Marie, fondatore del Front National, il partito di estrema destra in Francia. È nata in quel mondo. Anzi, il suo percorso è stato inverso rispetto a Farage, perché, da quando ha preso le redini dell’FN, nel 2011, ha cercato di ammorbidire le posizioni del padre, per sdoganarsi presso gli elettori più moderati. Contro l’Europa, in due modi diversi «Sono contro l’Unione europea, ma amo l’Europa», ha detto Farage. «Non sono contro l’Europa: – ha dichiarato


la Le Pen – sono contro l’UE». Fin qui, il loro discorso è identico. Non solo, entrambi ritengono l’euro una delle principali cause della crisi economica del vecchio continente; anche Farage, sebbene il suo Paese non vi abbia aderito. Entrambi ammirano Vladimir Putin e condividono il suo concetto di Stato-nazione, inattaccabile dall’esterno. Entrambi si vogliono paladini del ceto medio impoverito, tartassato dalle tasse. Ma poi, anche qui, scattano le differenze. Farage ritiene l’UE “bad for business”: non favorisce l’economia, perché impone troppe restrizioni e regole e impedisce alle imprese di fare profitti. Lui è per un ultraliberismo in salsa thatcheriana o, se si vuole, per uno Stato minimo alla Tea Party, dove l’assistenzialismo sia ridotto all’osso e così le tasse. Farage è assolutamente favorevole al libero scambio a livello internazionale. Il Front National, invece, si è convertito negli ultimi anni in un campione dell’anti-globalizzazione. E ritiene che l’Unione europea sia troppo aperta sul mondo e troppo liberale. La Le Pen vorrebbe introdurre nuovi dazi doganali per difendere l’industria nazionale. Ed è per uno Stato sociale sviluppato, che salvaguardi i ceti meno abbienti. Contro l’immigrazione, ai limiti del razzismo Anche su questo tema, i due leader sembrano parlare la stessa lingua, ma solo all’apparenza. Anzi, sull’immigrazione Farage evita in ogni modo di essere accomunato alla Le Pen e ai sospetti di razzismo (e ancora più grave agli occhi degli elettori britannici, a 043


oxygen | 24 — 10.2014

quelli di antisemitismo) che gravano sul Front National. Farage assicura di non essere razzista e di voler solo gestire meglio l’immigrazione, con un approccio pragmatico e non ideologico. Le sue critiche si appuntano soprattutto sugli immigrati che arrivano dal resto dell’Unione europea, e in particolare dall’Est, più che sugli extracomunitari e su quelli di religione islamica, come invece è il caso della Le Pen. Le dichiarazioni sui rumeni che «nessuno vorrebbe come vicini di casa», fatte da Farage subito prima delle elezioni europee, hanno comunque scatenato un vero putiferio nel suo Paese. Farage ha dovuto acquistare un’intera pagina sul “Telegraph” per scusarsi e negare qualsiasi accento xenofobo. L’antisemitismo non lo ha mai toccato, neanche da lontano. A dire il vero anche la Le Pen ha preso le distanze dalle posizioni fortemente intolleranti del suo partito in questo senso. Ma, ancora nel giugno scorso, suo padre, il patriarca Jean-Marie, rispondeva alle critiche di un cantante ebreo francese, Patrick Bruel, affermando che «ne avrebbe fatto un’infornata» dei tipi come lui. La figlia si è subito dissociata. Ma per tanti quello scambio reciproco di accuse è sembrato un “giochino” per tenere buono sia l’elettorato più razzista del Front, grazie al padre, sia quello più moderato e non xenofobo, grazie alla figlia.

Dove sono i palazzi europei Il Parlamento europeo ha tre sedi diverse: una a Bruxelles in cui si svolgono le riunioni delle commissioni, una a Lussemburgo, dove ci sono gli uffici amministrativi, il segretariato generale, e una a Strasburgo, dove si svolgono le sessioni plenarie, una volta al mese. La Commissione ha sede a Bruxelles (palazzo Berlaymont), ha uffici di rappresentanza in tutti i Paesi dell’UE, e alcune delegazioni in diverse capitali del mondo. La Corte di giustizia dell’UE ha sede a Lussemburgo, nel distretto Kirchberg. La Banca centrale europea a Francoforte, in Germania.

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Subito dopo le europee, Marine Le Pen avrebbe cercato di contattare Farage in vista di una possibile alleanza all’interno del nuovo Europarlamento. Farage non ha risposto a queste avance La Le Pen chiama, Farage non risponde Subito dopo le europee, anche se niente di ufficiale è trapelato, la Le Pen avrebbe cercato di contattare Farage in vista di una possibile alleanza all’interno del nuovo Europarlamento. Farage, comunque, non ha risposto a queste avance. Ha preferito cercare altri partner e ne ha trovati, in primis Beppe Grillo, riuscendo a costituire un gruppo, già sciolto ad ottobre (sono necessari almeno 25 eurodeputati di sette Paesi diversi). La Le Pen, che in Italia ha trovato l’appoggio della Lega Nord, non è riuscita invece a costituire un gruppo alternativo. Significa svolgere un ruolo più limitato all’interno del Parlamento europeo. Per il momento la Le Pen guarda avanti, alle prossime presidenziali francesi, nel 2017, per le quali ritiene di avere le sue chance. Farage si prepara alle politiche nel Regno Unito del 2015, dove potrebbe ottenere un seggio a Westminster (il primo dopo quello ottenuto a ottobre 2014 dopo la defezione di un parlamentare). Ma dove il suo partito, per il sistema elettorale in vigore (collegio uninominale a turno unico) non ha alcuna possibilità di spuntarla. 045


In

intervista

istituzioni sotto una nuova luce Intervista ad Andrea Montanino

Direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale di Maria Chiara Voci Giornalista

Il desiderio di ripresa economica in Europa non manca e, secondo gli esperti del settore, le possibilità non sono così remote, anzi. L’UE mette a disposizione degli Stati membri strumenti istituzionali come il Fondo italiano di investimento, il Fondo F2I o il Fondo strategico italiano che potrebbero diventare gli attori dello sviluppo e creare un nuovo modo di fare politica economica.

I problemi sul piatto sono tanti. E coinvolgono non solo l’Italia. Disoccupazione, inflazione ai minimi storici e debito pubblico alle stelle pesano come un macigno sul futuro e sulla fiducia che i cittadini degli Stati del vecchio continente sono disposti ad accordare all’Unione europea. Tuttavia, la strada per migliorare il “saldo” c’è e passa per le proposte di esperti ed economisti, che vedono al di là della crisi. Andrea Montanino, già consigliere economico del ministro Padoa-Schioppa e poi dirigente generale al Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze, è stato economista presso la Commissione europea e attualmente ricopre l’incarico di direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale. Quali sono gli scogli principali che l’Europa si trova ad affrontare? Gli ostacoli maggiori sono principalmente tre, tutti strettamente interconnessi. Innanzitutto, l’alto debito pubblico, problema che 046

affligge non solo l’Italia. Se nel 2008, gli Stati membri che sforavano i parametri fissati dal trattato di Maastricht sul rapporto debito/PIL erano otto, nel 2013 sono passati a 15. Sono cioè raddoppiati. In secondo luogo, la drastica discesa dell’inflazione che, nel caso dell’Italia, sta diventando deflazione. L’obiettivo della Banca centrale europea si attesta vicino al 2%, ma i valori attuali sono mediamente meno della metà. Infine, il basso tasso di crescita. Un tema che affligge soprattutto il nostro Paese, ma che tocca un po’ tutte le nazioni dell’area euro. Questi tre fattori, messi insieme, sono all’origine della stagnazione. La bassa inflazione può spingere a ritardare scelte d’investimento e di consumo, in attesa di prezzi ancora più bassi, e conseguentemente avremo meno crescita. Inoltre, il progressivo abbassamento dei prezzi rende automaticamente più pesante lo sforzo da sostenere per arrivare al rimborso di mutui e prestiti contratti. Compresi gli interessi sul debito dello Stato.


In gran parte dell’Europa il pubblico ha fondi da spendere e per questo è necessario ricorrere a forme nuove per mobilizzare i capitali, come il private equity 047


Matteo Renzi, nell’assumere l’incarico per il semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione europea, ha tuttavia dichiarato che «l’Italia sarà la guida per la ripresa economica del vecchio continente». Quale a suo avviso la strada da percorrere per centrare l’obiettivo? Sono tante le aree su cui lavorare, ma mi soffermo su una in particolare, cioè la graduale discesa del rapporto tra debito e PIL. Gli Stati devono dimostrare che il debito, seppur alto, calerà costantemente e a un ritmo adeguato. Solo così i mercati finanziari potranno sentirsi davvero rassicurati e godere delle condizioni per una ripartenza. Per scendere, il debito ha bisogno di crescita. Servi-

La Germania punta sull’austerity. Altri Stati, fra cui l’Italia, cercano invece una linea più morbida, che consenta ad esempio la possibilità di scorporare i costi delle riforme dai criteri per il calcolo del deficit. Lei come vede il tema? Si tratta di un dibattito vecchio, iniziato in Europa almeno dieci anni fa quando ci fu la prima crisi del Patto di stabilità e crescita. Il vero problema non credo sia tanto il principio in sé, quanto la sua applicazione. Sicuramente bisogna trovare un modo per accelerare le riforme, che verosimilmente l’attuale modalità attuativa del Patto di stabilità rende difficili da affrontare. Ma per andare oltre, i governi dovrebbero essere pronti ad accettare una sorta di scambio, che metta in gioco una maggiore flessibilità del Patto in cambio della disponibilità a sottoporsi a una sorveglianza più stretta sull’applicazione delle novità introdotte. Facciamo un esempio pratico. Nel caso del Fondo Monetario Internazionale, quando vengono erogati finanziamenti scatta contestualmente un’attività di review molto puntuale che, in caso d’inadempienze, prevede anche la sospensione delle tranche di aiuti previsti. Si potrebbe studiare un meccanismo simile nel caso delle riforme. Individuata una riforma necessaria, la Commissione potrebbe certificarne il costo per uno Stato, consentendo al Paese di deviare per quella cifra dal vincolo di stabilità. Poi, però, la stessa Commissione dovrebbe vigilare sull’effettiva applicazione della misura in corso d’opera con poteri, in caso, sanzionatori.

rebbe a mio parere un piano che sia ragionevole e sostenibile, magari attraverso l’uso di strumenti innovativi per l’immissione delle risorse.

Fra le ricette individuate dal Governo Renzi per ridurre il deficit si punta molto sulla cosiddetta spending review, cioè su una revisione della spesa volta a migliorare l’efficacia e l’efficienza della macchina statale. Si tratta di una strada realistica e che potrebbe dare dei risultati? Il primo tentativo di attuare in Italia un’azione di spending review risale al 2007. L’allora ministro dell’Economia Padoa-Schioppa incaricò un piccolo gruppo di funzionari, tra cui il sottoscritto e il compianto professor Riccardo Faini, di lavorare per impostare una spending review in Italia. Ci mandò a esaminare e apprendere il modello messo in atto in Inghilterra, esperienza che mi ha permesso di capire che la spending review funziona solo se viene intesa come un processo di riorganizzazione delle risorse pubbliche e delle modalità operative attraverso le quali le diverse amministrazioni possono spendere il denaro. È una questione di micro management e non macro. Deve poi essere concepita non come qualcosa di “straordinario” ma come un’operazione ordinaria e regolare. Altrimenti, i risparmi, che pur nell’immediato si possono ottenere, finiscono inevitabilmente per essere dei benefici non duraturi nel tempo.

Ma il pubblico, oggi, ha ancora fondi da spendere in nuovi investimenti? In gran parte dell’Europa, no. Per questo è necessario fare ricorso a forme nuove per smobilizzare capitali. Mi riferisco, ad esempio, al cosiddetto private equity, cioè all’acquisizione di quote di società da parte di investitori specializzati, che operano non con scopo di speculazione sull’azienda, bensì in un’ottica di crescita di medio periodo. Si tratta di una modalità di finanziamento dell’economia molto diffusa negli Stati Uniti, dove esistono istituzioni finanziarie che “di mestiere” comprano aziende o porzioni di aziende per farle crescere e reimmetterle sul mercato. Se fatta attraverso strumenti istituzionali, come ad esempio il Fondo italiano di investimento, il Fondo F2I o il Fondo strategico italiano, si potrebbe trattare di un nuovo modo di esercitare la politica economica. Per dare un’idea dello spazio disponibile, il private equity negli Stati Uniti investe ad oggi circa 300 miliardi di euro: in Europa pesa per appena 35 miliardi. 048


In Italia, ma non solo, cresce la disoccupazione. Come s’interviene su questo fronte? Il dilemma principale in Italia non è tanto il mercato del lavoro, quanto la difficoltà da parte delle aziende a investire in un sistema troppo complesso. Bisogna da un lato semplificare la vita alle aziende, dall’altro spingere con progetti di respiro europeo che rilancino i settori a maggiore intensità di lavoro.

si sono riconosciuti come entità singole solo sotto un profilo storico. Ma, a livello globale, l’impatto economico di ciascuna nazione è scarso, se non riferito all’intera area euro. A tutt’oggi, però, non si è spinto a sufficienza verso una dimensione sovranazionale. Manca un budget europeo, un vero ministro dell’Economia e una strategia sovranazionale che vada oltre l’azione svolta finora e che sia mirata a stanziare risorse per risolvere situazioni di squilibrio fra i Paesi.

Ci serve più, e non meno, Europa: è necessario arrivare a una maggiore integrazione delle politiche economiche

A fronte dell’aumento del costo della vita e della crisi economica, in molti Paesi è però cresciuto nel corso dello scorso decennio il sentimento antieuropeista. Quali gli errori che ha commesso fino ad oggi l’UE? Il vero errore è non aver pienamente compreso che, specie a fronte della recessione, ci serve più e non meno Europa. È necessario arrivare a una maggiore integrazione delle politiche economiche. La dimensione dei nostri Stati nazionali è immensamente piccola a confronto di colossi come l’India o la Cina. Fuori dal vecchio continente i singoli Pae-

Il problema dell’integrazione è anche a livello normativo… Di sicuro. Il processo legislativo sconta oggi molte carenze di sistema. Il recepimento delle direttive europee passa attraverso il via libera delle norme nazionali e dei singoli parlamenti. Con il risultato che spesso tutto si blocca e nessuno vigila sull’attuazione. Così principi importanti ed essenziali restano inattuati e non si traducono in realtà. Anche su questo fronte occorrerà lavorare per una maggiore semplificazione. 049


Op

opinioni

Solidità germanica articolo di Angelo Bolaffi Filosofo della politica e germanista

Il Paese che oggi sembra gestire le sorti dell’economia dell’Unione, la Germania, vi aveva aderito, in realtà, in tutt’altre condizioni. Ma nel tempo il suo modello economico e la capacità di pensare le giuste strategie lo hanno convertito in ciò che conosciamo: una nazione non immune alla crisi che ha colpito l’Europa, ma molto meno esposta. All’inizio di questo secolo-millennio la Germania era, secondo una celebre e polemica copertina dell’“Economist”, «the sick man of Europe»: un Paese in crisi non in grado di far fronte, dopo il traumatico shock della riunificazione, alla duplice sfida della globalizzazione e dell’introduzione della moneta unica europea. Basso tasso di crescita, alto tasso di disoccupazione, un debito pubblico potenzialmente fuori controllo a fronte di una preoccupante disaffezione degli investimenti privati. Oggi, a un decennio di distanza, la Germania è una nazione ammirata e invidiata (e forse anche temuta) tanto che Jürgen Habermas, il più famoso filosofo tedesco, indica proprio nella semi-egemonia della Germania sul vecchio continente una delle cause dell’odierna crisi economica dell’Europa. Non è questo il luogo per discutere se la diagnosi dell’esponente della Scuola di Francoforte sia condivisibile o meno. Basti pensare che non sono pochi a pensarla in modo assolutamente differente, indicando piuttosto la Germania come un modello economico e sociale. Ad esempio il giornalista Fareed Zakaria, secondo il quale il modello socioeconomico tedesco non è certo «il migliore dei mondi possibili» ma è sicuramente, tra quelli europei, il «più 050


efficiente e il meglio adatto a un mondo globalizzato». Piuttosto il vero interrogativo cui oggi è interessante dare risposta è come sia stata possibile tale prodigiosa trasformazione. Quali le ragioni della straordinaria metamorfosi che ha consegnato alla Germania della Cancelliera Merkel la leadership economica e geopolitica dell’Europa? Le ragioni sono di duplice natura: storicostrutturali e politico-contingenti. Hanno a che fare con le specifiche caratteristiche di quello che Michel Albert ha definito (per contrasto rispetto a quello anglo-americano) “capitalismo renano”, sul quale si basa il Modell Deutschland i cui assi portanti sono l’economia sociale di mercato e la Sozialpartnerschaft. Un partenariato sociale espressione di un compromesso di classe che assicura un ruolo di controllo e di codecisione al sindacato, senza che tale alleanza dei produttori istituzionalizzata nella Mitbestimmung (“cogestione”) risulti paralizzante per i processi decisionali o sia d’ostacolo all’introduzione delle innovazioni produttive nelle aziende. La strutturale divaricazione tra i modelli di relazioni industriali – quello consensuale che caratterizza il Modell Deutschland e quello conflittuale dei Paesi dell’area mediterranea e, sia pure con alcune rilevanti differenze, anche del laburismo inglese – si riverbera nella pratica di differenti strategie seguite da sindacati e imprenditori. Ed è anche all’origine del crescente differenziale di produttività tra le aree economiche dello spazio dell’euro, che è una delle ragioni, insieme alla differenza del tasso di indebitamento degli Stati, dell’odierna crisi della moneta unica. E tuttavia il “secondo miracolo economico

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tedesco” (il primo fu quello realizzato dalla Repubblica di Bonn nata nel 1949 dopo la riforma valutaria del 1948) è costituito dalle riforme nel funzionamento del sistema del welfare, del mercato del lavoro, del percorso di formazione della forza lavoro e del sistema economico-produttivo, realizzate a partire dal 2003 dal governo rosso-verde guidato dal Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder. La famosa (e per i critici della sinistra europea “famigerata”) Agenda 2010 ha letteralmente ridisegnato il rapporto tra diritti dei cittadini e compiti dello Stato. Senza la lungimiranza di tempestive e spesso impopolari decisioni di riforma (nelle elezioni politiche del 2005 la coalizione guidata da Schröder fu infatti, sia pur di misura, sconfitta da quella conservatrice guidata da Angela Merkel) il Modell Deutschland non avrebbe retto all’urto della grande trasformazione seguita alla caduta del Muro di Berlino. Una data quella del 9 novembre del 1989 che un quarto di secolo or sono ha segnato la nascita dell’età del mondo globale, proprio come duecento anni prima l’89 francese aveva tenuto a battesimo la nascita in Europa dell’età dei Lumi e dell’opinione pubblica democratica. Oggi la Germania è un Paese leader (come lo era stata la Repubblica di Bonn a cavallo del decennio ’80-’90 del secolo scorso) dell’export mondiale e vanta al tempo stesso un bassissimo tasso di disoccupazione giovanile, a differenza di quanto accade nel sud dell’Europa. Questo non significa affatto che anche in Germania, come in tutti i Paesi industrializzati dell’Occidente, non si sia prodotta in questi anni di crisi una drammatica divaricazione sociale a seguito della polarizzazione della ricchezza e della crescita esponenziale delle differenze economiche a danno del ceto medio e delle classi più deboli. Salvo che questo è avvenuto in una forma socialmente molto

Il modello tedesco è risultato in grado di tenere assieme, anche in una situazione radicalmente trasformata dai processi di globalizzazione, gli imperativi sistemici del mercato e quelli etici della giustizia sociale 052


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più tollerabile di quanto sia successo altrove per il buon funzionamento dei sistemi di sicurezza sociale e di regolazione del mercato del lavoro. Infatti le riforme volute da Schröder hanno cambiato quantitativamente ma non stravolto qualitativamente il Modell Deutschland. Per quanto riformato, dunque, il modello tedesco è risultato in grado di tenere assieme, anche in una situazione radicalmente trasformata dai processi di globalizzazione, gli imperativi sistemici del mercato e quelli etici della giustizia sociale coniugando sapientemente la necessaria flessibilità nell’uso della forza lavoro con la garanzia della difesa del posto di lavoro. Le riforme tedesche hanno puntato non tanto sulla moltiplicazione del precariato (anche se esistono eccessi in tal senso che si tenta di sanare con la recente introduzione del salario minimo garantito) quanto sulla mobilità interna all’impresa, facendo perno sulla flessibilità dell’orario di lavoro, sul part time e gli straordinari. Su una mobilità attiva grazie alla quale i lavoratori anche nei periodi di crisi migliorano la loro formazione e le proprie conoscenze, apprendono mansioni diverse, generalmente di livello più elevato. Tale mobilità funziona, per usare una felice espressione di Romano Prodi, come «un ascensore sociale e professionale che viene soprattutto utilizzato all’interno dell’azienda e contribuisce […] alla formidabile e sorprendente affermazione dell’industria tedesca nel mondo». Ogni Stato-nazione europeo, anche la “grande Germania”, non è in grado per ragioni demografiche e dimensioni economiche di competere in un mondo dominato da Stati-continente come sono Cina, Stati Uniti, Brasile, Russia o India. Se dopo la fine della seconda guerra mondiale l’idea di unire l’Europa fu pensata in nome della pace, oggi accanto a quell’imperativo sempre attuale, come ha confermato la pericolosa escalation della crisi in Ucraina, a spingere il vecchio continente a unirsi c’è la sfida della globalizzazione. Se a nascere saranno gli Stati Uniti d’Europa o una federazione di Stati nazionali è discussione alla quale sarà il futuro a dare risposta. Ma quello che già sappiamo è che, in questo processo, sarà decisivo il ruolo della Germania quale prima potenza economica. È, dunque, attorno al cuore tedesco che nascerà la futura Europa. Ma su quale sia la strategia vincente per conseguire questo ambizioso obiettivo – un rilancio della spesa pubblica alla Keynes o, come sostiene la Germania della Cancelliera Merkel (e con lei Mario Draghi), una politica di riforme strutturali e di riduzione del debito pubblico – c’è profonda divergenza di opinioni. Un contrasto che potrebbe rivelarsi fatale. 053


Co

contesti

Unito il Regno, unita l’Europa articolo di Matthew Saltmarsh Giornalista fotografie di Mauro Guglielminotti/buenaVista*Photo

Scampato il pericolo dell’indipendenza scozzese, la Gran Bretagna sembra vivere un rinnovato sentimento europeo, che però fatica a stabilizzarsi. Se da una parte, infatti, elezioni europee e referendum hanno lanciato l’allarme di un nazionalismo dilagante, dall’altra la distanza inglese dal modello comunitario ha radici antiche.

Con il voto espresso a favore della permanenza in Gran Bretagna al recente referendum per l’indipendenza, gli scozzesi hanno preservato l’unità del Regno Unito per una generazione e dato un enorme stimolo alla causa della stabilità europea. I politici, da Londra a Berlino, hanno tirato un sospiro di sollievo. Un “sì” avrebbe portato agitazione in Europa da parte delle regioni antieuropeiste e dei nazionalisti di aree come la Catalogna, i Paesi Baschi, la Corsica, la regione alpina italiana e la Moldavia (non parte dell’UE ma che con essa ha firmato accordi politici ed economici, ndr); avrebbe distolto l’attenzione del nuovo esecutivo e della legislatura europea dal tema dell’economia. A Londra ed Edimburgo, un voto favorevole all’indipendenza avrebbe fatto presagire un’insicurezza politica interna prolungata, dando il via a tortuose trattative su temi quali la divisione delle risorse naturali, i ricavi, le strutture economiche e il deterrente nucleare britannico. Nonostante ciò, il dibattito ha avuto un profondo effetto sulla politica, riunendo i tre principali partiti di Westminster in difesa dell’unione e stimolando la discussione in tutta la Gran Bretagna. Per molti idealisti scozzesi a favore dell’indipendenza, la 054


posta in gioco non era semplicemente l’indipendenza nazionale. Alcuni cercavano anche nuove risposte alla globalizzazione, tra la disillusione per il modello economico e sociale anglosassone predominante. Un argomento chiave per i partiti politici britannici, e per l’Unione europea, è se essi saranno o meno in grado di offrire sistemi di governo più responsabili ed equi, come richiesto dal dibattito. Se falliranno, le paure di una Gran Bretagna divisa e di un’Europa estremizzata e paralizzata riemergeranno. Nel periodo antecedente al voto, agli scozzesi erano stati promessi maggiori poteri da una coalizione di governo temporaneamente alleata con i laburisti. Il dibattito nazionale si sposterà adesso su quei dettagli e su come e in quale misura verrà garantito l’aumento del margine d’azione a Galles, Irlanda del Nord e Inghilterra. Il processo ha risvegliato anche la sensibilità inglese sul fatto che i membri scozzesi del Parlamento possano votare leggi a sfavore dell’Inghilterra (mentre non potrebbe accadere il contrario) e il risentimento per gli scozzesi che ricevono incentivi statali non disponibili per gli inglesi. Ma quindi che ruolo riveste la Gran Bretagna in Europa dopo il voto? Dietro al sollievo iniziale, rimane un’incertezza profonda055


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Il dibattito sull’indipendenza della Scozia ha avuto un profondo effetto sulla politica, riunendo i tre principali partiti di Westminster in difesa dell’unione 056

mente radicata sulle relazioni: Londra resta un partner scomodo. Il primo ministro David Cameron ha promesso un voto popolare sulla permanenza nell’UE nel 2017, dopo una rinegoziazione dei poteri con Bruxelles. Gli altri referendum sull’integrazione europea indetti in passato in Francia, Irlanda e Danimarca dimostrano chiaramente quanto può essere pericoloso questo voto. Nel 2000, il 53,6% dei danesi aveva votato contro l’adozione dell’euro e il 46,8% a favore. I sondaggi d’opinione in Gran Bretagna sulla permanenza nell’UE sono estremamente instabili. Cameron riuscirà a indire il referendum soltanto se vincerà le elezioni generali il prossimo anno. Gli altri due principali partiti politici, i laburisti e i liberal democratici, sono contrari a promettere un referendum. Ciononostante, tutti i maggiori partiti devono decidere il loro approccio verso l’Europa nella consapevolezza che il referendum in Scozia e le elezioni europee a maggio hanno scatenato il populismo e, in alcuni casi, il nazionalismo. In quell’occasione, Cameron è stato messo alle strette quando ha dovuto rispondere alle proposte fatte da Nigel Farage del partito indipendentista britannico di destra, che continua la ricca tradizione


unito il regno, unita l’europa |

dell’ostruzionismo britannico in Europa. La Gran Bretagna è entrata a far parte della Comunità economica europea nel 1973 con il primo ministro conservatore Edward Heath. Nel 1975, quando la sua permanenza come membro è stata messa al voto, più del 67% si è espressa a favore, ma ciò non ha posto fine al dibattito. La crisi degli anni Settanta e la crescente frizione tra Gran Bretagna e Bruxelles negli anni Ottanta, quando Margaret Thatcher cercava di controllare l’impulso federalista di Jacques Delors alla Commissione europea, segnarono una linea tra la classe politica britannica e Bruxelles. Da allora, la Gran Bretagna è rimasta distante, cercando di rallentare l’integrazione politica, che identifica con il federalismo, e di affossare le politiche che potrebbero minacciare la supremazia finanziaria della città di Londra. Durante la crisi finanziaria, Londra non ha partecipato agli interventi a sostegno dei Paesi in difficoltà, se non per l’Irlanda, e ha formalmente rinunciato all’euro, insieme alla Danimarca. Con Irlanda e Danimarca, ha anche deciso di non partecipare all’accordo di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini. A casa propria, l’UKIP (il partito per l’indipendenza del Regno Unito) sostiene l’uscita dall’UE e politiche anti-immigrazione. A maggio ha ottenuto più voti di qualsiasi altro partito: ha un solo membro del Parlamento a Westminster, ma spera che la situazione cambi alle prossime elezioni. L’UKIP potrebbe anche allearsi con i partiti di destra europei per sostenere il nazionalismo nell’agenda regionale. In Francia, la leader del Front National, Marine Le Pen era data vincitrice ai sondaggi presidenziali dopo aver vinto le recenti elezioni europee. I democratici anti-immigrazione svedesi hanno appena raddoppiato la loro rappresentanza in Parlamento, mentre avanza il partito antieuropeista Alternativa per la Germania. I movimenti populisti in Grecia e nei Paesi Bassi si stanno mobilitando. Il Partito Nazionalista Scozzese, e il suo ex-leader carismatico Alex Salmond, hanno indirizzato un’ostilità simile verso Westminster, le élite e i partiti politici tra-

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dizionali, anche se la loro posizione europea è stata più sfumata (alcuni dicono naif). Si aspettavano di essere facilmente seguiti in UE restando fuori dall’adozione dell’euro e da Schengen. Resta ancora da chiarire quanto il dibattito in Scozia influenzerà il ruolo della Gran Bretagna in Europa. L’élite di Bruxelles spera che Cameron non sia al potere nel 2017, e quindi non riesca a indire un referendum sulla permanenza europea. In ogni caso, la faccenda ha creato aspettative di cambiamento nell’elettorato. E questo è qualcosa che le alte sfere politiche a Londra e in Europa ignorano, a loro rischio e pericolo.

Regno Unito: dentro e fuori Caso simbolo di un’integrazione combattuta, il Regno Unito è membro dell’Unione europea dal 1973, ma non ha adottato la moneta unica, appellandosi alla clausola opt-out, che prevede la possibilità che i Paesi membri non partecipino a strutture comuni in determinati campi. Gli altri opt-out che applica il Regno Unito riguardano Schengen (al quale partecipa parzialmente mantenendo i controlli alle frontiere) la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e il GAI, lo spazio di cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale. È membro del SEE, lo Spazio economico europeo, adottando quindi la legislazione UE sul mercato comune (escludendo pesca e agricoltura).

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Cifre in milioni di euro

Paesi che hanno versato più di quanto abbiano ricevuto

LEGENDA Paesi che hanno ricevuto più di quanto abbiano versato 058

Fonte: Commissione europea, Eurispes

226,8 -63,20

290 CROAZIA

21.874,4 7.635,10

14.239,3

10.375,6 -3.376,60

SPAGNA 13.752,2

1.794,2 -5.420,40

7.214,6 GRECIA

190,3 1.520,6 -783,00

-353,70

973,3 1.874,3 ESTONIA IRLANDA

GERMANIA 26.125,1 13.069,10

13.056

DANIMARCA 1.172,00

1.434

1.445,0

4.893 REP. CECA

-3.448,00

422,8 -1.553,20

1.976

149,503

BULGARIA

ENTRATE

7.209

sono contributi nazionali

BELGIO

83%

-3.277,70

3.931,3

Infografica a cura di Centimetri

2.606,0

I conti in tasca all’UE

FRANCIA

L'UE è un salvadanaio comune, la cui ricchezza deriva quasi totalmente dai contributi degli Stati membri, che a loro volta ne beneficiano attraverso i fondi stanziati per i diversi settori. Mettere insieme le forze serve soprattutto per compensare disparità economiche tra i Paesi e per rendere l'Europa in grado di agire come attore unico nello scenario internazionale.


5.909,8 173,7

UNGHERIA MALTA

Fondi erogati dalla UE agli Stati membri

Preservazione e gestione risorse naturali

43% 6.162,8 5.560,6 813,6 2.026,1

PORTOGALLO ROMANIA

SLOVENIA SLOVACCHIA

AUSTRIA

3.027,5

FINLANDIA SVEZIA REGNO UNITO

2.031,5 3.768,9 14.509,5

368,1 713,4

1.369,0

1.678,9

3.830,6

PAESI BASSI

ITALIA

4.744,6

77,5

920,2

310,5

349,4

170,0 248,3

15.748,1

124.378,3

134.654,1

49,9% 8.201,20

2.107,90

534,70

-1.312,70

-445,50

-4.191,60

-4.483,90

-12.348,90

1.165,50

2.480,50

-96,20

-4.989,60

-1.287,70

-1.531,80

-57,10 -814,90

3.193,80

45%

6.308,3

1.661,0

1.496,8

16.179,5

POLONIA

1.862,0

2.264,1

227,1 1.063,2 1.881,2 1.598,2

CIPRO LETTONIA LITUANIA LUSSEMBURGO

12.554,3

Fondi ricevuti dalla UE per Paese STANZIAMENTI 2007-2013 SPESI ITALIA

61%

14,39 miliardi da spendere entro fine 2015

Media UE

80% LITUANIA (migliore)

UE come partner globale (Azioni sullo scenario internazionale)

0,16%

Cittadinanza, libertĂ , sicurezza e giustizia

1,24%

Amministrazione

5,64%

Compensazioni

0,06%

SPESA UE PER SETTORI

Crescita sostenibile

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Rb

rubrica

| oxygen senza confini

Figli di Zeus articolo di Emanuela Donetti Giornalista progetto fotografico di White

Un’origine divina, un’evoluzione umana. L’Europa ha una storia affascinante e combattuta, sempre alla ricerca della propria identità. Da trovare nelle sue molteplici culture, che regalano bellezze e originalità, a partire anche dai nomi dei suoi villaggi.

Non esiste un vero e proprio fondatore dell’Europa. A dirla tutta, non è nemmeno un vero e proprio continente, poiché fisicamente e geograficamente rappresenta l’estremità occidentale del continente euroasiatico, o la terza parte del continente Afro-Eurasiatico. È solo in base a fattori culturali che il territorio a sinistra degli Urali si considera un continente a sé stante rispetto a Turchia, Russia, Cina e India. Come tutta la base culturale europea, anche il nome viene da un mito greco. Europa, figlia di Agenore, re di Tiro, era come sempre una bellissima e – da tutti i ritratti che ne hanno fatto i pittori, dai greci fino a Tiziano Vecellio ad oggi – burrosissima giovane donna di cui molti si innamoravano. Di gusti piuttosto difficili, la giovinetta amava godersi la spiaggia in solitudine, e passeggiare nella pineta vicina alla riva del mare. Quand’ecco che Zeus, che come tutti sappiamo aveva l’occhio lungo per quanto riguardava le belle fanciulle, se ne innamora: si trasforma in toro, un magnifico toro bianco dalle lunghe corna, un po’ come quelle delle mucche di razza chianina che vediamo pascolare

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in Toscana. Esce dal gregge, cosa che essendo il Re degli Dei gli riesce benissimo, e si avvicina a Europa, che rimane affascinata dalla mansuetudine di questo possente animale, lasciandosi trasportare – letteralmente – al di là del mare. A cavallo di Zeus – toro, che doveva avere anche ottime capacità natatorie – attraversa il braccio di mare che divide Tiro da Creta. E in una pineta concepisce i tre figli: Minosse, Radamanto, Sarpedonte. Richiamato ai propri doveri di divinità, Zeus lascia Europa tra le braccia di Asterione, re di Creta. Il volto della bella Europa è stato scelto per le nuove banconote in euro (quella da cinque, diffuse dal 2012, e quella da dieci in circolazione dal settembre 2014). La particolare immagine visibile in filigrana è tratta da un vaso custodito al Louvre di Parigi. Il reperto risale a oltre 2000 anni fa ed è stato rinvenuto nell’Italia meridionale. A usare invece per la prima volta il nome di Europa per indicare la sua terra fu Ecateo di Mileto, geografo del 500 a.C. per indicare la terra a nord del Mediterraneo della quale non si conoscevano con esattezza i confini settentrionali. Nella sua ricostruzione la Ter-


Quanti Paesi? × L’Europa è composta da 50 Stati ma solo 43 sono europei geograficamente. Ci sono poi le dipendenze separate come la Groenlandia, gli Stati parzialmente riconosciuti e i territori a cavallo tra l’Europa e l’Asia. Quel che è certo è che i membri UE sono 28, certo, se si escludono quelli che sono in lista per l’adesione.

ra era composta da due soli continenti divisi dal Mediterraneo, centro del mondo: da una parte l’Europa confinata a nord dalle sconosciute regioni iperboree; dall’altra l’Asia, nella quale erano compresi anche l’Egitto e la Libia. E se ormai il centro del mondo è accertato trovarsi altrove, il centro d’Europa è in discussione da secoli, e nemmeno oggi gli strumenti satellitari sono in grado di risolvere la questione. Le opinioni sono diverse, poiché diverse sono le interpretazioni dei confini europei e dei punti estremi. Le candidate ad essere il centro d’Europa sono: Bernotai, o Purnuškės, vicino a Vilnius, in Lituania; un punto sull’isola di Saaremaa, in Estonia; il villaggio di Krahule, vicino a Kremnica, nella Slovacchia centrale; la cittadina di Rakhiv o il villaggio di Dilove, nell’Ucraina occidentale; Suchowola, a nord di Białystok, nella Polonia nordorientale e Toruń nella parte settentrionale della Polonia centrale; Polack in Bielorussia. Naturalmente ognuna di esse ha un monumento, normalmente in forma di totem o gnomone, eretto sul punto in questione. Perché no: un tour di questi monumenti potrebbe essere il tema per le vacanze estive degli anni a venire. L’Europa attuale è un territorio di quasi undici milioni di chilometri quadrati, e ottocentocinquanta milioni di abitanti, che condivide con l’Unione europea, struttura giuridica fondata a Maastricht nel 1993, 28 dei 46 Stati che la compongono. I restanti 18 sono perlopiù Stati non totalmente europei (come la Turchia) o isole di giurisdizione complessa, come Jersey e le isole del Canale. Lo sapevate che il paese europeo con il nome più lungo è il villaggio gallese di Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch? A quanto pare impronunciabile anche dai residenti, normalmente si abbrevia per comodità in Lianfair PG. Non crediate che si tratti di un record: è solo il terzo comune al mondo per quantità di lettere nello stesso nome. In Europa fa a gara con Äteritsiputeritsipuolilautatsijänkä in Finlandia, Siemieniakowszczyzna in Polonia e Newtownmountkennedy in Irlanda. 061


Sc

scenari

Sinergie di energie articolo di Francesco Starace Amministratore Delegato e Direttore Generale Enel progetto fotografico di White

Sostenibilità ambientale, sicurezza energetica, mercato unico: sono queste le prossime sfide per l’energia europea. Ed è qui che la collaborazione tra i Paesi può costituire un’opportunità, anche a livello globale. Basta saperla cogliere, ed Enel, tra i protagonisti del cambiamento in atto, ha tutti gli strumenti per farlo.

Il settore energetico, da sempre alla base dello sviluppo sociale ed economico di una comunità, può e deve essere uno strumento fondamentale per dare nuove leve di competitività alle industrie, liberare gli investimenti e sostenere l’occupazione e l’innovazione. L’esperienza e le competenze che Enel ha accumulato nei suoi oltre cinquant’anni di storia l’hanno portata oggi a essere il secondo operatore elettrico per capacità installata del vecchio continente. Una posizione, e soprattutto un ruolo, che la rendono fortemente consapevole della necessità di una profonda e sinergica integrazione delle politiche europee per fronteggiare la complessità e le dinamiche tipiche di un contesto globale come quello della nostra epoca.

È importante promuovere a livello europeo e nazionale una maggior integrazione dei mercati: un elemento che andrà a diretto beneficio dei clienti, dell’ambiente e dell’economia europea 062


Le sfide del settore energetico Ecco quindi che per imboccare la giusta strada, il settore energetico insieme alla politica deve saper identificare efficaci soluzioni per alcune delle sempre più pressanti sfide, come la sostenibilità ambientale, la sicurezza energetica e l’implementazione del mercato unico dell’energia. Tematiche queste spesso presentate come in antagonismo fra loro, ma che in realtà sono caratterizzate da forti sinergie, in grado di contribuire proficuamente alla definizione di una solida politica energetica europea. Affrontandole in maniera strategica si potrebbero, infatti, ottenere benefici comuni e di lunga durata. Sostenibilità e ambiente L’Europa ha sviluppato una leadership a livello globale sul tema della lotta al cambiamento climatico e sulla sostenibilità. Nel settembre 2014 si è tenuto presso le Nazioni Unite il vertice voluto dal segretario generale Ban Ki Moon, in vista della riunione del 2015 a Parigi della COP21, in cui si auspica di giungere a un accordo internazionale sul clima. È fondamentale riuscire a convogliare gli sforzi fatti finora per arrivare in tale sede a un accordo di riduzione delle emissioni che sia globale. L’Europa si sta già muovendo in questa direzione con la definizione di nuovi obiettivi in ambito energetico ambientale (riduzione delle emissioni, sviluppo delle rinnovabili e incremento dell’efficienza energetica).

Oggi l’Europa importa oltre il 50% del suo fabbisogno di energia primaria, oltre il 65% per il gas e oltre l’86% per il petrolio: la vera sfida sarà gestire in maniera ottimale la nostra dipendenza

Sicurezza energetica Risulta quindi evidente come la risposta alla sfida ambientale porti diretti benefici anche alla sicurezza energetica. Oggi l’Europa importa oltre il 50% del suo fabbisogno di energia primaria, oltre il 65% per il gas e oltre l’86% per il petrolio. Se è probabilmente vero che non riusciremo mai a raggiungere una totale indipendenza energetica, la vera sfida sarà gestire in maniera ottimale la nostra dipendenza. In quest’ottica bisogna puntare con capacità strategica a: 1. una diversificazione delle fonti, per ottenere un efficace mix di generazione, sfruttando tutte le tecnologie oggi disponibili e in particolare quelle che, come le rinnovabili, non generano nuova dipendenza da Paesi terzi; 2. una diversificazione delle rotte di fornitura, attraverso la definizione di nuove vie per gli approvvigionamenti, come il GNL (gas naturale liquefatto). 3. una maggiore attenzione all’uso efficiente dell’energia, con diretti benefici per ambiente e costi dei consumatori.

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Mercato unico dell’energia I Paesi europei hanno infine a disposizione un’altra grande risorsa per incidere sulla sicurezza energetica: la creazione del mercato unico dell’energia. L’Europa si presenta, infatti, come un’area altamente interconnessa e dotata di un vasto e diversificato portafoglio di impianti di generazione, eredità di politiche energetiche nazionali, non sempre tra di loro coerenti e armonizzate. La definizione di regole comuni permetterebbe di sfruttare questa diversificazione in maniera efficiente e metterla a disposizione di una più ampia area di consumo, non più legata a confini nazionali o regionali. Al tempo stesso si avrebbero benefici in termini di riduzione dei costi e impatto ambientale. Le leve e l’apporto di Enel Il nostro Gruppo considera il contributo alla soluzione di queste sfide come un elemento essenziale per perpetuare la nostra leadership nei mercati globali. Sono oramai lontani gli anni in cui da monopolista Enel ricopriva un ruolo di campione in un mercato nazionale: oggi siamo uno dei top player europei, abbiamo responsabilità maggiori che vanno ben al di là dei nostri confini nazionali. Per questo motivo crediamo sia importante promuovere a livello europeo (alla Commissione), e a livello nazionale (nei nostri Paesi di presenza) una maggior integrazione dei mercati: un elemento che andrà a diretto beneficio dei nostri clienti, dell’ambiente e dell’economia europea. Le sfide delineate sono complesse ma abbiamo già a disposizione gli strumenti per fronteggiarle. Lo sviluppo competitivo delle fonti rinnovabili Una delle leve più importanti è lo sviluppo competitivo delle fonti rinnovabili. Enel, attraverso la società dedicata Enel Green Power, ha le caratteristiche per contribuire fattivamente. Si tratta, infatti, del più grande operatore mondiale sul mercato delle rinnovabili con una completa copertura di tutte le tecnologie: dalla geotermica all’idroelettrica, dall’eolica al solare, senza dimenticare la biomassa. Tuttavia per continuare lo sviluppo competitivo di queste tecnologie, e conseguentemente permettere i relativi investimenti, è necessario stabilire alcune nuove regole che guardino al mercato unico e che permettano di definire chiari segnali di prezzi per il lungo termine.

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Tecnologie per l’efficienza energetica Una seconda leva è lo sviluppo di tecnologie dedicate all’efficienza energetica e alla futura delocalizzazione dei centri di generazione elettrica. Per quanto riguarda il primo punto è fondamentale ricordare che l’elettricità è il vettore energetico più efficiente e vanta caratteristiche di forte adattabilità e molteplicità di utilizzo. Tuttavia, il vettore elettrico potrebbe ampliare ancora di più i suoi ambiti di applicazione, ad esempio nel trasporto o nella climatizzazione degli edifici. In entrambi i casi Enel si sta già impegnando: nel primo accelerando la predisposizione e lo sviluppo delle infrastrutture necessarie, nel secondo con un’offerta di servizi dedicati al risparmio energetico per i propri clienti. Per quanto riguarda la delocalizzazione dei centri di produzione, la completa digitalizzazione della rete di media e bassa tensione implementata da Enel ci permette già oggi di gestire questa produzione con una modalità fra le più efficienti al mondo. Dal 2016 Enel inizierà una campagna di sostituzione dei contatori digitali con una nuova generazione più sofisticata e più “intelligente”. Questo ci permetterà di mantenere la leadership a livello mondiale e spostare avanti la frontiera del campo di servizi che la rete di bassa e media tensione potrà offrire in Italia e in Europa. Il cambiamento è possibile L’Europa ha deciso di intraprendere il percorso di decarbonizzazione della propria economia entro il 2050. Un obiettivo fattibile che non può prescindere da una quasi totale decarbonizzazione dei processi di generazione elettrica. Si apre quindi una fase di cambiamenti – quasi una rivoluzione, direi – dell’attuale panorama europeo. Abbiamo già tutte le capacità e le leve per potercela fare, dobbiamo solamente cogliere l’opportunità. I benefici saranno molteplici e duraturi.

Il settore energetico, insieme alla politica, deve saper identificare efficaci soluzioni a sfide come la sostenibilità ambientale, la sicurezza e l’implementazione del mercato unico

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Co

contesti

proiettati al 2030 articolo di Daniela Vincenti Giornalista fotografie di Philippe Echaroux

Maggiore importatore di energia al mondo, il vecchio continente guarda al 2030 con la consapevolezza di dover raggiungere entro quell’anno importanti obiettivi nel campo del clima e dell’energia. Le strade da percorrere sono molte, prime fra tutte quelle che riguardano l’efficienza e la riduzione delle emissioni di carbonio. 066


A ottobre i leader europei hanno varato il pacchetto di obiettivi sul clima entro il 2030: una riduzione delle emissioni di CO2 del 40% e un aumento dell’utilizzo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica del 27%

Poco dopo l’insediamento di Matteo Renzi, commentatori esperti di Bruxelles erano convinti che l’ex sindaco di Firenze avesse il carisma e il coraggio per intraprendere profondi cambiamenti strutturali, offrendo una visione diversa di leadership europea. I risultati raggiunti, in parte più bassi delle aspettative, hanno dimostrato come sia difficile, nonostante il periodo italiano alla guida del Consiglio dell’UE, riuscire a spronare altri leader europei a essere coraggiosi e guardare avanti, specialmente in materia di energia e clima. Per come stanno le cose, l’autunno sta diventando una prolungata estate di San Martino (un periodo autunnale in cui, dopo le prime gelate, torna il bel tempo, ndr). A ottobre i leader europei hanno varato un pacchetto di obiettivi per la riduzione del 40% delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030, mettendo in campo un aumento del 27% delle energie rinnovabili e del 27% dell’efficienza energetica. Il pacchetto rappresenta il contributo europeo in vista dell’accordo globale sui cambiamenti climatici da siglare a Parigi nel dicembre 2015. Il Consiglio europeo di giugno aveva stabilito un’agenda strategica di priorità essenziali per i prossimi cinque anni, tra cui svettava la ricerca di un’Unione con una politica climatica rivolta al futuro; il Presidente uscente del Consiglio europeo Herman van Rompuy aveva portato il discorso su come distribuire il peso del taglio delle emissioni del 40% dai livelli del 1990 a quelli del 2030 per raggiungere un accordo accettabile. L’obiettivo del 40% proposto e accettato non è però neanche lontanamente sufficiente a mettere l’Europa in carreggiata per il traguardo di decarbonizzazione che prevede la riduzione dell’80-95% di CO2 entro il 2050, la quota necessaria a detta degli scienziati per restare sotto i due gradi di aumento del riscaldamento globale. Ma gli Stati membri si sono dimostrati molto divisi sulla distribuzione dei costi e degli sforzi relativi al nuovo pacchetto. Nel bel mezzo di questo gioco di contrattazione tra gli Stati membri, un documento diffuso a inizio settembre mostrava che i leader europei avrebbero voluto proporre un obiettivo del 30% per l’aumento del target delle rinnovabili, e un aumento al 30% dell’obiettivo di efficienza energetica entro il 2030, entrambi misurati sulla base dei livelli del 1990 e non vincolanti per gli Stati membri. Un target, per quanto riguarda le rinnovabili, superiore al 27% inizialmente proposto a gennaio dalla Commissione, in linea con i desideri del Parlamento Europeo, co-legislatore del pacchetto, ma non con quelli dei governi, che non si sono dimostrati d’accordo sull’efficienza energetica, dato che i MEP avevano richiesto un obiettivo del 40% e l’accordo è stato raggiunto sul 27%. Accolto per lo più come un primo passo nella giusta direzione, il target UE secondo gli esperti avrà ancora bisogno di essere avvallato da target 067


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nazionali efficaci, che, per essere realmente tali, dovranno portare a termine la transizione di cui l’Europa ha bisogno per rispettare gli impegni di riduzione di CO2. «Un obiettivo a livello europeo senza reali obiettivi nazionali non fornirà la stabilità e la prevedibilità di cui necessita un investitore» ha commentato James Watson, Amministratore delegato dell’Associazione europea dell’industria fotovoltaica. I critici reclamano che gli Stati membri non hanno considerato le argomentazioni delle associazioni dell’industria eolica e fotovoltaica, che vedevano in un aumento dell’obiettivo delle rinnovabili una riduzione della dipendenza dalle importazioni di gas russo. L’Europa è il maggior importatore al mondo di energia, per la quale spende 545 miliardi di euro all’anno: dall’estero proviene il 60% del gas, di cui un terzo arriva dalla Russia, e l’80% del petrolio. Secondo le analisi europee, il target del 40% per l’efficienza energetica entro il 2030 non avrebbe comportato semplicemente una riduzione del 42% nell’utilizzo del gas e del 40% sulle sue importazioni, ma anche una crescita annua per l’economia europea pari al 4%, che avrebbe innescato un incremento annuo del 3,15% nell’occupazione, riducendo le importazioni di combustibili fossili di 505 miliardi di euro l’anno. L’aumento della tensione tra l’Europa e la Russia non ha però stimolato a sufficienza l’ambizione dei leader verso gli obiettivi dell’efficienza. A luglio, durante la presentazione della proposta Painting with Lights Progetto fotografico del marsigliese Philippe Echaroux, consente di sfruttare il buio della notte e l’utilizzo ragionato di luci artificiali per “dipingere” le città, creando sorprendenti effetti visivi. Le proiezioni luminose hanno girato diverse città del Sud dell’Europa, come Marsiglia, Barcellona e Cannes.

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di revisione per l’efficienza energetica, il commissario uscente per l’Energia Günther Oettinger aveva sottolineato che l’efficienza comporta ristrutturazioni di case ed edifici, e investimenti in innovazione per utenze e prodotti. «L’obiettivo del 30% ha una discreta possibilità di ottenere il supporto del Consiglio europeo» aveva affermato Oettinger, suggerendo che un traguardo più ambizioso probabilmente sarebbe stato rifiutato. Alcuni Stati membri hanno bloccato gli obiettivi proposti e i negoziatori hanno lavorato a lungo su misure mirate a tranquillizzare i Paesi riluttanti come la Polonia, dipendente dal carbone, e altri Stati membri più poveri dell’Europa orientale. La Polonia si è piazzata al primo posto dei Paesi del gruppo Visegrád e ha cercato di rimandare il dibattito sul pacchetto clima 2030 fino a quando non si fosse trovato un accordo sulla distribuzione degli oneri o sul supporto dei Paesi europei più ricchi. Oltre gli obiettivi: le alternative shale gas e nucleare Al di là degli obiettivi, alcuni continuano a promuovere una grande espansione dell’energia nucleare, una rivoluzione dello shale gas attraverso metodi d’estrazione più puliti ed ecologici, e una svolta nel Carbon Capture and Storage (cattura e sequestro del carbonio). Mentre le tecnologie CSS si trovano ancora in fase sperimentale e potrebbero restare un pro-


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getto pilota, l’energia nucleare, che fornisce circa un terzo dell’elettricità prodotta nell’Unione europea, viene vista dai critici come onerosa e impopolare. Alcune aziende energetiche, che stanno già sentendo gli effetti del calo dei prezzi energetici e della scarsità della domanda, vorrebbero estendere la vita dei propri impianti al 2020, per rimandare la spesa per il finanziamento di nuove strutture. Lo shale gas è anche molto costoso. Come ha affermato Marco Arcelli, Direttore Divisione Upstream Gas di Enel, in relazione al suo potenziale «il costo di produzione del gas che importiamo oggi è molto più competitivo rispetto al prezzo dello shale gas». Lo shale gas ha avuto un “impatto minimo” per l’industria manifatturiera statunitense e, secondo il nuovo rapporto diffuso dall’Istituto per lo sviluppo sostenibile e le relazioni internazionali (IDDRI), potrebbe avere un’importanza ancora minore in Europa. Il rapporto afferma che il boom dello shale gas negli Stati Uniti ha contribuito a ridurre i prezzi energetici per le famiglie e a stimolare la competitività nei settori manifatturieri a uso intensivo di gas, come quello plastico, petrolchimico e dei fertilizzanti. Ma questi settori rappresentano soltanto circa l’1,2% del PIL statunitense e il 3,3% di tutta l’industria manifatturiera, e l’IDDRI stima che il maggior effetto a lungo termine dello shale gas sul PIL degli Stati Uniti sarà di circa 0,84%. In questo scenario, alcuni analisti credono che l’unico modo per ridurre le emissioni sia aumentare il sistema europeo di scambio delle emissioni (EU ETS) del 400-500%, alternativa difficile da realizzare. Sicurezza energetica: quale direzione? Nel bel mezzo della crisi in Ucraina, l’autunno sarà caratterizzato da un acceso dibattito su come aumentare la sicurezza energetica. Tra le alternative, l’UE sta anche tastando il terreno su come diversificare le rotte di fornitura del gas per escludere la Russia e come migliorare le infrastrutture per lo stoccaggio, i flussi inversi e le interconnessioni di rete per trasportare in modo flessibile il gas già presente sul continente. Le proposte potrebbero agire sul regolamento delle reti di trasporto del gas del 2009, e persino portare avanti una nuova direttiva specifica in materia di stoccaggio del gas e sicurezza della fornitura. Gli esperti affermano, inoltre, che stanno tornando in voga misure di promozione dell’uso delle biomasse, del teleriscaldamento e delle pompe di calore. Se Renzi vuole lasciare un segno della presidenza italiana e concentrarsi sul modo per superare l’austerità, ridare speranza alle persone e assicurare un futuro fiscalmente stabile per il blocco dei 28 Paesi, deve riconoscere l’immenso potenziale di un pacchetto clima-energia ambizioso, possibilmente con una forte componente di efficienza energetica, per portare a termine il cambiamento di cui l’Europa, come lui stesso afferma, ha bisogno.

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scenari

Un mercato interconnesso articolo di Marco Zatterin Giornalista

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La sicurezza energetica è una delle questioni più urgenti per il futuro dell’UE e le risorse per fare fronte alle emergenze ci sono. Mancano ancora integrazione e interconnessione energetica, obiettivi antichi quanto l’idea di Unione ma che stentano a decollare. E su di essi si basano l’economia e gli inverni futuri.

Sono mesi che gli esperti di energia, così come i politici, i diplomatici e gli economisti, non perdono d’occhio i numeri sul flusso di gas che, pompato dalla Russia, corre sulla linea che attraversa l’Ucraina e si dirige verso l’Europa centrale. C’è stata grossa crisi da quelle parti, più volte, e ora è di nuovo tutto possibile, anche il peggio. Se il metano arriva in condizioni di auspicata normalità, allora vuol dire che si può continuare a credere nella pace, ma anche nel fatto che l’inverno filerà via tranquillo, senza che nessuno lo passi al freddo, nonostante la Crimea sia persa e, come denunciano i leader dell’Occidente, i plurisanzionati russi «abbiano avuto un ruolo evidente nella destabilizzazione» dell’ex repubblica sovietica. Se il gas si ferma sono guai. Per Kiev, anzitutto, e per il resto dell’Europa che, nonostante belle parole e grandi progetti, compra ancora il 39% del metano dalle aziende del Cremlino. Proprio così: 21 Paesi su 28 dipendono in buona misura da Mosca.

È singolare però ammettere che l’obiettivo di un grande mercato unico e integrato dell’energia europea è ancora lontano dall’essere realizzato. È un progetto vecchio quanto il sogno dell’integrazione postbellica: già Robert Schuman nella sua dichiarazione del maggio 1950 suggeriva la creazione della CECA, la Comunità del carbone e dell’acciaio, «per opporsi ai cartelli internazionali che mirano alla ripartizione e allo sfruttamento dei mercati nazionali con pratiche restrittive e che permettono di mantenere profitti elevati». La ricetta era chiara per l’allora ministro degli esteri francese: «Fondere i mercati ed estendere la produzione». Sessantaquattro anni dopo il cantiere resta aperto. Per armonizzare e liberalizzare il mercato interno dell’energia, tra il 1996 e il 2009 l’Unione europea ha adottato tre pacchetti di misure legislative orientate ad amplificare la trasparenza delle regole, la tutela dei consumatori, il sostegno all’interconnes-

La Commissione ha stimato che fino al 2020 saranno necessari circa 200 miliardi di investimenti nelle infrastrutture dell’energia di tutta l’Europa: 33 sono i progetti fondamentali per la sicurezza energetica dell’UE

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sione e il conseguimento di livelli adeguati di approvvigionamento. Il terzo gruppo di norme risale all’aprile 2009 e assomiglia parecchio a quello di cui ci sarebbe bisogno. Interviene sull’organizzazione delle aziende, stabilendo il principio della separazione tra le attività di fornitura e di produzione e quelle di gestione delle reti. Rafforza le autorità di regolazione nazionali. Promuove la solidarietà attraverso il coordinamento delle misure di emergenza nazionali e lo sviluppo delle interconnessioni delle reti di gas. Questo terzo pacchetto energia, entrato in vigore il 3 marzo 2011, «in diversi Stati membri non è ancora stato recepito e pienamente attuato», sottolineano fonti europee. E l’Unione «non è sulla buona strada per rispettare la scadenza del 2014 per il completamento del mercato interno dell’energia». Il mercato è integrato, ma assomiglia parecchio a un puzzle assemblato con pezzi non necessariamente compatibili. Il vertice europeo di giugno ha chiesto agli Stati – cioè a se stesso – di accelerare il cammino verso l’integrazione in modo da non mancare l’appuntamento di fine anno. Sulla carta, l’obiettivo pilota è la definizione della grande griglia sulla quale estendere l’obiettivo relativo all’interconnessione della capacità elettrica installata al 15% entro il 2030, tenendo conto anche dei riflessi sui costi e dei potenziali scambi commerciali nelle regioni coinvolte. I 28 Stati dell’Unione si sono già votati a garantire un’interconnettività del 10% entro sei anni. Lo sforzo è in corso. La rete comune serve per essere più sicuri, ridurre la spesa e dunque i prezzi, e la dipendenza dai produttori terzi, aumentata negli anni recenti. Durante l’ultima crisi fra Kiev e Mosca che ha portato i russi a chiudere gli oleodotti di sudovest, la Commissione ha più volte sottolineato che il problema non erano le quantità di gas disponibili nel Baltico e o in Slovacchia, bensì la possibilità di riuscire a ridistribuire con rapidità quello già a disposizione per scongiurare il rischio di non poter accendere i caloriferi. Molti Paesi, a partire da Francia e Germania passando per l’Italia, avevano scorte sufficienti per intervenire in favore di quelli dell’ex oltrecortina rimasti a secco. 072

Lo scoglio da superare era legato a come far arrivare il metano a destinazione senza avere le reti allacciate in una stretta paneuropea. Un problema tanto banale quanto paradossale. Basterebbe avere un network comune, ovvio. Ma non tutti sono d’accordo nello stesso modo. Che fare? Sposare le reti, ad esempio. Ad avvio di percorso la Commissione ha stimato che fino al 2020 saranno necessari circa 200 miliardi d’investimenti nelle infrastrutture dell’energia di tutta l’Europa. Bruxelles ha individuato 33 progetti infrastrutturali che ritiene fondamentali per la sicurezza energetica dell’UE. Ne è stata realizzata solo una parte. Numerose poste di spesa sono state inserite nel bilancio a 12 stelle: c’è una dote assegnata alle reti transeuropee nel settore dell’energia (TEN-E, l’acronimo inglese) destinata anzitutto a pagare gli studi di fattibilità. I fondi assegnati alle regioni di convergenza possono dare un contributo significativo, mentre si stanno attrezzando strumenti da legare alla BEI, la Banca europea degli investimenti. Questi soldi potrebbero finire innanzitutto nei 12 corridoi e aree prioritari riguardanti le reti per il trasporto di elettricità, gas, petrolio e anidride carbonica. Lo scorso anno, inoltre, la Commissione ha intavolato un elenco di 248 progetti d’interesse comune che ha giudicato compatibili agli obiettivi comuni, dal tradizionale alle rinnovabili passando per l’efficienza energetica (le abitazioni sono responsabili per il 40% dei consumi) e la rete. Il commissario uscente all’Energia, Günter Oettinger, ricorda sempre che «i lavori sulla definizione dei principali progetti sulle infrastrutture che dovranno ricevere il sostegno dell’UE negli anni 2014-2020 si dovranno concludere nell’autunno di quest’anno». A fronte della crisi, per reagire alla richiesta comune che arriva dalle capitali per un’azione anticiclica che sostenga la domanda attraverso investimenti freschi, il nuovo presidente dell’esecutivo UE, JeanClaude Juncker, ha annunciato un piano da 300 miliardi che dovrebbe avere una forte componente keynesiana. L’energia è uno dei pilastri su cui deve reggersi l’iniziativa. Saranno denari in parte nuovi

Geolocalizzare Le immagini sono estratte dall’applicativo Schemi Geografici di Enel, uno strumento di geolocalizzazione della Rete di Media Tensione che ne consente la visualizzazione in tempo reale su mappe geografiche.


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che potranno alimentare l’interesse dei privati, soprattutto dei grandi fondi pensione che sono a caccia di impieghi sicuri e garantiti. È necessario creare un modello virtuoso che funga da catalizzatore di interesse. Fattibile davvero. Ecco dunque che il problema non sono i soldi. Con i tassi bassi, la liquidità è abbondante come mai. Servono progetti chiari e la volontà di accompagnarli con garanzie pubbliche comunitarie, attraverso il bilancio della BEI o quello dell’Unione. Una via efficace potrebbe essere quella dei project bond (quei prestiti obbligazionari per il finanziamento di progetti infrastrutturali, ndr), che nella scorsa primavera sono usciti dalla fase sperimentale avviata oltre due anni fa. Occorre la volontà politica di andare avanti. Insieme. Da che si parla di integrazione, la Germania – oggi in fase di laboriosa transizione in uscita dal nucleare – è accusata di non aprire con il giusto entusiasmo agli altri. «Vogliono proteggere i propri campioni», spiega una fonte UE. Ora le tensioni sul fronte orientale, il braccio di ferro con Mosca e il bisogno di mettere sangue nel corpo di un’economia continentale asfittica, potrebbero far cambiare l’attitudine di Frau Merkel del suo governo di coalizione. Unirsi e diversificare. La Commissione stima che i benefici annuali netti della condivisione delle riserve sarebbero di mezzo miliardo, mentre guadagni aggiuntivi nell’ordine di quattro miliardi si avrebbero dall’uso delle reti intelligenti per facilitare la risposta alla domanda. Mettere a posto il network avrebbe effetti sulla congiuntura e, una volta sistemato, pure sui prezzi dell’energia che in Europa sono molto più alti rispetto a quelli dei concorrenti internazionali, a partire dagli Stati Uniti. Tutto congiura nel far dire che non c’è altro tempo da perdere. In molte cancellerie, tuttavia, c’è chi nasconde la testa nella sabbia del bilateralismo e della protezione dei mercati. Il che, come s’è visto negli ultimi anni, è più un problema che una soluzione.

Il mercato è integrato, ma assomiglia a un puzzle fatto di pezzi non necessariamente compatibili

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contesti

Un dialogo per la rete elettrica articolo di Jacopo Giliberto Giornalista

Della posta elettronica alla musica, fino alla televisione e alla mobilità: molti dei nostri gesti più comuni passano oggi attraverso l’elettricità, le cui esigenze sono necessariamente cambiate, complice anche l’avvento delle fonti rinnovabili. La rete, che in Italia è nata a Milano ben più di un secolo fa, ha bisogno di rinnovarsi; gli Stati Uniti sono già all’opera, e ora è il momento dell’Europa. La prossima frontiera tecnologia e d’investimento in Italia e in Europa saranno le reti. Quello che viene chiamato – con un termine che nell’accezione moderna discende dagli studi economici derivati dalla critica marxista – “l’infrastruttura”. Certamente, le tecnologie di produzione continueranno a richiamare investimenti, a stimolare ricerca e innovazione. Ma non saranno queste tecnologie la “frontiera”. Il settore elettrico è oggi nella stessa situazione in cui si trova il mondo dell’informatica delle telecomunicazioni. Gran parte della rete usata oggi per trasportare i segnali è stata progettata e costruita per i telefonini TACS e GSM, quindi per un traffico sostanzialmente vocale, ed è ormai inadeguata all’enorme aumento di scambi di dati generato dalla diffusione di telefonini intelligenti e tablet. La funzionalità di questi strumenti dipende dall’evoluzione non più della loro tecnologia (che comunque continuerà a svilupparsi) bensì dall’evoluzione della rete di collegamento. Lo stesso accade per l’elettricità. Gli strumenti di produzione e di uso della corrente, cioè le centrali elettriche nelle loro forme molteplici e gli apparecchi finali che usano l’energia, chiedono un modo nuovo di dialogare fra loro. Da anni si dibatte su come l’avvento delle 074

fonti rinnovabili d’energia stia cambiando la struttura energetica. Nel 1883 a Milano in via Santa Radegonda nacque la prima centrale termoelettrica d’Europa, meraviglia del mondo. I fili elettrici (erano proprio fili) scorrevano in piazza Duomo, si dipanavano lungo la galleria Vittorio Emanuele sostituendo l’illuminazione a gas con le lampadine elettriche di Thomas Alva Edison (stupore internazionale), e fra mormorii di consenso universale accendevano le luci del Teatro alla Scala: era la prima rete elettrica al mondo e già aveva la forma di quelle di oggi. La forma stellare. Dal centro, la centrale, il flusso di corrente scorre lungo i raggi della stella per raggiungere i punti di consumo. Oggi questo schema nato a Milano più di 130 anni fa è inadeguato. Il modo di produrre e di consumare l’elettricità sta cambiando, perché con le nuove tecnologie l’elettricità non è più una commodity per luce e forza motrice bensì il vettore di servizi molto diversi fra loro. Oggi è la climatizzazione delle pompe di calore, il segnale del telefonino e la posta elettronica, gli acquisti in rete e il controllo dei consumi, la sicurezza delle telecamere a circuito chiuso e la contabilità, l’ascolto di musica e il decoder della tv. Presto l’elettricità sarà anche la mobilità personale, perché le automobili elettriche


sono assai più divertenti da guidare e sicure nella manutenzione rispetto al classico motore a cilindri e pistoni. L’altro elemento tecnologico che impone il rinnovamento delle reti elettriche è la cosiddetta generazione distribuita, cioè piccole centrali locali in prossimità dei punti di consumo. È il rovesciamento della classica struttura a stella avviata a Milano più di un secolo fa, cioè quello dei grandi impianti di produzione elettrica dai quali si dipartono i raggi delle linee di trasporto e distribuzione. A ciò si aggiunge la caratteristica delle piccole centrali “distribuite”. In gran parte sono impianti di produzione alimentati da energia rinnovabile e che presentano due caratteristiche: la prima è che per alcune tecnologie (come l’eolico e l’idroelettrico) possono essere costruiti non dove conviene al mercato, bensì dove c’è disponibilità di materia prima energetica, ovvero il vento o l’acqua. La seconda caratteristica è che le maggiori fonti rinnovabili non sono costanti e non seguono i desideri del mercato. Il vento soffia quando ha voglia, l’acqua piove quando piove, il sole batte sui pannelli fotovoltaici quando non ci sono nuvole in cielo. Queste centrali sono disposte lungo i bracci della rete a stella, mescolate con i punti di consumo, e producono corrente in modo incostante. I flussi di energia scor-

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rono in modo intermittente e senza regolazione apparente in entrambi i sensi dei cavi, secondo i momenti e le direzioni irregolari della produzione e del consumo. Da qualche tempo le aziende di distribuzione cominciano a sentire sui costi di manutenzione l’inadeguatezza dello schema elettrico. I materiali e i dispositivi sono sottoposti a stress per i quali non erano progettati. I guasti e le irregolarità si fanno più frequenti. E questo accade non solamente nei Paesi meno strutturati, ma perfino in Italia, dove la magliatura della rete – la più antica e solida d’Europa – è fitta ed efficiente. Un grande investimento di rinnovamento della rete elettrica è in corso negli Stati Uniti, Paese che sta superando solamente in questi anni la sua storica arretratezza elettrica. In Europa il processo è più difficile proprio perché le reti e le tecnologie sono di concezione più recente e hanno sempre avuto una manutenzione più accurata. Non a caso l’Europa preme per creare la grande rete moderna di interconnessione continentale. L’altro fronte tecnologico sulle reti riguarda gli strumenti di misura, cioè i contatori. L’Italia, primo Paese, ha già i contatori intelligenti in tutte le case, e la Spagna si sta attrezzando rapidamente. Ma quasi tutti gli altri Paesi sono ancora con il vecchio contatore elettromeccanico con la rotella che gira e che fa una sola cosa: misura. Come si sta sperimentando in Spagna, con nuovi contatori i consumatori potrebbero sviluppare contratti diversi secondo i vari apparecchi domestici: per esempio un contratto di fornitura flat garantita di elettricità per il frigorifero, e un contratto di fornitura interrompibile a prezzo variabile per la televisione, differenziando le diverse prese domestiche. Con l’automobile elettrica – il divario tecnologico è davvero così profondo che il passaggio alla mobilità elettrica è irreversibile – si potrà avere una fornitura specifica per l’auto mentre riposa (e si ricarica) nella rimessa. La mobilità elettrica apre uno scenario che accelererà il cambiamento delle reti verso le smart grid. Quando in un condominio la sera tutte le auto sono posteggiate in ricarica, il consumo di queste vetture alza il fabbisogno di energia nel quartiere. Quando la mattina le stesse auto si spostano nei luoghi di lavoro, anch’essi muniti di colonnine di ricarica, il consumo si sposterà insieme

alle auto. Sarà come se interi condomìni di consumatori si trasferissero ogni mattina e ogni sera. E ciò imporrà un’accelerazione nel cambiamento della struttura di rete. L’altro elemento indotto dalla diffusione della mobilità elettrica sarà la disponibilità lungo la rete di grandi accumuli di energia nelle batterie delle automobili allacciate alla spina elettrica. Anche in questo caso è utile una similitudine con l’informatica. Oggi, oltre ai grandi centri di calcolo, gli scienziati ricorrono alle disponibilità di migliaia di pc collegati in rete. A casa propria, ogni persona che abbia stipulato un contratto in questo senso lascia che una parte della capacità di calcolo del suo computer sia usata in remoto dai grandi poli di ricerca scientifica. Ogni singolo pc collegato alla rete non riesce a sostituirsi al grande calcolatore universitario, ma un’infinità di pc in contemporanea nel mondo, in zone in cui è giorno e in zone in cui è notte, invece sì. Lo stesso sistema potrà essere adottato quando migliaia di automobili saranno collegate alla rete elettrica. Con appositi contratti, i flussi di corrente potranno essere alternati, verso queste migliaia di batterie o, viceversa, dalle batterie verso i punti di consumo. Intanto la Spagna ha varato in aprile una riforma elettrica che prevede già forme di estrema variabilità contrattuale, e ogni consumatore può scegliere i momenti di utilizzo dell’elettricità in rapporto con il suo costo ora per ora. Il sistema con prezzi trimestrali che esisteva dal 2009 (scrive il quotidiano “El País”: «Han pasado solo cinco años, pero diríase todo un siglo», “Sono passati solo cinque anni ma paiono un secolo”) viene sostituito dal prezzo istantaneo. Per molte persone le smart grid sono sistemi per la gestione più intelligente dei consumi collettivi e pubblici. Le esperienze condotte da Enel e dalle sue consociate per esempio a Genova e Bari, a Malaga e Barcellona, a Búzios in Brasile e a Santiago del Cile dicono che questa visione della smart grid è già vecchia. Le persone che lavoreranno alla nuova infrastruttura e alla seconda elettrificazione usciranno dal corso di laurea in smart grid promosso da Enel e dal Politecnico di Milano, quello stesso Politecnico di Milano che un secolo e mezzo fa ideò la prima grande rete elettrica al mondo.

La mobilità elettrica apre uno scenario che accelera il cambiamento delle reti verso le smart grid perché il consumo si sposterà insieme alle auto

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Il modo di produrre e di consumare l’energia elettrica sta cambiando, perché con le nuove tecnologie l’elettricità non è più solo luce, bensì il vettore di servizi molto diversi tra loro


Ap

approfondimento

La mossa per unire le differenze articolo di Nick Butler Giornalista e scrittore

Non esiste una politica energetica comune, eppure i 28 Stati membri dell’UE si trovano a fronteggiare come un unico attore internazionale problemi globali, e come un’unità affrontano nazioni come Cina e India. Ma per difendere le posizioni prese contro il cambiamento climatico, l’UE deve soprattutto misurarsi con le proprie differenze interne e soddisfare le aspettative di tutti, anche degli Stati più scettici come la Gran Bretagna.

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Lo schema globale era ricercato, elegante e del tutto coerente. Ma i sostenitori del Global Deal ignoravano che le nazioni hanno interessi diversi e tendono a non agire in modo uniforme

L’energia continua a rimanere un’area della politica sotto stretto controllo dei governi nazionali; la competenza dell’Unione europea in questa materia, infatti, se fino al 2008 era quasi inesistente, oggi è ancora molto limitata. Non esiste una politica energetica comune alla pari della Politica agricola comune. Non ci sono accordi o direttive a livello europeo che possano dire alla Francia di sfruttare lo shale gas o alla Germania di mantenere le centrali nucleari. Il mix energetico relativo alla produzione e al consumo di ogni Paese si determina a livello locale, e lo stesso vale per il prezzo dell’energia. Energia elettrica, benzina e gas naturale variano, spesso notevolmente, da una nazione all’altra. Esiste un importante mercato transnazionale – il Regno Unito per esempio commercia elettricità e gas naturale attraverso gli interconnettori che collegano la Gran Bretagna al continente – ma questa rimane un’attività marginale, una frazione dei volumi totali prodotti e consumati. Siamo però ancora ben lontani dalla fine della storia. Altre politiche europee, originariamente concordate con il completo e convinto supporto del Regno Unito, stanno iniziando a incidere profondamente sul mercato energetico britannico. Il risultato di queste politiche non è però al momento all’altezza delle aspettative degli autori originari e potrebbe trasformare l’energia nel prossimo terreno di conflitto tra Gran Bretagna e Bruxelles. La storia risale al 2008 quando l’Unione europea ha adottato una serie di obiettivi ambiziosi mirati a ridurre le emissioni di anidride carbonica come parte di un approccio globale a lungo termine alla sfida del cambiamento climatico. Gli accordi prevedevano che, per il 2020, l’Europa avrebbe: ridotto del 20% le emissioni dei gas a effetto serra rispetto ai valori del 1999; aumentato del 20% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili; aumentato del 20% l’efficienza energetica nell’UE. Si tratta di obiettivi parziali di un processo di decarbonizzazione a lungo termine che fanno parte 079


di uno sforzo globale sufficiente a limitare l’aumento delle temperature di due gradi centigradi entro il 2050. Sulla base di questo modello i vari Paesi avrebbero compiuto passi diversi, ma condivisi, verso l’obiettivo finale. Se altri avessero accelerato, l’Europa avrebbe fatto ancora di più. Dietro agli obiettivi 20-20-20 c’erano piani nazionali scelti in base alle connotazioni locali. L’esercizio nel complesso era fondato sulla convinzione che i prezzi dei combustibili fossili, e in particolare del gasolio e del gas naturale sarebbero inesorabilmente aumentati nel tempo, rendendo competitivi i combustibili a basse emissioni di CO2, e in particolare l’energia eolica e solare, dopo un periodo di incentivazione iniziale. L’energia prodotta localmente dalle rinnovabili avrebbe inoltre incrementato la sicurezza in un momento in cui la produzione di petrolio e gas stava subendo un calo. Lo schema globale era ricercato, elegante e del tutto coerente. Ma come i fondatori della Società delle Nazioni e i promotori dell’Esperanto come lingua internazionale, i sostenitori del Global Deal ignoravano il fatto che nel mondo reale le nazioni hanno interessi diversi e tendono a non agire in modo uniforme. La conferenza di Copenhagen di dicembre 2009, in cui si sarebbe dovuto trovare un accordo, fu un fallimento. Per diverse ragioni gli Stati Uniti e la Cina non vollero firmare, lasciando la politica europea isolata; l’obiettivo delle riduzioni di emissioni rimase invariato, così come i piani nazionali specifici, incluso quello per il Regno Unito che fu trasformato in legge dal Climate Change Act. Gli sforzi dell’Europa tuttavia furono resi irrilevanti perché in Cina e India, in particolare, le emissioni continuarono a crescere, così come l’uso del carbone per la produzione di energia elettrica, senza accordi per la partecipazione ad alcuna azione internazionale coordinata. Perfino all’interno dei confini europei la politica energetica non era certa. Per essere efficace lo sviluppo dell’eolico e del solare e delle altre tecnologie a basso contenuto di CO2 dipendeva dalla definizione di un prezzo dell’anidride carbonica, che avrebbe reso più costosi il carbone e gli altri combustibili fossili. Fu creato un sistema di trading pensato per fissare un prezzo delle quote di CO2, che sarebbe aumentato ogni anno gradualmente forzando i consumatori a cambiare direzione. Ma anche questo sistema si è rivelato un fallimento. Il prezzo della CO2 in Europa è arrivato ad appena sei euro a tonnellata, mentre avrebbe dovuto essere di almeno 40. In questa situazione, continua ad essere più economico per le aziende di servizi europee utilizzare il carbone, il cui prezzo si è abbassato sul mercato mondiale grazie all’aumento delle esportazioni dagli Stati Uniti, dove la produzione energetica è stata rivoluzionata dallo shale gas, che ha sostituito il carbone con un effetto netto sull’esportazione di emissioni verso l’Europa. L’utilizzo del carbone nel Regno Unito, in Germania e in qualsiasi altro posto è in aumento, come

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la mossa per unire le differenze |

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lo sono i prezzi dell’energia per gli utenti industriali e domestici, per la crescita di volume delle rinnovabili fortemente incentivate. Il prezzo elevato per l’energia prodotta da vento e sole sta portando a uno spostamento geografico di quella produzione industriale per la quale l’energia è considerata una materia prima o un motivo in più per fuggire dall’UE. Perché produrre in Europa se i processi industriali possono essere delocalizzati in aree come Cina, India e altri Paesi dove l’energia costa materialmente molto meno? Il risultato è la perdita di posti di lavoro in Europa e il fallimento nella riduzione delle emissioni globali. Uno studio indipendente condotto lo scorso anno dall’Agenzia Internazionale per l’Energia mostra che se il trend non dovesse subire mutamenti, nel prossimo decennio si assisterà a una drammatica riduzione delle basi industriali in Europa, in particolare in settori come quello petrolchimico. Nel Regno Unito ciò si traduce senza dubbio nella paura della perdita di altri posti di lavoro di quel che rimane del settore manifatturiero. Per la Gran Bretagna l’approccio europeo è lontano dall’essere soddisfacente e c’è una forte opposizione pubblica verso l’aumento dei prezzi dell’energia. Il supporto verso azioni contro il cambiamento climatico rimane relativamente forte, ma c’è la netta consapevolezza che un’Europa a zero emissioni porterebbe una minima differenza al problema climatico globale. La questione non è ancora in primo piano, ma potrebbe esserlo nei prossimi anni se ci saranno tentativi di ampliare gli obiettivi europei e se i costi di nuove centrali eoliche e altre fonti a basso carbonio, come il costosissimo nucleare, iniziassero a comparire sulle bollette dei consumatori. Molto dipenderà dall’ottenuto o mancato raggiungimento di un accordo globale sul clima che potrebbe essere siglato il prossimo anno al summit di Parigi. Se non si troverà un accordo (e le probabilità sembrano poche), l’impatto delle attuali politiche potrebbe portare divergenze tra il Regno Unito e quei Paesi dell’Unione europea – guidati dalla Germania che resta determinata – che non badano a spese pur di portare a compimento il processo di transizione verso un sistema energetico pulito.

La squadra europea Il golf unisce l’Europa: la squadra che affronta ogni due anni gli Stati Uniti nel torneo di golf Ryder Cup è l’unica a competere sportivamente battendo bandiera europea. Nove giocatori, i primi quattro del ranking mondiale, i primi cinque della Race to Dubai e tre wild card a disposizione del capitano, compongono la formazione. La Coppa di quest’anno si è appena conclusa sui campi scozzesi di Gleneagles riportando la terza vittoria consecutiva dell’Europa, capitanata dell’irlandese Paul McGinley.

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approfondimento

Ogni cosa è europea articolo di Elisa Barberis Giornalista illustrazioni di Undesign

Incide ogni giorno nella vita dei suoi cittadini, con le sue decisioni e direttive. Cerca soluzioni che facilitino la comunicazione, il commercio, la condivisione e l’indipendenza. L’Unione non è lontana e astratta, ma entra in ogni cosa, aspetto, situazione della nostra giornata, rendendola più semplice e contemporanea.

Mobilità che unisce Se con gli anni le tariffe dei cellulari hanno continuato ad abbassarsi, il merito è anche dell’Unione europea, che grazie soprattutto alla portabilità del numero – ovvero la possibilità di mantenere lo stesso, senza spese aggiuntive – ha aumentato la concorrenza fra gli operatori. E a partire da luglio 2014 e poi di nuovo da dicembre 2015 utilizzare il proprio smartphone all’estero sarà sempre più facile ed economico con l’abbattimento dei costi del roaming: non si pagherà più per le chiamate in entrata e in uscita e gli operatori dovranno proporre pacchetti che prevedono prezzi pari a quelli sostenuti nel proprio Paese o, in alternativa, dovranno consentire di utilizzare un altro gestore senza cambiare la carta SIM. Come previsto dall’UE, tariffe bloccate anche per le chiamate internazionali, che non potranno superare quelle di 082

una normale interurbana nazionale, mentre per le telefonate da rete mobile il costo massimo sarà 0,19 euro al minuto (IVA inclusa). Novità in vista anche per il carica batterie: la deputata socialista tedesca Barbara Weiler ha proposto in Parlamento che diventi unico per tutti i tipi di cellulare. Una misura che potrebbe già essere applicata dal 2017 e andrà non solo ad avvantaggiare le casse degli Stati e le tasche dei consumatori, ma avrà anche notevoli ricadute dal punto di vista ambientale e di natura pratica. Insomma, un continente unito non sembra più un’utopia, almeno per quanto riguarda il mercato della telefonia mobile: è il sogno dei quattro maggiori operatori – Deutsche Telekom, Telefónica, France Telecom e Telecom Italia – che stanno già studiando la possibilità di creare una rete paneuropea.


Un aiuto all’ambiente Le esigenze dei cittadini cambiano così come quelle dell’ambiente: tra le priorità dell’UE negli ultimi anni si sono imposti anche nuovi standard ispirati al design sostenibile, ovvero la progettazione di oggetti di uso quotidiano in grado di consumare meno energia per ridurre le emissioni che alterano il clima. È del 2005 la prima normativa che impone in tal senso regole sempre più stringenti che esulano dalla consultazione di parlamenti, nazionali o europeo, e governi. Su diverse abitudini quotidiane è già calata la mannaia burocratica, mentre per molte altre sono in lavorazione proposte di legge che probabilmente vedranno la luce molto presto. Tra le prime misure adottate c’è l’eliminazione delle normali lampadine a incandescenza, vietate dal 2012 perché “accusate” di trasformare in luce solamente il 5,10% dell’energia che consumano. Non si potranno più comprare neanche le aspirapolveri a elevata potenza: da quest’anno sono in circolazione apparecchi con un massimo di 1600 Watt, mentre dal 2017 la soglia si abbasserà ancora a 900 Watt. E va in soffitta anche un must per gli italiani, la macchina che tiene in caldo il caffè dopo averlo preparato: comoda, ma dal consumo energetico eccessivo. Il prossimo anno saranno vendute solo quelle che si spengono automaticamente oppure dotate di un thermos a tempo che in ogni caso si interromperà dopo cinque minuti. Stop anche alle lunghe docce: sarà fissato un limite alla quantità d’acqua a disposizione, così come per quella utilizzata nel risciacquo delle toilette. È guerra poi al rumore delle macchine per tagliare l’erba, ma anche alle tv al plasma, che sprecano troppa energia, specie se molto grandi.

Lo Schengen sanitario La svolta storica per la Sanità europea ha una data precisa: 4 dicembre 2013, giorno dell’entrata in vigore della direttiva (2011/24) che consente ai cittadini di scegliere a proprio piacimento uno Stato membro diverso da quello di appartenenza e la struttura ospedaliera in cui farsi curare. Un italiano, se vuole, può quindi decidere per una clinica in Svezia, così come un francese sottoporsi a un intervento a Milano o Berlino. È previsto che al rientro nel proprio Paese si possa chiedere il rimborso delle spese sostenute, ma in misura corrispondente ai costi che il sistema avrebbe coperto se gli stessi trattamenti fossero stati prestati all’interno dei propri confini. Una sorta di Schengen sanitario che riguarda 600 milioni di cittadini, due milioni di medici e 20 milioni di infermieri: la rivoluzione più importante dall’introduzione nel novembre 2004 della tessera europea di assicurazione malattia – che dà diritto all’assistenza medica statale in caso di permanenza temporanea in uno dei 28 Stati dell’UE, oltre che Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera – a oggi. Adesso dovrà essere il governo Renzi a stabilire modi e tempi di emanazione delle prime linee guida italiane per l’assistenza sanitaria transfrontaliera, in particolare per quanto riguarda procedure di autorizzazione, rimborsi e riconoscimento delle ricette mediche. Per Roma, il timore è che possa aggravarsi il deficit già negativo del SSN, ma si spera anche che l’eccellenza delle strutture sul nostro territorio possa portare in Italia sempre più pazienti bisognosi di diagnosi e cure altamente specializzate. 083


Facilità d’acquisto Negli ultimi anni lo sforzo dell’UE si è concentrato soprattutto sulla tutela dei consumatori che scelgono di acquistare online. Le novità, introdotte dalla direttiva 83/2011 appena entrata in vigore, riguardano in particolare i contratti stipulati via internet: aumenta il tempo a disposizione per esercitare il diritto di recesso (14 giorni contro i dieci precedenti), mentre si riduce quello per ottenere il rimborso. Sarà l’Autorità Garante della concorrenza a vigilare sugli eventuali venditori che violeranno i diritti dei clienti. Vietato anche imporre tariffe superiori nel caso non si paghi in contanti, così come la pubblicità ingannevole. Sono, invece, ormai entrati nelle abitudini dei cittadini europei il marchio CE, che garantisce la conformità di un prodotto agli standard comunitari, e la possibilità di prelevare contante all’estero con il proprio bancomat pagando una piccola commis-

sione. Una notevole comodità per chi vuole viaggiare leggero, senza code prima di partire per cambiare le banconote e il terrore di girare con grandi somme in tasca. Da febbraio di quest’anno, poi, i bonifici SEPA – l’area unica dei pagamenti in euro che garantisce la stessa facilità e sicurezza di operazione a casa e negli Stati membri – hanno sostituito quelli nazionali e internazionali tradizionali, con l’obiettivo di ridurre i costi e i tempi di esecuzione. Normativa comune, infine, anche sulla fatturazione elettronica per favorire l’interoperabilità negli Stati membri dell’UE, dove al momento sono ancora in vigore regole differenti, se non contrastanti.

La tutela non ha confine Che sia in aereo, treno o autobus, spostarsi entro i confini dell’Unione non è mai stato così semplice. In estate, sono milioni i cittadini che scelgono come meta l’estero, ma cosa succede se partiamo per una vacanza all inclusive e nel frattempo il tour operator fallisce? E se, invece, l’albergo di lusso nella realtà si è rivelato ben altro? La legislazione è chiara: ai turisti deve essere garantito il viaggio di ritorno e un risarcimento se il servizio non corrisponde a quanto promesso. Il rimborso è previsto in caso di ritardi, cancellazio084

ni e overbooking: problema risolto grazie alla direttiva UE che costringe a fornire ai clienti un biglietto su un altro volo o treno disponibile o a risarcire la somma corrispondente quando il rinvio supera le quattro ore. Una tutela necessaria in uno scenario che, grazie alla liberalizzazione del trasporto aereo voluta da Bruxelles nel 1993, ha permesso a tutti di volare low cost nel continente, ma anche alle compagnie aeree di sfruttare a proprio vantaggio i vuoti normativi. Tra le direttive che hanno cambiato la vita dei cittadini c’è poi quella che nel 2003 ha imposto in auto le cinture di sicurezza obbligatorie per i passeggeri su tutti i sedili, con norme ancora più severe per i bambini alti meno di 135 centimetri. Una misura che in 15 anni ha fatto scendere il numero di decessi per incidente nei 28 Stati da oltre 75.000 ad appena 28.000.


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A ognuno il suo OGM Dopo quattro anni di dibattiti serrati, a metà giugno i ministri dell’Ambiente dell’UE sono arrivati a una svolta storica: il nuovo accordo lascia liberi gli Stati membri di limitare o di vietare – non solo per motivi ecologici o di salute, ma anche socioeconomici o di specifica politica agricola – la coltivazione di OGM, autorizzati su tutto o su parte del proprio territorio. La Commissione farà da intermediario tra la richiesta di un’azienda a produrre e vendere sementi geneticamente modificate, ma la parola spetterà ai singoli Paesi. Questo, indipendentemente dalla valutazione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Stati come Gran Bretagna e Spagna, da sempre favorevoli, potranno seguire la loro strada, mentre Italia, Francia e Austria, accaniti oppositori, potranno bandire gli OGM dai propri confini. Una scelta di compromesso con un’alta valenza politica – per la prima volta i 28 saranno svincolati dall’obbligo di rispettare una decisione comunitaria –, che però non mette al riparo dalle critiche. Da una parte i produttori che accusano di voler “rinazionalizzare” il quadro normativo europeo, dall’altra alcune associazioni avvertono il rischio di ritorsioni legali da parte del settore biotech e che si possano comunque danneggiare i campi dei Paesi limitrofi che hanno voluto dire no agli OGM. Otto italiani su dieci si sono già pronunciati contro l’agricoltura transgenica: ora la palla passa alla presidenza italiana per trovare un accordo legislativo con il nuovo Parlamento europeo. I tempi sono stretti e la strada tutta in salita. 085


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Lavorare sulla realtà articolo di Dario Di Vico Giornalista

Il mercato del lavoro cambia velocemente; si plasma in base alle nuove richieste messe in atto dallo sviluppo delle tecnologie e dà spazio alla nascita di figure professionali impensabili fino a pochi decenni fa. Per dare una vera sferzata all’occupazione occorre che, accanto ai governi, si schierino anche le imprese ed entrambi guardino al reale come punto di partenza per le riforme.

Il dibattito sul lavoro in Europa risente di una certa monotonia. Nei molti discorsi pronunciati anche in consessi internazionali sembra quasi che i relatori cerchino più l’originalità delle slide che un vero monitoraggio della realtà. Non possiamo stupirci se le parole d’ordine alla fine, nonostante gli sforzi, risultano sovente le stesse e vertono per lo più sulla regolamentazione per legge. Le norme sul mercato del lavoro vengono utilizzate come una delle cartine di tornasole per verificare se questo o quel governo nazionale si stia muovendo o meno sulla strada delle stracitate rifor086

me. Ma l’impostazione è sempre fortemente politicista e guarda con approssimazione e sufficienza ai flussi reali. Gli interlocutori principali sono sempre i governi e mai le imprese, e i limiti di quest’approccio sono evidenti. Proviamo quindi a superarli confrontandoci con alcune tendenze di fondo dell’occupazione. Cominciamo dagli effetti della tecnologia. È evidente come le fabbriche intelligenti non possa-


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mc jobs I lavori a basso valore aggiunto prendono il loro nome dalla catena McDonald’s. Il termine mc job fu infatti coniato negli anni Novanta per descrivere lavori brevi e sottopagati, usando come esempio gli impieghi nei fast food.

no essere catalogate come labour intensive: il numero degli addetti è ridotto all’osso e le qualifiche sono decisamente elevate, in un mix tra operai in camice bianco e ingegneri sistemisti. È chiaro che gli impianti-pilota devono essere valutati per l’occupazione diretta che generano e per le esternalità che crescono attorno, ma anche in questo modo stiamo comunque parlando di numeri bassi e che non incidono significativamente sullo stock di disoccupati. Se quando la fabbrica automatica fa passi in avanti diminuisce il lavoro, nei servizi assistiamo invece a un fenomeno differente. Si creano occasioni di posti di lavoro nella grande distribuzione, ad esempio, e nella filiera legata al 088

commercio elettronico. Si tratta, è evidente, di jobs standardizzati e con paghe livellate verso il basso, che di conseguenza rischiano di caratterizzarsi per una veloce rotazione della manodopera, che in qualche caso li abbandona anche senza avere un’alternativa. Bisogna quindi riprendere in mano la riflessione sui mc jobs e cercare di trovare strade nuove rispetto al passato: le aziende devono impegnarsi a garantire al proprio interno percorsi di mobilità ascendente fidelizzando così i giovani che sono stati assunti. È singolare che di tutto ciò si parli troppo poco; evidentemente la realtà è nemica delle slide. La seconda questione riguarda l’analisi dei mercati. In Italia c’è una specificità evidente che è data dal carattere dualistico dell’offerta. Il pubblico e il privato coesistono grazie al radicamento delle agenzie private che svolgono un ruolo che lo Stato fatica ad assolvere. I privati, infatti, operano concretamente per l’occupabilità svolgendo una funzione pedagogica nei confronti di chi si presenta da loro per cercare


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lavoro. Concorrono a stendere un curriculum, quindi a creare un’identità professionale e a individuare un percorso di opportunità. In secondo luogo i privati si rivolgono anche alle aziende e in qualche modo chiedono loro di programmare i fabbisogni di manodopera in maniera da poterla formare nei tempi giusti e nelle quantità necessarie. Lo Stato sarà mai in grado di fare altrettanto? È da qui che bisogna partire, dalla realtà che si è creata invece di inseguire modelli di gestione del mercato del lavoro che divergono fortemente. Un esempio su tutti: si parla di copiare i tedeschi, ma chi sostiene questa tesi sa che in

Gli interlocutori principali sono sempre i governi e mai le imprese, e i limiti di quest’approccio sono evidenti

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Germania l’agenzia nazionale per il lavoro ha da sola 100.000 dipendenti? C’è qualcuno che veramente pensa di copiare quest’esperienza nel nostro Paese? Un terzo punto largamente sottostimato riguarda l’aumento del lavoro autonomo, tuttora considerato una forma anomala di occupazione, una modalità che un giorno o l’altro la modernità riassorbirà. Niente di più lontano dalla realtà: nelle società occidentali si va verso un aumento delle figure dei freelance, basta pensare alla professione di giornalista, una volta composta tutta da lavoratori dipendenti e già ora invece arrivata al fifty-fifty. Più in generale l’aumento del lavoro autonomo è legato alla socializzazione del rischio necessaria per accrescere l’occupazione, e soprattutto per accompagnare la trasformazione del sistema produttivo dopo anni di ristrutturazione e l’emergere di un’organizzazione per filiere lunghe, nelle quali il lavoro dell’artigiano fornitore e quello del tecnico interno all’azienda finiscono per assomigliarsi fortemente. Non va dimenticato poi come nel mercato del lavoro italiano un giovane su quattro si rivolga all’autoimpiego per tentare di risolvere il problema all’ingresso, caricandosi di tutta una serie di responsabilità. Glielo riconosciamo e interveniamo per facilitarne il percorso verso un’affermazione di mercato o facciamo finta di niente e ci giriamo dall’altra parte? Se entriamo nell’ordine di idee di registrare una crescita degli autonomi è chiaro che in sede nazionale o comunitaria occorre discutere di revisione del welfare tradizionale e di nuove forme di tutela. Siamo schiavi di una concezione risarcitoria dello Stato sociale mentre dobbiamo iniziare a mettere in atto esperienze che svolgano la loro funzione ex ante e diventino strumento dell’incremento di occupazione e di stabilizzazione. È facile capire che, se si vogliono aprire gli occhi e guardare l’economia reale, l’agenda delle priorità si compila quasi da sé, mentre se al contrario ci si continua a baloccare con frasi fatte tutto diventa più indistinto e inafferrabile.

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collaborare per l’impresa articolo di Gianluigi Torchiani Giornalista

Sede di molte tra le principali aziende a livello globale, l’Europa ha visto nel tempo scemare la sua credibilità imprenditoriale. Eppure tutt’oggi questo continente è una potenza economica mondiale, e per sostenerla l’Unione ha messo in campo molti strumenti a favore di piccole e grandi imprese e di quelle nuove idee che trovano la loro forza nella collaborazione transnazionale. 090

Di Europa si parla e si scrive tantissimo e, soprattutto in questo lungo periodo di crisi economica, non sempre in termini lusinghieri. I problemi che interessano il vecchio continente e le discusse e discutibili politiche finanziarie fanno infatti dimenticare alla stragrande maggioranza dei cittadini come, invece, l’Europa sia ancora oggi una delle maggiori potenze economiche a livello mondiale. L’economia dell’UE, misurata in termini di produzione di beni e servizi (PIL), supera persino quella degli Stati Uniti, per un valore di circa 13.000 miliardi di euro (2012). L’UE conta solo il 7% della popolazione mondiale, ma i suoi scambi commerciali con il resto del mondo rappresentano circa il 20% delle esportazioni e importazioni del pianeta. In Europa si trovano anche alcune tra le principali aziende multinazionali a livello globale: secondo l’indice Global 500 2014 di “Fortune”, la società olandese


Shell è la numero due del mondo in termini di fatturato, seconda solo all’americana Walmart. Nella top 10 si trovano anche altre aziende del vecchio continente: al quarto posto c’è ancora una compagnia petrolifera, la britannica BP, mentre la casa automobilistica tedesca Volkswagen si piazza in ottava posizione. In totale, tra le prime 50 aziende globali per investimenti in ricerca e sviluppo, 15 hanno sede nell’Unione europea, 18 negli Stati Uniti e 13 in Giappone. I fondamenti, insomma, ci sono ancora, nonostante i sei anni di recessione abbiano colpito pesantemente l’economia continentale (-2% nell’UE a 27 tra 2008 e 2013). Uno shock non certo salutare, ma che ha fatto comprendere un aspetto importante: il vecchio continente ha bisogno di aziende capaci di produrre beni e servizi reali e di competere con efficacia sui mercati internazionali. Una svolta in tal senso è finalmente entrata

nell’agenda delle istituzioni comunitarie: lo scorso marzo il Consiglio europeo ha approvato il piano della Commissione “Per un Rinascimento industriale europeo” per promuovere gli investimenti, stimolare l’innovazione e, soprattutto, risanare il settore manifatturiero in tutta Europa. Il piano prevede l’adozione di proposte nel campo dell’energia, dei trasporti, del settore spaziale e delle reti di comunicazione digitale, così come l’attuazione e l’applicazione della normativa per completare il mercato interno. Ma non si tratta soltanto di belle parole: dietro alla politica comunitaria ci sono effettivamente finanziamenti cospicui (molti dei quali istituiti

Tra le prime 50 aziende globali per investimenti in ricerca e sviluppo, 15 hanno sede nell’Unione europea

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Brevetto unico europeo, cos’è Proteggere le proprie idee e i propri progetti a livello europeo e nazionale. E non attraverso due percorsi burocratici diversi, ma con uno solo. È il brevetto unico europeo, approvato a dicembre 2012 e che permette alle imprese di chiedere una tutela targata UE per proteggere le proprie invenzioni in ben 25 Paesi dell’Unione, e anche nel proprio Paese. Un notevole vantaggio economico, che porta a diminuire circa del 70% le spese per il brevetto, e un elemento che favorisce la piccola e media impresa e i centri di ricerca. Il deposito del brevetto può avvenire nella lingua madre dell’azienda, alla quale bisognerà fare seguire, entro un mese, la traduzione in inglese, francese o tedesco, uniche lingue accettate per dibattere le controversie. Non tutti i Paesi europei hanno aderito però. In Italia e in Spagna, che lo hanno rifiutato perché le loro lingue non erano state inserite tra quelle ufficiali del brevetto, la protezione al momento non è valida.

già da diversi anni) a favore delle imprese continentali. Anzi, le sigle e i nomi sono così numerosi che è bene fare un po’ di chiarezza in materia, vista anche la diversità delle modalità di sostegno a disposizione, non tutte dirette. Infatti, l’UE prevede una serie di strumenti finanziari (prestiti, garanzie, ecc.) per la maggior parte disponibili solo per via indiretta e che, in linea di massima, vanno a imprese di dimensioni già importanti, per sostenerle nello sviluppo di specifici progetti imprenditoriali. Molti di questi strumenti sono gestiti, infatti, dalla Banca europea per gli investimenti (BEI) e dal Fondo europeo per gli investimenti (FEI) e sono erogati ai soggetti beneficiari attraverso degli intermediari finanziari. Accanto a questi strumenti ci sono i Fondi strutturali e il Fondo di coesione, che costituiscono gli strumenti della politica regionale dell’Unione europea per attenuare le differenze economiche tra le regioni comunitarie. È a questi che ci si riferisce quando, periodicamente, si legge che l’Italia non ha saputo spendere i fondi europei. In particolare il FESR (Fondo europeo di sviluppo regionale) 2014-2020 destinerà circa 100 miliardi di euro alle imprese continentali, concentrandosi su quattro priorità chiave: innovazione e ricerca, agenda digi092

L’Enterprise Europe Network promuove la collaborazione transnazionale tra imprese incentivando lo scambio di tecnologie e dei risultati di ricerche scientifiche e stimolando la collaborazione commerciale


tale, sostegno alle piccole e medie imprese (PMI) ed economia a bassa emissione di carbonio. Esistono poi delle sovvenzioni direttamente amministrate dall’UE, i cosiddetti programmi tematici, di cui i principali rivolti alle imprese per il periodo 2014-2020 sono il Programma per la competitività delle imprese e delle PMI (COSME, con un budget di 2,3 miliardi euro) e il Programma quadro di ricerca e innovazione Horizon 2020, incentrato sui temi della ricerca e dell’innovazione (con ben 80 miliardi di euro di risorse). Oltre agli aiuti economici veri e propri, ne esiste un altro tipo non meno importante, ovvero quello garantito dall’Enterprise Europe Network: si tratta di una rete europea che si propone di promuovere la collaborazione transnazionale tra imprese incentivando lo scambio di tecnologie e dei risultati di ricerche scientifiche e stimolando la collaborazione commerciale tra soggetti italiani e stranieri. La rete, inoltre, fornisce assistenza e supporto alle imprese su tutte le tematiche comunitarie. Questo ricco catalogo europeo, già negli anni passati, magari sotto altre sigle, ha prodotto migliaia di veri e propri casi di successo. Come Gumiimpex, una piccola impresa croata che ricicla vecchi pneumatici trasformandoli in una polvere utilizzata per costruire barriere antirumore lungo le autostrade. Grazie a

una sovvenzione di mezzo milione di euro, assegnata nell’ambito del programma europeo Eco-Innovation, l’azienda ha potuto fare un balzo in avanti nella propria attività, assumendo circa 30 persone e raddoppiando la propria capacità produttiva. Oppure c’è il caso dell’Organic Supermarket di Dublino, specializzato nella vendita di generi alimentari completamente biologici. Grazie a un finanziamento di appena 25.000 euro, allocato attraverso intermediari del Fondo europeo per gli investimenti, il piccolo supermercato ha potuto realizzare un portale di e-commerce, tanto efficace da essersi anche aggiudicato il titolo di miglior sito irlandese per piccole imprese nel 2010 e nel 2011. L’Europa sta anche alla base delle fortune del panificio Prospero di Timisoara, in Romania: grazie al sostegno della Camera di commercio e agricoltura locale, che fa parte dell’Enterprise Europe Network, è stato redatto un piano di attività e, soprattutto, è stata ottenuta una sovvenzione europea di 750.000 euro. L’azienda ha così potuto investire in un nuovo stabile, in macchinari all’avanguardia e in sei nuovi camion per le consegne: il risultato è stato un aumento del fatturato del 25% e l’assunzione di 60 nuovi dipendenti. Per nostra fortuna i casi di successo non mancano anche in Italia: tra i tanti c’è quello dell’azienda italiana Relight, fondata nel 1999, che lavora nel campo dei RAEE, i rifiuti elettronici, raccogliendoli nell’intero territorio nazionale e riciclandoli. Il contatto con l’Europa è dato dalla partecipazione al progetto Glass Plus, che ha ricevuto finanziamenti dall’UE nell’ambito del programma Ecoinnovation. Grazie all’idea di aggiungere al vetro riciclato dai vecchi televisori una miscela di gesso, il progetto Glass Plus ha consentito di realizzare centinaia di migliaia di metri quadri di piastrelle di ceramica. 093


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intervista

In difesa del consumatore Intervista a Monique Goyens Direttore generale del BEUC di Martino Cavalli Giornalista progetto fotografico di White

Internet, protezione della privacy, sicurezza alimentare: molti sono gli aspetti di competenza della Commissione europea che hanno a che fare con gli interessi del consumatore. PerchÊ questi siano sempre tutelati esiste il BEUC, diretto da Monique Goyens, che ci illustra aspettative e punti di vista di un organismo che ha grande rilevanza anche nei rapporti internazionali dell’Unione.


«Il nostro più grande successo? Facile pensare alle tariffe di roaming. Tutti gli europei usano il cellulare e spesso lo fanno in altri Paesi dell’UE: ebbene, hanno visto scendere sempre di più il costo del roaming e ora si lavora sul loro definitivo azzeramento. Non è straordinario?». Monique Goyens è il Direttore generale del BEUC (Bureau Européen des Unions de Consommateurs), l’organismo che a Bruxelles rappresenta gli interessi dei consumatori e che deve quindi fare pressione sulla Commissione europea affinché le sue direttive non perdano mai di vista gli interessi di questa categoria trasversale. E, anche se negli ultimi anni l’attenzione dell’opinione pubblica si è concentrata invece sulle questioni economiche, Bruxelles può fare molto in questa direzione. Per esempio nel settore alimentare, con le norme su etichettature e indicazioni di origine, oppure sulle clausole dei contratti che oggi consentono di cambiare idea e restituire un bene acquistato. Naturalmente, ci sono anche i punti deboli.

Fino alla fine del 2014 l’Italia avrà la presidenza dell’Unione europea. C’è qualche dossier sul tavolo che lei vorrebbe vedere “velocizzato” dall’Italia? Penso al tema della protezione della privacy, sul quale c’è un testo di direttiva molto ambizioso che in Consiglio (l’istituzione che riunisce i ministri dei singoli Paesi UE) ha avuto qualche difficoltà. Sarebbe importante che l’Italia riuscisse a ridare impulso a questo testo, che è veramente importante per tutti i cittadini europei. A proposito di Italia, come giudica il livello di protezione del consumatore nel nostro Paese? Sappiamo che i “campioni” sono i Paesi del Nord Europa… Sì, sono Paesi che hanno una tradizione in questo senso. Ma le direttive europee servono proprio a uniformare regole e disposizioni in tutta Europa. L’Italia ha ottenuto ottimi risultati in questa direzione, la vostra Autorità Antitrust per esempio è molto attiva e ha dimostrato una forte capacità di intervento a difesa dei consumatori.

Quali sono i settori dove c’è più da lavorare? Penso innanzitutto alle attività legate a internet, dove esiste un universo di norme, a volte molto buone, ma ormai datate perché spesso non tengono conto dello sviluppo di internet stesso. Può fare qualche esempio? Sicuramente uno riguarda ciò che avviene quando si compra un software: se c’è il supporto fisico, come può essere per esempio un dvd, l’acquisto è coperto da garanzia, cosa che non avviene se viene scaricato direttamente online. Oppure la direttiva sui viaggi tutto compreso, vecchia di 20 anni: oggi dal sito di una compagnia aerea low cost si possono prenotare alberghi, auto a noleggio e altri servizi. Il mondo cambia e la legislazione europea fa fatica a tenere il passo? Sì, in effetti è abbastanza vero. Direi che per quanto riguarda il mondo digitale, il concetto stesso di mercato interno, di mercato unico europeo ormai consolidato in tantissimi altri settori, deve ancora fare considerevoli passi avanti.

Ci sono Paesi, nel Nord Europa per esempio, che hanno un livello maggiore di protezione del consumatore rispetto ad altri. Ma le direttive europee servono proprio a uniformare regole e disposizioni in tutta l’Unione 095


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In Europa, però, non sembra esserci una grande fiducia dei consumatori sul livello di tutela. L’indagine The Consumer Conditions Scoreboard indica risultati piuttosto deludenti. Non si deve generalizzare. I dati aggregati sono una media di Paesi con situazioni differenti e soprattutto di settori molto diversi tra loro. Sappiamo benissimo che ci sono alcune attività, come per esempio quella dei servizi bancari, su cui il grado di soddisfazione è ancora basso. Ci lavoriamo, naturalmente, e nessuno si siede sugli allori, anche se ci tengo a ribadire che il rispetto delle direttive europee spetta ai singoli, e per farlo nel migliore dei modi servono delle risorse finanziarie che purtroppo non sempre sono disponibili. L’Unione europea è molto impegnata, in questo momento, in un difficile negoziato con gli Stati Uniti per la creazione di una grande area di libero scambio appunto tra Europa e America. L’impressione è che l’Europa tema di perdere alcuni risultati conquistati con fatica. Un esempio per tutti è quello del pollo al cloro, di cui i giornali hanno molto parlato… Non c’è dubbio che l’accordo di libero scambio tra UE e Stati Uniti, il cosiddetto TTIP, sia una delle grandi sfide che dobbiamo affrontare, e in effetti non vogliamo dover rinunciare a risultati che per noi europei sono già acquisiti. Questa storia del pollo al cloro è diventata un po’ il simbolo di questa volontà. Ce ne può parlare? Certo. Anche perché esprime perfettamente le diversità di approccio nella tutela del consumatore. In Europa, dove il 096

Le etichette sugli alimenti: l’Europa vigila sul nostro cibo Dal 13 dicembre il livello di tutela dei consumatori europei in materia alimentare sarà ancora più elevato. A dirlo è il nuovo regolamento UE sulle etichettature, lo strumento che aiuta i consumatori a effettuare i propri acquisti in maniera consapevole e che da fine anno riguarderà ogni fase della catena alimentare e tutti gli alimenti. L’obiettivo è la massima chiarezza, quindi “no” a etichettature, presentazioni o pubblicità che confondano il consumatore su caratteristiche e proprietà di un alimento e “sì” alla dichiarazione nutrizionale, finora a discrezione del produttore, ma da fine anno obbligatoria.


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Per quanto riguarda il mondo digitale il concetto stesso di mercato interno deve ancora fare passi avanti. Esiste un universo di norme, a volte molto buone, ma ormai datate

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livello di protezione è molto alto, si è scelto di avere tutta la filiera di allevamento e macellazione dei polli il più possibile protetta dai rischi di infezione batterica come ad esempio la salmonella. Questo in che modo? È l’approccio comunemente indicato come “dalla fattoria alla tavola”, che richiede tutta una serie di passaggi nella catena produttiva per assicurare che il cibo venduto al consumatore finale sia effettivamente sano. Nel caso del pollame, le regole igieniche dell’allevatore iniziano con l’uso di vestiti e calzature appositi, per evitare di portare batteri all’interno degli allevamenti. Poi è necessaria una serie di accorgimenti nel trasporto, nella macellazione e nel modo in cui la carne viene alla fine processata. E negli Stati Uniti tutto questo non avviene? Negli Stati Uniti, al contrario, si preferisce agire solo sull’ultimo passaggio, cioè sottoporre la carne di pollo prima della vendita a un “lavaggio chimico” antibatterico. Ora, al di là del fatto che possa sembrare particolarmente sgradevole lavare della carne di pollo con un prodotto che noi utilizziamo per pulire la toilette, com’è appunto il cloro, io penso che l’Europa non debba accettare l’uso, e quindi neanche l’importazione, di carni trattate chimicamente. Ma si può sacrificare un accordo di libero scambio tra le due aree più industrializzate del pianeta per la carne di pollo? Detto così suona un po’ provocatorio, ma certamente non dobbiamo e non possiamo sacrificare i livelli di salute pubblica e di protezione dei consumatori in cambio di vantaggi negoziali nel TTIP.

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Sc

scenari

ponti economici di carta di Alessandro Barbera Giornalista illustrazioni di Undesign

Si sente spesso parlare degli anti-euro, convinti che alla base dei problemi economici di alcune nazioni come Italia e Francia ci sia la creazione della moneta unica. Ma sono poi molte queste voci, o fanno solo rumore senza costituire un’opinione diffusa? In un momento di incertezza l’unica cosa chiara sembra essere proprio la superficialità di questo atteggiamento e la solidità che può rappresentare l’euro. Che cosa è accaduto all’euro? Possibile che la più grande utopia realizzata dalla politica del dopoguerra si sia trasformata rapidamente nell’incubo di milioni di cittadini, nel capro espiatorio di tutti i mali del vecchio continente? Oggi l’impopolarità dell’euro è il frutto di un errore di prospettiva. È sbagliato credere che negli anni della crisi l’Europa non sia cambiata: il processo di integrazione è stato più rapido che nei sessant’anni precedenti. I passi in avanti sono stati bruschi, contraddittori, molto spesso nella direzione sbagliata. I problemi dell’architettura dell’euro sono in gran parte irrisolti: una moneta unica costruita attorno a economie diverse fra loro, mercati segmentati e frammentati 098

e senza un vero governo europeo. Eppure persino nei momenti peggiori della crisi nessuno se l’è sentita di mettere davvero in discussione la permanenza nell’eurozona. C’è chi lo ha fatto – in Italia e in Francia – ma al massimo ha intercettato la pancia di un elettorato che trova nell’euro la facile risposta ai grandi problemi di due nazioni gloriose e malate. Diceva nel 2007 Tommaso Padoa-Schioppa: «Con la moneta unica l’Europa ha superato le crisi finanziarie asiatica e russa di fine anni Novanta, gli attentati del 2001, lo scoppio della bolla dei titoli tecnologici, il forte aumento del prezzo del greggio. Senza la moneta unica saremmo probabilmente giunti qui moribondi, se non morti».


Gli argomenti degli anti-euro oggi sono popolari ma non si sono mai davvero imposti. Quanti sarebbero pronti ad affrontare da soli la competizione globale? Che ne sarebbe della tranquillità di banche e imprese abituate a operare senza rischi di cambio, con le spalle coperte da una Banca centrale europea, una ragnatela di flussi di liquidità e investimenti che si regge sulla presenza di una moneta comune? Che ne sarebbe della tranquillità delle famiglie che possono sottoscrivere un mutuo senza temere paurose oscillazioni dei tassi di interesse? Negli anni della crisi, senza nulla togliere alle responsabilità dei Paesi in difficoltà – Italia, Spagna, Grecia, Portogallo – la Germania di Angela Merkel ha trasformato la difficoltà di un progetto politico e di un continente nella somma di colpe e inadempienze di singoli Paesi. Berlino, Bruxelles e Francoforte hanno imposto come unica priorità quella di vincolare i singoli Stati ad adottare politiche economiche sostenibili nel lungo periodo. Una scelta lungimirante, ma che ha finito per stratificare controlli burocratici, procedure, a sottoporre gli Stati membri a verifiche fin troppo frequenti sulle politiche nazionali. Se c’è un Paese che dal changeover in poi si è avvantaggiato dell’introduzione della moneta unica è stata la Germania. Le statistiche dicono che fra il 2002 e il 2010 l’economia tedesca ha esportato capitali per mille miliardi di euro. Flussi di denaro investiti anzitutto nei titoli dei Paesi del sud Europa. Gli investitori tedeschi sono soddisfatti perché incassano lauti guadagni a fronte di un rischio basso. I debitori

sono altrettanto soddisfatti perché il debito pubblico viene sottoscritto facilmente, a costi ragionevoli e senza preoccuparsi delle riforme. La presunta virtù dei Paesi del Nord scoraggia quelli del Sud a seguirli sulla loro stessa strada, in una sorta di carry trade (operazione finanziaria con la quale ci si approvvigiona in un Paese a costo del denaro basso di fondi che poi si impiegano in uno con alti tassi di interesse, ndr) tra economie, mascherate dall’appartenenza a una valuta comune. Ma chi avrebbe pensato allora che uno o più Paesi dell’euro potessero davvero fallire? Chi avrebbe scommesso nell’arrivo dagli Stati Uniti di una crisi finanziaria senza precedenti nell’ultimo secolo? Qualcuno dirà: tutte queste sono ottime ragioni a favore di un ritorno alle monete nazionali e alla flessibilità che esse garantivano. Tralasciamo per un momento la questione dei costi, posto che l’uscita dall’euro produrrebbe l’immediato default di tutte le principali multinazionali e banche dei Paesi più deboli, Italia compresa. E tralasciamo l’argomento legale, se è davvero possibile ottenerlo. Chi sostiene la tesi del ritorno alle monete nazionali non dice (o peggio fa finta di non sapere) che la svalutazione del cambio, quella che andava in voga negli anni Settanta e Ottanta, consente sì di recuperare competitività, ma funziona solo se non causa inflazione. Se invece serve a finanziare gli Stati, l’esito certo è un aumento dei tassi e del debito pubblico: esattamente quel che accadeva trent’anni fa, prima del “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia. L’alternativa – come accadeva

Quanti sarebbero pronti ad affrontare da soli la competizione globale? Che ne sarebbe della tranquillità di banche e imprese, abituate a operare con le spalle coperte da una Banca centrale europea, e delle famiglie?

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negli anni Settanta – sarebbe reintrodurre i controlli sui movimenti di capitali, obbligando i cittadini, la banca centrale e le banche a finanziare forzosamente il debito. I sostenitori del ritorno alla lira hanno memoria corta: la decisione di costruire una moneta unica non fu frutto della volontà di potenza dei tedeschi, la cui moneta è stata quella dominante in Europa sin dal dopoguerra – ma proprio di chi allora subiva la forza e le decisioni della Bundesbank. Vero è che l’euro e la sua governance sono stati costruiti a immagine e somiglianza del marco, così come – a posteriori è sempre facile – si potrebbe discutere su alcune delle condizioni che l’Italia accettò per entrare nel club. Ciò non toglie che l’euro è stato un passo avanti, non indietro, nel sottrarre le economie europee al dominio fino ad allora incontrastato dell’area di influenza tedesca. Basta provare a immaginare quale sarebbe stata l’onda d’urto della crisi del 2007-2008, quando i subprime dall’Atlantico hanno raggiunto le coste del Mediterraneo. Prima dell’inizio della crisi finanziaria l’euro contendeva al dollaro il ruolo di valuta di riserva. Nel 2012 i Paesi emergenti come Cina e Brasile hanno perso fiducia nell’euro, le loro banche centrali ridotto dell’8% le riserve in euro e l’ascesa della moneta europea si è interrotta. Da allora a

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riempire lo spazio lasciato libero e a marcare i nuovi equilibri geopolitici ci pensa il reminbi cinese, mentre l’euro fa i conti con la deflazione. A ben guardare, anche questa volta il problema non è però causato dall’architettura della moneta unica, ma dalle vecchie fondamenta sulle quali l’Europa ha deciso di continuare a sorreggersi.

Architetture in cartamoneta «Oggi pago con un ponte gotico». Un negoziante non reagirebbe bene a una simile proposta, che invece sarebbe assolutamente legittima: ogni banconota di euro rappresenta, infatti, un determinato periodo architettonico. Così tutti i giorni ci scambiamo le immagini, disegnate dall’illustratore austriaco Robert Kalina, di ponti classici, romanici, gotici, rinascimentali, fino all’architettura moderna della banconota da 500. Ponti simbolici, che rappresentano l’unione monetaria. Curiosità: nessuno di essi esiste realmente, ma il designer e artista olandese Robin Stam ha deciso di porre rimedio a questa mancanza con il progetto, tutt’ora in corso nella periferia della cittadina olandese di Spijkenisse, De Bruggen Van Europa, appunto “I ponti dell’Europa”.

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intervista

schengen: il viaggio è libero Intervista a Yves Pascouau

Direttore della politica di migrazione e mobilità dell’European Policy Center di Cecilia Toso

L’abolizione delle frontiere tra diversi Stati europei è stato senz’altro un processo rivoluzionario non solo per i cittadini, ma anche per il commercio e, di riflesso, per l’economia. Eppure, ciò che oggi ci sembra un dato di fatto ha alle spalle una storia trentennale, specifici requisiti di accesso e un’idea ben precisa di libertà e sicurezza. Quella che oggi è diventata un’abitudine, lo spostarsi avanti e indietro tra i territori di diversi Stati europei senza doversi preoccupare dei controlli alla frontiera, rappresenta in realtà un traguardo rivoluzionario. Ma, come spesso accade, ci siamo dimenticati di come fosse la vita del viaggiatore prima, se escludiamo i momenti amarcord in cui ripensiamo alle lunghe code alla frontiera, o quando mettiamo piede in uno dei Paesi europei che all’area Schengen non hanno voluto o potuto aderire. E soprattutto, sappiamo ben poco di come si sia arrivati all’importante conquista della libera circolazione. Ne parliamo quindi con Yves Pascouau, una delle persone che della nostra mobilità in Europa si occupa tutti i giorni, essendo Direttore della politica d’immigrazione e mobilità dell’European Policy Centre, think tank indipendente specializzato in integrazione. 102

Come ha fatto un patto tra cinque Stati a diventare una pietra miliare della legislazione dell’Unione europea? La storia dell’area Schengen è iniziata tra Francia e Germania nel 1984. All’epoca entrambi gli Stati effettuavano controlli alle loro frontiere comuni creando seri disturbi alla circolazione. La presenza di lunghe code di autocarri, autobus e vetture era un doppio fallimento: la libertà di circolazione proclamata in Europa non era assicurata e i controlli alle frontiere interne avevano un forte impatto economico ponendo un freno alla consegna di beni e prodotti all’interno del mercato comune. Per superare la difficoltà, Francia e Germania decisero di firmare un accordo bilaterale che stabiliva la progressiva soppressione dei controlli alle frontiere tra i loro Stati. Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, già impegnati in un modello simile di cooperazione, chiesero

di unirsi al progetto, che venne avviato pochi mesi dopo con l’Accordo di Schengen del 1985, integrato cinque anni dopo dalla Convenzione attuativa dell’Accordo di Schengen. Il 14 giugno 1985, cinque Paesi si sono impegnati ad abolire gradualmente i confini tra di loro. L’accordo prevedeva: misure a breve termine per la semplificazione dei controlli alle frontiere interne e per il coordinamento nella lotta contro il traffico di droga e la criminalità; misure a lungo termine come l’armonizzazione di leggi e norme contro il traffico di droga e di armi, la cooperazione tra le forze di polizia e politiche comuni in materia di visti. La Convenzione attuativa, firmata il 19 giugno 1990, stabiliva come sarebbe stata applicata l’abolizione dei controlli alle frontiere interne, così come una serie di misure a corredo. Mirava a rafforzare i controlli alle frontiere esterne, definire pro-


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cedure uniformi per il rilascio dei visti, stabilire un Sistema d’informazione Schengen (SIS) e adottare azioni contro il traffico di droga. L’attuazione iniziò nel 1995 con l’abolizione dei controlli alle frontiere tra i cinque Stati fondatori a cui si aggiunsero Spagna e Portogallo. Da quel momento in poi, l’area Schengen è stata estesa costantemente a nuovi Paesi. Sebbene fosse stato sviluppato come una cooperazione intergovernativa, l’Acquis di Schengen (l’insieme delle disposizioni che regolano i rapporti tra gli Stati membri dell’area) fu integrato nel contesto normativo dell’UE con il Trattato di Amsterdam del 1999. Bisogna soddisfare dei requisiti per entrare nell’area Schengen? Sì, ed è una scelta tecnica e politica. Dal punto di vista tecnico, i Paesi richiedenti devono: prendersi la responsabilità di controllare le frontiere esterne per conto di altri Paesi Schengen e rilasciare visti uniformi; cooperare in modo efficiente con 104

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È la Commissione europea a valutare se lo Stato richiedente soddisfa i requisiti: la piena partecipazione è subordinata a una decisione unanime del Consiglio dei Ministri dell’UE

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le forze dell’ordine degli altri membri, per mantenere un alto livello di sicurezza una volta aboliti i controlli tra di loro; applicare l’Acquis di Schengen, inclusi tra l’altro il controllo delle frontiere via terra, mare e aria (aeroporti), il rilascio dei visti, la cooperazione tra le forze di polizia, la protezione dei dati personali; collegarsi e utilizzare il SIS. La Commissione europea valuta se lo Stato richiedente soddisfa i requisiti e, in caso positivo, redige un rapporto che conferma l’idoneità tecnica per l’ingresso nell’area. La piena partecipazione è subordinata però a una decisione unanime del Consiglio dei ministri dell’Unione europea. Questo doppio meccanismo spiega il motivo per cui Romania e Bulgaria continuano a restarne fuori. Sebbene questi Stati abbiano soddisfatto i requisiti tecnici, manca l’unanimità per lasciarli entrare. Ci sono Stati membri dell’UE che ancora non hanno aderito. La li-

bera circolazione dei loro cittadini nell’area quindi è limitata? Mentre alcuni Stati stanno avviando il processo per diventare membri dell’area, il Regno Unito e l’Irlanda hanno deciso di non partecipare al progetto. Questa decisione non incide sul diritto di libertà di movimento dei loro cittadini sotto la giurisdizione dell’UE: hanno il diritto di entrare e risiedere in un altro Stato membro fino a tre mesi per motivi di lavoro, o per un periodo più lungo per ragioni di famiglia o di studio. Restando al di fuori dell’area Schengen, il Regno Unito e l’Irlanda continuano a effettuare controlli alle frontiere nei loro confini esterni. Invece, chi vola dall’Irlanda o dal Regno Unito verso l’area Schengen è soggetto a controlli nei punti di ingresso. L’abolizione dei controlli alle persone, qualsiasi sia la loro nazionalità, rappresenta per molti una minaccia alla sicurezza dell’Unione. È d’accordo? Il fatto che l’area Schengen porti un deficit di sicurezza è un’idea diffusa.


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Bisognerebbe sottolineare che, fin dall’inizio, Schengen prevedeva numerose disposizioni alla cooperazione tra polizia e autorità giudiziaria in diversi settori legati tra gli altri alla lotta alla criminalità, quali il traffico illecito di sostanze stupefacenti e armi, l’ingresso e la permanenza non autorizzata di persone, le frodi doganali e fiscali e al contrabbando. La cooperazione in materia di sicurezza ha subito un’evoluzione costante nel corso degli anni. Per questo dall’apertura dei controlli alle frontiere interne, l’area Schengen non si è trasformata in un’area insicura in cui vivere e viaggiare.

L’European Policy Centre lavora su una serie di temi che coprono anche la mobilità e l’immigrazione. Per poter chiarire agli Stati i doveri che derivano dalla loro appartenenza all’Unione europea su questi temi, l’anno scorso avete lanciato un progetto interessante. Si tratta del progetto European Migration Law, che è stato sviluppato parallelamente alla mia posizione al Centro per gli Studi Politici Europei. Il progetto, che riunisce un gruppo di avvocati e accademici, si basa sulla forte convinzione che i diritti creati

-G re cia

In quali casi uno Stato membro è autorizzato a ripristinare i controlli alle frontiere interne? Gli Stati sono autorizzati a farlo in caso di minaccia grave all’ordine pubblico o alla sicurezza interna. Questo può capitare in tre situazioni specifiche: intervento immediato (ad esempio il mas-

sacro norvegese di Utoya), evento programmato (ad esempio sportivo) o nel caso in cui mancanze ai controlli delle frontiere esterne costituiscano una grave minaccia all’interno dell’area non soggetta a controlli alle frontiere interne o parti di essa. In tutte queste eventualità, la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne deve seguire specifiche procedure e si intende temporanea.

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dalla legge europea sull’immigrazione e l’asilo produrranno il loro effetto completo solo se i professionisti conosceranno le regole e le sapranno applicare. Ma i professionisti (giudici, avvocati, sindacati, assistenti sociali, accademici, ricercatori, ONG, governi, organizzazioni internazionali, ecc.) potrebbero avere delle difficoltà a tenere il passo con delle leggi europee che evolvono in continuazione, e la loro interpretazione dalla Corte di Giustizia dell’UE. Il sito EuropeanMigrationLaw.eu è stato creato per rispondere alle loro necessità. È uno strumento utile che offre informazioni dirette, semplici e aggiornate sugli sviluppi legislativi e giurisprudenziali di questa materia specifica. Inoltre, propone agli utenti la possibilità di iscriversi per ricevere regolarmente aggiornamenti via email su importanti novità (testi, giurisprudenza, relazioni, comunicati stampa, ecc.) adottate a livello europeo.


Dv

data visualization

sentimento europeo

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EUROPA

a cura di Oxygen Complice il peso della crisi economica sul vecchio continente, la fiducia dei cittadini nelle istituzioni ha mostrato nell’ultimo Eurobarometro qualche segno di cedimento. Ad esempio quella degli italiani verso la Commissione europea è passata, rispetto all’anno scorso, dal 35% al 32% e quella nel Parlamento europeo dal 41% al 36%; cifre non troppo incoraggianti ma che attestano in ogni caso la fiducia nelle istituzioni UE tre volte superiore a quella sentita verso gli organismi nazionali. L’ Italia fa comunque parte di una minoranza di cinque Paesi i cui cittadini dichiarano di non sentirsi europei, in controtendenza rispetto al 39% dei cittadini UE che afferma, invece, di sentirsi molto europeo. Grande anche il sentimento di appartenenza registrato nelle fasce d’età più giovani.

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61% Il potere dell’UE Molti sono i cittadini convinti che l’UE abbia potere e mezzi per difendere i loro interessi nell’economia globale

59% Appartenenza europea Una piena maggioranza è quella dei cittadini che si sentono europei

41% La crisi avvicina Una buona percentuale degli intervistati si sente più vicino ai cittadini degli altri Paesi UE come conseguenza della crisi economica

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27% La fiducia è giovane I cittadini europei di età compresa tra i 15 e i 24 anni che hanno fiducia nell’UE è superiore di 7 punti a quella degli intervistati con più di 55 anni


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ITALIA ×

75% 55% Il futuro dell’UE Molti gli italiani che pensano che l’UE non vada nella giusta direzione

Più informazioni Alta percentuale è anche quella di chi non si ritiene sufficientemente informato sulle questioni europee

53% Sentimenti negativi Più della metà del campione interpellato non si sente europeo

53% Il consenso intorno all’UEM La maggioranza è a favore dell’Unione monetaria europea (UEM)

45% Un calo di 7 punti rispetto al 2012 Rispetto al 52% del 2012 la percentuale dei cittadini che si sentono europei è calata

40% Una minoranza priva di fiducia Meno della metà degli intervistati si sente ottimista per il futuro

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speciale

La città, ragion d’essere articolo di Oriol Nel·lo Professore di geografia urbana, Universitat Autònoma de Barcelona

Per fare un continente, ci vuole una città. Le origini dell’Europa si basano per molti versi sull’urbanizzazione, un processo che l’ha resa quello che è oggi. Ma il mondo cambia, mutano le sue esigenze e affinché i Paesi del continente europeo abbiano economie e società competitive e sane, i loro cittadini e le istituzioni si devono unire per migliorare le città.

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Il processo contemporaneo di urbanizzazione ha, in gran parte, un’origine europea. È stato in Europa che, alla fine del diciottesimo secolo, si sono prodotti i cambiamenti economici e politici necessari affinché la città rompesse i suoi limiti fisici e giuridici e iniziasse la sua progressiva espansione territoriale. E sempre in Europa con la fine dell’Ancien Régime e la nascita dell’industria si è scatenato l’aumento della popolazione urbana e sono emerse le prime metropoli moderne. In definitiva, è stato in buona parte in Europa che si sono gettate le basi per le trasformazioni che avrebbero portato all’espansione del processo di urbanizzazione e all’assetto del sistema mondiale delle città. Negli ultimi due secoli, questo processo è proseguito fino a raggiungere la situazione attuale, in cui la grande maggioranza della popolazione europea (il 73%) vive in luoghi classificati come “città”, e le abitudini e le condizioni di vita urbana, prima esclusiva solo di una parte del territorio, hanno raggiunto la quasi totalità dello spazio europeo. Non sorprende quindi che Leonardo Benevolo, nello studiare il ruolo delle città nella storia dell’Europa, abbia visto in esse «la ragion d’essere, forse la principale, dell’Europa come entità storica distinta». Qualsiasi riflessione sul futuro dell’Europa deve quindi considerare, prima di tutto, le sfide e le opportunità che il processo storico propone alle sue città. All’osservatore attento il quadro che nasce da questa riflessione presenterà numerosi chiaroscuri, come se si trattasse di un Caravaggio o di uno Zurbarán. Da un lato

è evidente che le città europee offrono oggi a buona parte della popolazione livelli di benessere, sicurezza e cultura tra i più alti del pianeta. Dall’altro, è innegabile che questi benefici non riguardano tutti gli abitanti, hanno costi ambientali molto elevati e si scontrano con minacce non trascurabili. Infatti, in termini generali, le città europee godono di un livello di urbanizzazione e infrastrutture, di una qualità delle abitazioni – tanto in termini di costruzione, superficie per abitante e accesso ai servizi urbani ­– delle quali molte altre realtà, sviluppatesi attraverso processi di crescita più informali e polarizzati, sono prive. Le città europee inoltre si trovano nei territori più accessibili e comunicanti del pianeta e in esse si genera una parte sostanziale dei beni e prodotti consumati in tutto il mondo. Infine, nonostante il persistere di importanti disuguaglianze, offrono oggi alla maggior parte dei propri abitanti livelli di sicurezza personale e accesso ai servizi di base – salute, educazione, tutela sociale – non così comuni in altre parti del mondo. Questa realtà, risultato di una storia in gran parte tormentata, carica di sforzi e di speranze, ma anche conflitti e tragedie indicibili, si trova oggi minacciata da sviluppi di grande portata. In primo luogo, in molte città europee l’età media della popolazione sta aumentando notevolmente. In alcuni casi questo fattore, unito a fenomeni di ristrutturazione economica, sta causando spopolamento (ne sono esempi Łódz ´, Liverpool o Leipzig), mentre in altri, attrae popolazione immigrata che non sempre è bene 109


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accetta. D’altra parte, le città europee consumano quantità ingenti di risorse e contribuiscono in modo preponderante al fatto che l’impronta ecologica degli abitanti del continente sia oggi più del doppio della media planetaria e molte si trovano altamente esposte agli effetti del cambiamento climatico. Inoltre, una parte sostanziale delle risorse consumate proviene da altre regioni del globo, rendendo la società europea altamente dipendente dall’estero. Questo insieme di cambiamenti ha luogo, peraltro, in un momento in cui l’economia globale sta causando trasformazioni rapide e profonde nella gerarchia del sistema mondiale delle città e nella localizzazione dei centri di gravità del potere. Ciò comporta che – a differenza di ciò che accadde agli albori del processo contemporaneo di urbanizzazione – i maggiori centri urbani del mondo si trovino tendenzialmente fuori dall’Europa e che città come Milano o Torino, per esempio, non abbiano oggi come principali competitors economici Amsterdam o Barcellona, ma città del sudest asiatico o dell’America Latina che molti cittadini europei avrebbero difficoltà a localizzare sulla mappa. In questo contesto il futuro dell’Europa dipenderà, in buona parte, dal modo in cui si riuscirà ad approfittare degli innegabili attivi e affrontare le pesanti sfide che si presentano alle sue aree urbane. Sarà cruciale il ruolo del governo della città, quello del territorio e, in ultima istanza, quello europeo. Tra i patti più rilevanti che hanno creato la realtà attuale della città europea troviamo, senza dubbio, il processo di costruzione istituzionale europeo e l’accettazione, dopo le grandi convulsioni della prima metà del secolo scorso, dei rapporti economici esistenti in cambio della garanzia del benessere e dell’accesso universale ai servizi di base. Oggi queste politiche sono a rischio in buona parte del continente, minacciate dall’evoluzione della situazione economica e dalle tendenze di deregulation. È necessario quindi un nuovo impulso, sociale e politico, su scala continentale, per invertire la rotta e per assicurare che tutte le città europee proseguano verso una maggiore equità sociale, efficienza nella gestione dei servizi, protezione ambientale e qualità democratica del proprio governo, cioè quegli elementi che, malgrado tutte le limitazioni, hanno conferito alla città europea il suo carattere distintivo. Negli ultimi decenni, l’urbanizzazione si è dispersa sul territorio, creando grandi estensioni di tessuto urbano a bassa densità. Questa dinamica ha contribuito in modo decisivo al deterioramento di parti consolidate della città e alla segregazione di alcuni gruppi sociali, ha

La trasformazione della città non risolverà, da sola, le disuguaglianze nelle società europee, ma può contribuire a renderle più eque

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frammentato gli spazi aperti, ha incrementato la necessità di mobilità dei cittadini (con conseguenti costi energetici e infrastrutturali) e ha fatto crescere così la spesa per i servizi di base. Per difendere la qualità ambientale, l’efficienza e la coesione sociale delle aree urbane europee, è essenziale correggere e gestire gli effetti di questi processi. E per farlo è necessario stabilire democraticamente progetti collettivi per lo sviluppo delle città che sono possibili solo attraverso strumenti di pianificazione pubblica orientati da direttrici su scala europea. Strettamente vincolata a tale questione è la necessità di ridurre gli impatti ambientali del processo di urbanizzazione. In questo campo le istituzioni europee hanno stabilito degli obiettivi ambiziosi. I programmi di efficienza energetica e la progressiva introduzione di nuove fonti di

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energia rinnovabile hanno conosciuto alcuni successi negli ultimi anni, tuttavia è chiaro che i consumi di energia e di risorse nelle aree urbane saranno impossibili da ridurre senza un cambiamento progressivo, ma radicale, nelle abitudini di vita e nei modelli di consumo, che appare però ancora lontano. L’idea che i miglioramenti tecnologici e l’IT – smart city e big data – possano risolvere da soli i problemi urbani è un miraggio: quanto più potenti saranno le tecnologie e maggiore la mole di dati, tanto più sarà necessario che la politica riesca a utilizzare entrambe a beneficio della collettività. Le sfide del territorio e dell’impatto ambientale sono affiancate dalla problematica sociale che rende necessari cambiamenti nelle politiche su scala europea, ma anche provvedimenti specificamente urbani: la riabilitazione dei quartieri, il trasporto pubblico e il diritto alla casa, sono essenziali per evitare l’incremento delle fratture sociali nelle città e impedire che i fattori territoriali diventino una barriera in più per le pari opportunità. La trasformazione della città non risolverà, da sola, le disuguaglianze nelle società europee, ma può contribuire a renderle più eque. Questo insieme di iniziative, nella pianificazione dell’ambiente e delle politiche urbane richiedono naturalmente un forte impulso politico. Hanno bisogno di una cittadinanza attiva e coinvolta, e di forze politiche e istituzioni capaci di trasformare questo impulso in azioni concrete del governo. Si parla di rescaling della politica europea, quella doppia tendenza a fortificare i meccanismi di governo su scala continentale dando al contempo la possibilità ai cittadini di decidere sulle questioni di base. Nell’ambito urbano il rescaling dovrebbe comportare, in primo luogo, un decisivo miglioramento della capacità dell’Unione europea di incidere sulle politiche urbane, che sono un elemento chiave per la qualità ambientale, l’efficienza economica e la coesione sociale del continente. E, in secondo luogo, il miglioramento dei sistemi di governo sul territorio, per favorire la trasversalità delle politiche, la cooperazione fra le amministrazioni, la partecipazione dei cittadini, la qualità democratica nel prendere le decisioni e nel valutare le politiche pubbliche. Solamente attraverso questo rinnovato impulso politico l’Europa potrà continuare a trovare nelle città la sua ragion d’essere. 111


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approfondimento

Tradizioni per tutti i culti articolo di Francesca Lozito Giornalista

Mettere insieme i popoli, in un continente, può voler dire anche confrontarsi con culti, tradizioni e culture religiose diverse seppure intrecciate. Una varietà che non esclude nessuno, che tiene il passo delle evoluzioni spirituali della popolazione europea e non dimentica la storia, a volte difficile, che l’Europa ha alle spalle.

I cristiani sono la maggioranza nel vecchio continente e coabitano principalmente con i musulmani. Assieme a loro ci sono ancora gli ebrei, e si affacciano buddisti e induisti. Visto così non sarebbe un puzzle complicato quello delle religioni in Europa. Se non fosse che poi, all’interno del cristianesimo persistono ancora quelle distinzioni che hanno contribuito a segnare per tanti secoli la storia del vecchio continente: dei 555 milioni di cristiani poco più della metà sono cattolici (269), un terzo sono ortodossi (170), 80 milioni protestanti e 30 milioni anglicani. E se la guardiamo oggi l’Europa, nell’ottica di queste presenze ci accorgiamo che, per storia, abitudini e credenze popolari, quelle religioni, anche in un mondo che qualcuno definisce secolarizzato, contano ancora. Prendiamo il caso delle tradizioni religiose. I Re Magi e le loro reliquie uniscono il nord Europa alla Francia e all’Italia. Quest’anno a Colonia si festeggia l’850esimo anniversario della traslazione delle reliquie da Milano alla città tedesca, che

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di quella teca con una parte dei “resti” dei sapienti che andarono a venerare Gesù non fece solo la fondazione della Chiesa locale, ma di tutta la città. A portarle in Germania fu Federico Barbarossa che le sottrasse a Milano. Bisognò attendere gli inizi del Novecento quando il cardinale Ferrari ne ottenne la restituzione di una parte nel 1904, perché la Basilica di Sant’Eustorgio li riavesse a Milano. Quelle reliquie, che in Europa sono presumibilmente arrivate da Gerusalemme attraverso le cosiddette guerre sante, hanno segnato feste, ponti – a Lucerna e a Basilea ci sono ancora i ponti dedicati ai Drei Koenige (i tre Re) – e torte, come quella che si continua a preparare ai bambini in Francia. Qualcosa di molto simile accade in Spagna dove a essere venerato è il Niño, il Bambinello, sempre il 6 gennaio. Per Siviglia nei giorni di festa è possibile ancora vedere esposto sui balconi delle case un drappo rosso con l’immagine del bambino Gesù. Certo, se potessero bastare le tradizioni a tenere unito il puzzle delle religioni europee sarebbe tutto più facile. Ma non possiamo


nascondere che l’olocausto ha quasi cancellato la presenza degli ebrei dal vecchio continente, ridotti a tre milioni e mezzo. E non possiamo dimenticare che vent’anni fa la guerra nei Balcani ha visto la barbarie umana scagliarsi contro la comunità musulmana proprio là dove nei secoli si era cercato di costruire una possibile convivenza. «E dove ancora è presente un Islam moderato nei confronti del quale chi vuole respingere la violenza per costruire un futuro di pace non può non guardare» dice Alberto Quattrucci che è responsabile dell’annuale incontro “Uomini e Religlioni” per la Comunità di Sant’Egidio. Un appuntamento che, all’indomani dell’incontro di Assisi del 1986 in cui Giovanni Paolo II radunò i rappresentanti delle principali religioni del mondo, si tiene ogni anno per continuare a portare avanti quello spirito. Senza temere le difficoltà. «Le religioni in Europa – spiega Quattrucci – hanno in particolare un’eredità storica: sono portatrici di un’educazione al dialogo, al vivere insieme. In un’Europa in un cui coesistono più popoli, espressione di differenti religioni, c’è la possibilità che i diritti umani vengano rispettati di più. Non è un caso che proprio in Europa, rispetto ad altri posti nel mondo la pena di morte sia stata abolita da un po’». Da qui, secondo l’esponente di Sant’Egidio, deve partire «la condanna dell’uso della religione come forma di violenza. Il dialogo è un cantiere aperto, in costruzione, se ci si ferma ricomincia il dissidio». Per questo, dice Quattrucci «il cristianesimo europeo deve essere più coraggioso nel dialogo con l’Islam. Deve guardare alle tradizioni moderate come quella balcanica». Cosa dire, invece, della presenza di nuove religioni in Europa? «Sono espressione di una domanda profonda di spiritualità. Si presentano in due modi: da una parte ci sono le persone che migrano dai Paesi asiatici, dall’altra gli europei che si convertono, ad esempio al buddismo». E prossimamente a Roma si terrà proprio un convegno, alla Conferenza episcopale italiana, in cui si confronteranno cristiani e buddisti d’Italia.

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i progressi della generazione “E” articolo di Chiara Romerio Divulgatrice

Moltissimi studenti europei grazie all’Erasmus hanno potuto fare un’esperienza unica; studiare all’estero non significa solo apprendere meglio una lingua ma acquisire l’incredibile capacità di sentirsi cittadini del mondo. Nonostante la forte spinta verso l’internazionalizzazione degli studi che ha visto la nascita di altri programmi e riforme, esistono ancora barriere tecniche da abbattere.

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In principio era Erasmus… Oggi è Erasmus Plus. Ma andiamo con ordine. Quando si parla di studiare viaggiando in Europa il pensiero corre all’umanista olandese e al programma che ne porta il nome attraverso l’acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility of University Students. Nato nel 1987, il programma ha “mobilitato” oltre tre milioni di studenti degli Stati membri dell’Unione (più Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera e Turchia), dando la possibilità di compiere in un ateneo europeo un periodo di studio legalmente riconosciuto dalla propria università. Nel 2007 l’Erasmus è entrato nel Lifelong Learning Programme, il programma di apprendimento che sostiene l’istruzione e la formazione permanente nell’Unione europea e che comprende anche Comenius, progetto a supporto delle azioni per la scuola (da quella dell’infanzia a quella secondaria di secondo grado), Leonardo da Vinci, per lo scambio di studenti e docenti universitari, e Grundtvig, per le azioni nel campo dell’istruzione degli adulti. Dal 2014 il nuovo programma Erasmus+ combina tutti gli attuali regimi di finanziamento dell’Unione nei settori di istruzione, formazione, gioventù e anche sport, ricomprendendo in sé l’intero LLP, Gioventù in azione e alcuni programmi di cooperazione internazionale. Con un bilancio di 14,7 miliardi di euro per il periodo 2014-2020, nell’anno corrente il programma ha a disposizione un miliardo e 800 milioni di euro per finanziamenti destinati a promuovere tra l’altro opportunità di mobilità per studenti, tirocinanti, insegnanti, nonché per creare o migliorare partenariati tra istituzioni e organizzazioni che operano nei settori di riferimento. L’“internazionalizzazione” degli studi in Europa – intesa ancora, sulla linea aperta da Erasmus, come una porzione del percorso di studi da svolgersi all’estero – oggigiorno non passa solo dal canale erasmiano, anzi. Moltissime sono le iniziative che nascono e si sviluppano in base agli accordi bilaterali fra istituti universitari dei diversi Stati membri dell’UE. In Italia, nell’ambito del MIUR, l’Ufficio per la cooperazione interuniversitaria della Direzione Generale per l’Università contribu-

isce all’internazionalizzazione del sistema universitario promuovendo le attività che guardano oltre i confini nazionali, e relazionandosi con le controparti nelle sedi internazionali. L’attività di promozione si realizza attraverso il finanziamento e la gestione dei programmi degli atenei nati a tale scopo e con interventi di attuazione degli accordi intergovernativi di cooperazione culturale. Le iniziative messe in atto dagli atenei si traducono nella mobilità internazionale degli studenti finalizzata allo svolgimento di corsi, tesi, tirocini oppure all’acquisizione di un doppio titolo o di un titolo congiunto. Ma quando si parla di titoli e del loro riconoscimento non mancano le incertezze. Il processo di riforma del sistema di istruzione superiore a carattere internazionale, originato a Bologna nel 1999 dalla necessità di rendere il sistema di forma-

Dal 2014 il nuovo programma Erasmus+ combina tutti gli attuali regimi di finanziamento dell’Unione nei settori di istruzione, formazione, gioventù e sport

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zione europeo il più competitivo possibile, ha compiuto – attraverso un percorso a tappe lungo e faticoso – enormi passi in avanti nel tentativo di abbattere le barriere e creare spazi formativi armonizzati, e tuttavia resta un processo in itinere. Si è giunti per esempio alla definizione di un quadro generale dei titoli, ai quali si devono adeguare quelli nazionali, ma alla fine degli anni Duemila solo sei Paesi avevano sviluppato un quadro compatibile con quello generale. Esistono ancora incongruenze nell’omologazione della durata dei percorsi di studio stabilita dal sistema dei cicli: il bachelor triennale, il master biennale, e il doctorate spesso meno circoscrivibile. E non si può non considerare il fatto che l’obiettivo di costruire quello Spazio europeo dell’istruzione superiore, ufficializzato nel 2010 durante la celebrazione del decennale della conferenza di Bologna, risente delle difficoltà degli Stati a finanziare in modo adeguato il settore dell’istruzione pubblica. Non sono solo gli universitari europei che possono decidere di spostarsi per studio. Qualche parola va spesa anche per la situazione della scuola secondaria di secondo grado. Sul versante studentesco si registrano le iniziative di accordo e partenariato tra scuole, ministeri e istituzioni di Paesi diversi, volte (di nuovo!) al riconoscimento dei titoli o – aspetto da non trascurare – dedicate allo sviluppo della preparazione linguistica necessaria per proseguire gli studi all’estero. In Italia, per esempio, nell’ambito dei licei internazionali, ci sono sezioni a opzione inglese nate grazie al partenariato istituito con la Cambridge University, in particolare con il Cambridge International Examinations. L’EsaBac permette agli studenti italiani e francesi di conseguire attraverso un solo esame due diplomi, l’Esame di Stato italiano e il Baccalauréat francese. Gli allievi delle sezioni internazionali a opzione spagnola, in base a un accordo bilaterale tra il MIUR e il Ministerio de Educación spagnolo, sostengono una quarta prova scritta dell’esame di Stato in lingua spagnola: il diploma rilasciato permette di conseguire anche il título de Bachiller, dopo una 116

La riforma del sistema di istruzione superiore internazionale ha compiuto enormi passi in avanti nel tentativo di abbattere le barriere e creare spazi formativi armonizzati procedura tramite l’ambasciata spagnola. Analogamente le sezioni internazionali a opzione tedesca, nate con lo scopo esplicito di creare un nuovo “cittadino europeo”, svolgono un esame di Stato integrato con una quarta prova scritta di lingua e un colloquio in tedesco; la base giuridica è l’Accordo culturale bilaterale del 2004 che consente l’accesso alle università tedesche senza esame di lingua. Vantaggio di non poco conto se si considera che l’accesso alle università (o alle prove di ammissione) è consentito in Austria a chi è in possesso della certificazione linguistica di livello B2 e in Germania di livello C1. Sul versante della formazione docente è attivo dal 1969 il programma Pestalozzi, un’attività del Consiglio d’Europa per la formazione del personale educativo della scuola primaria e secondaria, nato tra i 49 Stati firmatari della Convenzione culturale europea. Il programma organizza ogni anno una serie di seminari sui temi legati alle priorità in-


i progressi della generazione “e” |

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dividuate dal Consiglio d’Europa in materia di educazione, tra cui il dialogo interculturale, le pratiche di inclusione sociale, l’educazione alla cittadinanza. I seminari sono l’occasione per conoscere i lavori del Consiglio d’Europa in tema di educazione e di scambiare informazioni, idee e materiale pedagogico con colleghi di altri Paesi e per questo la partecipazione dei docenti e del personale è agevolata dallo stanziamento di borse di studio. Ogni anno dei circa 2000 educatori europei che partecipano a questo programma, 500 beneficiano del rimborso delle spese di viaggio: un’iniziativa concreta per creare uno spazio di confronto e di allineamento didattico per i formatori degli “studenti europei”.

Processo di Bologna È conosciuto come Processo di Bologna l’incontro avvenuto nel 1999 presso l’omonima città per definire una riforma internazionale dei sistemi di istruzione superiore dell’Unione europea; aveva l’obiettivo di realizzare, entro il 2010, lo Spazio europeo dell’istruzione superiore. La sua storia ha radici in accordi e trattati precedenti, l’ultimo dei quali è la Dichiarazione della Sorbona del 1998, con cui si evidenziava la necessità di creare programmi di studio diversificati e multidisciplinari e incentivare l’utilizzo delle lingue e delle nuove tecnologie. Nel corso degli anni gli obiettivi del Processo si sono allargati, comprendendo anche lo Spazio europeo della ricerca (ERA – European Research Area), fino ad arrivare all’effettiva realizzazione di questo “doppio spazio europeo” durante le conferenze di Budapest e Vienna dell’11 e 12 marzo 2010 con 47 firmatari.

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approfondimento

Horizon 2020 Il nuovo orizzonte della ricerca articolo di Luca Salvioli Giornalista

Ricerca e innovazione sono settori strategici per la crescita economica di tutti i Paesi, e il nuovo programma di finanziamento dimostra non solo la loro crucialità ma anche l’importanza di uno scambio vivace e proficuo tra le diverse realtà. Più finanziamenti, ma anche meccanismi di accesso ai fondi più semplici, incentivi all’interdisciplinarietà e alla sana competizione.

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Horizon 2020 è un programma quadro comunitario che si propone di finanziare la ricerca e l’innovazione con 78 miliardi di euro, a prezzi correnti, destinati ai migliori progetti presentati dal dicembre 2013 alla fine del 2020. Per il mondo di università, centri di ricerca, PMI e start up è un’opportunità importante, a partire dal fatto che il budget è aumentato circa del 30% rispetto al progetto precedente. Allargando lo sguardo, si può dire che è un programma decisivo per l’Europa. Non a caso è l’unica area del budget europeo che cresce. Gli studi che correlano crescita economica e investimenti in ricerca e innovazione sono un punto di partenza ormai imprescindibile, e il vecchio continente quando si guarda alle tecnologie innovative fatica a ricavarsi uno spazio tra Stati Uniti e i più grandi Paesi asiatici. Al di là delle cifre, Horizon 2020 si distingue anche per l’approccio. L’obiettivo della Commissione è rendere il programma più semplice del precedente in modo da favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese e centri di ricerca, con tempi di risposta più celeri e criteri più flessibili. Non solo: è premiata l’interdisciplinarietà coerentemente con il fatto che l’economia della conoscenza prevede la capacità di unire visione e abilità tecniche. I settori non sono dunque divisi da barriere insormontabili: uno stesso progetto può partecipare a diversi ambiti e chiedere la collaborazione di aziende, centri privati, ospedali e così via. La semplificazione si traduce in diverse tecnicalità, ma in generale possiamo dire che la Commissione ha deciso di integrare gli strumenti di finanziamento per la ricerca e l’innovazione, diminuito il numero di programmi specifici, semplificato le regole di partecipazione e ridotto i tempi: il time to grant, ovvero il periodo che passa dalla presentazione del progetto alla firma del finanziamento, è di otto mesi.

Ambiente, sicurezza alimentare, energia sono alcune tra le grandi sfide cui si chiede una risposta

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Il programma è organizzato in tre pilastri: excellent science, industrial leadership e social challenges. Il primo ambito è dedicato alla ricerca di frontiera di altissima qualità e guarda al lungo termine puntando al finanziamento di ricercatori individuali. Obiettivo è fare dell’Europa una terra capace di attrarre i ricercatori. Nel caso della leadership industriale invece la missione è facilitare l’accesso al capitale di rischio, l’innovazione nelle PMI e fornire un sostegno mirato ad alcune priorità: ICT, nanotecnologie, materiali avanzati, biotecnologie, fabbricazione e trasformazione avanzate, tecnologia spaziale. Le “sfide per la società”, infine, sono le scelte strategiche. Si tratta della voce con il maggiore finanziamento (oltre 29 miliardi) e raggruppa: salute, cambiamento demografico, sicurezza alimentare, agricoltura sostenibile, ricerca marina e marittima, bioeconomia, energia pulita, trasporti intelligenti, clima, gestione delle materie prime. Come si partecipa? Nell’ottica di una minore rigidità, non ci sono fondi assegnati per singoli Paesi. Sono dunque i progetti

a contendersi per risorse sulla base delle valutazioni fatte da esaminatori indipendenti. I finanziamenti vengono declinati nei singoli bandi e le domande possono essere presentate attraverso un unico portale online (ci si arriva facilmente da http://ec.europa.eu/horizon2020). I progetti prevedono un cofinanziamento da parte dell’UE e dei partecipanti, ma dipende dai casi: per la ricerca e sviluppo la quota a carico della Commissione può arrivare fino al 100%, mentre per l’innovazione si arriva al 70% (100% per i soggetti non profit). I bandi sono già partiti e il 30 settembre è stato il “click day” per aggiudicarsi le risorse del bando per i progetti di ricerca industriale e sviluppo sperimentale del fondo per la crescita sostenibile avviato nell’ambito di Horizon 2020 dal ministero dello Sviluppo Economico. Ci sono diversi passaggi per presentare un progetto: si parte con la fase preliminare, poi c’è quella di business planning finanziata con 50.000 euro e infine, se il piano

Horizon premia l’interdisciplinarietà coerentemente con il fatto che l’economia della conoscenza prevede la capacità di unire visione e abilità tecniche

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horizon 2020 |

viene approvato, arriva al finanziamento finale. Può partecipare qualsiasi impresa, università, centro di ricerca o altro soggetto giuridico stabilito in uno Stato membro, in un Paese associato o in un Paese terzo. Rispetto ai programmi di ricerca precedenti, la Commissione ha deciso di focalizzare gli sforzi di ricercatori, imprenditori e venture capitalist dettando le priorità su cui concentrare i propri progetti. Ambiente, sicurezza alimentare, energia e le altre priorità già menzionate sono le grandi sfide cui si chiede una risposta. In un intervento pubblicato da “Il Sole 24 Ore” il 19 febbraio 2014, Dario Braga, prorettore alla ricerca presso l’università di Bologna, ha scritto: «A qualcuno non piace sentirsi dire che cosa studiare e ricercare. Offende la libera iniziativa del ricercatore? Inibisce la possibilità di fare nuove importanti scoperte in modo serendipitous? Può essere. Anzi in parte è così, ma è anche vero che il dibattito di avvicinamento a H2020 ha raccolto anche i nostri contributi. Se non siamo stati in grado di far prevalere alcuni nostri interessi di sistema (come la conservazione dei beni culturali) è un po’ anche colpa nostra… perennemente in tutt’altre faccende affaccendati. Quest’è. Ma ora che il campo è più o meno definito, siamo in grado di affrontare la partita?».

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Questa è la grande domanda per la ricerca italiana e per il suo tessuto imprenditoriale. L’Europa mette il nostro Paese di fronte alla sfida di superare le distanze tra università e impresa e non solo: tra facoltà e facoltà, tra competenze orizzontali e verticali. Saperla cogliere significa non soltanto intercettare un programma quadro, ma sentirsi Europa, essere Europa e tornare a scommettere sulla crescita.

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approfondimento

open, data articolo di Alberto Cottica Economista

Incrociare dati, raccogliere nuove informazioni dalla commistione e dal confronto: un sapere aperto e pronto allo scambio, all’utilizzo incrociato, senza frontiere né proprietari. Questo è lo scenario che offrono gli open data, un’opportunità che l’Europa ha già in parte colto e sulla quale sta muovendo importanti passi avanti per rendere ancora più fluido il passaggio di conoscenza tra gli Stati membri.

Governi, società e altre organizzazioni raccolgono e processano dati per svolgere le loro funzioni e raggiungere i loro obiettivi. Quando questi dati vengono pubblicati in modo da poter essere riutilizzati, sono definiti open data. Le aziende possono usarli per orientare le loro decisioni; leader civici e attivisti per monitorare il lavoro del proprio governo; scienziati per migliorare le proprie ricerche. Gli open data provenienti da fonti diverse possono essere associati creando composti il cui valore di informazione è maggiore rispetto alla somma delle sue parti. Immaginiamo un elenco di incidenti stradali tratto dai verbali della polizia. E ora supponiamo di avere dati cartografici che permettono di individuare gli indirizzi. Sovrapponendo alla mappa l’elenco di incidenti si ottiene una mappatura degli incidenti stradali. Una conoscenza dapprima nascosta viene improvvisamente alla luce: ci sono

degli schemi? Ci sono aree più soggette rispetto ad altre? La vicinanza a determinati luoghi ha qualche rilevanza? Non è possibile estrapolare queste informazioni dal singolo elenco degli incidenti, né tantomeno dalla mappa di una città: solo mettendo in relazione le due fonti s’imparano cose nuove. Gli open data aprono inoltre nuovi spazi di impegno civico. Il mio Paese, l’Italia, pubblica online gli open data sui progetti finanziati dai fondi di coesione. I cittadini ora possono controllare qualsiasi progetto di cui siano a conoscenza e vedere quanto costa e a che punto si trova. Questo ha originato un’iniziativa di monitoraggio civico, chiamata Monithon, in cui i cittadini sono incoraggiati a raccogliere informazioni sui progetti istituzionali e relazioni su come si stiano svolgendo i lavori, che saranno poi utilizzate per arricchire i data set del governo, rendendo possibile monitorare la spesa pubblica

Molti credono che i dati rappresentino il nuovo petrolio, il carburante che alimenterà la crescita del ventunesimo secolo

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in modo più economico, più completo e aperto alla partecipazione cittadina. Questo potenziale di ricombinazione è quello che si definisce “open” negli open data. È necessario che i dati siano online, in forma semplice (più granulare possibile) e leggibili dalle macchine (possono essere processati da computer senza l’intervento umano); inoltre, i loro proprietari devono acconsentire affinché tutti li possano riutilizzare. Apertura significa che tutti gli open data, provenienti da qualsiasi fonte e in qualsiasi posto vengano pubblicati, possano entrare a far parte di un bene comune fruibile da chiunque. Ciò ha un considerevole potenziale per il business: molti credono che i dati rappresentino il nuovo petrolio, il carburante che alimenterà la crescita del ventunesimo secolo. Un bene comune che può alimentare la partecipazione democratica e la crescita nel prossimo secolo. Niente di male, no? E, infatti, in generale sono considerati qualcosa di buono, senza un reale oppositore politico, almeno in Occidente, cosa che ha permesso al mondo degli open data di fare molti progressi, velocemente. Prendiamo il caso dell’Italia. Sono uno dei fondatori di Spaghetti Open Data, la principale risorsa internet in lingua italiana, creata nel settembre 2010. All’epoca non esisteva un portale nazionale di open data, nessuna politica (sono abbastanza certo che il ministro della Pubblica Amministrazione in carica all’epoca non li avesse mai neanche sentiti nominare); solo una delle venti regioni italiane aveva pubblicato dei dati e la nostra mailing list contava circa 15 persone. Quattro anni dopo il governo italiano ha un portale open data (dati.gov.it, attivo dalla fine del 2011); molte regioni e città importanti hanno seguito l’esempio; l’Italia promuove una delle operazioni open data più grandi del mondo, la potente OpenCoesione (dati finanziari su 600.000 progetti finanziati dalla politica); il premier Renzi ha esperienza diretta della questione, derivante dal suo precedente incarico di sindaco di Firenze. E ancora più importante, l’Italia ha dato origine a un gruppo piccolo ma efficace di civic hackers: attivisti, sviluppatori, imprenditori altamente qualificati per trovare usi nuovi e creativi per gli open data. La nostra mailing list adesso conta 1000 iscritti.

L’Unione europea supporta il cambiamento sociale verso gli open data. Questo significa avere un ruolo guida, pubblicare i propri dati in formato aperto e condurre iniziative di vanto, ma soprattutto regolamentazione

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Il ruolo dell’Europa L’Unione europea supporta il cambiamento sociale verso gli open data. Questo significa per esempio avere un ruolo guida, pubblicare i propri dati in formato aperto attraverso un portale open data abbastanza ben fatto e condurre iniziative di vanto come Europeana, la grande biblioteca digitale che dà accesso a milioni di documenti digitalizzati (dai libri a musica, film, oggetti da museo e archivi) relativi al patrimonio culturale europeo. Ma politica europea degli open data significa soprattutto regolamentazione: con la direttiva relativa al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, varata nel 2003 ed emendata nel 2013, l’Unione europea ha rivestito un ruolo importante nell’incoraggiare gli Stati membri meno entusiasti a unirsi al gruppo, trovando una soluzione alla disomogeneità di tempistiche e convinzione che caratterizzava l’approccio dei singoli Stati rispetto alla “data revolution”. Guida pubblica contro guida civica L’Europa è ancora caratterizzata da una forte diversità. Coesistono due modelli: alcuni governi nazionali, probabilmente ispirati all’audacia del presidente Obama (firmatario, il suo primo giorno di insediamento nel 2008, di un ordine presidenziale che rende i dati federali open di default), hanno guidato il cambiamento verso gli open data in modo aggressivo. Sebbene anche gli attivisti di questi Paesi (in particolare Regno Unito e Danimarca) abbiano manifestato la stessa attitudine, si sono originati scenari in cui i governi sono risultati i maggiori attori. Il settore privato e gli hacker civici a volte non riescono a tenere il passo con la pubblicazione di nuovi dati; questo potrebbe causare un aggiustamento al ribasso delle aspettative, com’è successo in America, dove l’amministrazione Obama nel 2011 ha tagliato il budget delle politiche di e-government, inclusi gli open data. In altri Paesi come per esempio l’Italia e i Paesi Bassi, la bilancia pende invece dalla parte opposta. I governi nazionali sono stati più lenti nell’adottare politiche ben definite, il che ha creato uno spazio agli attivisti per intraprendere e mantenere iniziative. La capacità degli hacker civici di riutilizzo dei dati (la “domanda” di open data) è riuscita in questi casi a tenere il passo con la pubblicazione di nuovi dati (l’“offerta”), portando a una crescita più organica dell’intero scenario. 124


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L’iniziativa di Nantes: verso un accordo? Nonostante enormi progressi e iniziative dell’Unione europea, non c’è ancora una visione d’insieme a livello continentale sugli open data. In ambito di rilascio dei dati c’è stata un’armonizzazione tramite standards e practices per la pubblicazione più o meno coerente nel continente. Ma questo non vale per la domanda: gli hacker civici di un Paese parlano principalmente con provider di dati e altri hacker civici del loro stesso Paese. Questo duplica gli sforzi e fa perdere opportunità: molti casi di riutilizzo (probabilmente la maggioranza) potrebbero essere esportati da uno Stato a un altro. Si possono prendere a titolo di esempio i dati archeologici. L’Italia ha molti siti Romani e medievali che generano ricchi dati multimediali (foto, stratigrafie, appunti di archeologi presenti agli scavi, dati finanziari, ecc.) che dovrebbero essere aperti, situazione che caratterizza anche Grecia, Francia, Spagna e molte altre nazioni europee, che dovrebbero lavorare a stretto contatto. Soluzioni che funzionano in un Paese probabilmente avrebbero lo stesso successo anche negli altri. Recentemente, un piccolo gruppo di hacker civici conosciuti a livello inter-

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nazionale si è mosso verso una maggiore integrazione europea. Tutto è iniziato da uno dei miei post: ho fatto notare che anche nell’evento popolare sugli open data di maggior successo e partecipazione, apparentemente il Santo Graal dell’impegno comune delle politiche europee, l’Europa era completamente assente. Ho quindi proposto un programma tipo Erasmus per gli open data, che permettesse agli hacker civici di imparare gli uni dagli altri e condividere capacità e hacks in tutta Europa. Questo ha portato l’associazione francese LiberTIC a organizzare a Nantes il meetup europeo Erasmus for Open Data, così appassionatamente promosso dal commissario per l’Agenda Digitale Neelie Kroes da rivendicarlo come un’iniziativa della Commissione (sebbene non lo fosse). Il cambiamento verso una società di open data sta avvenendo, ed è semplicemente naturale che accada a livello europeo. Tuttavia, l’integrazione continentale non è lasciata interamente alle istituzioni europee: la comunità riveste un ruolo importante, spesso aprendo la strada alle mosse della Commissione. Per quel che vale, penso che questo sia un modo sano di procedere, e non vedo l’ora di assistere ai suoi prossimi sviluppi.

L’Italia ha dato origine a un gruppo efficace di civil hackers: attivisti, sviluppatori, imprenditori qualificati per trovare usi nuovi per gli open data

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contesti

La frontiera è passata maramures romania

articolo di Chiara Priante Giornalista

Il passaporto? Oggi un oggetto esotico, da togliere dal cassetto solo per i viaggi oltreoceano. Ma non è sempre stato così: Schengen ha ridefinito le abitudini di viaggio dei cittadini europei, liberi di muoversi senza doversi fermare alla frontiera in 29 Paesi, dando nuova linfa a un settore di importanza strategica come quello turistico.

alentejo portogallo Oggi, alla frontiera di Mentone, tra l’Italia e la Francia, stazionano i camper. Non sono in coda. Sotto le coperture dove un tempo i gendarmi controllavano i documenti, si fermano per giorni, con tanto di tavoli, sedie e biciclette appoggiate agli ex uffici. Una fotografia che immortala la libertà di viaggiare in Europa grazie a Schengen, una rivoluzione silenziosa a livello turistico che prese il nome dal villaggio lussemburghese dove fu firmato l’accordo tra i primi Paesi nel 1985. Oggi, nella mentalità comune, non si fa quasi più caso a questa trasformazione: ma spostarsi, e viaggiare, da allora è diventato più facile. Così è cambiata l’Europa ma soprattutto la vita dei suoi cittadini: sono 29 (22 Stati membri più Norvegia, Islanda, Svizzera, Liechtenstein e i piccoli Monaco, San Marino e Vatica126


no) i Paesi dove si può circolare senza preoccuparsi d’esibire un documento. Si supera il valico di Sant’Andrea, a Gorizia, senza togliere il piede dall’acceleratore. Si vola da Parigi a Berlino come se la tratta fosse Paris-Nice. «Grazie all’accordo più di 400 milioni d’europei possono viaggiare senza passaporto – dice Cecilia Malmström, Commissario europeo per gli affari interni – e ogni anno si registrano più di 1,25 miliardi di viaggi turistici». I dati per capire come siano cambiati i flussi in questo spazio – delimitato da 42.673 chilometri di frontiere via mare e da 7721 di terra – non esistono: come spiegano dal DG Entreprise Tourism di Bruxelles l’abbattimento dei controlli ha tolto qualsiasi forma di conteggio. Tu chiamala, se vuoi, assoluta libertà di spostarsi in Europa. Ma se le cifre non ci sono, il buon senso può dimostrare che Schengen ha funzionato. In Italia, dove il turismo rappresenta il 9,4% del PIL, ci sono 46,1 milioni di turisti in arrivo ogni anno. In rigoroso ordine di affluenza giungono da Germania, Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Austria, Paesi Bassi, Spagna, Svizzera, Giappone, Belgio, Russia, Polonia, Cina, Australia, Canada. Otto stati su 15, quasi tutti ai primi posti, appartengono a Schengen. Per questo il Commissario Malmström è sicuro: «La creazione dello spazio è uno dei risultati più tangibili, popolari e positivi raggiunti dall’Unione: un risultato che dobbiamo avere a cuore, proteggere e, dove possibile, migliorare». La Commissione sta lavorando al rafforzamento delle norme Schengen per consolidare la cooperazione tra gli Stati. La gestione dei confini esterni è dibattito attuale ed è emersa anche dall’ultimo report biennale su Schengen. Ma si punta anche a crescere: quattro Paesi (Cipro, Romania, Bulgaria, Croazia) sono sulla rampa di lancio; non hanno ancora tutti gli accorgimenti tecnici per aderire ma toccherà anche ai loro cittadini fare visita, ad esempio, a Madrid senza difficoltà. Ma in Europa – che vanta la maggiore densità e varietà d’attrazioni turistiche al mondo – non si ragiona solo di frontiere per far decollare il turismo, settore chiave dell’economia del vecchio continente con 9,7 milioni di impiegati. Si lavora in primis a “smuovere” gli europei. Dallo smartphone ci si può collegare al portale La tua Europa (www.ec.europa. eu/youreurope), che offre informazioni pratiche per viaggiare nei Paesi dell’Unione. C’è il centro d’informazione Europe Direct che

L’abbattimento dei controlli ha tolto qualsiasi forma di conteggio. Tu chiamala, se vuoi, assoluta libertà di spostarsi in Europa Fiordi Norvegia

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In Europa – che vanta la maggiore densità e varietà d’attrazioni turistiche al mondo – non si ragiona solo di frontiere per far decollare il turismo, ma si lavora in primis a “smuovere” gli europei camargue francia

andalusia spagna

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risponde per telefono (00/800 67891011) e per email e ha vari sportelli sul territorio. Siti e numeri che, ad esempio, serviranno a tanti europei per venire in Italia per l’Expo 2015. Ma, servizi a parte, ci sono le politiche. L’obiettivo di oggi si chiama terza età. Dopo aver smosso gli europei dai loro Paesi con l’eliminazione delle frontiere, si vuol togliere le pantofole a quella fetta di popolazione sopra i 55 anni – il 25% dei residenti in Europa – che può viaggiare anche fuori stagione. L’iniziativa Calypso ha portato 21 Paesi dell’UE, tra il 2009 e il 2011, a iniziare a costruire una strategia comune per creare un turismo sociale in Europa per, appunto, ultrasessantacinquenni, coloro che non sono in grado di viaggiare, famiglie in difficoltà economiche e diversamente abili. Sono seguite altre azioni: nel maggio 2012 la Commissione ha avviato la fase pilota dell’iniziativa Turismo della terza età, che definisce le condizioni per incoraggiare gli anziani a spostarsi in Europa, mentre un invito a presentare proposte nel 2013 ha dato impulso all’iniziativa. Nel concreto si punta a sviluppare offerte turistiche e pacchetti di viaggio per anziani fuori dal proprio Paese, creando collaborazioni tra il settore pubblico e privato. Ma l’UE sta provando a far crescere il turismo anche con finanziamenti che da un lato sostengono le imprese e dall’altro gli stessi europei, arricchendo l’offerta. C’è il Fondo europeo di sviluppo regionale (il cosiddetto FESR) che aiuta i modelli più sostenibili di turismo a valorizzare patrimonio naturale e culturale. Il Fondo sociale europeo (FSE) cofinanzia corsi di formazione per chi vuole lavorare nel turismo, favorisce la mobilità professionale e offre piccoli premi per l’avvio di microimprese nel settore. I programmi europei per l’apprendimento permanente e l’Erasmus per giovani imprenditori consentono d’andare all’estero per studiare e formarsi nel turismo. Il Fondo europeo agricolo per lo


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I più recenti patrimoni dell’Umanità in territorio europeo

amsterdam olanda

foresta nera germania

sviluppo rurale (FEASR), oltre ad aiutare a migliorare la qualità dei prodotti agricoli, incoraggia il turismo nel settore: s’invitano gli agricoltori a creare strutture d’accoglienza nelle cascine. Persino il Fondo europeo per la pesca (FEP) solletica le zone dipendenti dalla pesca a provare altre attività, come l’ecoturismo. Tratto comune a tutte le iniziative, la ricerca di un turismo più sostenibile. Ma il futuro qual è? È certamente guardare oltre l’Europa, ai cittadini di Paesi terzi che oggi affrontano spesso procedure complesse, lunghe, costose per il visto. Ad aprile si è discusso, per la prima volta, d’un piano per la semplificazione di questi aspetti: si lavora per creare pratiche più brevi e semplici. Secondo le previsioni porteranno 1,3 milioni di posti di lavoro nel turismo. Ossigeno in tempo di crisi, una cosa che mai si sarebbe immaginata 30 anni fa. Un po’ come i costumi da bagno stesi accanto agli uffici della frontiera di Mentone.

2014 • Paesaggi vitivinicoli Langhe-Roero e Monferrato (Italia) • Fabbrica Van Nelle di Rotterdam (Paesi Bassi) • Scogliere di Stevns (Danimarca) • Grotta di Chauvet-Pont d’Arc, Ardèche (Francia) • Carolingian Westwork e Civitas Corvey (Germania) 2013 • Tserkvas in legno (chiese ortodosse) della regione dei Carpazi (Polonia e Ucraina) • Università di Coimbra (Portogallo) • Ville e giardini medicei in Toscana (Italia) • Monte Etna (Italia) • Il parco collinare barocco Wilhelmshöhe (Germania) 2012 • Nord-Pas de Calais Mining Basin (Francia) • Siti minerari della Vallonia (Belgio) • Teatro dell’opera di Bayreuth (Germania) • Fattorie storiche di Hälsingland (Svezia) • Città frontaliera di guarnigione di Elvas e le sue fortificazioni (Portogallo)

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Rb

rubrica

| la scienza della lingua

Globish La lingua per tutti articolo di Andrea De Benedetti Saggista e linguista

E se per comunicare tra loro gli europei non usassero le 24 lingue ufficiali dell’Unione, ma ne prendessero una, quella di uno dei Paesi che da essa più cerca di tenere le distanze, e la riducessero all’essenza, la plasmassero, facendola loro? È il Globish, una “lingua-macedonia”, un vero strumento di comunicazione europeo.

Dice: l’inglese ci sta colonizzando. Dall’economia all’informatica, dalla cultura pop alla scienza, non c’è ramo della modernità in cui non accusiamo ritardo e sudditanza rispetto a Stati Uniti e Gran Bretagna, per colmare il quale ci illudiamo sia sufficiente importare container pieni di anglicismi che pronunciamo male e adoperiamo peggio. La cosa desta in genere molto più allarme tra gli accademici che nei settori interessati, dove prevale l’idea che l’arrendevolezza linguistica sia l’inevitabile pedaggio da pagare per assicurare competitività all’economia e alla ricerca italiana. E può anche darsi che in fondo abbiano ragione loro, gli anglofili, sul fatto che l’inglese sia l’unica arma con cui possiamo pensare di rimanere agganciati – noi italiani, ma non solo – alla parte di mondo che continua a correre. Ma di quale inglese stiamo effettivamente parlando? Qual è la variante di lingua che si adopera nei summit internazionali, nei convegni, nelle riunioni d’affari, negli spazi dell’Europarlamento o del Palazzo di Vetro? Non certo quello sterilizzato e impastato di suggestioni

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letterarie che si insegna nei licei e nelle facoltà di lingue, e nemmeno lo slang sozzo e pittoresco che si può facilmente imparare facendo il lavapiatti o il cameriere in un qualunque pub di Birmingham. L’inglese di cui stiamo parlando è una variante semplificata, ecumenica, tascabile. Una lingua ideale per far comunicare tra loro i non anglofoni, ma che gli anglofoni faticherebbero a riconoscere come propria: millecinquecento parole mal contate, tempi verbali ridotti più o meno della metà, pronuncia ripulita da qualunque coloritura locale, grammatica corretta ma ridotta all’osso. Jean-Paul Narriere l’ha battezzato Globish®, parola-macedonia che assembla in un unico termine l’idea di un inglese globalizzato, registrando saggiamente il marchio e illustrandone le caratteristiche in un libro del 2009, Globish the World Over, che in diversi Paesi del mondo (ma non in Italia) è già diventato un best seller. Il Globish, secondo Narriere, è essenzialmente una lingua parlata, e come tutte le lingue parlate è anche una lingua naturale, nella misura in cui la sua grammatica e il suo lessico


non sono stati concepiti a tavolino come quelli dell’Esperanto, ma sono il frutto di un lento e ininterrotto stratificarsi di abiti e convenzioni sui quali i parlanti non anglofoni negoziano giorno dopo giorno i confini di una lingua comune. Perché il Globish quello è: un porto franco, uno spazio linguistico extraterritoriale soggetto a una giurisdizione diversa da quella dell’inglese vero e proprio, un terreno in cui, a differenza di tutte le altre questioni che li occupano, ministri, diplomatici, uomini d’affari, intellettuali sembrano potersi intendere al volo. Inevitabile dunque che anche in ambito europeo – al di là delle istituzioni comunitarie, dove l’inglese convive con il francese e il tedesco come lingua procedurale, e dove anche il parlato è, in genere, mutuato dallo scritto – il Globish sia diventato ormai la lingua franca con cui quasi tutti comunicano, nonché il principale fattore di coesione di un continente in cui, dalla moneta unica ai trattati di Schengen, si fa sempre più fatica a trovare buone ragioni per restare uniti. Ed è un annoso paradosso che a imporre la propria lingua come prevalente sia il Paese – la Gran Bretagna – che non ha mai voluto saperne di euro né di regole. A meno che il paradigma non vada ribaltato. Perché i sudditi della Regina avranno anche imposto la propria egemonia economica e linguistica, ma che cosa hanno ottenuto in cambio? Un’Europa che tutto sommato riesce a fare a meno di loro e che parla un inglese che non è inglese. Pensateci bene: e se fossimo noi, dopotutto, a corrompere la loro lingua, a imbarbarirla, a sterilizzarla, a depotenziarla con la nostra pronuncia maccheronica, il nostro lessico da dizionario tascabile, la nostra pronuncia da italiani (e spagnoli, e francesi...) in gita? Se fosse insomma l’inglese a rischiare la propria incolumità molto più di quanto non la rischi l’italiano importando anglicismi? A sentire più di un rappresentante politico malmenare la lingua di Shakespeare nell’Europarlamento, il dubbio pare legittimo. Peccato solo che nelle millecinquecento parole del dizionario Globish la parola “legittimo” non sia contemplata.

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Claudio Bartocci Luigi Civalleri

Numeri Tutto quello che conta, da zero a infinito

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24 10.2014

Co cover

Europe: the perfect harmony The European Union, with institutions, assemblies, important buildings, and offices scattered throughout its Member States, can sometimes seem distant and difficult to understand. But it is closer than it seems. It is in your wallet, in your documents, your freedom, your food, your shopping bags, at work, in school, and in your domestic tranquility. And therefore the European Union must be recognized as the organization that has long been positively affecting our present and our future. On the occasion of the sixmonth Italian Presidency to the European Council, Oxygen recounts Europe as it is today and as it has been in the past, explaining its positive influence and reflecting on the steps still to be taken to continue to perform. Because, as Jacques Delors said, “Europe is like riding a bicycle: if you don’t go forward, it falls.” Ed editorial

The best of all possible worlds by Maria Patrizia Grieco Enel Chairman

In recent years the lively debate about Europe and its future has been more heated than ever. The economic crisis has revealed all the weaknesses of the European Union, thereby fueling national movements and resentment towards Brussels, as well as reflections on the meaning and future of European integration. This kind of thinking is increasingly undermining the popularity of a process that seemed indisputable until a few years ago. The attention of the ruling

class and of European public opinion has been focused more and more on economic issues; the search for a balance between rigor in the management of debt and the need to enlarge the mesh of austerity, and the debate on the introduction of the euro and macroeconomic imbalances are likely to create a huge gap between the member countries and foster the disaffection and hostility of citizens towards the EU institutions. In other words, the economic crisis, which is also a social and moral crisis, is likely to make us forget the ultimate meaning of the European project and all the positive things that have resulted since the Treaty of Rome: the unification process that began over

sixty years ago has guaranteed European citizens decades of development and prosperity. The protection of rights, welfare, and the civil conquests that the European project has ensured are without equal. In seventy years of peace and democracy, Europe has been the best of all possible worlds. The model of voluntary cession of sovereignty and the creation, through treaties, of common institutions have led to the ​​ attainment of a market that has enabled great stability, development, and prosperity. And I believe that – despite everything – the citizens of the European Union are well aware this: if it is true that the most sensational and alarming aspect of the European elections last May 25 was the

strong growth of the anti-European movements which achieved unprecedented results, it is equally true that the five major pro-European formations (the People’s Party, the Socialist Party, the Liberals, the Green Movement and the United Left), won more than 550 seats out of 750 and they did so after the most difficult, both economically and socially, legislative session in the EU’s history. Therefore, the European Union is facing an important test, but also an opportunity for change and a revival that the Italian government, which has just been appointed to its Presidency for a term, will have to be able to deal with and lead. The crisis has highlighted the structural limits of our growth

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model: a model based on an extensive welfare system that is not sustainable, nor will be sustainable, in a continent with such rates of growth and productivity as the current ones. We must think of a new model that takes the great changes that have occurred into account and that will allow Europe to become competitive on international markets. The energy sector, which has always been the engine of economic development, can be one of the key tools for reviving Europe in terms of competitiveness. Through the creation of an energy system able to combine environmental awareness and energy while paying particular attention to the issue of energy security (which the Ukrainian

case has highlighted) and the completion of the single market, Europe could once again compete on the international stage. In this context, technological innovation is the main lever on which to act in order to achieve these goals by diversifying energy sources, reducing CO2 emissions, and at the same time, reducing energy costs. For a continent that is relatively resource-poor, betting on its future also means investing in the ability to innovate and the ability to look ahead with courage and optimism. The same courage and optimism that the founding fathers had when postwar Europe envisioned a possible world. A world we all have the privilege of living in.

In interview

union is strength Created as an economic agreement to lay the foundations of lasting peace among the nations of Europe, the European Union has now become immense and complex: it brings together multiple areas, many more states, and plays a key international role. However, the steps taken are not always clear or discernible at all, and so to remember their importance, Oxygen has spoken to someone who actively participated in implementing some of them.

interview with Lorenzo Bini Smaghi Economist by Vittorio Bo

European Union is not perfect, it has a long road ahead of it, being built by the many professionals who work there, bringing their ideas and commitment to it. It is thanks to them that Europe can grow; it has already done so and it can do it again. This is the simple but practical thought of Lorenzo Bini Smaghi, Member of the European Central Bank from 2005 to 2011, but even before that, in the mid-Nineties, involved in working on the creation of the ECB at the European Monetary Institute in Frankfurt. The European Union can be criticized and improved, but first of all it need to be known, a clear knowledge about what equilibrium has been established and to have in mind what it means to make choices over time.

The protection of rights, welfare, and the civil conquests that the European project has ensured are without equal. In seventy years of peace and democracy, Europe has been the best of all possible worlds 134

Yesterday The first step towards European integration was an economic agreement: the European Coal and Steel Community. This may seem like a trivial idea, little more than a commercial manufacturing agreement between States, and instead, it was a revolutionary proposal. Peace through a commercial agreement. And arising from this need for equi-

librium came a process which has led to the European Union of today, but for which all too often according to Lorenzo Bini Smaghi, “one tends to remember the celebrities, political figures, or historical dates such as the signing of the Single Act, the Maastricht Treaty or the start of Monetary Union on January 1, 1999”. These are all milestones that, based on the global balance of the moment, have pointed out the way to be taken from time to time. “But in addition to these symbolic dates, we must not forget that the European integration process is the result of continuous work, done at all levels, including by national and European officials who prepare the decisions with proposals, negotiations, and compromises. Overcoming national differences, and the resistance of the United States to the devolution of powers to the EU requires a lot of effort and patience, which are often not adequately acknowledged. It is thanks to the humble work of many people, often unfairly blamed as ‘bureaucrats’, that the political level then manages to make important progress for the Union.” Therefore, not dates and agreements, but human labor. Responding to a human need came CECA (European Coal and Steel Commission), which was also the first real stage of integration, a way to create collaboration in the aftermath of World War II and through specific agreements, and internally ‘lock down’ one of the industries considered harbingers of conflicts. The economy, therefore, at the service of human serenity, that of international politics and peace. Yet today’s economic issues are threatening the very balance that has been created, but at a broader level, globally. And the solution, so that the European States are not swallowed up by others, and so that the balance is maintained, is that it is important that the Union remains such. “In an increasingly integrated world, where new economic powers such as China, India, and Brazil are emerging, European countries taken individually may have only a marginal role. Being


english version

alone, they would have to accept the rules laid down by others. It is only by remaining united, in the European Union, that they can defend their interests and promote the values ​​of freedom, including economic ones, that have established the prosperity of Europe after the war.” Today This is not a matter of scaremongering, and everyday life proves it: “The recent political problems in Ukraine highlight even more the need for European countries to work together and increase the integration of their policies also in new sectors, such as energy. Without a unified process, we are likely to return to national protectionism, which would only impoverish our economies.” But today the EU does not seems as strong as it could be, and the problem, according to Bini Smaghi, is due to the national

the economy.” Then along came the times of crisis and so “it is clear to everyone that it does not make sense to keep the authorities at the national level, and it is only by sharing them at the European level that you are able to overcome the difficulties. At this point, the national authorities agree to take steps towards greater integration.” We’re not talking about European defects, not at all: “it is the democratic nature of the integration process, which requires the agreement of everyone, and which paradoxically, slows down its speed.” Reflecting on the present, among the elements of Europe criticized the most by its Member countries is the Stability and Growth Pact (SGP), the 1997 agreement requiring the members of the Economic and Monetary Union to timely meet some of those parameters that made them eligible to be part of the

authorities “who oppose the devolution of powers to Europe. The most paradoxical is that of the Eurobonds, namely the possibility of issuing bonds in common, which is loudly requested by many, but without accepting a greater sharing of the powers of the public budget in exchange. We often hear national politicians who are opposed to the cession of sovereignty, even when it might help

Eurozone, and which, according to many, is unmanageable in a time of crisis like the one we are experiencing. But according to Bini Smaghi, “A careful reading of the rules, and how they have been applied recently, shows that there is a lot of flexibility in the current rules. No one wants to strangle the economies of other countries with overly restrictive policies, but neither is it acceptable to postpone indef-

initely the correction of imbalances in public finances accumulated in the past.” So how can debt be reduced? “There are two ways. The first is to increase the growth potential of the economy through reforms that increase the competitiveness of the system. The second is to apply austerity measures. Europe is asking countries to take the first way, but if they do not want to take it, or fail to do so, only the second way remains.” Acting is, without a doubt, the watchword, so as not to take refuge in blaming Europe as the scapegoat. “Countries that do not make reforms end up only discussing public finances, but they can’t criticize Europe for their own inability to act.” Tomorrow One of the new tools the EU has adopted to deal with the crisis is the treaty establishing the European Stability Mechanism, also known as the bailout fund, which came into force in 2012. In 2014, an agreement was found for the establishment of the resolution mechanism and the bank-saving bank fund. Although these measures appear to be adequate to deal with isolated incidents of insolvency, will the European Union be able to ensure an economic and financial stability in the long run? The future is uncertain, but according to Bini Smaghi, “These are very important steps forward. Today we can see that the system is less fragile concerning imbalances and external shocks. But what has been achieved is not enough for jump-starting the economy and reforming the system, which in many areas remain backward. The risks have not disappeared and they can resurface at any time. The European framework is more solid now, but it still needs to be strengthened, for example, by pooling programs to support employment in the event of a crisis. To do so, however, it would take having more trust among the countries, in order to defeat the impression that they just want to take advantage of European mechanisms and it is always the

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same people who have to pay.” Trust that can be helped by the understanding that, in all respects, the EU is a highly democratic organization “because the institutional choices made at each step have been ratified by the national political systems.” For Bini Smaghi, there is not a lack of democracy, but of democratic trust: “We must further strengthen the democratic legitimacy of the European institutions by establishing a direct link with citizens, without the mediation of national structures. From this point of view, the appointment of Jean-Claude Juncker as President of the European Commission, following the victory of the EPP in the European elections, is an important step forward. It is no coincidence that it was opposed by many national politicians, who are opposed to the European Parliament having a more important role.” In order to imagine a future that uplifts the European economy, we must uphold the reputation of an organization and institutions that are essential. “In the meantime, we must begin to make the new institutions and mechanisms operate well, starting with EU banking. It is necessary to convince skeptics that the devolution of powers to the European level was the right thing to do, and that perhaps should have been done before. So it reinforces the confidence in, and prepares the ground for new steps forward, in other sectors as well, such as energy. In this time of economic crisis, there is a natural tendency to withdraw into oneself, to believe that ‘small is beautiful’ and that problems are best resolved among the few. This is not the case only for the European Union but also for the national States, just look at what is happening in the UK or in Spain.” There is a tendency to accuse Europe of the economic crisis of its Member countries, but it is precisely the lack of trust that some have towards it that is undermining our economies. “This crisis is an identity crisis of the traditional nation-states of the EU.”

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Op opinions

Without, for a day Clarence’s experiment If the European continent had never existed, would that be so bad? There would not be the European Union, nor, come to think of it, would there be any need for it. Or maybe there would, because the EU is first and foremost an opportunity: its whole is made up of many cultures that have always created elaborate concepts and achievements upon which the entire world has built its foundations. And on which its own history, as well as ours, has been created. by Giorgio Vasta Writer

In the movie It’s a Wonderful Life, Frank Capra’s 1946 masterpiece, the ‘second-class’ angel Clarence subjects George Bailey, the main character of the film played by James Stewart, to a kind of existential experiment showing him what the life of people around him would have been like if he, George Bailey, had never existed. Through a series of encounters, Bailey realizes just how much and in what ways, by intersecting and modifying that of others, his existence has been and still is important. What would happen if we tried repeating Clarence’s simulation by changing its terms and hypothesizing that what was wiped out was not a single existence but that of an entire geographic region of the globe? For example, what would happen if we were to imagine a normal span of our daily lives without a specific portion of land mass? A day without Europe, for example. That is to say, without the possibility of using any of the material culture but above all, the immaterial culture that the Old Continent has managed to generate and put at our disposal. Therefore, without any of the ethical, political, and social achievements upon which our history has been built.

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english version

At the beginning of this experiment Clarence might decide to take us to an era – 461 BC – and a place – Athens – that played a founding role for European culture (when the physical and political knowledge of Europe was still non-existent). According to our experiment, and thereby contradicting history, in 461 BC Pericles, who was to refine the experience of the polis in a radically democratic perspective, did not give his famous speech (“Here our government favors the many instead of the few: and this is called democracy. That is how we do it here in Athens”) whose premises and whose effects, – this is the logic of the game – was not to stimulate per se social and political thought for centuries to come. Without ancient Greece, without the isonomia of the polis itself, i.e. that every citizen must abide by the same rules, without the Areopagus where law was and justice was administered, and also, without the right-law dialectic wonderfully illustrated in Antigone by Sophocles, the Mediterranean would not have become the theater of that fertile ‘meridian thinking’ of which Albert Camus wrote, linking culture and topology. A way of thinking about the light that acknowledged the sea – the natural border of all of Southern Europe

– as having an irreplaceable collective heritage. Through a daring historical-geographical leap, Clarence may now decide to go from south to north back to a piece of land in a volcanic area on the edge of the northern Atlantic Ocean, more exactly Thingvellir, not far from today’s Reykjavík. The aim of our second-class angel in this land of rocks and faults in 930 AD, is to show that the Althing, i.e. the first documented instance of an assembly meeting, did not come into existence. Although Iceland is not part of the European Union today, it is nevertheless striking to see how the need for parliamentarianism, thus the vocation for a legislative dimension, has been an attitude common to regions even at the antipodes of one another. This is a demonstration of the fact that participation and collaboration are essential practices at any latitude. Continuing on his experimental journey, Clarence could take us to the year 1513 to show us that by not writing The Prince, Niccolò Machiavelli did not establish modern political science. In his work, the Florentine philosopher was able to more planimetrically describe the most manifest phenomena as well as the more subtle implications of political action, the inseparability of light and dark, and

the link between disenchantment and pragmatism. These qualities are common to that other indispensable manual of political culture, The Courtier by Baldassare Castiglione. His absence from our encyclopedia of reference would once again result in a limit not so much as of a speculative but of an entirely practical order: without the critical reflection of The Courtier concerning the vices and virtues of power, we would not have the device of mediation at our disposal, nor even at times the reconstruction of conflicts – which is conversation itself, therefore the particular declination of language that, by imagining alternatives and formulating hypotheses, can lead to change. And it is at this point that Clarence’s experiment would entail two more stops – two more eras and two more places – necessary for understanding what we would be without Europe. First of all, we need to get to June 14, 1985, the day when the Schengen agreements were not ratified and the European space sector did not undergo a necessary and extraordinary revolution. Given that the transition from a time of separations to an era of passages, from a Europe that is compartmentalized to a culture of permeability and fluidity corresponding to a kind of collective entry into adulthood

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and at the same time fulfilling the teaching of Baldassare Castiglione in a geographical key, has made Europe into a conversing of spaces and cultures. Trying to imagine that this did not happen, imagining the disappearance of a mutual opening and a likewise mutual availability, is confusing, to say the least (after all, disorienting us is the purpose of this experiment). The next (and last) destination of Clarence’s journey is February 7, 1992, at a town in the Netherlands, specifically in the province of Limburg, when the Treaty of Maastricht was not signed and therefore, the European Union did not come into being. The non-occurrence of a series of historical processes would inevitably undermine one of the core values ​​ of the Union: the one for which each of the twenty-eight Member States cedes a portion of their sovereignty to the EU bodies. This is a matter of ethical principle and solidarity, a mutual accountability that has its roots in everything that has happened over time. Only that, without the speech of Pericles on democracy, without the experience of the Icelandic participation in the Althing assembly, without the Renaissance culture expressed by The Prince and The Courtier, without the cooperative thinking at the base of the Schengen agreement, without an incalculable amount of traumatic metamorphoses, of evolution and involution, progressions and arrests, essentially without what has been the adventure of an idea that has never ceased to become reality, we would not have reached the continuous critical reinvention of itself which is what contemporary Europe is. So let us take leave of Clarence with an awareness that we have inherited from his experiment: what we are talking about when we talk about Europe is not simply a geographical space but an accumulation of contradictions, possibilities, and visions. A form of knowledge. An opportunity that, fortunately, never ceases to happen.

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In interview

An ambassador from outer space The person who observes the world from outer space has a privileged view. Like that of the astronaut who is the ambassador for the semester of the Italian Presidency of the European Council. Parmitano ventures to compare life in a space station to the difficulties involved in sharing a continent. Here are his thoughts on Europe in space.

interview with Luca Parmitano Astronaut by Alessandra Viola Journalist

Sicilian, Italian, European: Luca Parmitano, born in 1976, is an astronaut for the European Space Agency who, after 166 days in space in the long-duration mission Volare of the Italian Space Agency, could rightfully be called a ‘citizen of the world.’ Yet identity is still important to him. He explained, “Being European is a great opportunity and certainly does not mean ceasing to be Italian, French or German, but to build a greater common identity in which to benefit from the experience of others and to which to bring our own.” A talented military man also honored with prestigious awards, Parmitano is both a simple and spontaneous young professional – in this interview he let himself be addressed by the informal ‘you’ form, just like an old friend – on the side of young people, who wants to convey a message of openness, optimism, and confidence in the possibilities offered by Europe. Indeed, his own life demonstrates just which and how many opportunities a European and international context can offer to Italy and to each of its citizens: for this

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reason, as well as to emphasize the excellence of Italian research, the Italian government chose him to be Ambassador of the Italian semester of the European Presidency. What does your job as Ambassador entail? Mine is not a job but diplomatic communication: an ambassador represents whatever the country wants to be known about itself during their presidency. The great thing about this job is that I do not have to invent anything: when I speak about Europe as an inexhaustible resource for growth, I’m simply speaking of my experience. As a young man, I left Sicily to join the Air Force, and later, another sector of Italian excellence. Then, thanks to the defense agreements between Italy and other nations, I left to join a European context. That journey culminated with my experience as an astronaut when I joined the European Space Agency. Ultimately, it is Europe that has made my career possible. However, the mission of being an Ambassador is very different from the one you recently had in the International Space Station. Did that experience prepare you in any way for the role you are covering today? In the 166 days of the mission, I did many different things. I was an engineer on board, the equivalent of a co-pilot in charge of flight systems, and also in the space station, which means doing a bit of everything: scientific experiments, extra vehicular activities, and activities on board. I had to interface with an international environment, because there were people of other languages ​​and other cultures. I realized that feeling an European does not mean giving up being Italian but to grow as Italians, making our own contribution to the development of the community, and at the same time, taking what is good about the other cultures and improving it.

When I think of how we work in the Space Station, it immediately leads to thinking about the European Union: there too the nations surrender part of their sovereignty for the common good, and this leads to great results, those of the Europe I like

What is it like to see Europe from space? What considerations did seeing it from up there arouse in you? The Mediterranean, which I consider our home, looks like blue velvet on which Italy is resting like a jewel. From up there, it is wonderful and always recognizable. Seeing Europe from up high is sobering: the boundaries, that our history and our cultural heritage have invented, are imaginary. During the day there are no borders, and the lands flow into each other, recognizable only by some particular shapes such as the Italian boot, the Scandinavian tiger, or the Spanish square. Mankind disappears, lakes and rivers disappear, and even mountains are mere white entities without any height. Instead, at night mankind appears in all its creativity and transforms the earth into a constellation of sparkling light, a starry sky in which our cities are all connected by highways and railways, where everything is visible and recognizable. In which Europe is truly interconnected. What does it mean to an Italian to be European as well? What did it mean to you to be an Italian and a European in outer space? Since I started this job, I have always felt that we Eu-


ropeans have a specific role, which is that of being an interface between our Russian and American colleagues. They are great professionals who, however, work in very different ways and who acknowledge our role as mediator. We carry two thousand years of history with us and this becomes important in the orbiting station. Our ability to create bonds comes from our culture, and what culture is better and more universally appreciated than our culinary art? So, when they asked me to customize the standard menu for the space mission, I decided to create a kind of space food that could be shared, for creating a convivial atmosphere and ties based on friendship, on being relaxed, and not just about work. I focused on international words like lasagna and risotto, but I also asked for ... good Sicilian eggplant parmigiana. The job of an astronaut is closely linked to scientific research and Italy is a worldwide excellence in this field. What new opportunities do you expect for research in the semester of the Italian Presidency? A major opportunity will open in a few months, when our Ministry of Education, University, and Research will be involved in the conference in which all the space agencies meet to decide the future of the space sector. It will be an opportunity to reaffirm our role of leadership and the absolutely cutting-edge level Italy has reached in aircraft construction. I don’t deal much with science in particular, but for example, I have seen that Italian experiments have been planned in the space mission of Samantha Cristoforetti, which shows Italy’s interest in space and in research. This makes me optimistic: putting our stakes on research is the right way to find a way out of the crisis, as history has also shown us.

You happened to compare space to the European Union. What similarities do you find between two concepts and two places that are so different? I realize that it seems like a flight of fancy. Yet it is very simple. The Space Station is based on a unique concept of cooperation. At the end of the Cold War, the two nations that had historically been enemies, the United States and the Soviet Union, eventually agreed to create it, launching a pacific project in which the interests of humanity were put before those of politics and governments in order to create something historical. It was a giant step, and it is amazing to think that it is something that is still working today: even with all the political tensions of our times, the Space Station actually continues to work. When I think of how you work up there, it immediately leads to thinking about how you work in the European Union: there the nations also surrender part of their sovereignty for the common good, and this leads to great results, those of the Europe I like. The one that we all like. Similarly, as Europeans, we have to give up a small part of our national identity to identify with a larger entity, which helps us grow and which we are helping grow.

Feeling an European does not mean renouncing being Italian but to grow as Italians, making our own contribution to the development of the community, and at the same time, taking what is good from the other cultures and improving it 139


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Op opinions

Against Europe Representatives of the two most important Euro-skeptic parties, veterans of the recent triumph in the European elections, Nick Farage and Marine Le Pen, have more reasons for disagreement on their criticism of Europe than points in common. Starting with the role of Europe in the fields of economic and immigration policy: two fundamental issues, on which alliances and future differences are forged. by Leonardo Martinelli Journalist

It is easy to say “against Europe.” In reality, aside from their many proclamations and similar positions, the two champions of Europhobia, Britain’s Nigel Farage and France’s Marine Le Pen, are traveling along two different paths. And when they run across each other in the corridors of the European buildings, they hardly greet each other: even temperamentally, they have very little in common. On July 1, at the inaugural session of the new European Parliament, when the Strasbourg Philharmonic Orchestra performed the Ode

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to Joy by Beethoven, Farage and the other Members of his party, the UKIP, turned their backs to the stage, while Ms. Le Pen and company, elected to the National Front, remained seated. Even physically, they have two different ways of saying no. The two Anti-Europe champions Farage and Le Pen were the main winners of the European elections last May. They even pushed their parties to take first place in their respective countries: the UKIP, the Party for the Independence of the United Kingdom, with 27.5%, and the National Front (FN) with 24.85%. They are both about the same age: the Englishman was born in 1964, and the Frenchwoman was born in 1968. But they have two very different stories. The son of a broker in the City, Farage was a model student in high school but gave up college to go to work in the stock market too. He was a militant in the Conservative Party, which he left it in 1992, when British Prime Minister John Major, Margaret Thatcher’s successor, signed the Treaty of Maastricht. After that, Farage and a few others founded the UKIP. Since then, he has been involved in politics full time, taking on evermore radicalized positions. Instead, the political choice was more obvious for Ms. Le Pen right from the start: she is the daughter of Jean-Marie, the founder of the National Front, the far-right party in France. She was born into that world. Indeed, her route was the reverse of Farage’s, because, ever since she took the reins of the FN in 2011, she has been trying to soften the positions of her father in order to appeal to more moderate voters. Two different ways of being against Europe “I am against the European Union, but I love Europe”, said Farage. Le Pen declared,

The two anti-Europe champions, Farage and Le Pen, were the main winners of the last European elections last May. They even pushed their parties to take first place in their respective countries

“I’m not against Europe, I’m against the EU.” So far, their speeches are identical. Not only that, both believe that the euro currency is a major cause of Europe’s economic crisis: Farage too, even though his country has not adhered to it. Both admire Vladimir Putin and share his concept of the nation-state, unassailable from the outside. Both see themselves as the champions of the impoverished middle class, over-burdened with taxes. But then, here too, the differences arise. Farage believes that the EU is ‘bad for business’: it does not help the economy because it imposes too many restrictions and rules and prevents companies from making profits. He favors a Thatcher-style ultra-liberalism, or, if you will, something like the Tea Party’s idea of a minimal State, where welfare is reduced to the bone and thereby, taxes too. Farage


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is absolutely favorable to free trade at the international level. Instead, in recent years the National Front has become a champion of anti-globalization. It believes that the European Union is too openminded and too liberal. Ms. Le Pen would like to introduce new customs duties to protect domestic industry. And she is for a developed welfare state that safeguards the less affluent classes. Against immigration, at the limits of racism The two leaders also seem to speak the same language on this issue, but only in appearance. Indeed, with regard to immigration, Farage does everything he can to avoid being linked to Le Pen and to suspicions of racism (and even more serious in the eyes of the British electorate, to those of anti-Semitism) which affect the National Front. Farage assures that he is not racist and just wants to manage immigration better, with a pragmatic and non-ideological ap-

proach. His criticisms focus primarily on immigrants coming from the rest of the European Union, and in particular from Eastern Europe, rather than on non-EU immigrants and Muslims, as is the case of Ms. Le Pen. However, the statement on Romanians that “no one would want them as neighbors,” made ​​ by Farage immediately before the European elections sparked a real ruckus in his country. Farage had to buy an entire page in the Telegraph to apologize and deny any xenophobic connotation. Anti-Semitism has never touched him, even from afar. To tell the truth, Le Pen too has distanced herself from the strongly intolerant positions of her party in this regard. But, again in June, her father, the patriarch Jean-Marie, responded to the criticism of a Jewish French singer Patrick Bruel, by stating that “he would cook up a batch” of guys like him. The daughter immediately disassociated herself. But for many people, the mutual exchange of accu-

sations seemed like a ‘play’ to appease both the electorate of the more racist Front, thanks to the father, and the more moderate and non-xenophobic electorate, thanks to the daughter. Le Pen calls, Farage does not answer Right after the European elections, even though nothing official was leaked, Ms. Le Pen tried to contact Farage in view of a possible alliance in the new European parliament. Farage, however, did not respond to these advances. He preferred to seek other partners, and found them, firstly Beppe Grillo, thus managing to form a group that doesn’t exist anymore (at least 25 MEPs from seven countries). Instead, Ms. Le Pen, who has found the support of the Northern League in Italy, has failed to form an alternative group. This means having to play a more limited role within the European Parliament. For the moment, Ms. Le Pen is looking ahead to the

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next French presidential elections in 2017, when she thinks she’ll have her chance. Farage is preparing for the 2015 political elections in the United Kingdom, where he might win a seat at Westminster (as he obtained in 2014 when a member of the Parliament left). But where his party, due to the electoral system in force (single-member constituency in single shift) has no chance of winning.

Both of them believe that the euro currency is a major cause of Europe’s economic crisis, both admire Vladimir Putin, and see themselves as the champions of the impoverished middle class

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In interview

Institutions in a new light The desire for economic recovery in Europe is not lacking, and according to industry experts, the possibilities are not even all that remote. Indeed, the EU itself provides its member countries with institutional tools such as the Italian investment fund, the F21 fund and the Strategic Italian Fund that could make them become the actors in new forms of investment and create a new way of making economic policy.

interview with Andrea Montanino Executive Director of the International Monetary Fund by Maria Chiara Voci Journalist

There are many problems to be dealt with. And these involve not only Italy. Unemployment and inflation are at historic lows and the skyrocketing public debt weighs like a ton on the future and on the trust that the citizens of European countries are willing to grant the European Union. However, the road for improving the ‘balance’ exists, and it goes by way of the proposals of experts and economists who are looking beyond the crisis. Andrea Montanino, formerly the economic adviser to Minister Padoa-Schioppa and then director general at the Treasury Department of the Ministry of Economy and Finance, has been an economist at the European Commission and currently holds the position of Executive Director of the International Monetary Fund. What are the main difficulties that Europe is facing? There are mainly three big obstacles, all closely interconnected. First, the high public debt is a problem that plagues not just Italy. If in 2008 there were eight EU countries that exceeded the parameters set

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by the Treaty of Maastricht on the debt/GDP ratio, in 2013 they increased to 15. That is to say, the number has doubled. Second, the drastic drop in inflation which, in the case of Italy, is becoming deflation. The objective of the European Central Bank stands close to 2%, but the actual values ​​are less than half of that on average. Finally, the low rate of growth. This is an issue that particularly affects Italy, but it more or less concerns all the nations of the euro currency. These three factors, combined, are the cause of stagnation. Low inflation can cause a delay in investment decisions and consumption while waiting for even lower prices, and consequently there will be less growth. In addition, the progressive lowering of prices automatically makes the effort needed for managing the repayment of loans and borrowings much harder. Including interest on government debt. Upon taking the office of the Presidency of the Council of the European Union, Matteo Renzi declared that “Italy will be the guide for the economic recovery of Europe”. In your opinion, what is the way to go to reach this goal? There are so many areas to work on, but I’ll dwell on one in particular, which is the gradual descent of the ratio of debt to GDP. States must demonstrate that even though their debt is high, it will fall steadily and at an appropriate pace. Only then will the financial markets really feel reassured and enjoy the conditions for a restart. In order to descend, the debt needs growth. In my opinion, there should be a plan that is reasonable and sustainable, perhaps through the use of innovative tools for the input of resources. But is there still public money today to spend on new investments? In much of Europe, no. This is why it is necessary to use new

forms to mobilize capital. For example, I’m referring to the so-called private equity, that is, the acquisition of company shares by specialized investors, who operate not with the purpose of speculation on the company, but in a perspective of growth in the medium term. This is a very popular mode of financing the economy in the United States, where there are financial institutions that are ‘crafted’ to buy companies or portions of companies in order to help them grow and put them back on the market. If done through institutional means, such as the Italian Investment Fund, the F2I Funds or the Italian Strategic Fund, this could be a new way of exercising economic policy. To give an idea of the space available, today private equity is investing about 300 billion euros in the United States: while in Europe, it accounts for just 35 billion euros. Germany is focusing on austerity. Other states, including Italy, are seeking a softer line instead, for example, by allowing the possibility of separating the costs of the reforms from the criteria for the calculation of their deficit. How do you view this matter? This is an old debate which began in Europe at least ten years ago when there was the first crisis of the Stability and Growth Pact. I think that the real problem is not so much the principle itself, but rather its application. Surely we must find a way to speed up reforms, which the current mode of implementation of the Stability Pact makes it difficult to deal with realistically. But going further, governments should be prepared to accept some sort of exchange that puts into play a greater flexibility of the Pact in exchange for the willingness to submit to a closer monitoring of the implementation of the changes introduced. Let’s take a practical example. In the case of the In-

ternational Monetary Fund, when funds are disbursed a very timely review is triggered simultaneously, that in the event of default also provides for the suspension of the payments of aid. A similar mechanism could be studied in the case of reforms. Having identified a necessary reform, the Commission could certify the cost for a state, allowing the country to divert that money from the obligation of stability. However, then the Commission itself should ensure the effective application of the measure in the course of work with the power of sanctions, if such be the case. One of the Renzi government’s recipes for reducing the deficit calls for focusing on the so-called spending review, that is, on a revision of expenditure aimed at improving the effectiveness and efficiency of the state machine. Is this a realistic way and one that could achieve results? The first attempt to implement a spending review action in Italy dates back to 2007. The Minister of Economy at that time, PadoaSchioppa, asked a small group of officials including myself and the late Professor Riccardo Faini, to work on setting up a spending review in Italy. He sent us to examine and learn about the model put in place in England, an experience that allowed me to understand that the spending review will only work if it is understood as a process of reorganizing public resources and operational procedures through which the various governments can spend the money. It is a matter of micro, not macro, management. It must then be conceived not as something ‘extraordinary’ but as a normal and regular operation. Otherwise, the savings, despite the fact of being achieved in the immediate, inevitably wind up to be benefits that are not long-lasting.


There is growing unemployment in Italy, as well as elsewhere. What can be done in this regard? The main dilemma in Italy is not so much the labor market as the difficulty on the part of companies to invest in a system that is too complex. On the one hand, life needs to be made easier for businesses, while on the other, there needs to be a push for projects of a European breadth for boosting higher labor intensity sectors. Given the increase in the cost of living and the economic crisis in many countries, however, anti-European sentiment has grown during the past decade. What are the mistakes that the EU has made up to now? The real mistake is not having fully understood that, especially in the face of the recession, we need Europe more, not less. It is necessary that we achieve a better integration of economic policies. The size of our national states is immensely small compared to such giants as India or China. Outside of Europe, the individual countries are recognized as a single entity only from a historical perspective. But, at the global level, the economic impact of each nation is poor, if not referred to the whole euro area. Until now, however, there has not been enough of a push to a supranational level. There is a lack of a European budget as well as a true minister of the Economy and a supranational strategy that goes beyond the work carried out to date and

which is aimed at allocating resources to resolve imbalances between countries. The problem of integration is also on a regulatory level ... For sure. The legislative process currently reflects many of the weaknesses of the system. The transposition of European directives passes through the clearance of the relevant national standards and individual parliaments. With the result that it is often blocked and nobody monitors its implementation. Therefore important and essential principles remain unrealized, and are not translated into reality. On this front too, it will be necessary to be work on a greater simplification.

Governments should be prepared to accept some sort of exchange: greater flexibility of the Pact in exchange for the willingness to submit to a closer monitoring of the implementation of the changes introduced 143


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German Solidity Germany, the country that seems to hold the fate of the European Union in its hands today, had in fact joined it in quite different socio-economic conditions. But over time its economic model and ability to think of the right strategies turned it into the strong country that we know: a nation that is not immune to the crisis that has hit Europe, just less exposed. by Angelo Bolaffi Political philosopher and Germanist

At the beginning of this century-millennium, according to a famous and controversial cover of The Economist, Germany was ‘the sick man of Europe’: a country in crisis, unable to cope after the traumatic shock of reunification, and with the double challenge of globalization and the introduction of the single European currency. There was low growth, high unemployment, and a national debt potentially out of control in the face of a worrying disaffection of private investment. Today, a decade later, Germany is a nation that is admired and envied (and perhaps even feared), such that Jürgen Habermas, the most famous German philosopher, indicates Germany’s semi-hegemony in Europe as one of the causes of today’s economic crisis. This is not the place to discuss whether the diagnosis of that exponent of the Frankfurt School is acceptable or not. Suffice it to say that there are quite a few who think in completely different terms, instead indicating Germany as an economic and social model. For example, the reporter Fareed Zakaria, according to whom the German socioeconomic model is certainly not “the best of all possible worlds,” but it is certainly among those in Europe that are “more efficient and better suited to a globalized world.” Instead, the real question of interest to answer today is how

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that miraculous transformation was possible. What are the reasons for the extraordinary transformation that has handed over the leadership and economic geopolitics of Europe to Germany’s Chancellor Merkel? The reasons are twofold: historical-structural and politicalcontingent. They have to do with the specific characteristics of what Michel Albert defined (in contrast compared to the Anglo-American one) ‘Rhenish capitalism’, which is based on the Modell Deutschland whose cornerstones are the social market economy and the Sozialpartnerschaft. This is a social partnership expression of a class compromise that ensures a monitoring role and the co-decision of the union, without which such an alliance of producers institutionalized in Mitbestimmung (co-management) would be crippling for decision-making or an obstacle to the introduction of product innovations in the companies. The structural divergence between the models of industrial relations – that of consensus which characterizes the Modell Deutschland and that of conflict in the countries of the Mediterranean area, albeit with some significant differences, including the British Labour Party – is reflected in the practice of the different strategies adopted by unions and employers. And it is also at the

root of the growing productivity gap between economic areas in the euro zone which is one of the reasons, together with the difference in the rate of indebtedness of states, for the present crisis of the single currency. And yet the ‘second German economic miracle’ (the first was the one performed by the Republic of Bonn, coming to power in 1949 after the currency reform of 1948) consisted of reforms in the functioning of the welfare system, the labor market, training of the workforce, and the economic-productive system implemented in 2003 by the Red-Green government led by the Social Democratic Chancellor Gerhard Schröder. The famous (and ‘infamous’ for critics of the European Left) Agenda 2010 has literally reshaped the relationship between citizens’ rights and duties of the state. Without the foresight of the timely and often unpopular decisions of reform (in the general election of 2005, the coalition led by Schröder, actually of quite a significant size, was defeated by the conservative one led by Angela Merkel), the Modell Deutschland would not have held up under the impact of the great transformation that followed the fall of the Berlin Wall. That was a date, November 9, 1989, that marked the birth of the age of the global world a quarter of a century ago, just

The ‘second German economic miracle’ consisted of reforms in the functioning of the welfare system, the labor market, the training of the workforce, and the economicproductive system, implemented in 2003


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like the French ’89 had done two hundred years earlier, thereby announcing the birth of Europe in the age of Enlightenment and democratic public opinion. Today, Germany is a leading country (just as the Republic of Bonn had been at the turn of the decade between the ’80s and ’90s of the last century) of world exports, and at the same time, it has a very low rate of youth unemployment, unlike southern Europe. This does not mean that Germany, like all the industrialized countries of the West in these years of crisis, hasn’t also produced a dramatic social gap as a result of the polarization of wealth, and the exponential growth of economic inequalities to the detriment of the middle class and lower classes. It is just that there it has been done in a much more socially acceptable form than elsewhere due to the proper functioning of the systems of social security and labor market regulation. In fact, the reforms sought by Schröder have quantitatively changed but not qualitatively distorted the Modell Deutschland. However thus reformed, the German model has been able to hold together systemic imperatives of the market and the ethics of social justice, even in a situation radically transformed by globalization, by skillfully combining the necessary flexibility in the use of the labor force with the guarantee of the defense of the workplace. In fact, the German reforms have focused not so much on the multiplication of precarious jobs (although there are excesses in this sense trying to be remedied with the recent introduction of the minimum wage) as on mobility within companies, pivoting on flexible hours, and part-time and overtime work. This is an active mobility thanks to which, even in times of crisis, the workers can improve their training and their knowledge, and learn different tasks, generally of a higher level. This mobility works like “a social and professional elevator that is mainly used within the company and contributes [...] to the formidable and surprising affirma-

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tion of German industry in the world”, to quote Romano Prodi. Every nation-state in Europe, even the ‘Great Germany’, for demographic reasons and economic size, is unable to compete in a world dominated by continent-states such as China, the United States, Brazil, Russia, and India. If after the end of world war II, the idea of uniting ​​ Europe was conceived in the name of peace, today alongside that omnipresent imperative, as confirmed by the dangerous escalation of the crisis in Ukraine, the challenge of globalization is pushing Europe to be united. If what arises becomes the United States of Europe or a federation of nation-states is a question only the future will be able to answer. But what we already know is that Germany’s role as a leading economic power will be decisive in this process. Therefore, it is with a German heart that the future Europe will be born. But as to what the best strategy is for achieving this ambitious goal – a revival of public spending in the manner of Keynes or, as claimed by Germany’s Chancellor Merkel (together with Mario Draghi), a policy of structural reforms and the reduction of public debt – there is profound difference of opinion. A contrast that could prove to be fatal.

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Sc scenarios

Energy synergies Environmental sustainability, energy security, the single market: these are the challenges for European energy that lie ahead. And it is here that cooperation between the countries can be an opportunity, even at the global level. But one must know how to achieve it, and Enel, one of the protagonists of change in actions, has all the tools to do it. by Francesco Starace Enel Chief Executive Officer and General Manager photographs by White

The energy sector, which has always been at the basis of the social and economic development of a community, can and should be a fundamental tool for a new leverage for the competitiveness of industries, to release new investments and sustain employment and innovation. The experience and expertise that Enel has accumulated in its more than fifty years of history have led it to become the second largest operator in installed capacity of electricity in Europe. This is a position, and above all a role, that has made it highly aware of the need for a profound and synergistic integration of European policies in order to tackle the complexity and typical dynamics of a global context such as that of our era.

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The challenges of the energy sector So in order to take the right path, the energy sector, together with the policies, must know how to identify effective solutions to some of the more pressing challenges, such as environmental sustainability, energy security, and the implementation of the single energy market. These issues are often presented as antagonistic to one another, but in reality they are characterized by strong synergies able to usefully contribute to the definition of a sound energy policy. And in fact, by addressing them in a strategic manner, long-lasting common benefits can be obtained. Sustainability and the environment Europe has developed a global leadership on the issue of combating climate change and sustainability. In September 2014, a summit desired by Secretary-General Ban Ki Moon has be held at the United Nations, in view of the 2015 meeting in Paris of the COP21 where it is hoped that an international agreement on climate will be reached. It is essential to succeed in channeling the efforts made so far for that meeting to reach an agreement on the reduction of emissions at a global level. Europe is already moving in this direction with the establishment of new objectives in the field of environmental energy (reducing emissions, developing renewable energy, and improving energy efficiency).

Energy security It is therefore evident that the response to the environmental challenge should also bring direct benefits to energy security. Today Europe imports more than 50% of its primary energy needs, more than 65% of its gas and over 86% of oil. If it is probably true that we will never achieve total energy independence, the real challenge will be to effectively manage our dependency. In this context, European policy must aim with strategic ability for: 1. diversification of sources, to achieve an effective generation mix using all the technologies available today, and in particular those which, like renewables, do not generate new dependency on other countries; 2. diversification of supply routes, through the definition of new routes for provisions such as LNG (liquefied natural gas); 3. greater attention given to the efficient use of energy, with direct benefits for the environment and costs to consumers.

Today Europe imports more than 50% of its primary energy needs, more than 65% of its gas and over 86% of oil: the real challenge will be to effectively manage our dependency

The single energy market The European countries have another great resource available to them for influencing energy security: the creation of a single energy market. In fact, Europe is a highly interconnected area and it is equipped with a vast and diversified portfolio of generation facilities, the legacy of national energy policies that are not always consistent and in harmony with one another. The definition of common rules would take advantage of this diversification in an efficient manner, thus making it available to a wider area of consumption, and no longer tied to national or regional boundaries. At the same time, it would have benefits in terms of reducing costs and environmental impact.


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Leverage and Enel’s contribution Our Group considers our contribution to the solution of these challenges as an essential element for perpetuating our leadership in global markets. Long gone by now are the years in which the monopolist Enel played a role as a champion in a national market: today, we are one of the top European players, and we have greater responsibilities that go well beyond our national borders. For this reason, we believe it is important to promote a greater integration of markets at both a European level (the European Commission) and a national level (in our own countries): an element that will directly benefit our customers, the environment, and the European economy. The challenges outlined are complex, but we already have the effective tools to address them.

The energy sector, together with the policies, must know how to identify effective solutions to challenges such as environmental sustainability, energy security, and the implementation of the single market

The competitive development of renewable energy sources One of the most important kinds of leverage is the competitive development of renewable energy sources. Through its dedicated company Enel Green Power, Enel has the characteristics to actively contribute. In fact, it is the largest global player in the renewable energy market with complete coverage of all technologies, from geothermal to hydro-electric, from wind power to solar power, without overlooking biomass. However, to continue the competitive development of these technologies, and consequently to allow the relative investments, it is necessary to define some new rules that look to the single market and which would set clear signals of prices for the long term.

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Technologies for energy efficiency and the relocation of production centers A second kind of leverage is the development of technologies dedicated to energy efficiency and the future relocation of the centers of electricity generation. With regard to the first point, it is essential to remember that electricity is the most efficient carrier of energy and it has features of strong adaptability and a variety of uses. However, the electricity vector could expand its areas of application even more, for example in the transport sector, or in the air-conditioning of buildings. In both cases, Enel is already at work: in the first case, it is accelerating the preparation and development of the necessary infrastructure, in accordance with a range of services dedicated to energy savings for its customers. With regard to the relocation of production facilities, the complete digitization of the medium and low voltage network implemented by Enel already allows us to manage this production with one of the most efficient procedures in the world. In 2016, Enel will begin a campaign to replace digital meters with a new generation of meters that are more sophisticated and ‘smarter’. This will allow us to maintain our leadership in the world and move further forward the frontier of the field of services that the network of low and medium voltage may offer in Italy and in Europe.

Change is possible Europe has decided to undertake the path of the decarbonization of its economy by 2050. This is a feasible objective that cannot be separated from an almost total decarbonization of the electricity generation processes. This would therefore open a phase of change – almost a revolution, I would say – of the current European scene. We already have all the skills and leverage to be able to do so, we just have to seize the opportunity. The benefits are multiple and long-lasting.

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Sc scenarios

An interconnected market Energy security is one of the most pressing issues for the future of the EU, and there are resources to meet the emergency demand. What is still lacking are the integration and interconnection of energy, objectives as old as the idea of the ​​ European Union itself but which are struggling to take off. And our economy and future winters are based on this. by Marco Zatterin Journalist

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It has been months that energy experts, such as politicians, diplomats and economists, have been keeping their eyes on the numbers of the flow of gas pumped by Russia in the pipeline that runs through Ukraine and heads towards Central Europe. There has been a major crisis in those parts, even several times, and now once again, anything is possible, maybe even the worst. If methane arrives in the desired terms of normality, then it means that we can continue to believe in peace, but also in the fact that the winter will slip by quietly without anyone being left in the cold, even though Crimea is lost and, as denounced by the

leaders of the West, the multisanctioned Russians “may have had an obvious role in the destabilization” of the former Soviet republic. If the gas stops, there will be trouble. First of all, for Kiev, and then the rest of Europe, which despite its fine words and big projects, still buys 39% of its methane from the companies of the Kremlin. That’s right: 21 out of 28 countries depend on Moscow to a great extent. It is odd to admit that the goal of a single market and European integrated energy is still far from being accomplished. It is a project as old as the postwar dream of integration: even Robert Schuman in his declara-

tion of May 1950 suggested the creation of CECA, the European Community of Coal and Steel, “to oppose the international cartels that aim at the distribution and the exploitation of national markets with restrictive practices and which maintain high profits”. The recipe was clear to the then French Foreign Minister: “Merge the markets and expand production.” Sixty-four years later, the construction of the site remains open. In order to harmonize and liberalize the internal energy market, between 1996 and 2009 the European Union adopted three packages of legislative measures aimed at boosting the


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transparency of rules, consumer protection, supporting interconnection, and attaining adequate levels of supply. The third group of rules was drawn up in April 2009, and rather resembles what we would need. To intervene on the organization of the companies, establishing the principle of separation of supply and production activities and the management of networks. To strengthen the national regulatory authorities. To promote solidarity through the coordination of national emergency measures and the development of the interconnections of gas. This third energy package, which came into force on March

3, 2011, “in several Member States has not yet been transposed and implemented in full,” say European sources. And the EU is “not on track to meet the 2014 deadline for the completion of the internal energy market.” The market is integrated, but it rather resembles a puzzle of assembled pieces that are not necessarily compatible. The European summit in June called on states – that is, itself – to accelerate progress towards integration so as not to miss the appointment at the end of the year. On paper, the pilot objective is the definition of the large grid on which to extend the relative objective for the interconnection of installed electricity capacity of 15% by 2030, taking into account the impact on the costs and the potential trade in the regions involved. The 28 States of the European Union have already

voted to ensure interconnectivity of 10% within six years. The effort is in progress. The common network is needed in order to be more secure, reduce spending and hence prices, and thereby the dependence on third-party manufacturers, which has increased in recent years. During the last crisis between Moscow and Kiev that led the Russians to close the pipelines of the southwest, the Commission has repeatedly stressed that the problem was not the amount of gas available in the Baltic countries or in Slovakia, but the possibility of rapidly redistributing the existing gas, thus running the risk of not being able to turn

on the heating. Many countries, starting with France and Germany as well as Italy, had sufficient stocks to intervene on behalf of the former Iron Curtain countries left without any. The hurdle to overcome was related to how to get the methane to destination without having networks connected in a pan-European grid. This problem is as banal as it is paradoxical. It would suffice to have a common network, of course. But not everyone agrees in the same way. What should be done? Marry the networks, for example. Starting along that path, the Commission has estimated that until 2020, approximately 200 billion euros of investments in energy infrastructures across Europe will be required. Brussels has identified 33 infrastructure projects that it considers crucial to the EU’s energy security. It has

achieved only a part of them. Numerous items of expenditure have been included in the 12star budget: there is a dowry assigned to the trans-European energy networks (TEN-E), designed primarily to pay for feasibility studies. The funds allocated to the regions of convergence can make a significant contribution, while tools are being implemented to tie in the EIB, the European Investment Bank. This money could end up as a matter of priority in the 12 priority corridors and areas relating to the networks for the transport of electricity, gas, oil, and carbon dioxide. Furthermore, last year the Commission drew up a list of 248 projects of common interest which it found to be compatible with the common objectives, from traditional to renewable energy through energy efficiency (homes are responsible for 40% of consumption) and the network. The outgoing Commissioner for Energy, Günter Oettinger, always reminds us that “work on the definition of key infrastructure projects that need to receive the support of the EU in the years 2014-2020, have to be concluded in the fall of this year”. In the face of the crisis, to respond to the common request coming from the capitals for a counter-cyclical action to sustain the demand through fresh investments, the new President of the EU executive, Jean-Claude Juncker, announced a 300 billion euros plan which is expected to have a strong Keynesian component. Energy is one of the pillars on which the initiative must stand. There will be some new money that will fuel the interest of the private sector, especially the large pension funds that are hunting for safe and guaranteed application. It is necessary to create a virtuous module that acts as a catalyst of interest. Feasible, really. So then, the problem is not money. With low interest rates, liquidity is as abundant as ever. What we need are clear plans and willingness to accompany them with EU government guarantees, through the budget of the EIB or that of the European

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Union. One effective way would be project bonds, which last spring came out of the experimental phase begun more than two years ago. There must be the political will to move forward. Together. Since we are talking about integration, Germany – today undergoing a tough transition in exiting from nuclear power – is accused of failing to be open with the right enthusiasm toward others. “They want to protect their own,” says one EU source. Now the tensions on the eastern front, the tug of war with Moscow, and the need to put fresh blood into the body of an asphyxiated European econ-

In order to harmonize and liberalize the internal energy market, between 1996 and 2009, the European Union adopted three packages of legislative measures omy could change the attitudes of Frau Merkel on her coalition government. Unite and diversify. The Commission estimates that the net annual benefits of the sharing of reserves would be half a billion euros, while additional gains would be in the order of four billion euros through the use of smart grids to help meet the demand. Straightening out the network would have effects on the economy and, once in place, even on energy prices, which are much higher in Europe than those of international competitors, starting with the United States. Everything conspires to say that there is no time to lose. However, in many chancelleries, there are those who are hiding their heads in the sand of bilateralism and market protection. Which, as we have seen in recent years, is more of a problem than a solution.

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In interview

In defense of consumers The Internet, privacy protection, and food safety are many aspects of competence of the European Commission that have to do with consumer interests. There is the BEUC to ensure that they are always protected. Its director Monique Goyens has illustrated for us the expectations and views of a body which has great importance in the international relations of the European Union.

interview with Monique Goyens General Director of the BEUC by Martino Cavalli Journalist photographs by White

“Our greatest success? Easy, just think of roaming charges. All Europeans use mobile phones and they often do so in other EU countries: well, the cost of roaming has gotten lower and lower and now work is being done to definitively eliminate it. Isn’t that amazing?” Monique Goyens is the General Director of the BEUC (Bureau Européen des Unions de Consommateurs), the agency in Brussels that represents the interests of consumers and therefore has to put pressure on the European Commission to ensure that its directives never lose sight of the interests of this transversal category. And although public attention in recent years has been focused rather on economic issues, Brussels can do a lot in this direction. Such as in the food industry, for example, with the rules on labeling and indications of origin, or on the terms of the contracts that today allow you to change your mind and return a purchased good. Of course, there are also some weaknesses.

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What are the areas in which the most work is to be done? First of all, I can think of the activities linked to the Internet, where there is a universe of rules, sometimes very good ones, but which are outdated by now because they often do not take into account the development of the Internet itself. Could you give us an example? Surely one concerns what happens when you buy software: if there is the physical media, such as a dvd for example, the purchase is covered by warranty, which does not happen if it is downloaded directly online. Or the directive on package travel, dating from 20 years ago: today you can book hotels, rental cars, and other services from the site of a low-cost airline.

There are countries in Northern Europe, for example, that have a higher level of consumer protection than others. But the European directives are there to standardize rules and regulations throughout the Union

The world is changing and so is European legislation struggling to keep up? Yes, in fact that is quite true. I would say that with regard to the digital world, the very concept of an internal market, of a single European market that is well established in many other fields, still has to make significant progress. Italy will hold the presidency of the European Union until the end of 2014. Is there any dossier on the table that you would like to see ‘sped up’ by Italy? What comes to mind is the issue of privacy protection, concerning which there is a very ambitious directive text that has had some difficulties in the Council (the institution that brings together the ministers of the individual EU countries). It would be important if Italy could give impetus to this text, which is really important for all European citizens. Speaking of Italy, how would you rate the country’s level of consumer protection? We know that the ‘champions’ are the countries in Northern Europe ... Yes, they are countries that have a tradition in this sense. But that is exactly what the European directives are for: to standardize

Regarding the digital world, the very concept of an internal market still has to make significant progress. There is a universe of rules, sometimes very good ones, but which are outdated by now


rules and regulations throughout Europe. Italy has achieved excellent results in this sense: its Antitrust Authority, for example, is very active and has demonstrated a strong ability to intervene in defense of consumers. However, consumers in Europe do not seem to have much confidence in the level of protection. The Consumer Conditions Scoreboard survey showed rather disappointing results. We mustn’t generalize. The aggregated data is an average of countries with different situations and especially in areas that are very different from one other. We are quite aware that there are some activities, such as banking services, in which satisfaction is still low. Of course, we are working and no one is resting on their laurels, although I would like to reiterate that compliance with the European directives is up to the individual, and in order to do so in the best way, financial resources are needed which unfortunately are not always available. The European Union is involved right now in a difficult negotiation with the United States for the creation of a large free trade area, precisely between Europe and America. The impression is that Europe is afraid of losing some of the results it has gained with effort. An example for all is that of chlorinated chicken, which the press has spoken about a lot ... There is no doubt that the free trade agreement between the EU and the United States, the so-called TTIP, is one of the great challenges we face, and in fact we do not want to have to give up the results that we Europeans have already achieved. This story of chlorinated chicken has sort of become the symbol of this volition.

of breeding and slaughtering of chickens protected as far as possible from the risk of bacterial infection such as salmonella. How is that done? This approach is commonly referred to as ‘farm to fork’, which requires a series of steps in the production chain to ensure that the food sold to the final consumer is actually healthy. In the case of poultry, the hygienic rules of the breeder begin with the use of appropriate clothing and footwear, designed to avoid carrying around bacteria on the farms. Then there is the need for a series of measures in transport and slaughtering, and the way the meat is processed at the end. Doesn’t all this happen in the United States? On the contrary, in the United

States, they prefer to act only at the last step, that is, by subjecting the chicken meat to an antibacterial ‘chemical wash’ before sale. Now, beyond the fact that it may seem particularly unpleasant to wash chicken meat with a product that we use for cleaning toilets, chlorine to be precise, I think that Europe should not accept the use, and therefore, not even the import of chemically treated meat. But can a free trade agreement between the two most industrialized areas of the planet be sacrificed due to chicken meat? Put like that it does sound a bit insolent, but certainly we should not and we cannot sacrifice the level of public health and consumer protection in exchange for advantages in negotiations with the TTIP.

Can you tell us about it? Certainly. Also because it perfectly expresses the diversity of approach in consumer protection. In Europe, where the security level is very high, it was decided to have the entire chain

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Sc scenarios

Economy bridges made of paper We often hear about the anti-euro faction, convinced that at the root of the economic problems of some countries such as Italy and France there is the creation of the single currency. But are there really a lot of these voices, or is it just hearsay without representing a common opinion? In a time of uncertainty, the only thing that is clear seems to be the superficiality of this attitude and the strength that the euro can represent. by Alessandro Barbera Journalist

What has happened to the euro? Is it possible that the greatest utopia created by post-war politics has quickly turned into the nightmare of millions of citizens, the scapegoat for all the evils of Europe? Today, the unpopularity of the euro is the result of an error of perspec-

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tive. It is wrong to believe that in the years of crisis, Europe has not changed: the process of integration has been faster than in the previous sixty years. The steps forward have been sudden, contradictory, and often in the wrong direction. The problems of the euro architecture are largely unresolved: a single currency built around different economies, segmented and fragmented markets, and without a real European government. Yet even in the worst moments of the crisis, no-one really felt like putting their permanence in the eurozone into question. Some people did – in Italy and France – but at the most, intercepted the belly of an electorate that finds the euro to be an easy answer to the great problems of the two glorious and ailing nations. In 2007, Tommaso Padoa-Schioppa said: “With the single currency, Europe overcame the Asian and Russian financial crises of the late ’90s, the attacks of 2001, the bursting of the bubble in technology stocks, and the sharp rise in crude oil prices. Without the

single currency we would probably have reached this point while dying, if not already dead.” Today the anti-euro arguments are popular but never really enforced. How many would be ready to face the global competition alone? What would become of the tranquility of banks and businesses used to operating without exchange risks, with their backs covered by a European Central Bank, a web of cash flows and investments that is based on the presence of a common currency? What would become of the peace of families that can take out a mortgage without fear of frightening fluctuations in interest rates? In the years of the crisis, without detracting from the responsibilities of countries in difficulty – Italy, Spain, Greece, Portugal – Germany’s Angela Merkel has transformed the difficulties of a political project and a continent into the sum of faults and failures of individual countries. Berlin, Brussels, and Frankfurt have imposed, as the only priority binding the individual states, adopting economic policies

that are sustainable in the long term. This is a forward-thinking choice, but one that has come to stratify bureaucratic controls and procedures, by subjecting the member countries to all too frequent checks on national policies. If there is one country that has taken advantage ever since the changeover to the introduction of the single currency, it has been Germany. Statistics show that between 2002 and 2010, the German economy exported capital of a thousand billion euros. Flows of money that were invested above all in the securities of the countries of southern Europe. German investors are satisfied because they are raking in handsome profits in the face of a low risk. Debtors are equally pleased, because the public debt is easily underwritten at reasonable costs and without worrying about the reforms. The alleged virtues of the countries of the North discourage those in the South from following them on their own road, in a kind of carry trade (financial transaction with which a country procures a lower cost of borrowing


english version

How many would be ready to face the global competition alone? What would become of the tranquility of banks and businesses used to operating without exchange risks, with their backs covered by a European Central Bank, and of families?

funds, which are then used in a country with high interest rates, editor’s note) between economies, masked by belonging to a common currency. But who would have thought then that one or more of the euro countries could actually fail? Who would have bet on the arrival from the United States of a financial crisis unprecedented in the last century? Someone will say: all of these are good reasons in favor of a return to national currencies and the flexibility that they guaranteed. Let us leave aside for a moment the question of costs, assuming that leaving the euro would result in an immediate default of all the major corporations and banks in weaker countries, including Italy. And let’s leave out the legal argument, if it is really possible to do so. Those who support the thesis of a return to national currencies do not say (or worse pretend not to know) that the devaluation of currency, which was in vogue in the ’70s and ’80s, does in fact allow for recovering competitiveness, but it only works if it

does not cause inflation. If it is used to finance the States, the outcome is a certain increase in interest rates and public debt: exactly what happened thirty years ago, before the ‘divorce’ between the Treasury and the Bank of Italy. The alternative – as in the ’70s – would reintroduce controls on capital movements, forcing the citizens, the central bank, and other banks to necessarily finance debt. The advocates of a return to the lira have a short memory: the decision to build a single currency was not the result of the desire for power of the Germans, whose currency had been the dominant one in Europe since World War II – but of those who then suffered from the strength and the decisions of the Bundesbank. It is true that the euro and its governance have been built in the image and likeness of the German mark, just as – always easier in retrospect – you could question some of the conditions that Italy agreed to in order to join the club. This does not mean that the euro wasn’t a step forward, and not

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backward, by subtracting European economies from the hitherto unchallenged domination of German influence. Just try to imagine what the shock wave of the 2007-2008 crisis would have been like, when the subprime mortgages from the Atlantic reached the shores of the Mediterranean. Before the beginning of the financial crisis, the euro was contending the role of a reserve currency with the US dollar. In 2012, emerging countries such as China and Brazil lost confidence in the euro, and their central banks reduced reserves in euro by 8%, and the rise of the European currency was interrupted. Since then, in order to fill the space left and to mark the new geopolitical balance, it has been up to the Chinese renminbi, while the euro has had to deal with deflation. However, upon a closer look, this time the problem is not caused by the architecture of the euro, but by the old foundations on which Europe has decided to continue to support itself.

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In interview

Schengen: travel is free The abolition of borders between different European states was undoubtedly a revolutionary process, not only for citizens but also for trade and consequently the economy. But what now seems a matter of fact has had a thirtyyear history, specific access requirements and a clear idea of freedom and security.

interview with Yves Pascouau Director of Migration and Policy Mobility of the European Policy Center by Cecilia Toso

What has become a habit today, moving back and forth between the territories of different European countries without having to worry about border controls, is actually a revolutionary milestone. But, as often happens, we have forgotten what life used to be like for travelers, if we exclude the nostalgic moments when we think back to the long lines at the border, or when we set foot in one of the European countries that were unwilling or could not join the Schengen area. And above all, we know very little about how this important achievement of free movement came about. Therefore, we have spoken with one of the people who is responsible daily for our mobility in Europe, Yves Pascouau, the Director of Migration and Policy Mobility of the European Policy Centre, an independent think tank specialized in integration. How was schengen converted from an agreement by 5 States to an essential part of European Union law? The story of the Schengen Area started in 1984 in France and Germany. At that time, both States were performing checks at their common land border,

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creating major traffic problems. The existence of long queues of lorries, buses, and cars was a double failure: the proclaimed freedom of movement was not ensured in Europe and internal border checks had a strong economic impact in delaying goods and products from being rapidly delivered in the Common Market. In order to overcome this situation, in 1984, France and Germany decided to sign a bilateral agreement establishing the progressive suppression of border checks between them. Belgium, Luxembourg, and the Netherlands, already engaged in a similar type of cooperation, asked to join the project. It started a few months later with the 1985 Schengen Agreement which was supplemented five years later with the Schengen Implementing Convention. Under the Schengen Agreement, signed on June 14, 1985, five countries committed themselves to gradually abolishing

the borders between them, accompanied by more effective surveillance of their external borders. It established: short-term measures simplifying internal border checks and coordinating the fight against drug trafficking and crime; and long-term measures such as the harmonization of laws and rules on drug and arms trafficking, police cooperation, and visa policies. The Convention implementing the Schengen Agreement, signed on June 19, 1990, set out how the abolition of internal border controls would be applied, as well as a series of necessary accompanying measures. It aimed to strengthen external border checks, define procedures for issuing uniform visas, establish a Schengen Information System, and take action against drug trafficking. The implementation of the Schengen Agreements started in 1995 with the abolition of borders controls between the five founding States and also

Spain and Portugal. From that point onwards, the Schengen Area has constantly expanded to new States. While developed as an intergovernmental cooperation, the Schengen Acquis (the 1985 Agreement, the 1990 Implementing convention and decisions taken by the Schengen executive Committee) was integrated into the legal framework of the EU by the 1999 Treaty of Amsterdam. What requirements do States have to meet in order to join the Schengen Area? Joining the Schengen Area is a technical and political decision. From a technical point of view, applicant countries must fulfil a list of pre-conditions, such as their readiness and capacity: to take responsibility for controlling the external borders on behalf of the other Schengen countries and the issuing of uniform Schengen visas; to cooperate efficiently with law enforce-


ment agencies in other Schengen countries, in order to maintain a high level of security once border controls between Schengen countries are abolished; to apply the Schengen Acquis including inter alia control of land, sea, and air borders (airports); issuing of visas; police cooperation, protection of personal data; to connect to, and use the Schengen Information System. The European Commission evaluates whether the applicant State fulfils the requirements. If so, the European Commission issues a report stating that the conditions for joining the Schengen Area are technically met. The full participation in the Schengen Area is made conditional upon a political decision taking the form of a unanimous decision made by the Council of Ministers of the European Union. This double mechanism explains why Romania and Bulgaria remain outside the Schengen Area. Although these States

have satisfied the technical requirements, there is still no unanimity among the States to let them in.

ing from Ireland or the United Kingdom to the Schengen Area are subject to border checks at Schengen Area entry points.

Does any European Union Member countries have not adhered to it yet and why? Is the free movement of their citizens in the Area restricted accordingly? While some States are in the process of becoming a Member of the Schengen Area, the United Kingdom and Ireland choose not to take part in this project. This decision does not affect the rights of freedom of movement their citizens enjoy under EU law. More concretely, UK and Irish citizens have the right to enter and reside in another Member State for up to three months or for work, family, or study purposes for a longer period. By remaining outside the Schengen Area, United Kingdom and Ireland continue to perform border checks at their external borders. Conversely, people fly-

It is also commonly perceived that the abolition of controls on persons, whatever their nationality, when crossing internal borders represents a danger for the security of the European Union. Do you share this concern? It is a widespread idea that the Schengen Area brings ‘security deficit’. It should be underlined that from the very beginning, the Schengen cooperation (the 1985 Agreement and the 1990 Convention) has devoted several provisions to police and justice cooperation in a number of fields related inter alia to combating crime, particularly illicit trafficking in narcotic drugs and arms, the unauthorized entry and residence of persons, customs and tax fraud, and smuggling. Cooperation in the security field has constantly evolved over the years. Hence, and since the opening of internal border checks, the Schengen zone has not been transformed into an insecure Area to live and travel in. In what situations is a Member country authorised to reintroduce internal border controls? Member countries are allowed to reintroduce internal border checks for one reason; where there is a serious threat to public policy or internal security. This can happen in three specific situations: immediate action (Utoya massacre), planned situation (sports events) or where deficiencies in controlling external borders constitute a serious threat to public policy or internal security within the area without internal border control or within parts thereof. In all of these cases, reintroduction of internal border checks has to follow a spe-

cific procedure and should be temporary.

The European Policy Center continuously works on a range of themes, also covering mobility and immigration. In order to clarify for States their obligations on these issues stemming from their membership in the European Union. Last year you and some other researchers launched an interesting project? The European Migration Law project has been developed alongside my position at the European Policy Center. Gathering a group of lawyers and academics, the project is based on one strong belief, rights created by EU immigration and asylum law will produce their full effect if professionals and practitioners know those rules and use them. But professionals and practitioners (judges, lawyers, trade unions, social workers, academics, researchers, NGOs, governments, international organizations ...) may struggle to keep on top of constantly evolving EU rules and their interpretation by the Court of justice of the EU. EuropeanMigrationLaw.eu has been developed to respond to their needs. It is a useful tool that offers direct, simple, and updated information on legal and jurisprudential developments in this particular field. In addition, the website offers users the possibility of subscribing to regular updates sent by e-mail informing them about relevant news (texts, jurisprudence, reports, press releases, etc) adopted at EU level.

The full participation in the Schengen Area is made conditional upon a unanimous decision made by the Council of Ministers of the European Union 155


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Ef enel foundation special

Cities are the ‘raison d’être’ To make a continent, it takes a city. In many ways, Europe is based on its urbanization, a process that has made it what it is today. But the world is changing, its requirements are changing, and in order for the countries of the European continent to have healthy and competitive economies and societies, their citizens and institutions must unite to improve their cities. by Oriol Nel·lo Professor of Urban Geography, Universitat Autònoma de Barcelona

The contemporary process of urbanization has European origins, for the most part. It was in Europe that at the end of the eighteenth century, the necessary economic and political changes took place, allowing cities to extend their physical and legal boundaries and begin their gradual territorial expansion. And once again, it was in Europe, with the end of the Ancien Régime and the birth of industry triggering the increase in urban populations, that the first modern metropolises emerged. Ultimately, it was largely in Europe that the foundations were laid for changes that would lead to the expansion of the urbanization process and to the formation of the world system of cities. This process has continued over the past two centuries until reaching the current situation, in which the vast majority of the European population (73%) lives in areas classified as ‘urban’, and the habits and conditions of urban life, first exclusive only to a part of the territory, have reached almost all the European area. Thus, it is not surprising that in studying the role of cities in the history of Europe, Leonardo Benevolo saw them as the “raison d’être, perhaps the main

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Any reflection on the future of Europe must therefore first of all consider the challenges and opportunities that the historical process proposes for its cities


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one, of Europe as a distinct historical entity.” Any reflection on the future of Europe must therefore first of all consider the challenges and opportunities that the historical process proposes for its cities. To any attentive observer, the picture that emerges from this reflection will present a number of chiaroscuri, just as if it were a painting by Caravaggio or Zurbarán. On one hand, it is clear that European cities now offer a good part of the population levels of well-being, security, and culture that are among the highest on the planet. On the other hand, it is undeniable that these benefits do not cover all the citizens, they have very high environmental costs, and find themselves under serious threats. In fact, in general terms, European cities enjoy a high quality of urban services, infrastructures, and housing – both in terms of construction, surface per inhabitant and access to urban services – which many other urban realities, developed through processes of more informal and polarized growth, do not have. Furthermore, European cities are found in the most accessible areas on the planet, and they generate a substantial part of the goods and products consumed worldwide. Finally, despite the persistence of substantial inequalities, today European cities offer the majority of their population levels of personal security and access to basic services – health, education, social protection – that are not so common in other parts of the world. This reality, which is the result of a largely troubled history full of effort and hope as well as conflicts and unspeakable tragedies, is now facing substantial historical threats. First, in many European cities, the average age of the population is increasing dramatically. In some cases this factor, combined with economic restructuring, is causing depopulation (some examples are Łódz´,

Liverpool, or Leipzig), while in others, is attracting immigrant populations that are not always well accepted. On the other hand, European cities consume large amounts of resources and contribute to a significant extent to the fact that the ecological footprint of the inhabitants of Europe is now more than twice the global average. It is also to be taken into account that many European cities are highly vulnerable to the effects of climate change. In addition, a substantial part of the resources consumed in them comes from other regions of the globe, making European society highly dependent on external inputs. Furthermore, this set of changes is taking place at a time when the global economy is causing rapid and profound changes in the hierarchy of the world urban system and the location of the centers of gravity of power. This means that – unlike what happened at the dawning of the contemporary process of urbanization – the major urban centers of the world tend to be outside of Europe and that cities like Milan or Turin, for example, now no longer have Amsterdam or Barcelona as their major economic competitors, ​​but cities of Southeast Asia or Latin America that many Europeans would find difficult to locate on a map. In this context, the future largely depends on the way in which Europe will be able to take advantage of its undeniable assets and deal with the serious challenges that are arising in its urban areas. The role of the government of cities, regions and, ultimately, Europe, will be crucial. Some of the most important pacts that have contributed to shape contemporary European cities are undoubtedly the process of the European institutional construction and the acceptance, after the great convulsions of the first half of the last century, of the economic system in return for the guarantee of general well-being and universal access to basic services.

Today, these basic agreements are at risk in much of Europe, threatened by the evolution of the economic situation and deregulatory pressures. Therefore a new social and political impulse is needed on a European scale in order to reverse the trend and ensure that all European cities continue towards greater social equity, efficiency in service management, environmental protection, and democratic quality of their governance, that is, those elements that, despite all the limitations, gave the city its distinctive European character. In recent decades, urbanization has spread throughout the territory, creating large areas of low-density settlements. This dynamic has contributed greatly to the deterioration of the consolidated parts of cities and the segregation of certain social groups, it has also fragmented open spaces, and increased the need for citizens’ mobility (resulting in higher energy and infrastructure costs) and made the cost of basic services increase. It is essential to correct and manage the effects of these processes, so as to protect environmental quality, efficiency, and social cohesion of European urban areas. In order to do that, collective projects for the development of cities, that are only possible through the public-planning tools oriented by European guidelines, need to be democratically established by the citizens. Closely linked to this issue is the need to reduce the environmental impacts of the urbanization process. European institutions have established ambitious goals in this field, in such a way that energy efficiency programs and the progressive introduction of new sources of renewable energy have met with some success in recent years. However, it is clear that it will be impossible to reduce the consumption of energy and resources in urban areas without a progressive yet radical, change, in lifestyles and patterns of consumption, which is still a long way off. The idea that technological im-

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provements and IT – smart cities and big data – can solve urban problems by themselves is a mirage: the more powerful the technologies and the greater the amount of data, the more necessary it will be for politics to manage the use of both for the benefit of the community. The challenges of the territory and the environmental impact are accompanied by very relevant social problems. These make necessary changes in policies both at the European and at the city level: the rehabilitation of neighborhoods, public transport, and the protection of housing rights are essential to avoid an increase in social disparity in cities and to prevent the territorial factors from becoming one more barrier to equal opportunities. The transformation alone of cities will not solve the inequalities in European societies but can help to make them more equitable. This set of initiatives on planning, the environment, and urban policies clearly requires a strong political will. There is a need for citizens to be involved and active, and political forces and institutions to be able to transform this momentum into concrete actions by governments. There is need for a rescaling of European politics, a double impetus to strengthen the governance mechanisms on a European scale while giving the opportunity to the people to decide on the basic issues at the regional and urban level. This reorientation should involve first a decisive improvement in the EU’s ability to contribute to urban policies, which are a key element for the environmental quality, economic efficiency, and social cohesion of Europe. Secondly, urban governance needs to be enhanced in order to promote transversal policies, cooperation between governments, citizens’ participation, and the quality of democracy in making decisions and assessing public policies. It is only through this renewed political impetus that Europe’s raison d’être will continue to be found in its cities.

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Id in-depth

Open, data Convergent data that gathers new information from the admixture and from which comparisons are made: the kind of knowledge that is open and ready to be exchanged for transversal usage without borders or owners. This is the scenario that open data offers, which is an opportunity that Europe has already partly cultivated and on which significant progress is being made in order to make the passage of knowledge between Member States more fluid. by Alberto Cottica

Economist

Many believe that data is the new oil, the fuel powering growth in the 21st century Governments, corporations, and other organizations collect and process data in order to perform their functions and achieve their goals. When such data is published so that it can be reused, it is called open data. Businesses can reuse it to orient their decisions; civic leaders and activists to monitor their government’s performance; scientists to enhance their research. Open data can be combined across different data sources, giving rise to compounds whose information value is greater than that of the sum of its parts. Imagine a list of driving accidents, collected from police reports. For each episode, the report lists the date and time, the place, the number of injuries, and fatalities. Now imagine you have map data that can localize addresses on a map. If you superimpose your list of accidents on the map, you get a map of driving accidents. Previously hidden knowledge is suddenly revealed: are there any patterns? Are some areas

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more accident-prone than others? Does the proximity to certain landmarks play a part? You can’t extract this information from the list of accidents alone, nor, obviously, from a city map. It is only when you combine the two that you learn new things. Open data is also about opening up new spaces for civic engagement. My own country, Italy, publishes online open data about projects funded by cohesion funds. Citizens can now look up any project they know of and see how much it costs and what stage the endeavor is at. This has spawned a civic monitoring initiative called ‘Monithon’; citizens are encouraged to gather information about government projects and file reports on how the work is being carried out. These reports are then used to enrich the government dataset, allowing the monitoring of public spending to be cheaper, more comprehensive, and open for citizens to participate in. This potential for recombination is the ‘open’ in open data. It requires datasets to be online, in raw form (as granular as possible) and machine-readable (so it can be processed by computers without any human intermediation); additionally, its owners must agree that anyone can reuse it. Openness means that all open data, from whatever source and wherever it is released, is added to a global resource that anybody can tap into. It has considerable potential for business: many believe that data is the new oil, the fuel powering growth in the 21st century. This is a global resource that can fuel democratic participation and the growth of the next century. What’s not to like? And indeed, open data is generally believed to be a good thing. It has no real political opponent, at least in the west. This has allowed the open data scene to make a lot of progress very rapidly. Let the case of Italy illustrate this


english version

point. I was among the founders of Spaghetti Open Data, the main Italian-language Internet resource, in September 2010. At that time there was no national open data portal, nor policy (I am pretty sure that the minister in charge of the public service at the time had never even heard of the word); only one of the twenty Italian regions had released any data at all. There were about 15 people on our mailing list. Four years later, the Italian government does have an open data portal (dati.gov.it launched in late 2011); most regions and many important cities have followed suit; Italy boasts one of the largest open data operations in the world, the mighty OpenCoesione (financial data on six hundred thousand government-funded projects); the Prime Minister Renzi has firsthand experience on the matter, gained in his previous job as mayor of Florence. Most importantly, Italy has spawned a small but effective cadre of civic hackers: activists, developers, and entrepreneurs who are highly skilled at finding new, creative uses for open data. Our mailing list now has one thousand subscribers. Europe’s role The European Union supports the societal shift towards open data. That means leading by example, publishing its own data in open format through a reasonably well-run open data portal and running flagship initiatives such as Europeana, a large meta-library giving access to millions of digitized documents (from books to music, films, museum objects, and archival records) that relate to Europe’s cultural heritage. But above all, Europe’s open data policy means regulation of the Directive on Public Sector Information, issued in 2003 and amended in 2013. As with all things European, the different member countries have come to terms with the data revolution at different speeds and with different degrees of conviction. European regulation has played an

important role in encouraging the less enthusiastic member countries to jump on the bandwagon.

open data. In other countries, like Italy and the Netherlands, the balance is reversed. National governments have been slower Two models: government-led to adopt full-fledged policies; vs. civic hacker-led this has created a space for There is still plenty of diversity activists to seize the initiain Europe. Two models coexist: tive, and maintain it. In these some national governments, countries, the ability of civic probably inspired by President hackers to reuse data (the ‘deObama’s bold stance (he signed mand side’ of open data) has a presidential order making fedgenerally been able to keep up eral data open by default on his with the release of new data very first day in office in 2008), (the ‘supply side’), leading to a have been agmore organic gressively drivgrowth of the I proposed an ing the shift whole scene. Erasmus-like towards open program for open The Nantes inidata. Though activists in these tiative: towards data, so that countries (most a convergence? civic hackers notably the UK Despite trecould learn from mendous progand Denmark) each other and did follow suit, ress and Eurothis gave rise to pean Union inicirculate skills scenes in which tiatives, there and hacks across governments is no contiEurope are the main acnent-wide open tors. The private data scene yet. sector and civic hackers someThe supply side has been hartimes cannot keep up with the monized, with standards and pace of the release of new data; practices for release being more this might lead to a downward or less consistent throughout adjustment of expectations, as the continent. But the same is happened in 2011 in America, not true for the demand side: where the Obama administracivic hackers in one country talk tion slashed the budget of e-govmostly to data providers and ernment policies, including other civic hackers in the same

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country. This leads to a duplication of effort and waste of opportunities: many – probably most – reuse cases could be exported from one country to another. As an example, take archaeological data. Italy has many Roman and medieval sites that generate rich, multimedia data (photos, stratigraphy, notes from archaeologists taking part in the excavations, financial data …), and all of it should be open. But then so do Greece, France, Spain, and many other European countries, and they should be keeping in close contact: solutions that work in one country are likely to also work in the others. Recently, a small group of internationally-minded civic hackers has made a move towards a deeper Europe-wide integration of the open data scene. It all started from one of my own posts: I pointed out that even in a highly successful and lively grassroots open data event – ostensibly the community engagement Holy Grail of European policies – Europe was completely absent from the picture, and I proposed an Erasmus-like program for open data, so that civic hackers could learn from each other and circulate skills and hacks across Europe. This led a French association called LiberTIC to organize a European meet-up calling for Erasmus Open Data in the French city of Nantes. Digital Agenda commissioner Neelie Kroes enthusiastically endorsed it (to the point of claiming it as a Commission initiative, which it is not). The shift towards an open data society is happening, and it only natural that it should happen at the European level. However, continent-level integration is not entirely left to European institutions: the community is playing an important role, often as the trailblazer for the Commission’s moves. For what it’s worth, I think this is a healthy setup, and look forward to its further developments.

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oxygen | 24 — 10.2014

Oxygen 2007/2014 Andrio Abero Giuseppe Accorinti Amylkar Acosta Medina Emiliano Alessandri Nerio Alessandri Zhores Alferov Enrico Alleva Colin Anderson Lauren Anderson Martin Angioni Ignacio A. Antoñanzas Paola Antonelli Marco Arcelli Ben Backwell Antonio Badini Roberto Bagnoli Andrea Bajani Pablo Balbontin Philip Ball Alessandro Barbano Ugo Bardi Paolo Barelli Vincenzo Balzani Roberto Battiston Enrico Bellone Mikhail Belyaev Massimo Bergami Carlo Bernardini Tobias Bernhard Alain Berthoz Michael Bevan Piero Bevilacqua Ettore Bernabei Nick Bilton Andrew Blum Gilda Bojardi Aldo Bonomi Carlo Borgomeo Albino Claudio Bosio Stewart Brand Franco Bruni Luigino Bruni Giuseppe Bruzzaniti Massimiano Bucchi Pino Buongiorno Tania Cagnotto Michele Calcaterra Gian Paolo Calchi Novati Davide Canavesio Paola Capatano Maurizio Caprara Carlo Carraro Bernardino Casadei Federico Casalegno Stefano Caserini Valerio Castronovo Ilaria Catastini Marco Cattaneo Pier Luigi Celli Silvia Ceriani Marco Ciurcina Corrado Clini Co+Life/Stine Norden & Søren Rud Emanuela Colombo Elena Comelli Ashley Cooper Barbara Corrao Paolo Costa

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Rocco Cotroneo Manlio F. Coviello George Coyne Paul Crutzen Brunello Cucinelli Roberto Da Rin Vittorio Da Rold Partha Dasgupta Marta Dassù Andrea De Benedetti Luca De Biase Mario De Caro Giulio De Leo Michele De Lucchi Gabriele Del Grande Domenico De Masi Ron Dembo Gennaro De Michele Andrea Di Benedetto Gianluca Diegoli Dario Di Vico Fabrizio Dragosei Peter Droege Riccardo Duranti Freeman Dyson Magdalena Echeverría Daniel Egnéus John Elkington Richard Ernst Daniel Esty Monica Fabris Carlo Falciola Alessandro Farruggia Antonio Ferrari Francesco Ferrari Paolo Ferrari Paolo Ferri Tim Flach Danielle Fong Stephen Frink Antonio Galdo Attilio Geroni Enrico Giovannini Marcos Gonzàlez Julia Goumen Aldo Grasso Silvio Greco David Gross Sergei Guriev Julia Guther Giuseppe Guzzetti Jane Henley Søren Hermansen Thomas P. Hughes Jeffrey Inaba Christian Kaiser Sergei A. Karaganov George Kell Parag Khanna Sir David King Mervyn E. King Tom Kington Houda Ben Jannet Allal Hans Jurgen Köch Charles Landry David Lane Karel Lannoo Manuela Lehnus Johan Lehrer

Giovanni Lelli François Lenoir Jean Marc Lévy-Leblond Ignazio Licata Armin Linke Giuseppe Longo Arturo Lorenzoni L. Hunter Lovins Mindy Lubber Remo Lucchi Riccardo Luna Eric J. Lyman Tommaso Maccararo Paolo Magri Kishore Mahbubani Giovanni Malagò Renato Mannheimer Vittorio Marchis Carlo Marroni Peter Marsh Jeremy M. Martin Paolo Martinello Gregg Maryniak Massimiliano Mascolo Mark Maslin Tonia Mastrobuoni Marco Mathieu Ian McEwan John McNeill Daniela Mecenate Lorena Medel Joel Meyerowitz Stefano Micelli Paddy Mills Giovanni Minoli Marcella Miriello Antonio Moccaldi Renata Molho Maurizio Molinari Carmen Monforte Patrick Moore Luca Morena Javier Moreno Luis Alberto Moreno Leonardo Morlino Dambisa Moyo Geoff Mulgan Richard A. Muller Teresina Muñoz-Nájar Giorgio Napolitano Edoardo Nesi Ugo Nespolo Vanni Nisticò Nicola Nosengo Helga Nowotny Alexander Ochs Robert Oerter Alberto Oliverio Sheila Olmstead Vanessa Orco James Osborne Rajendra K. Pachauri Mario Pagliaro Francesco Paresce Vittorio Emanuele Parsi Claudio Pasqualetto Corrado Passera Alberto Pastore Darwin Pastorin

Federica Pellegrini Gerardo Pelosi Shimon Peres Ignacio J. Pérez-Arriaga Matteo Pericoli Francesco Perrini Emanuele Perugini Carlo Petrini Telmo Pievani Tommaso Pincio Giuliano Pisapia Michelangelo Pistoletto Viviana Poletti Giovanni Porzio Borja Prado Eulate Ludovico Pratesi Stefania Prestigiacomo Giovanni Previdi Antonio Preziosi Filippo Preziosi Vladimir Putin Alberto Quadrio Curzio Marco Rainò Virginie Raisson Federico Rampini Jorgen Randers Mario Rasetti Carlo Ratti Henri Revol Gabriele Riccardi Marco Ricotti Gianni Riotta Sergio Risaliti Roberto Rizzo Kevin Roberts Lew Robertson Kim Stanley Robinson Sara Romano Alexis Rosenfeld John Ross Marina Rossi Bunker Roy Jeffrey D. Sachs Paul Saffo Gerge Saliba Juan Manuel Santos Giulio Sapelli Tomàs Saraceno Saskia Sassen Antonella Scott Lucia Sgueglia Steven Shapin Clay Shirky Konstantin Simonov Cameron Sinclair Uberto Siola Francesco Sisci Craig N. Smith Giuseppe Soda Antonio Sofi Donato Speroni Giorgio Squinzi Leena Srivastava Francesco Starace Robert Stavins Bruce Sterling Antonio Tajani Nassim Taleb Ian Tattersall

Paola Tavella Viktor Terentiev Chicco Testa Wim Thomas Stephen Tindale Nathalie Tocci Jacopo Tondelli Chiara Tonelli Agostino Toscana Flavio Tosi Mario Tozzi Dmitri Trenin Licia Troisi Ilaria Turba Luis Alberto Urrea Andrea Vaccari Paolo Valentino Marco Valsania Nick Veasey Matteo Vegetti Viktor Vekselberg Jules Verne Umberto Veronesi Alejo Vidal-Quadras George Vidor Marta Vincenzi Alessandra Viola Mathis Wackernagel Gabrielle Walker Elin Williams Changhua Wu Kandeh K. Yumkella Anna Zafesova Stefano Zamagni Antonio Zanardi Landi Edoardo Zanchini Carl Zimmer

Testata registrata presso il tribunale di Torino Autorizzazione n. 76 del 16 luglio 2007 Iscrizione al Roc n. 16116 Finito di stampare a ottobre 2014 presso Tipografia Facciotti, Roma


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Europa: l’accordo perfetto

Istituzioni, assemblee, palazzi importanti e uffici sparsi per tutti gli Stati membri: l’Unione europea a volte può sembrare distante e difficile da comprendere. Ma è più vicina di quanto sembri. È nel portafoglio, nei documenti, nella libertà, nel cibo, nel sacchetto della spesa, nel lavoro, nella scuola, nella tranquillità nazionale. E così l’Unione deve essere riconosciuta, come l’organizzazione che da molto tempo condiziona positivamente il nostro presente e il nostro futuro. In occasione dei sei mesi di presidenza italiana al Consiglio europeo, Oxygen racconta l’Europa com’è oggi e com’è stata in passato, spiegando la sua influenza positiva e riflettendo sui continui passi ancora da compiere. Perché, come sosteneva Jacques Delors, «L’Europa è come la bicicletta: se non va avanti, cade».


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