OXYGEN N. 25 - Impronta Digitale: L'uomo e le sue macchine

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Ed

editoriale

UNA SFIDA PER L’UOMO di Riccardo Luna Giornalista, Italian Digital Champion

Il mondo potrebbe avere davanti a sé un grande, grandissimo problema. Anzi, una minaccia letale: l’intelligenza artificiale ci distruggerà? Siamo fatti così, il progresso ci affascina e ci spaventa 010


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«Man is still the most extraordinary computer of all» John Fitzgerald Kennedy

vete letto un giornale o guardato la tv ne g ultimi tre mesi avrete sicuramente capito e il mondo ha davanti a sé un grande, gran dissimo problema. Anzi, una minaccia leta le. No, non è il terrorismo islamico dell’ISIS. E nemmeno la crisi economica che porta i tassi di disoccupazione nelle economie ma ture a doppia cifra. Non è il virus dell’Ebola. E nemmeno il riscaldamento globale che sta facendo impazzire il clima provocando mi gliaia di morti ogni anno. No. La minaccia letale è (sarebbe) l’intelligenza artificiale. Oramai sui media è un tormentone. «Anche Tizio si associa all’allarme di Caio». «Pure Sempronio firma l’appello degli scienziati». Nel mirino i computer, sempre più potenti, sempre più intelligenti. Ci distruggeranno? L’intelligenza (artificiale) ci distruggerà? La questione è evidentemente molto seria, eppure va detto che l’allarme, anzi, la dina mica che lo genera non è affatto nuova. Senza sco modare i luddisti di ini zio Ottocento, nel 2000 fece scalpore un saggio scritto da Bill Joy per “Wired” intitolato Perché il futuro non ha bisogno di noi. La tesi era che il pro gresso sempre più rapido nel campo della robotica, dell’ingegneria genetica e delle nanotecnologie avrebbe alla fine messo in pericolo l’esistenza stessa della specie uma na. Bill Joy non è certo un nemico della tecnologia, anzi: co fondato re di Sun Microsystem, ai tempi era il chief scientist del colosso della Silicon Valley. Insomma, per usare una categoria cara a Umberto Eco, Bill Joy era un integrato, che a un certo punto sentì il bisogno, o meglio, l’onestà intellettuale di metterci in guar dia dal positivismo tecnologico per cui le “macchine” fanno solo cose meravigliose. E divenne apocalittico. Dicevo che questa dinamica in realtà è sem pre esistita. E quindi credo se ne possa de durre che discenda direttamente dal modo in cui siamo fatti. Il treno è stato considerato “uno strumento del demonio” persino da un pontefice; nel Regno Unito l’automobile era un pericolo da segnalare con la bandiera ros sa; e anche l’energia elettrica negli Stati Uniti è stata guardata con sospetto («Chi ne ha dav vero bisogno in fondo?» chiedeva due secoli

fa un politico locale che sarebbe poi finito ad dirittura a Washington). Ricordare oggi que ste prese di posizione, così clamorosamente fuori sincrono con la direzione che ha pre so in seguito la storia, non vuol dire negare che ci siano stati incidenti ferroviari tragici, che ogni giorno molte persone muoiano per strada o che con l’energia elettrica qualcuno possa rimanere fulminato. Ma il saldo positi vo portato all’umanità nel suo complesso da queste invenzioni è indiscutibile. Con l’intelligenza artificiale è diverso, dicono alcuni. Stavolta siamo davvero in pericolo. Se possiamo identificare un momento in cui nel mondo è ripartito questo atteggiamento apo calittico, quel momento è il 2 dicembre 2014. Quel giorno sul “Financial Times” e su alcuni altri giornali appare un’intervista allo scien ziato Stephen Hawking. Hawking è un’autori tà: fisico, matematico, cosmologo, per 30 anni a Cambridge ha occupato la cattedra che fu di Albert Einstein. Hawking è famo so non solo per i suoi studi sui buchi neri e l’origine dell’universo, ma anche per la terribile malattia che lo costringe all’immobilità assoluta e a comunicare grazie a un sintetizzatore vocale (e a scrivere con uno strumento pioneristico che si basa sull’intelligen za artificiale). Insomma, la sua immagine sofferente e sorridente è un’icona della scienza contempora nea. Quando parla Hawking, il mondo ascol ta ammirato. E così il suo grido di allarme «L’intelligenza artificiale può distruggere il genere umano» è stato scolpito a caratteri cubitali sui siti dei giornali di tutto il mondo. E nel giro di poche settimane è spuntato un appello firmato da centinaia di scienziati spa ventati dai robot; un’intervista contrita di una delle figure simbolo della Silicon Valley ram pante e rombante, Elon Musk; fino alla chat globale di Bill Gates sulla piattaforma Reddit, iniziata parlando di vaccini per i bambini nei Paesi poveri e finita puntando l’indice contro le macchine cattive. Ma è andata proprio così? Partiamo da Stephen Hawking. Cosa ha det to esattamente? Ha detto che l’ingegneria genetica ci consente di migliorare il nostro DNA e quindi la qualità della razza umana, ma che ci vorranno 18 anni per vedere i pri

Quando parla Hawking, il mondo ascolta ammirato. E così il suo grido di allarme è stato scolpito a caratteri cubitali sui siti dei giornali di tutto il mondo

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mi effetti benefici di questa trasformazione. Invece, come è noto, per la legge di Moore ogni 18 mesi la velocità e la capacità di cal colo dei computer raddoppia. 18 anni con tro 18 mesi. Il rischio è che la nostra lenta evoluzione biologica non ci renda in grado di competere con la rapidissima evoluzione tecnologica. Siamo spacciati allora? Calma: «La probabilità di una fine catastrofica del pianeta Terra diventerà una certezza nei prossimi 1000 o 10.000 anni». Mille o dieci mila? Fa una certa differenza, no? In fondo no: se il primo scienziato del mondo dice che possiamo stare relativamente tranquilli per almeno mille anni, dovremmo esultare. E soprattutto fra le minacce alla nostra so pravvivenza come specie umana, Hawking non cita l’intelligenza artificiale ma «le guerre nucleari, il riscaldamento globale e i virus geneticamente modificati». L’intelli genza artificiale no. E allora perché quei ti toloni, l’allarme planetario di tweet in tweet, le interviste raffazzonate (“Anche lei come Hawking teme l’intelligenza delle macchi ne?” “Sì, certo, un po’ di timore non si nega a nessuno”). Sono poi andato a vedere il famoso appello di centinaia di scienziati contro i rischi dell’in telligenza artificiale. Fa capo a un nuovo istituto chiamato Future of Life. Si presenta con questa frase: «Technology has given the opportunity to flourish like never before… or to self destruct». Tra le due strade, quelli 012

di Future of Life non hanno dubbi su quale prendere: «Noi catalizziamo e supportiamo iniziative e ricerche per la salvaguardia della vita e lo sviluppo di una visione ottimistica del futuro». E l’appello catastrofista dove sta? Si chiama Research Priorities for Robust and Beneficial Articial Intelligence, ha la for ma di una Open Letter, una “lettera aperta,” ed è un testo piuttosto breve, che rimanda a un documento allegato sulle priorità della ricerca scientifica. Ho cercato a lungo nei tre paragrafi una frase che giustificasse il ti tolo che girava sui media, Appello di centina ia di scienziati contro l’intelligenza artificiale. Ed ecco cosa ho trovato. 1. Negli ultimi 20 anni ci sono stati progressi ragguardevoli nei campi del riconoscimen to dei discorsi, della classificazione delle immagini, dei veicoli che si guidano da soli, delle traduzioni automatiche, dei sistemi di spostamento con gambe artificiali e delle piattaforme di domande e risposta. 2. C’è un consenso generale sul fatto che la ricerca in questo settore stia facendo pro gressi costanti e che gli effetti sulla vita delle persone aumenteranno. 3. I benefici potenziali sono immensi. Im possibile predire cosa saremo in grado di raggiungere una volta che l’intelligenza de gli uomini sarà potenziata dagli strumenti che quella artificiale può offrire; ma, per esempio, l’eliminazione della povertà e del le malattie non è un miraggio. 4. Dato il grande potenziale dell’intelligenza artificiale, è fondamentale far sì che ne co gliamo i frutti evitando potenziali problemi. 5. C’è un solo sistema per farlo: finanziare le ricerca in modo interdisciplinare, dalle scienze fino all’etica e la filosofia. Fantastico. Dove si firma? Firmo anch’io. E soprattutto: dov’è l’allarme di cui si par la? Io ci vedo soltanto un appello legittimo, anzi, doveroso a finanziare con generosità e lungimiranza la ricerca scientifica su questi temi che sono così importanti per il nostro futuro. E, infatti, in bella vista sul sito c’è la notizia che Elon Musk, co fondatore di PayPal, nonché creatore di Tesla Motors e di altre imprese, ha donato dieci milioni di dollari all’istituto. Missione compiuta, insomma. Poi c’è il caso Bill Gates. Il fondatore (e azio nista di maggioranza) di Microsoft ormai da anni veste solo i panni del benefattore glo bale attraverso i progetti della fondazione che porta il nome suo e della moglie Melin da. Alla fine di gennaio è tornato (ci era stato altre due volte) sulla piattaforma Reddit per una chat globale con la formula AMA, Ask Me Anything. Chiedetemi tutto. La conversazione dura a lungo e spazia su mol ti temi. Risultato? Questo titolo: L’intelligenza artificiale va controllata. O anche: La crociata contro l’intelligenza artificiale continua.


Ma è andata proprio così? Ecco la mia sinte si della chat. Qual è la sfida più grande che abbiamo davanti? Dal punto di vista scientifico una cura per l’AIDS. Ma la cosa più difficile è aiutare gli insegnanti a imparare dagli insegnanti mi gliori. Una carriera da informatico ha ancora senso oppure tutti i coder verranno sostituiti dalle macchine? È una carriera sicura per ora. Ed è diverten te. Inoltre il coding aiuta a sviluppare la logi ca. In futuro le cose cambieranno per molte professioni, ma saper programmare sarà sempre utile. Quale lezione ha imparato nella vita? Non stare svegli tutta la notte anche se stai leggendo un gran libro perché la mattina dopo te ne pentirai. Che ne pensa dei progetti per allungare la vita e diventare immortali? Può sembrare molto egoistico allungare la vita dei ricchi mentre milioni di persone muoiono di malaria e tubercolosi. Ma am metto che mi affascina. E infine, domandona. Il 2015 segna il trentennale di Windows: cosa accadrà nei prossimi trent’anni? Come sarà il mondo nel 2045? Ci saranno più progressi nei prossimi trent’anni di quanti se ne siano verificati in tutta la storia dell’umanità. Già nei prossi mi dieci ci saranno miglioramenti fonda mentali nei campi della traduzione e della comprensione dei testi e delle immagini da parte delle macchine. Compiti pratici di ro botica, come raccogliere un frutto o portare un paziente all’ospedale, saranno risolti. Appena i computer/robot avranno una ca pacità di guardare e muoversi con facilità saranno usati massicciamente. Io stesso a Microsoft sto lavorando a un Personal Agent che ti aiuta a ricordare le cose e a ritrovarle. E se oggi tornassi indietro, sarei un ricerca tore nel campo dell’intelligenza artificiale. A quel punto, davanti a una domanda anco ra più insistente, Bill Gates dice: «Io sono nel campo di quelli che sono preoccupati della super intelligenza. All’inizio le macchine fa ranno un sacco di lavoro per noi e non saran no super intelligenti. E questo sarà un bene se sapremo gestirlo con attenzione. Ma alcu ni decenni dopo, l’intelligenza delle macchi ne sarà sufficientemente sviluppata da diven tare un problema. La penso come Elon Musk e non capisco chi non se ne occupa». Tutto qui. Un ragionevole, condivisibile, au torevole punto di vista che ci mette in guardia per quello che potrebbe capitare fra una tren

tina di anni. Come quello degli scienziati di Future of Life o di Stephen Hawking, che però procrastina almeno di un millennio la fine del mondo. Tutto ciò, giustifica l’allarme? La cro ciata contro l’intelligenza artificiale? Le giustifica perché siamo fatti così. Perché il progresso ci affascina e ci spaventa. Vorremmo andare verso un futuro migliore ma rimpian giamo un passato che non solo non c’è più, ma in un certo senso non c’è mai stato. Con tutti i suoi difetti e i suoi problemi serissimi, dram matici il mondo non è mai stato tanto bene se guardiamo ai suoi parametri fondamentali: la durata della vita, la mortalità infantile, la po vertà, l’istruzione. E questo è dovuto alla nostra intelligenza, non a quella artificiale; alla nostra capacità come specie umana di inventare solu zioni inimmaginabili, di scovare fonti di ener gia nascoste, di costruire macchine che prima sembravano fantascienza. Tutte queste cose, che per semplicità potremmo chiamare pro gresso, non sono avvenute senza costi e senza errori. Anche tragici. Tuttavia l’unico vero anti doto non è alzare delle barricate, fuggire in una caverna, bruciare i libri con il patrimonio di co noscenza che rappresentano. L’unico antidoto ai pericoli dell’intelligenza artificiale non è l’ignoranza naturale, quan to investire in conoscenza, diventare capaci di guidare macchine sempre più sofisticate. E nel farlo, avere davanti un’unica stella po lare: l’etica, il senso profondo che le mera viglie della tecnica hanno un senso solo se portano un beneficio alla umanità.

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gevano le macchine che mettevano a repentaglio il loro lavoro, riparandosi dietro la mitica figura del capitano Ned Ludd, il “raddrizzatore dei torti”. Un ce lebre storico dell’età contemporanea, Eric J. Hobsbawm, dimostrò, già oltre mezzo secolo fa, che le cose non stava no proprio così: i luddisti non sabota vano le macchine perché temevano le loro conseguenze, bensì minacciavano di farlo se non fosse stato previsto un indennizzo per i posti di lavoro che ve nivano soppressi. In un periodo in cui le unioni sindacali erano ancora fuori legge, questi atti di ribellione avevano il sentore di tentativi embrionali di con trattazione collettiva. Poi, alla lunga, legalizzati i sindacati e riconosciuto il metodo negoziale, le tensioni sarebbero state via via riassorbite, mentre sarebbe prevalsa la visione rimasta intatta fino a questa crisi: che la marcia della tecnolo gia è sì ineluttabile, ma pone le condi zioni affinché possano essere sanate le sue contraddizioni, e che i vantaggi del mutamento tecnologico superano lar

La marcia della tecnologia è sì ineluttabile, ma pone anche le condizioni affinché possano essere sanate le sue contraddizioni gamente i costi e le frizioni che esso ge nera nel breve periodo. Sarebbe impos sibile negare, tuttavia, che negli ultimi anni questa visione è stata intaccata, al punto che persino l’“Economist” l’ha di recente messa in discussione in uno dei suoi rapporti di approfondimento. Non è vero, ha scritto il settimanale inglese, che l’avanzata della tecnologia è bene fica o semplicemente neutrale rispet to ai suoi effetti sul volume e la qualità dell’occupazione. Le innovazioni stan no creando nella forza lavoro una pre occupante polarizzazione: da un lato, ci sono i lavoratori altamente specia lizzati, in possesso di conoscenze che garantiscono loro di poter trarre vantag gio dal progresso tecnologico; dall’al tro, sta emergendo il rischio di un’area largamente maggioritaria di lavoratori a bassa qualificazione, di fatto espulsi dai luoghi di produzione più sofisticati e addetti a occupazioni flessibili e flut tuanti, povere di contenuti professiona li. Si profilerebbe così all’orizzonte un nuovo modello di società assai meno egualitaria del passato, più segmentata 018

e stratificata e soprattutto inca pace di garantire a molte perso ne livelli di reddito soddisfacenti. Per giunta, questo assetto sociale più ineguale toglierebbe respiro allo sviluppo economico, consegnandoci a una prospettiva di lunga e perdurante stagnazione. È persino superfluo sog giungere che, in questo modo, non si formerebbero nemmeno le risorse ne cessarie per un welfare in grado di tem perare il disagio sociale. Come reagire a questo scenario caratterizzato da tale inquietante dicotomia? Cominciando col ricordare che il processo innovativo non è e non può essere una realtà confi nata, che interessa soltanto una parte (e non quella maggioritaria) della società. Per progredire, l’attività di innovazione ha bisogno di vaste basi sociali, altri menti è destinata a interrompersi, o quanto meno a perdere slancio. Non è insomma qualcosa che concerne e coinvolge soltanto chi ne è diret tamente partecipe. Tutte le gran di innovazioni sul fronte delle tecnologie dell’in formazione, della comunicazione, della produzione di energia hanno avuto bisogno di vasto consenso per espandersi e conquistare la so cietà. Hanno cioè dovuto modularsi sui comportamenti molecolari di molti milioni di persone, sen za il cui apporto non avrebbero co nosciuto il successo che hanno ef fettivamente conseguito. In futuro, questa condizione si renderà ancora più vincolante. Per sfruttare appieno il potenziale innovativo delle tecnolo gie occorre un pubblico molto ampio di utenti informati, che non ne sono sol tanto i destinatari finali, ma i soggetti che consentono la loro attivazione. Per ché questo avvenga, è indispensabile un generalizzato innalzamento dei livelli di istruzione e di cultura. Sfruttare il potenziale di crescita delle tecnologie per stimolare nuove domande, bisogni e servizi tali da generare occupazione di qualità dipenderà in ultima analisi dall’incremento della capacità intellet tiva delle persone e dal grado di intelli genza complessiva espresso dalla so cietà. Un circolo virtuoso senz’altro possibile, ma che non può essere demandato a nessun automatismo sociale. Richiede lungimiranza, progettualità, governance.

Il processo innovativo non è e non può essere una realtà confinata, che interessa soltanto la parte minoritaria della società





tutto gira intorno alle automobili private. È un modo davvero inefficiente di organiz zarci. E mi riferisco anche alle città in cui il trasporto locale è un sistema esistente e funzionante: dove ci sono metropolitane e autobus, ma sono usati in un modo non efficiente. Credo davvero che, attraverso un migliore sistema predittivo, auto pubbliche e una maggiore coscienza civile, superere mo il modello delle automobili private. È un cambiamento che deve accadere, altrimen ti non otterremo l’indipendenza dal com bustibile fossile. E se guardiamo alle città di oggi, per esempio Pechino, vediamo che non è possibile continuare su questa china». La situazione a Pechino è davvero grave. È capitato in alcuni periodi che i livelli di so stanze inquinanti nell’aria fossero tali che alcuni sistemi di rilevazione segnalavano semplicemente “oltre qualsiasi indice”. Il valore di AQI (Air Quality Index) pari a 100 esprime un livello di allerta per persone con particolari problemi di salute, mentre il dato 400 è ritenuto un potenziale pericolo

per la salute di tutti. C’è stato un momento in cui a Pechino si è arrivati a misurare un imprevisto 886. «Di sicuro non rinunceremo del tutto alle automobili, ma le useremo in modo molto diverso. E questo è un cambiamento sociale. Penso al car sharing, un modello di utilizzo dell’auto privata molto interessante, associa to all’automobile senza conducente, di cui si vedono già numerose sperimentazioni». Anche in Italia si registra una recente dif fusione del car sharing. La Fondazione per lo sviluppo sostenibile prevede che entro il 2020 questo fenomeno interesserà 12 mi lioni di utenti e muoverà un giro d’affari di 6,2 miliardi di euro a livello globale. A livello europeo, gli iscritti a servizi di car sharing sono oltre 500.000 per 13.000 vetture a di sposizione. «Nei prossimi dieci anni questo settore subirà una trasformazione totale e incre dibile. Il crowdfunding, ovvero il sistema che consente di finanziare in anticipo prodotti reali, software e spettacoli grazie

LA VOCE DEL FUTURO Le immagini sono tratte da Her, il film di Spike Jonze del 2013 che racconta il rapporto tra un uomo e il suo sistema operativo (di cui sentiamo solo la voce). Ambientato in una futura Los Angeles, la tecnologia qui non è solo parte della quotidianità di uomini e donne, ma anche della loro sfera emotiva.


ad alcune piattaforme internet, permet tendo a piccole aziende (ma ultimamente il modello interessa anche le grandi) di metterli in produzione anche in assenza di grandi capitali di partenza, negli Stati Uniti è diventato una realtà importante per tante esperienze. Ricordiamo che Peb ble, il primo e watch connesso, nel 2012 ha sbancato ogni previsione raccogliendo preordini per più di un milione di dolla ri, quando la richiesta era di centomila». È possibile che questo modello funzioni an che al di fuori degli Stati Uniti? E se sì, può diventare scalabile? «Dunque: innanzitutto va detto che il crowdfunding è un sistema che ha avuto un grande effetto non tanto sull’economia dell’innovazione quanto su quella della creatività. L’impatto è maggiore sulle imprese creative, quelle dello spetta colo, del teatro, della letteratura. Questione fondamentale, legata al modello, è che l’o perazione è ancora incredibilmente ab bastanza costosa. Anch’io sono particolar mente interessato a capire se è un sistema replicabile o scalabile. Possiamo utilizzarlo per democratizzare le scelte legate all’inno vazione tecnologica, per far partire le deci sioni dal basso e per capire quale tecnologia sia davvero importante, al di fuori degli inte ressi dei singoli o di piccoli gruppi. Per finire, voglio entrare in un pantano fat to di tecnologie che cominciano a diffon dersi con una certa intensità, ma che per mille ragioni oggi ci sembrano poco più che simpatici giocattoli». Droni, stampanti 3D, oggetti wearable: pro dotti che ci cambieranno l’esistenza, o sem plici gadget? «Ognuno di essi ha una reale possibilità di imporsi in modo significativo nella nostra vita quotidiana. Partiamo dai droni. Questi oggetti volanti rappresentano oggi una sfida reale per la nostra società: usa ti finora per spiare o per attuare delle regole, mi aspetto che si “democratizzino”, che ven gano usati massicciamente dall’industria privata o dai singoli cittadini. I cosiddetti we arable, ossia le tecnologie indossabili dai calzini all’orologio passando per la t shirt e la collana gioiello sono ancora parecchio ba sici. Penso che potrebbero diventare molto più interessanti se riuscissero a raccogliere una quantità e una qualità di dati superio ri. Ecco, per partire credo che debbano racco gliere molti più dati e trovare un modo di in terpretarli più efficace per la vita quotidiana. E infine la stampa 3D. È un dispositivo dav vero affascinante per il suo potenziale di democratizzazione di molte fasi della ma nifattura tradizionale e del processo di crea zione. Allo stadio attuale, visto che dimostra la propria efficacia con la lavorazione della plastica, è adatta a inserirsi nell’industria nella fase della prototipazione rapida. Per essere davvero rivoluzionaria per tutti, an

che per le persone comuni, bisogna poter usare materiali di ogni tipo, adatti a qualsi asi impresa, e quindi lavorare con materiali quali metalli, carbonio e perfino materiali biologici. Tutte e tre queste tecnologie han no potenzialità incredibili per trasformare il mondo, ma al momento hanno anche problematiche significative, che vanno an cora comprese e risolte». E parlando di potenzialità non posso che far riaffiorare le parole di Jason durante quella sua conferenza al TED. La domanda cui ruotava intorno tutto il monologo era se la tecnologia possa risolvere i nostri grandi problemi. Perché l’impressione, appunto, è quella di avere più che altro tanti gadget, applicazioni e sistemi che hanno di sicu ro arricchito e facilitato le nostre vite quotidiane, sen za però risolvere i “grandi problemi”, come la fame, le malattie o lo spreco di ri sorse limitate. Ci si avvicina, se ne parla, si cominciano a trovare alcune soluzioni, ma non è abbastanza. Chi inve ste preferisce ancora osare poco per avere risultati da poter vedere in un periodo relativamente limitato. Per ché si ragiona in termini di media commercial value. «Our problems are hard» ammette Jason, sono complicati e profondi. Ma ci assicura che non è vero che non possiamo risolvere i nostri grandi problemi: possiamo e, soprat tutto, dobbiamo. Ma è necessario che siano sempre presenti queste condizioni: i leader politici e la gente devono avere a cuore le questioni da risolvere, le istituzioni devono dare il supporto, bisogna superare gli osta coli tecnologici che possono sussistere e, so prattutto, capire quali sono i Big Problems.

Il nostro obiettivo è far capire alle persone come la tecnologia possa cambiare il mondo e come la tecnologia e il suo impatto sociale, economico e politico possano dargli una forma nuova













Nei passati cento anni, i sistemi di pro duzione dell’energia elettrica si sono evoluti a seguito di mutamenti carat terizzati, sempre, dallo stesso schema: un’evoluzione tecnologica che rende più competitiva una nuova modalità di produzione. Un periodo, che possiamo definire di inerzia/resistenza/incom prensione al cambiamento, seguito da una veloce (e sempre più accelerata) dif fusione di nuove tecnologie, che si af fiancano a quelle esistenti e che le sosti tuiscono man mano che queste ultime diventano obsolete. Negli scorsi anni abbiamo assistito all’ul tima di queste cicliche evoluzioni, che ha introdotto una radicale trasformazione dei parchi di produzione e che ha colto (abbastanza) di sorpresa le utilities euro pee, che, negli ultimi cinque anni, hanno perso margini per 36 miliardi di euro. Il drastico calo della domanda elettrica, a cui ha assistito l’Europa già dalla fine del primo decennio del Duemila, ha in teressato tanto i consumi dell’industria quanto quelli delle famiglie. Quest’ulti mo calo è il primo dal do poguerra, e non può esse re giustificato unicamen te con la crisi economica, i cui effetti sui consumi elettrici sono più eviden ti nel settore secondario. Il calo dei consumi dei clienti domestici è dovu to, anche, a una crescente razionalizzazione, conse guita grazie allo sviluppo dell’efficienza energetica. Per questo motivo, seb bene il quadro migliorerà con la ripresa economi ca, la domanda elettrica non ripartirà con i tassi di crescita attesi prima della crisi, e l’Europa dovrà abituarsi a un an damento dei consumi energetici decisa mente più moderato. Accanto a questo, un altro fenomeno ha modificato radicalmente il settore ener getico. Si tratta della diffusione delle rinnovabili, che in Europa hanno visto la propria capacità installata raddoppiare negli ultimi sei anni. Capacità che, an che in assenza di incentivi, continuerà a crescere, raddoppiando ulteriormente entro il 2030. Siamo di fronte a una nuova trasformazio ne del mix energetico primario: dall’era del carbone, in atto dalla prima rivoluzio ne industriale fino al Novecento, a quella del petrolio, durata fino agli anni Ottanta, passando per quella del gas, giunta agli anni Duemila, fino ad arrivare a quel

Nell’ultimo secolo la produzione di energia elettrica ha seguito lo stesso schema: un’evoluzione tecnologica che rende più competitiva una nuova modalità di produzione

la, presente e futura, delle rinnovabili. Calo dei consumi e sviluppo delle rinno vabili hanno, quindi, ribaltato il paradig ma tradizionale che vedeva l’elettricità generata nelle grandi centrali, trasmessa sulle reti di altissima e alta tensione e, in fine, distribuita ai clienti in media e bas sa tensione. Il nuovo modello di gene razione distribuita è l’espressione di un sistema più efficiente e interconnesso, che vede al centro un cliente sempre più consapevole, esigente e conscio del suo nuovo ruolo di consumatore/produttore, o anche prosumer. A fare le spese di questo cambio di para digma è la generazione “convenzionale”, destinata, in questo contesto, a svolgere sempre più un ruolo di riserva, produ cendo, quindi, soltanto nei momenti di necessità. A essere maggiormente pena lizzati sono stati gli impianti termoelet trici più vecchi e meno efficienti, alcuni dei quali non producono da diversi anni, spiazzati nel nuovo ruolo di capacità di riserva, da altri impianti termoelettrici più moderni, affidabili ed efficienti. In alcuni casi, gli impianti più vecchi sono giunti addirittura al termine del periodo di autorizzazione e, quindi, non potreb bero tornare a produrre nemmeno se la domanda elettrica riprendesse con gli andamenti pre crisi. Si tratta, perciò, di impianti che hanno esaurito il proprio ciclo vitale e la propria utilità, e che non possono neanche essere ceduti a terzi perché, in ogni caso, non redditizi. Questa situazione, che si è venuta a cre are nel corso degli anni, deve essere af frontata senza perdere ulteriore tempo, coinvolgendo le autorità locali e la popo lazione, con l’obiettivo di valutare solu zioni alternative e concretamente realiz zabili per salvaguardare l’occupazione e riconvertire gli impianti. Per quanto riguarda Enel, gli impianti in Italia che presentano queste caratteristi che sono 23, per una potenza complessi va pari a 13 Gigawatt. La necessità della loro chiusura non è un fatto di oggi, lo si sapeva bene anche in passato. Oggi, però, contiamo di risolverlo. Voglio sottolineare un elemento che ri tengo di grande importanza. La chiusura di queste centrali Enel, nelle quali sono attualmente impiegate circa 700 perso ne, non avrà alcun impatto negativo in termini occupazionali, essendo già stata prevista la ricollocazione all’interno del Gruppo e la valorizzazione di tutte le ri sorse coinvolte. Questi impianti rappresentano per il no stro Paese un patrimonio industriale che potenzialmente può essere ancora valo rizzato. Per questo motivo sono in corso 035




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contesti

R O B O T

A L L’ I TA L I A N A articolo di Riccardo Oldani Giornalista e divulgatore scientifico

La nostra penisola non è più solo luogo d’eccellenza di moda e artigianato, ma vanta una vivissima e sempre più ampia attività nel campo dell’automazione. Una frontiera tecnologica che promette grandi cambiamenti e possibilità, non solo in situazioni di emergenza, ma anche nella vita di tutti i giorni.

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Robot umanoidi, protesi robotiche, auto mobili che si “autoguidano” senza biso gno del conducente: non è necessario sor volare oceani e andarsene negli Stati Uniti o in Giappone per trovare i centri tecnolo gici che li sviluppano. Basta starsene tran quillamente a sud delle Alpi e avere un’i dea del tipo di ricerca che viene condotta, per esempio, all’IIT di Genova, l’Istituto italiano di tecnologia, dove si lavora a due straordinari umanoidi: ICub, grande come un bambino di cinque anni e COMAN, che anche se ha due gambe e due braccia, proprio come noi, non cade mai a terra nemmeno se viene preso a spintoni per merito di un sistema di equilibrio unico al mondo. Oppure basta sapere a che cosa si lavora al VisLab di Parma, il primo labora torio di ricerca capace di far viaggiare per oltre 13.000 chilometri dei veicoli robotici, dall’Italia alla Cina, e il primo del pianeta a far circolare un’auto senza conducente nel traffico di una città. Tutto questo ben pri ma che Google presentasse la sua driverless car, la vettura senza volante né pedali che, agli inizi del 2014, ha fatto parlare di sé tutto il mondo. E ancora, basta informar si sull’attività condotta a Pontedera dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dov’è nata la prima protesi robotica di mano e braccio mai impiantata su un paziente in carne e ossa. Si tratta di un trentenne danese, amputato sotto il gomito a causa dei botti di capodanno (tradizione eviden temente non solo nostrana) e che ora, per merito della tecnologia italiana, ha un braccio tutto nuovo, metallico e robusto, con cui ha perfino ritrovato la sensazione del tatto grazie a polpastrelli high tech e a connessioni che si innestano direttamen te nel sistema nervoso. Eccellenze da nord a sud Ma l’elenco non si chiude certo qui. E così, se a Verona si studiano sistemi robotici per la chirurgia al cervello, a Milano, al labora torio AirLab del Politecnico, si sviluppano giochi robotici e carrozzine per persone di

sabili che si muovono con la forza del pen siero; mentre l’Istituto ITIA CNR ha messo a punto il primo impianto automatizzato del mondo pensato per il demanufacturing, cioè il disassemblaggio di qualsiasi tipo di apparecchio elettronico per recuperare i metalli preziosi di cui sono fatti i loro circu iti come oro, rame o terre rare e smaltire nel modo corretto le altre parti. Un lavoro oggi realizzato seguendo canali illegali, che portano in Africa o in Asia una grande quantità di rifiuti elettronici prodotti in Occidente, poi disassemblati da ragazzini che usano solventi e sostanze destinati ad avvelenarli. A Napoli, invece, sta nascendo per merito del PRISMA Lab, diretto da Bru no Siciliano, un robot capace di fare la piz za che in realtà sarà il primo esempio di au toma in grado di manipolare oggetti elasti ci, non rigidi, proprio come l’impasto del cibo più famoso del mondo. Le opportuni tà di impiego industriale sono molto pro mettenti. E a Peccioli, piccolo centro del pisano, una casa “domotica” è diventata il laboratorio in cui l’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa sta mettendo a punto nuovissimi robot capaci di assisterci nei lavori domestici: portare fuori la spazzatura o fare la spesa, ricordarci di prendere le medicine oppure portarci un bicchier d’acqua. E potremmo andare avanti ancora a lungo, parlando dei robot esploratori dell’Enea, dei droni per operazioni di soccorso della Sapienza di Roma, dei robot che creano un rappor to con i bambini autistici dell’Università di Palermo o di quelli che raccolgono le arance o monitorano le bocche dell’Etna dell’Università di Catania. Dalle Alpi alle isole, tutta la penisola sembra pervasa da uno sforzo creativo, condotto da agguerriti staff di ricercatori italiani che lavorano per realizzare le macchine del futuro. I robot, il nostro futuro Potrebbe essere la grande occasione per la nostra industria e per la nostra economia. Giorgio Metta, dell’IIT di Genova, respon

La cultura italiana del saper fare, della manualità, che tanti primati ci ha portato nel campo della moda, del design, dell’industria del mobile, emerge prepotentemente anche nella robotica

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sabile del progetto del robot umanoide ICub, è convinto che il piccolo umanoide tutto bianco, sviluppato in Italia a scopo di ricerca, potrebbe in futuro diventare anche qualcosa di estremamente utile, «un perso nal robot o un assistente personale, che ci possa aiutare a fare tante cose in casa, dal semplice gesto di portarci da bere o porger ci un oggetto all’esecuzione di ordini come accendere le luci o la lavatrice. La tecnolo gia non è così lontana, potremmo arrivarci in pochi anni». E il fatto di avere sviluppato in Italia tutte le competenze per realizzar lo ci mette un bel passo avanti rispetto alla concorrenza internazionale. L’IIT sta cer cando finanziatori privati per sviluppare il progetto a livello commerciale. Anche se arriverà per primo qualche gruppo estero, com’è probabile, avremo buone possibili tà che tutto lo sviluppo resti entro i nostri confini. Vediamo comunque di non farci sfuggire l’occasione. Anche perché non tutti sono come Alberto Broggi, fondato re e anima del VisLab di Parma e pioniere delle auto robotiche. Qualche tempo fa è stato contattato da funzionari del governo canadese che avrebbero fatto carte false per prendere in blocco tutto il laboratorio, ricercatori compresi, e spostarlo oltreoce ano. Broggi ha rifiutato, perché vuole che tutto resti in Italia. Ma poi deve fare lo sla lom tra i burocrati per ottenere i permessi necessari a far circolare le sue vetture sen za autista. Eppure il futuro dell’auto è nella direzione che il suo laboratorio sta percor

rendo da tempo: un cospicuo numero di grandi marchi dell’automotive si sta inte ressando alla sua ricerca. Un lascito per le nuove generazioni Tutte queste iniziative, di cui vi abbiamo dato una minima traccia, sono figlie di una tradizione che vede l’Italia ai vertici dell’automazione mondiale. I nostri robot industriali, non solo quelli di Comau, ma anche di tante aziende più piccole, sono venduti in tutto il mondo. La Olivetti, pio niere italiano dell’informatica, con un glo rioso passato ma ora quasi scomparsa dai radar, è stata la prima azienda al mondo a sviluppare un robot industriale a due brac ci. «I nostri progettisti di robot dice Artu ro Baroncelli, che guida la progettazione di Comau sono unici per la capacità di ri solvere problemi brillantemente, in tempi rapidissimi e con scarsi mezzi». La cultura italiana del saper fare, della manualità, che tanti primati ci ha portato nel campo della moda, del design, dell’industria del mobi le, emerge prepotentemente anche nella robotica ed è qualcosa che tutti ci invidia no e che gli altri non hanno. Un patrimo nio che non va disperso, ma tramandato alle giovani generazioni. Anche soltanto spiegando ai giovani, nelle scuole, che in Italia ci sono fior di industrie e centri di ricerca nel settore della robotica, con pro spettive enormi di sviluppo e di benessere. Un’opportunità che soltanto la più cieca stupidità potrà impedirci di cogliere.

A Parma c’è il primo laboratorio del pianeta che abbia fatto circolare un’auto senza conducente nel traffico di una città. Tutto questo ben prima che Google presentasse la sua “driverless car”

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100

MILIARDI DI EURO IN MECCANICA Secondo esportatore europeo nel settore della meccanica e dell’automazione, questo mercato nel 2013 ha avuto un valore di 100 miliardi di euro

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DEI MEZZI DI CONTRASTO DEL MONDO L’Italia produce 1/3 del totale dei mezzi di contrasto. Farmaceutica e biomedica sono il settore che nel 2014 ha avuto il maggiore aumento di esportazioni

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CANTIERI IN

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PAESI

1100 ROBOT

Con 1100 robot ogni 10.000 addetti, l’industria automobilistica italiana è oggi la seconda al mondo per impiego di robot

Leader mondiale nella creazione di infrastrutture, l’industria italiana ha oggi 1000 cantieri attivi in 90 Paesi

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Dopo il successo di Internet ci rende stupidi?, il libro con cui nel 2011 arrivò finalista al Premio Pulitzer, lo scrittore americano Nicholas Carr torna a occuparsi degli effetti della tecnologia sul la nostra società. A essere ogget to della sua attenta disamina è questa volta l’automatizzazione, la macro tendenza che, nessu no escluso, ci vede sempre più spesso affidare le nostre mansio ni a software, macchine e robot, perché le svolgano al nostro po sto. All’impatto non immune da ombre, come vedremo che essa ha sulla società e sulle no stre vite individuali è dedicata la sua nuova fatica letteraria, The Glass Cage: Automation and Us (La gabbia di vetro) in uscita in Italia nel mese di maggio per Raffaello Cortina Editore. «Il titolo del libro fa riferimento al glass cockpit, la cabina di comando degli aerei», spiega lo scritto re. «Circondati da schermi di com puter e pulsanti, i piloti ormai in teragiscono con il mondo esterno essenzialmente attraverso le mac chine, affidandosi per la quasi totali tà del volo al pilota automatico e ridu cendosi sempre più a dei semplici “passeggeri”. Oggi sappiamo che due dei principali disastri aerei degli ultimi anni, quello dell’Airbus A330 di Air France e del volo 3407 di Colgan Air, entrambi avvenuti nel 2009 e costati la vita a più di 300 persone, sarebbero da attri buirsi a errori umani indotti da un eccesso di fiducia (over relian ce) in queste macchine. Quando il pilota automatico ha smesso di funzionare, i piloti dei due voli hanno effettuato le manovre sba gliate: come se, paradossalmen te, proprio quei software nati per potenziare le loro capacità di volo avessero contribuito a fargliele di simparare». Dopo anni di fiducia cieca nell’automatizzazione, gli effetti deleteri dell’over reliance sarebbero visibili ormai nei più svariati settori. Carr prosegue ci tando un interessante studio bri

tannico dedicato agli effetti dei software per il riconoscimento automatico dei tumori alla mam mella sulle capacità diagnostiche dei medici. «I radiologi coinvolti nello studio si sono rivelati mol to bravi a riconoscere le forme tumorali più comuni, diagnosti cate correttamente dal computer, ma decisamente non all’altezza quando si sono trovati in presen za di forme tumorali meno ovvie, più subdole e rare. Nel giro di pochi anni, l’uso delle macchine li ha pericolosamente disabitua ti a far conto dei propri occhi e del proprio intuito». Il monito di Carr è chiaro: quando diventia mo dipendenti dai nostri “schiavi tecnologici”, siamo noi parados salmente a diventarne schiavi. «È come se ci mettessimo i ceppi a mani e piedi da soli, con esi ti spesso fatali, come abbiamo visto nel caso dell’Airbus». Ep pure sarebbe sba gliato liquidare lo scrittore come un tecnofobo o uno dei tanti pro feti di sventure, o considerarlo un avversore dell’au tomatizzazione tout court. «Non sono un “luddi sta”, non invito cioè i miei lettori a distruggere le macchine. Il mio vuole essere un invito, credo ragio nevole, a guardare a ogni forma di automatizzazione con spirito critico, rinunciando a qualsiasi facile entusiasmo. L’automazio ne, questo non si discute, ha por tato con sé vantaggi immensi alla società. Quello che non a tutti è chiaro, è che c’è modo e modo di implementarla nella nostra vita». Quando si mettono a punto sistemi automatizzati, si scopre parlando con lo scrittore, si può scegliere tra due approcci molto diversi tra di loro: il technology centered design e l’human cente red design. «Il primo approccio, attualmente imperante, punta a delegare più mansioni possibili alla macchina, relegando l’uo mo a un ruolo di semplice frui tore passivo, un mero spettatore di lucine che si accendono e si

L’automatizzazione, questo non si discute, ha portato con sé vantaggi immensi alla società. Quello che non a tutti è chiaro, è che c’è modo e modo di implementarla nella nostra vita

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Da quello che sappiamo fare senza l’aiuto dei software dipende intimamente la nostra cultura e, in ultima analisi, la nostra anima

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bizione di “fare la cosa giusta, nel po sto giusto e al momento giusto, con la giusta quantità” rispettando le reali necessità delle piante. Nell’agricoltu ra tradizionale il coltivatore deve in qualche modo presumere o indovina re sulla base della sua esperienza le necessità delle colture: quanta acqua, quanto concime, quali attacchi paras sitari. Oggi le necessità delle piante si possono misurare e calcolare in modo preciso e con precisione accuratissima, praticamente pianta per pianta. Di quali tecnologie si serve? Per il rilevamento si usano principalmen te droni e sensori geoelettrici e radiome trici, ma anche aerei, satelliti, GPS. Dopo il monitoraggio e la mappatura subentrano macchine operatrici basate sulla tecnolo gia a rateo variabile, che sono in grado di gestire in modo differente varie porzioni dello stesso terreno sulla base di input ge oriferiti. In pratica, ricevendo i dati basati sul remote sensing da drone, aereo e satel lite che poi vengono rielaborati da siste mi informativi geografici grazie a metodologie di analisi geostatistica, que ste macchine sono in gra do di capire quali tratta menti erogare alle diver se porzioni del terreno, coadiuvando l’intervento umano in maniera rile vantissima e mettendo il coltivatore in grado di operare scelte razionali. Sono tecnologie molto costose? Le tecnologie di monitoraggio come le reti di sensori e i droni stanno avendo un rapido sviluppo anche in termini di economicità, mentre le macchine a rateo variabile sono ancora abba stanza costose. Le aziende comunque si possono avvicinare all’agricoltura di precisione a diversi livelli, anche senza acquistare direttamente queste macchine. È possibile ottenere infor mazioni localizzate su un certo appez zamento agricolo, e dunque orientare oggettivamente le proprie decisioni aziendali, con un costo minimo. L’ap plicazione automatica delle scelte alla pratica agricola comporta invece co sti maggiori. Sicuramente un’azienda di dimensioni medio piccole non può farsi carico di acquistare queste tecno logie, cosa che però può fare un con sorzio mettendole poi a disposizione dei suoi consorziati. In altri casi sono nate aziende di servizi dotate di queste tecnologie che operano per conto terzi.

È necessario essere esperti di informatica per praticare l’agricoltura di precisione? Più che esperto di informatica, chi prati ca l’agricoltura di precisione deve saper “maneggiare” gli strumenti tecnologici. Questo è uno dei settori in cui la ricerca deve dare il suo maggiore contributo: non deve solo trasferire la tecnologia, ma an che e soprattutto fornire delle metodolo gie di processamento dei dati che possa no essere attuate in modo semplice anche da non esperti. Ed è qui che la sinergia tra ricerca e aziende deve dare i maggiori frutti, per far sì che gli agricoltori o i deci sion maker possano svolgere il loro lavoro nella maniera più semplice possibile. È adatta solo per grandi terreni? L’agricoltura di precisione è nata negli Sta ti Uniti negli anni Novanta, per essere uti lizzata a beneficio delle grandi estensioni colturali di cotone e mais. Negli ultimi anni però si sta sempre più diffondendo anche in piccole realtà. La variabile da tenere in considerazione non è tanto l’estensione quanto piuttosto l’uniformità del tratta mento in caso di utilizzo per colture che risiedono in terreni differenti o con differenti problemi, il che può generare, per esem pio, un eccessivo uso di fertilizzanti o di pesticidi. Per quali tipi di coltivazione è più adatta? È particolarmente utiliz zata per vigneti e frutteti, che tipicamente presentano elevate varia bilità locale e reattività alla gestione inten siva. Negli ultimi anni, comunque, è stata applicata a qualsiasi tipo di coltura, perfi no a quelle orticole. Può essere utile per combattere parassiti o malattie vegetali? In che modo? Il controllo dei parassiti e delle malattie è una grande preoccupazione sia per la comunità agricola sia per i consumatori, perché sono numerosi i casi di usi indiscri minati di prodotti chimici fitosanitari che finiscono sulle nostre tavole. Spesso i livelli massimi di residui dei pesticidi e dei pro dotti chimici nelle colture sono molto su periori a quelli consentiti nei prodotti ali mentari, in particolare nella frutta e nella verdura fresca. L’adozione delle tecniche di agricoltura di precisione può essere un utile strumento per valutare in modo pre coce l’insorgenza di malattie e di parassiti e per agire solo nei casi in cui si manifesta no, riducendo i costi degli antiparassitari e dei pesticidi e soprattutto garantendo mag giore sostenibilità in termini ambientali. 055







Le frontiere della robotica indagano proprio su nuovi apparati per la percezione, come per esempio sensori sempre più sofisticati da installare sotto le “zampe” per adattarsi al tipo di terreno

LA ROBOETICA Le macchine sempre più avanzate che l’uomo produce sollevano problemi non solo tecnologici ma anche etici e giuridici. La roboetica nasce per cercare risposte a questi problemi e per promuovere lo sviluppo di una robotica integrata nella nostra società.

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In

intervista

ISPIRATI alla natura Intervista a Cecilia Laschi Docente di Biorobotica

di Michele Bellone Giornalista

Biorobotica, neuro-robotica, bionica, biomimetica. La robotica che riproduce sembianze umane non crea umanoidi in grado di sostituirci. Si affianca all’uomo e ne studia il cervello, osserva i movimenti di un polpo o gli schemi degli sciami di insetti, e poi risolve problemi motori, realizza robot di assistenza, crea competenze nuove. Guarda alla perfezione della natura per esserne all’altezza.

La parola robot richiama immancabil mente le schiere di macchine umanoidi, in alcuni casi addirittura indistinguibili dall’uomo, che popolano la letteratura e il cinema di fantascienza. Quando si parla di robotica, però, la realtà è diver sa, come ci spiega Cecilia Laschi, pro fessoressa di biorobotica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. «L’idea dei robot umanoidi è legata all’approccio usato dai giapponesi, che sono stati i precursori in questo campo» spiega La schi. «Hanno iniziato a costruire robot di questo tipo più di trent’anni fa, con l’intenzione di sviluppare macchine in grado di svolgere diverse mansioni, al 062


La biorobotica è un campo di studi interdisciplinare, che agli aspetti ingegneristici affianca competenze provenienti da molte discipline, da biologia a neuroscienze fino a medicina ed etica

punto addirittura da sostituire l’uomo nei compiti più faticosi, pericolosi o ri petitivi». Quindici anni fa, questo forte interesse per i robot umanoidi non era pienamente compreso, né tantomeno condiviso, in Occidente. «Ricordo che quando scrivevo progetti di ricerca ne gli anni Novanta, la parola “umanoide” non doveva neanche comparire». Le motivazioni alla base di questa dif ferenza erano di tipo culturale. «In Eu ropa c’era una sorta di disapprovazione morale nei confronti dei robot uma noidi, probabilmente legata anche alla sfera filosofica e religiosa, per cui creare robot che assomigliano all’uomo pare va quasi un tentativo di giocare a fare Dio e a imitare la vita», dice Laschi. «Per i giapponesi, invece, oggetti inanimati come rocce o cascate possono avere una loro spiritualità e anche la percezione dei robot, indubbiamente influenzata dalla loro cultura popolare, era diver sa ed erano spesso visti come amici dell’uomo; al contrario la nostra lettera tura è ricca di conflitti fra le macchine e l’uomo. Questi temi sono stati molto discussi, io stessa ho partecipato a un workshop, nel 2001, che ha coinvolto anche teologi e filosofi per analizzare i diversi approcci alla robotica». Ora le cose sono cambiate e l’idea del robot umanoide è accettata anche in Oc cidente, sebbene in un’ottica diversa. «Da noi la costruzione di una macchina con sembianze umane è vista soprattut to come una sfida tecnologica», precisa Laschi. «I robot umanoidi che costruia mo sono orientati alla ricerca scientifi ca, non allo sviluppo di macchine che possano svolgere determinati compiti al posto dell’uomo». Un ottimo esempio in questo senso è la neuro robotica, una disciplina che sfrutta i robot per testare modelli teorici del cervello umano. «Se devo studiare un modello di apprendi mento basato sulla manipolazione de gli oggetti, l’uso di un robot umanoide

diventa molto utile. Avrò infatti bisogno di un braccio in grado di afferrare e di una testa dotata di occhi, in modo da poter studiare l’influenza della percezio ne sullo svolgimento di un’azione e, di conseguenza, sul suo apprendimento». L’incontro fra le due diverse scuole di robo tica ha consentito a entrambe di arricchir si, combinando le rispettive competenze. «I giapponesi avevano una marcia in più per quanto riguarda la realizzazione dei robot, mentre noi abbiamo fatto molti più progressi nello sviluppo di modelli di com portamento ispirati dalle neuroscienze». Un’altra disciplina legata alla robotica è la bionica. Ci sono diverse interpretazio ni su cosa s’intende con questo termine. «All’estero, soprattutto in Germania, è spesso usato come sinonimo di biomi metica mentre noi la concepiamo più come l’integrazione fra naturale e artifi ciale. Per esempio, la protesi robotica di una mano, magari dotata di interfacce neurali in grado di leggere segnali nervo si, per noi rientra nel campo della bioni ca, così come un impianto cocleare». Il mondo animale fornisce un’ampia gamma di ispirazione per gli esperti di biorobotica e bionica; basti pensare alla cosiddetta soft robotics, alla quale Cecilia Laschi si sta dedicando tramite il proget to Octopus, nel quale usa il polpo come modello animale per la realizzazione di 063


robot dotati di parti morbide. «La sfida è quella di imitare i principi grazie ai qua li un muscolo si contrae e si irrigidisce, cioè i meccanismi basilari per funzioni come la locomozione e la manipolazione di oggetti». Movimento, percezione e mimetismo non sono le sole funzioni animali dalle quali trarre ispirazione. «Un altro cam po interessante è la swarm robotics, che prende come modello gli sciami o gli stormi per studiare come una serie di interazioni semplici possa dare origine a comportamenti più complessi, oppure le ricerche che usano robot in grado di adattarsi e competere per le risorse, per studiare l’evoluzione» spiega Laschi. Tutti questi studi consentono di amplia re la nostra conoscenza di molti processi biologici, ma possono anche avere svaria te applicazioni pratiche nel campo della medicina: dalle protesi sostitutive alle sonde morbide utilizzabili per effettuare operazioni chirurgiche al cervello, dalle macchine indossabili, che facilitano la riabilitazione in seguito a un incidente, ai robo badanti per l’assistenza ad anzia ni o a persone con difficoltà motorie. Lo stesso Octopus, nato come progetto di ricerca di base, ha poi aperto la porta a possibili applicazioni in campo biome dico. «Al momento stiamo partecipando a un progetto per la costruzione di un en doscopio morbido e prenderemo parte allo sviluppo di un soft robot per l’assi stenza degli anziani in bagno realizzato in silicone, in modo che possa bagnar si quando viene usato sotto la doccia». Il quadro che emerge è dunque quello di un campo di studi forte mente interdisciplinare, che agli aspetti ingegneristici e realizzativi di queste sofisti cate macchine affianca com petenze provenienti da molte altre discipline, dalla biolo gia alle neuroscienze fino alla medicina, per non parlare dell’etica. «L’etica è coinvolta in molti ambiti della roboti ca. Personalmente, trovo che il problema etico più pres sante in questo campo sia legato alla possibilità che lo sviluppo di determinati robot riduca le opportunità di im piego, invece che ampliarle. La robotica offre molti posti di lavoro e ben vengano i robot che sostituiscono gli essere umani in lavori pericolosi; l’im portante, però, è che il bilancio finale del lavoro generato in questi campi sia supe riore a quello dei lavori che scompaiono in seguito all’uso dei robot».

Il mondo animale fornisce un’ampia gamma di ispirazione per gli esperti di biorobotica e bionica; basti pensare alla “swarm robotics”, che prende come modello gli sciami o gli stormi

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Da noi la costruzione di un macchina con sembianze umane è vista soprattutto come una sfida tecnologica: i robot umanoidi che costruiamo sono orientati alla ricerca scientifica

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Un ronzio, e un quadricottero passa sopra le nostre teste. La parola drone fa ormai parte del nostro linguaggio comune, la sentiamo nominare in ogni momento, dall’utilizzo in guerra fino a quando pensiamo di farci consegnare una pizza. Eppure in pochi conoscono storia e reali potenzialità di questi oggetti volanti, così diffusi da richiedere normative nazionali per regolarne l’uso. A trent’anni dal debutto sugli schermi del celebre Ritorno al futuro, molti giornali si sono ci mentati nell’esercizio di verifica re quali delle previsioni di Robert Zemeckis si siano effettivamente avverate. Il futuro raccontato al lora, infatti, aveva una data ed era il 2015. Alcune intuizioni hanno trovato riscontri, altre no. Tra queste ultime, l’idea che avremmo vissuto in città dove il traffico sarebbe stato sopra le nostre teste, una visione comune anche a molta fantascienza. No, non ci sono le auto volanti, ma oggi una delle parole più diffuse quando si parla di innovazione e

robotica è “droni”, nome gergale di aeromobile a pilotaggio remo to (APR). Forse è questa la nuova decli nazione del volo in chiave con sumer. Oggi non c’è fiera della tecnologia che non sia invasa da quadricotteri e oggetti vari capa ci di volare senza pilota, grazie alle istruzioni che arrivano da un telecomando o uno smartphone. Il CES di Las Vegas, il più gran de evento dedicato al futuro, an che quest’anno ne ha presentati diversi esempi, ma per vederne altri bastava andare a Roma alla Maker Faire di settembre e trova re dozzine di start up italiane. 067


Lo sviluppo tecnologico ha ridotto le dimensioni e abbassato i costi, al punto che il drone oggi può essere un oggetto commerciale. In Italia ci sono già 46 scuole dove si insegna a pilotare droni

Il processo in corso è quello ti pico delle grandi innovazioni, come pc e internet: tecnologie che nascono da applicazioni di nicchia, spesso militari, per poi fare tesoro della riduzione dei costi e arrivare alla portata di tut ti. Il mondo dei droni non è arri vato fino in fondo, ma per quan to riguarda la tecnologia poco ci manca. Esistono modelli commerciali dagli 80 ai 500 euro che posso no volare velocemente, ad al tezze importanti e che hanno la capacità di filmare i territori che sorvolano. Il più famoso è il Parrot AR.Drone. Fin qui siamo nell’ambito ludico e hobbistico, mentre sono più affermati gli usi professionali. I droni oggi sono usati per il monitoraggio am 068











Ap

approfondimento

LA STORIA HA QUATTRO R U O T E articolo di Roberto Rizzo Giornalista

Dell’auto elettrica se ne parlava già due secoli fa. Ricca di pregi fin da allora, non sopravvisse alla storia e all’auto a benzina. Il sogno elettrico è però rimasto nel cassetto di molte aziende automobilistiche, che a più riprese hanno rimesso mano al progetto. Oggi, che utilizziamo ancora la stessa tecnologia di 100 anni fa, ritorna con forza l’idea che potrebbe guidare il futuro della mobilità.

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Storicamente, il primo veicolo “embrione dell’auto che sarà” è fatto risalire all’opera dell’ingegnere francese Nicolas Joseph Cu gnot, che nel 1769 installò su un carro di ar tiglieria un motore a vapore, che usava come combustibile il carbone. Telaio in legno, tre ruote e una velocità massima di ben 4 km/h: erano queste le caratteristiche salienti del carro di Cugnot, con la stes sa tecnologia di una loco motiva a vapore. Un proto tipo arrivato fino ai nostri giorni può essere ammirato al Musée des Arts et Métiers di Parigi. Si trova in ottime condizioni perché, poco funzionale, non fu usato in nessuna battaglia: serviva oltre mezz’ora per scaldare il motore e per la messa in marcia, per una autonomia di una cinquantina di chilo metri. Per questo, intorno al 1830 1840 gli ingegneri iniziarono a investigare la possibilità di sviluppare dei veicoli con motori elettrici e batterie che garantissero un’accensione immediata (l’induzione elettromagne tica, fenomeno fisico alla base dei motori elettrici, era stata scoperta da Michael Faraday nel 1831). La com mercializzazione vera e pro pria delle prime auto elet triche in Europa non arrivò che nel 1880 e una decina di anni dopo negli Stati Uniti. Pur rimanendo un prodotto assai costoso e utilizzabile solo in città, per via dell’auto nomia limitata, l’auto elettrica riscosse un notevole successo e si stenterebbe a credere che in quegli anni primeggiasse sull’auto a combustione interna a benzina. Chi vinse la sfida? La prima auto a benzina fu il Velociped dell’ingegnere tedesco Karl Benz nel 1885. Usava il ciclo Otto a quattro tempi (aspira zione, compressione, combustione espan sione, scarico) inventato dall’ingegnere tedesco Nikolaus August Otto nel 1876. Alla fine del XIX secolo le auto elettriche erano preferite a quelle a benzina perché silenziose, facili da ricaricare e da guidare, e non inquinanti. Le sorti furono capovolte da tre fattori. Per prima cosa l’invenzione nel 1911 del motorino elettrico che rese inutile la manovella, prima indispensabile per far partire il motore a combustione ma complessa e rischiosa. In secondo luogo, la realizzazione negli Stati Uniti delle strade extra urbane per collegare i centri abita

ti: le distanze da percorrere richiedevano veicoli con autonomie superiori. Terzo, l’elevata disponibilità di petrolio presente all’epoca negli Stati Uniti (sappiamo quan to sia più veloce fare un pieno di benzina rispetto alla ricarica delle batterie). La ca tena di montaggio e la meccanizzazione divennero procedure standard negli stabi

limenti automobilistici (prime fra tutte, la Ford a Detroit) e ciò permise di abbattere i costi di produzione dell’auto a benzina. Nel 1914 Henry Ford, creando le basi della classe media americana, aumentò fino a cinque dollari lo stipendio giornaliero degli operai affinché potessero permettersi l’ac quisto delle automobili che producevano.

Catena di montaggio e meccanizzazione divennero procedure standard: ciò permise di abbattere i costi di produzione dell’auto a benzina L’elettrico cerca di entrare in scena A partire dagli anni Venti, il settore automo bilistico ha visto il predominio di una tecno logia le cui fondamenta sono rimaste quasi invariate fino ai nostri giorni: un motore a combustione interna, alimentato da prodot ti petroliferi, collegato meccanicamente alle 079


ruote. L’auto elettrica fu messa nel dimenti catoio, relegata ad applicazioni di nicchia, come i trasporti nei luoghi chiusi (aeroporti, magazzini, ecc.). Fino al 1987, quando Ge neral Motors vinse il più importante rally al mondo di veicoli a energia solare, il World Solar Challenge, che si svolge ogni tre anni in Australia. Preso dall’entusiasmo, il presidente di GM decise di realiz zare un’auto elettrica commer cialmente vincente. Ne venne fuori Impact, presentata al Los Angeles Auto Show nel 1990. L’auto riscosse una grossa attenzione da parte del pubblico, dei media e delle autorità governative della Ca lifornia, che introdus sero così, primo caso al mondo, una nuova normativa per imporre ai costruttori di mettere in commercio percen tuali crescenti di auto a emissioni zero. Si trattava del Zero Emission Manda te, la cui prima formulazione prevedeva che nel 2003 almeno il 10% delle nuove autovetture ven dute in California dovesse essere non inquinante. A partire dal prototipo Im pact, GM realizzò la EV1, che poteva essere affittata a un prezzo tra i 250 e i 500 dollari al mese. Già nel 1996 erano centinaia a per correre le strade della California, dove erano stati installati migliaia di punti di ricarica pubblici. Gli ingredienti per un’esplosione, forse fin troppo dirompente, del mercato dell’auto elettrica c’erano tutti. E secondo le teorie dietrologiche, il tutto andò in fumo a causa della lobby petrolifera, che lanciò una dura battaglia di contro informazione sui media e nei confronti dei parlamentari californiani per modifica re la legislazione in vigore. Nel 2003 la GM, come d’al tronde fece anche la Honda con la EV+, decise di ritirare tutte le EV1 sul mercato. Per veder risorgere l’elet trico è necessario guardare dall’altra parte dell’Oceano Pacifico: verso il Giappone.

struttore austriaco Ferdinand Porsche, fon datore della casa automobilistica che porta il suo nome, ma questa tecnologia fu appunto soppiantata da quella a combustione inter na. La prima auto ibrida moderna risale al 1997: era la Prius di Toyota Motor. Dopo aver subito una grave crisi tra il 1992 e il 1993, il gruppo dirigente comprese quanto fosse vitale lanciarsi nello svilup po dell’auto del XXI secolo. E ha vinto ampiamente la scom messa. Dei circa nove milio ni di autovetture ibride ven dute dal 1997 a oggi, più di sette sono di Toyota Motor. Sino al 31 dicem bre 2013 grazie ai loro veicoli ibridi sono stati risparmiati circa 15 mi liardi di litri di benzina. L’auto elettrica Il mercato dell’auto elet trica è invece a un livello ancora iniziale sia per i co sti delle auto (dovuti soprat tutto alle batterie) sia per la mancanza di una rete diffusa di colonnine di ricarica. L’auto elettrica potrà però rappresentare un grande esempio di innovazione nell’ambito della mobilità. Tanto per fare un esempio, la presenza di una grande quan tità di energia elettrica stoccata nelle batterie consente di creare i cosiddetti chassis by wire, telai controllati e gestiti solamente da elettronica ed energia elettrica, senza nes suna componente meccanica (configura zione detta drive by wire). L’assemblaggio del mezzo è più semplice e le performance di guida migliorano: la distanza di arresto si riduce, mentre lo sterzo elettrico è più sen sibile ai comandi, facilitando i parcheggi. Un’altra opportunità è quella di poter in serire il motore all’interno delle ruote, grazie a disposi tivi miniaturizzati. Nel caso di auto di medie e grandi dimensioni, una ruota più pesante può renderle meno stabili, mentre non mostra no problemi le piccole city car. Grazie alla mancanza del motore anteriore e delle tipiche parti meccaniche delle auto a benzina, si po tranno creare delle nuove configurazioni. Per esem pio realizzare veicoli più compatti e salire e scendere anche dal davanti e non solo lateralmen te. Una soluzione in grado di accrescere di molto la sicurezza, mentre oggi le auto ri cordano ancora i carri trainati dai cavalli.

L’auto elettrica fu messa nel dimenticatoio fino al 1987, quando General Motors vinse il più importante rally di veicoli a energia solare, il World Solar Challenge

L’auto ibrida Da diversi decenni gli scien ziati giapponesi cercano del le valide alternative al petro lio, fonte di cui il Paese è pri vo. Una di esse è l’auto ibrida, un veicolo che monta un motore elettrico e uno tradizionale a combustione interna. La primissima auto ibrida risale a fine Ottocento grazie al co 080


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reali attraverso la geolocalizzazione. Una rete di informazioni che tende a ibridarsi sempre più con il reale, che esce dalle macchine per ancorarsi alle cose, agli oggetti, agli edifici. Il web 3.0, o internet delle cose, in questo senso promette di essere un’interfaccia davvero “naturale” nel rapporto tra utente e macchina, e soprattutto tra oggetti reali e informazioni virtuali. Basta vedere i video di Keiichi Matsuda e le sue città smart in cui il “reale” è il risultato di un’ibridazione profonda tra spazi reali e infografiche dei data e dei flussi di comunicazione connessa. Uno spazio aumentato e attraversabile con il corpo e con la mente. Ma se il reale stesso sostituisce il web e si trasforma nella rete della comunicazione dei data digitali, e il nostro attraversamento diviene il sistema più semplice di comunicazione, allora lo step successivo è quello di introiettare ancora più profondamente lo scambio comunicativo e passare così dal mobile al wearable computing. I Google Glasses, da questo punto di vista, prometterebbero di integrare tutte quelle capacità che stiamo descrivendo: la realtà aumentata alla base della visualizzazione dei data, i comandi vocali come interfaccia iper-friendly e la smaterializzazione del device, che si avvicina talmente al nostro corpo da diventarne quasi parte integrante, proprio come un paio di occhiali. I Google Glasses sono il presente e, nonostante qualche rinvio di troppo nella circolazione del prodotto sui mercati, i Glasses ci sono, li abbiamo visti all’opera... E il near future? Potrebbe essere che, anche in questo caso, sia Google a tracciarne la via. La compagnia di Mountain View ha, infatti, appena sborsato 2000 milioni di dollari per un sistema ancora più avveniristico, seppure velato da molto mistero. La start-up Magic Leap, presentata in alcune fiere, promette di generare figure tridimensionali e interattive di fronte a noi senza bisogno di schermi o apparecchi per la visualizzazione. Sarebbe il sogno della comunicazione olografica: totalmente immersiva, interattiva e realistica, e che prevede un uomo non solo immerso, ma completamente integrato nella comunicazione.

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In un mondo creato interamente da noi ci viviamo già. Non è forse questo internet? Uno spazio completamente artificiale che avvolge le nostre esistenze Era convinzione di Hegel che l’uomo conoscerà la vera libertà soltanto «circondandosi di un mondo da lui interamente cre ato». Buona parte degli scenari immaginati dalla fantascienza è imperniata proprio sull’ipotesi che il nostro benessere proceda di pari passo con la possibilità di plasmare il mondo, di piegarlo quanto più possibile ai nostri bi sogni e desideri. Non di rado però le congetture di scrittori e cinea sti hanno prospettato panorami tutt’altro che allettanti, ponendo seri dubbi sulla nostra capacità di realizzare mondi ideali. Dubbi peraltro coi quali possiamo fare i conti anche senza addentrarci in un futuro di fantasia. In un mondo creato interamente da noi ci viviamo già. Non è forse questo internet? Uno spazio com pletamente artificiale che avvolge le nostre esistenze? A chi lo esalta come una sorta di paradiso nel quale è possibile esprimersi sen za freni si oppongono coloro che lo guardano con sospetto, scor gendovi l’esatto contrario della libertà, ovvero un sofisticato stru mento di controllo, un panoticco dove ogni nostro movimento vie ne tracciato e archiviato per fini più o meno malevoli. C’è comun que un aspetto che sembra met tere tutti d’accordo: il web è un mondo, virtuale quanto si vuole ma pur sempre un mondo. E per ché mai dovremmo definirlo di versamente, visto che lo abitiamo come si abita un mondo? Pensandoci bene, però, prima di essere un mondo, internet è in sostanza la creazione di un insieme di macchine intercon nesse il cui funzionamento non differisce molto da quello di un 085


cervello. Ed è probabilmente così che lo stesso internet si defini rebbe semmai avesse una qual che forma di consapevolezza. Il che implica che esista soltanto un mondo nel quale tutto è inte ramente creato da noi, la nostra mente appunto. Un mondo ester no interamente creato dall’uomo non potrà, infatti, che essere un mondo di macchine. Ma se così è, per confutare l’assunto di Hegel dovremo domandarci quale vera libertà si può mai conoscere in un mondo di macchine. All’incirca nello stesso periodo in cui il filosofo tedesco faceva le sue riflessioni, una ragazza inglese di nome Mary Shelley concepiva una creatura destinata ad avere molti eredi nel campo della fantascien za. Pur non essendo una macchi na in senso stretto, il mostro di Frankenstein può essere conside rato il capostipite della folta genia di robot, cyborg e androidi che hanno popolato l’immaginario del ventesimo secolo. È un assem blaggio di membra e organi inerti cui viene trasmessa vita attraverso l’elettricità nell’intento di liberare l’uomo dalla più grande e definiti va delle condanne, quella di dover morire. Disgraziatamente la crea tura non vuole saperne di restare al suo posto, si ribella al creatore rivelandosi un mostro. Anziché liberarci dalla morte, decide di di spensarla anzitempo. Uccide. Nel mondo comune, quello della cosiddetta realtà, le macchine non costituiscono una minaccia espli cita. Ci appaiono nella prospetti va di Hegel. Ci liberano dai lavori pesanti, dalle grandi distanze, dal la noia e talvolta anche da alcuni malanni e impedimenti fisici. La 086

fantascienza ne ha invece esaltato il lato oscuro. Dalla comparsa del mostro di Frankenstein, la possi bilità che i prodotti dell’umano ingegno possano sfuggire al con trollo è stato un tema ricorrente, se non il tema per eccellenza dei racconti che parlano di macchine. All’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso, Isaac Asimov, il più scientifico degli scrittori di fantascienza, prese di petto il problema e fissò le famosissime leggi della robotica. Tre regole dalla logica semplice e stringente che ogni macchina è obbligata a rispettare e che le impediscono di recare danno a un essere umano. Un’obiezione sorge tuttavia spon tanea: se il mondo è pieno di uo mini che infrangono la legge, per ché mai le macchine create dagli uomini non dovrebbero fare al trettanto? E, infatti, il cinema di fantascienza pullula di saghe dove i robot vanno ben oltre l’oc casionale infrazione di una legge. Pellicole quali Terminator, Tran sformers e Matrix prospettano scenari di guerra. Racconti di macchine dotatesi di una propria

Se il mondo è pieno di uomini che infrangono la legge, perché mai le macchine create dagli uomini non dovrebbero fare altrettanto?


Dalla comparsa del mostro di Frankenstein, la possibilità che i prodotti dell’umano ingegno possano sfuggire al controllo è stato il tema per eccellenza dei racconti che parlano di macchine

MINACCE A BULLONI Le immagini sono tratte da: 2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968), Guerre stellari (George Lucas, 1977), Avatar (James Cameron, 2009) e Matrix (Lana e Andy Wachowski, 1999). Pellicole celebri che eplorano il senso di curiosità e minaccia provato dall’uomo nei confronti della tecnologia.

organizzazione sociale e inten zionate a sottomettere la razza umana. Ciò che fu concepito per la nostra liberazione diviene dun que l’artefice di una nuova schia vitù. Va detto che simili apocalit tiche previsioni sono figlie di con trasti reali e molto antichi. Se ne trovano tracce già nell’Inghilterra di fine Settecento, coi sabotaggi dei telai industriali da parte dei luddisti. È però lontano dall’in ferno delle fabbriche e catene di montaggio che le cose si fanno davvero inquietanti. Nell’intimi tà confortevole dello spazio do mestico, il sospetto che le mac chine si stiano impossessando di noi affiora infatti in modi più inaspettati e sconvolgenti. In Deus ex machina, celebre racconto di Richard Matheson del 1963, un uomo fa una terribile scoperta mentre si trova in bagno, da vanti allo specchio. Si taglia radendosi, ma quello che vede colare tra la schiu ma da barba non è sangue, bensì olio. Olio che sgorga da un ammasso di fili elettrici e parti me

talliche. L’uomo è una macchina, come sono macchine le cose che lo circondano. Il cibo è grasso per ingranaggi, le bevande sono lu brificanti, la pioggia che cade dal cielo è in realtà olio per motore. Tra gli autori che hanno indaga to la questione, la figura centrale resta tuttavia Philip K. Dick, i cui mondi indecidibili, irrimedia bilmente sospesi tra realtà e fin zione, natura e artificio, trovano il loro incubo ricorrente proprio nel timore che le macchine pos sano spacciarsi per esseri umani. A spaventare Dick non era tanto la macchina in sé, quanto il fatto che una persona possa nascon dere lo stesso gelo di sentimen ti, la stessa totale indifferenza e assoluta mancanza di empatia tipici di una macchina. Teme va cioè le creature inorganiche costruite dall’uomo potessero mettere in discussione l’antico monito di John Donne. Nessun uomo è un’isola, ma può sempre diventare macchina. Del resto, se Dio ci ha creato a sua immagine e somiglianza, è logico pensare che le nostre creazioni siano sta te concepite in base a un criterio analogo. E chissà che non sia dav vero così. Forse somigliamo alle nostre macchine più di quanto siamo disposti a credere.

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03.2015

Co contexts

ITALIAN ROBOTS Italy is no longer just a place of excellence in fashion and crafts, but it has flourishing activities in the field of automation. This is a technological frontier that promises big changes, not only in emergency situations, but also in daily life. by Riccardo Oldani Science journalist

Humanoid robots, robotic prostheses, cars that are ‘self-driven’ without needing any driver: you don’t have to fly across oceans and go to the United States or Japan to find the technology centers that are developing these. You need go no further than south of the Alps to get an idea of the type of research that is being conducted, for example, in Genoa, at the IIT, the Italian Institute of Technology, which is working on two extraordinary humanoids: ICub, the size of a five-year-old child, or COMAN, which although it has two legs and two arms just like us, never falls down, even if it is pushed, thanks to an absolutely unique balance system. Or else there is what is being worked on at the VisLab of Parma, the first research laboratory capable of making robotic vehicles that can travel more than 13,000 kilometers, from Italy to China, and the first on the world that enables self-driving cars to operate in city traffic. All this happened long before Google presented its driverless car, without any steering wheel or pedals, that made the headlines around the world in early 2014. And again, just ask about the activities conducted in Pontedera at the Scuola Superiore Sant’Anna of Pisa, where they created the first prosthetic hand and robotic arm ever to be implanted in a live patient. Thanks to Italian technology, a thirty-year-old Danish man, whose arm had been amputated below the elbow after

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an accident with New Year’s fireworks, (obviously not just an Italian tradition) now has a brand new sturdy metallic arm with which he has even found some sensation of touch, thanks to high-tech fingertips and connections that plug directly into his nervous system. Excellence from the north to the south But the list certainly does not end here. And so, while in Verona they are studying robotic systems for brain surgery, in Milan, at AIRLab, the Polytechnic University’s laboratory, they are developing robotic games and wheelchairs for disabled people that move with the power of thought; whereas the ITIA-CNR (Institute of Industrial and Automation Technologies) has developed the first automated system in the world designed for demanufacturing, i.e. disassembly of any type of electronic device to recover the precious metals that their circuits are made of – such as gold, copper, and rare earth – and the correct disposal of the other parts. This is work that is being done today through illegal channels in Africa or Asia, where a large amount of electronic waste produced in the West is then disassembled by kids who use solvents and substances that inevitably poison them. In Naples, the PRISMA Lab directed by Bruno Siciliano, is working on a robot able to make pizza that will actually be the first example of a robot capable of manipulating not just stiff objects, but also those that are elastic, just like the dough of the world’s most famous food. The opportunities for their industrial use are very promising. And in Peccioli, a small town in the Pisa area, an automated home has become the laboratory in which the Institute of Bio-robotics of the Scuola Superiore Sant’Anna of Pisa is developing entirely new robots that can assist with housework: taking out the garbage or doing the shopping, reminding you to take medi-

cation or bringing you a glass of water. And we could go on and on, talking about the robot explorers of the ENEA, the drones for rescue operations of the La Sapienza University in Rome, the University of Palermo’s robots that can create a relationship with autistic children or pick oranges, or the University of Catania’s monitoring of the vents of the volcano Mount Etna. From the Alps to the islands, Italy seems to be pervaded by a creative effort, led by a seasoned team of Italian researchers who are working to make the machines of the future.

The culture of Italian know-how, manual adroitness, which has led to many firsts in the field of fashion, design, and the furniture industry, also emerges forcefully in robotics Robots are our future This could be a great opportunity for Italy’s industry and for its economy. Giorgio Metta, the IIT’s project manager for the humanoid robot ICub, is convinced that the small white humanoid, developed in Italy for research purposes, could also become something that will be extremely useful in the future, “a personal robot or a personal assistant, which can help us to do so many things in the house, from the simple act of bringing us something to drink or an object, to carrying out orders such as turning on the lights or the washing machine. The technology is not so far-off, we could achieve it in a few years.” And the fact that all the skills to achieve the ICub have been developed in Italy puts it a significant step ahead of international competition. The IIT is looking for private investors to develop the project on a commercial level. Even if some foreign group gets there first, as is









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03.2015

Co contexts

BITCOIN THE DREAM OF A TRANSPARENT CRYPTOCURRENCY For seven years now there has been a new economic reality, a virtual currency, but with operating mechanisms that are very similar to those of any other currency. Bitcoin, so simple and impalpable, cannot be lost on the street or weigh down your billfold; people are becoming more and more interested in its existence but governments still do not know how to handle this currency. by Federica Ionta Journalist

On January 4, 2015, a group of hackers attacked the British portal BitStamp. This is not just any site, but the largest European sales operator of Bitcoin, the first digital currency. In just a few hours, 19,000 units, the equivalent of five million dollars, went up in smoke. “That was a small fraction of the total reserves of the platform, which are contained in safe offline storage systems,” the CEO of BitStamp, Nejc Kodrič quickly pointed out. But the portal was blocked for five days while awaiting the upgrade of all its safety systems. The attack on BitStamp inaugurated a decisive year for this electronic cryptocurrency. An unknown person with the pseudonym Satoshi Nakamoto published an article entitled Bitcoin: A Peerto-Peer Electronic Cash System in 2008. The following year, the first version of the open source software was released: thus the centralized digital currency came into being which is transferable from person to person via the Internet without needing any financial intermediaries, with the same principle as the physical exchange of goods between people.

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The way bitcoin works is not very different from that of any currency: you can buy it and sell it, its value depends on the encounter between supply and demand, and it is used to pay for goods or services. But there are some key differences: it is not a fiat currency or legal tender and its creation is not entrusted to a central body but to ‘miners’, experienced programmers who control the fairness of transactions in exchange for newly issued bitcoins. This is not an infinite process: when 21 million bitcoins have been minted, the mechanism will stop (we are now at about 13 million). According to Coinbase – the most-used platform for buying cryptocurrency in North America – today there are more than 3,500 businesses and professionals in the world who have agreed to be paid in Bitcoins. About 350 of them are in Italy: hotels and restaurants, but also architectural firms and agencies that offer their services in exchange for the electronic cryptocurrency. Who handles these transactions? Nobody: the bitcoin network cannot be ‘owned’, the protocol and software are public domain, and any developer in the world can revise the code. Anyone can have a bitcoin portfolio. Just sign up on a portal such as BitStamp or Coinbase (in Asia, the commonest one is Huobi), convert your dollars, euros or other accepted currencies into bitcoins, thereby creating a digital wallet. In Italy in 2014, the company Robocoin installed three Robokiosks in Rome, Milan, and Florence: these machines are very similar to traditional ATMs which, through a process with four stages of authentication, allow their holders to purchase new bitcoin currency or withdraw from their digital account. Although the supporting technology has advanced in the past six years, gaining growing

interest from the general public and banks (in Canada, the country where it is used the most, 19 out of 21 financial institutions are working with bitcoins), its legislation has been much slower, leaving many questions unanswered. The accusations made by bitcoin-skeptics mainly concern safety. According to some, it would be an unlawful circuit because it is anonymous, thus fertile ground for terrorist organizations and criminal groups, based on a volatile currency. Even the site itself, Bitcoin.org, sponsored by the Bitcoin Foundation, warns users, stressing that “keeping your savings in bitcoin is not recommended,” because “bitcoin should be considered as a resource at high risk, and you should never put away money with bitcoin that you can’t afford to lose.” In reality, the user’s name can be traced through the string of codes, and transparency and protection of the system are guaranteed by special mathematical functions. According to some sources, the FBI has arrested more than two thousand people by checking cryptocurrency transactions, and the money seized has been returned to the market (which, on the contrary, is not the case with cash). In 2014, the phrase “what is bitcoin” was the fourth most popular search on Google and suchlike in the United States: this is evidence that the public is, if not yet ready, definitely intrigued. Today however, seven years after its birth, the value of Bitcoin is at its historical low of just over $200 against the $1,150 at the end of 2013. Security is still a central issue, along with a series of regulatory and fiscal issues. There is no law on bitcoins, although tax authorities in much of the world (US, UK, Germany, Spain, Norway) are already moving to try to frame the phenomenon from a tax point of view. In Italy, in June 2014, the member of parliament Sergio

Boccadutri called for “a survey regarding electronic cryptocurrency”. It is too soon to talk about a bill, but the institutions are interested and the European Central Bank is also considering what position to take. When the car was invented, it was expected that, among other things, a pedestrian would precede the car on the road, waving a red flag to warn passersby of the impending danger. This obligation was not enough to stop that technology. One wonders what will happen to the bitcoin in a hundred years’ time: whether its regulation will help it spread, or end up reining in this cryptocurrency with a set of rules, thereby in fact decreeing its demise.







Oxygen 2007/2015 Andrio Abero Giuseppe Accorinti Amylkar Acosta Medina Emiliano Alessandri Nerio Alessandri Zhores Alferov Enrico Alleva Colin Anderson Lauren Anderson Martin Angioni Ignacio A. Antoñanzas Paola Antonelli Simone Arcagni Marco Arcelli Ben Backwell Antonio Badini Roberto Bagnoli Andrea Bajani Pablo Balbontin Philip Ball Alessandro Barbano Ugo Bardi Paolo Barelli Vincenzo Balzani Roberto Battiston Enrico Bellone Mikhail Belyaev Massimo Bergami Carlo Bernardini Tobias Bernhard Alain Berthoz Michael Bevan Piero Bevilacqua Ettore Bernabei Nick Bilton Lorenzo Bini Smaghi Andrew Blum Gilda Bojardi Angelo Bolaffi Aldo Bonomi Carlo Borgomeo Albino Claudio Bosio Stewart Brand Franco Bruni Luigino Bruni Giuseppe Bruzzaniti Massimiano Bucchi Pino Buongiorno Nick Butler Tania Cagnotto Michele Calcaterra Gian Paolo Calchi Novati Davide Canavesio Paola Capatano Maurizio Caprara Carlo Carraro Bernardino Casadei Federico Casalegno Stefano Caserini Valerio Castronovo Ilaria Catastini Marco Cattaneo Pier Luigi Celli Silvia Ceriani Marco Ciurcina Corrado Clini Co+Life/Stine Norden & Søren Rud Davide Coero Borga

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Emanuela Colombo Elena Comelli Ashley Cooper Barbara Corrao Paolo Costa Rocco Cotroneo Manlio F. Coviello George Coyne Paul Crutzen Brunello Cucinelli Roberto Da Rin Vittorio Da Rold Partha Dasgupta Marta Dassù Andrea De Benedetti Luca De Biase Mario De Caro Giulio De Leo Michele De Lucchi Gabriele Del Grande Domenico De Masi Ron Dembo Gennaro De Michele Andrea Di Benedetto Gianluca Diegoli Dario Di Vico Fabrizio Dragosei Peter Droege Riccardo Duranti Freeman Dyson Magdalena Echeverría Daniel Egnéus John Elkington Richard Ernst Daniel Esty Monica Fabris Carlo Falciola Alessandro Farruggia Antonio Ferrari Francesco Ferrari Paolo Ferrari Paolo Ferri Tim Flach Danielle Fong Stephen Frink Antonio Galdo Attilio Geroni Enrico Giovannini Louis Godart Marcos Gonzàlez Julia Goumen Monique Goyens Aldo Grasso Silvio Greco Maria Patrizia Grieco David Gross Sergei Guriev Julia Guther Giuseppe Guzzetti Jane Henley Søren Hermansen Thomas P. Hughes Jeffrey Inaba Christian Kaiser Sergei A. Karaganov George Kell Parag Khanna Sir David King Mervyn E. King

Tom Kington Houda Ben Jannet Allal Hans Jurgen Köch Charles Landry David Lane Karel Lannoo Manuela Lehnus Johan Lehrer Giovanni Lelli François Lenoir Jean Marc Lévy Leblond Ignazio Licata Armin Linke Giuseppe Longo Arturo Lorenzoni L. Hunter Lovins Mindy Lubber Remo Lucchi Riccardo Luna Eric J. Lyman Tommaso Maccararo Paolo Magri Kishore Mahbubani Giovanni Malagò Renato Mannheimer Vittorio Marchis Carlo Marroni Peter Marsh Jeremy M. Martin Paolo Martinello Leonardo Martinelli Gregg Maryniak Massimiliano Mascolo Mark Maslin Tonia Mastrobuoni Marco Mathieu Ian McEwan John McNeill Daniela Mecenate Lorena Medel Joel Meyerowitz Stefano Micelli Paddy Mills Giovanni Minoli Marcella Miriello Antonio Moccaldi Renata Molho Maurizio Molinari Carmen Monforte Patrick Moore Luca Morena Javier Moreno Luis Alberto Moreno Leonardo Morlino Dambisa Moyo Geoff Mulgan Richard A. Muller Teresina Muñoz Nájar Giorgio Napolitano Oriol Nel·lo Edoardo Nesi Ugo Nespolo Vanni Nisticò Nicola Nosengo Helga Nowotny Alexander Ochs Robert Oerter Alberto Oliverio Sheila Olmstead

Vanessa Orco James Osborne Rajendra K. Pachauri Mario Pagliaro Francesco Paresce Luca Parmitano Vittorio Emanuele Parsi Claudio Pasqualetto Corrado Passera Alberto Pastore Darwin Pastorin Federica Pellegrini Gerardo Pelosi Shimon Peres Ignacio J. Pérez Arriaga Matteo Pericoli Francesco Perrini Emanuele Perugini Carlo Petrini Telmo Pievani Tommaso Pincio Giuliano Pisapia Michelangelo Pistoletto Viviana Poletti Giovanni Porzio Borja Prado Eulate Ludovico Pratesi Stefania Prestigiacomo Giovanni Previdi Antonio Preziosi Filippo Preziosi Vladimir Putin Alberto Quadrio Curzio Marco Rainò Virginie Raisson Federico Rampini Jorgen Randers Mario Rasetti Carlo Ratti Henri Revol Gabriele Riccardi Marco Ricotti Gianni Riotta Sergio Risaliti Roberto Rizzo Kevin Roberts Lew Robertson Kim Stanley Robinson Sara Romano Alexis Rosenfeld John Ross Marina Rossi Bunker Roy Jeffrey D. Sachs Paul Saffo Gerge Saliba Juan Manuel Santos Giulio Sapelli Tomàs Saraceno Saskia Sassen Antonella Scott Lucia Sgueglia Steven Shapin Clay Shirky Konstantin Simonov Cameron Sinclair Uberto Siola Francesco Sisci Craig N. Smith

Giuseppe Soda Antonio Sofi Donato Speroni Giorgio Squinzi Leena Srivastava Francesco Starace Robert Stavins Bruce Sterling Antonio Tajani Nassim Taleb Ian Tattersall Paola Tavella Viktor Terentiev Chicco Testa Wim Thomas Stephen Tindale Nathalie Tocci Jacopo Tondelli Chiara Tonelli Agostino Toscana Flavio Tosi Mario Tozzi Dmitri Trenin Licia Troisi Ilaria Turba Luis Alberto Urrea Andrea Vaccari Paolo Valentino Marco Valsania Giorgio Vasta Nick Veasey Matteo Vegetti Viktor Vekselberg Jules Verne Umberto Veronesi Alejo Vidal Quadras George Vidor Daniela Vincenti Marta Vincenzi Alessandra Viola Mathis Wackernagel Gabrielle Walker Elin Williams Changhua Wu Kandeh K. Yumkella Anna Zafesova Stefano Zamagni Antonio Zanardi Landi Edoardo Zanchini Carl Zimmer

Testata registrata presso il tribunale di Torino Autorizzazione n. 76 del 16 luglio 2007 Iscrizione al Roc n. 16116 Finito di stampare a marzo 2015 presso Tipografia Facciotti, Roma




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