Davide Lajolo - FENOGLIO Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe

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raccontare quella guerra diversa da ogni altra, dichiarando con franchezza anche le cose che per altri sarebbero state da tacere e che invece lui ritiene indispensabile dire, cose di cui non vale vantarsi ma neanche vergognarsi. In Fenoglio c'è sempre una tensione umana e civile, un grido di libertà. Anche Pavese racconta di quella guerra ma lo fa con il ritegno di chi è stato alla finestra pur avendo nell'anima ben chiara la scelta giusta. Fenoglio racconta di uomini e di cose insanguinate perché non vuole e non può nascondere il sangue, ma pur nella storia di violenza sgorga a tratti la tenerezza delle parole che presentano il sangue come la terra, come l'erba. Fenoglio sta dentro fino al collo nei suoi racconti, ma essendone stato tra i protagonisti, può ogni tanto anche appartarsi, starne fuori, giudicarli e giudicarsi. Pavese invece inietta dentro il tarlo del suo rimorso e l'ambigua necessità di una giustificazione. Così anche nella narrazione degli stessi fatti Pavese e Fenoglio hanno modi, linguaggio e caratteristiche opposte. Per precisare ancor meglio l'individualità di scrittore che Fenoglio si conquista fin dal primo libro pubblicato, riportiamo il giudizio con cui Vittorini accompagnava appunto I ventitré giorni della città di Alba: "Con Beppe Fenoglio la nostra collana presenta un nome del tutto nuovo alla letteratura. Fenoglio è nato nel 1922 ad Alba dove è vissuto fino a quando è andato soldato e vive ancora oggi. Fuori di ogni descrittiva regionalistica della sua provincia sa cogliere più che il coraggio naturale, il piglio in cui si articolano i rapporti umani, un gusto 'barbarico' che persiste come gusto di vita non solo nel costume del retro terra piemontese. Ed è questo sapore 'barbaro' a caratterizzare i racconti che ora presentiamo, rievocanti episodi partigiani o l'inquietudine dei giovani nel dopoguerra. Sono racconti pieni di fatti, con un' evidenza cinematografica, con una penetrazione psicologica tutta oggettiva e rivelano un temperamento di narratore crudo ma senza ostentazione, senza compiacenza di stile ma asciutto e esatto". Pochi mesi prima dell'uscita di questo libro, Pavese era rientrato nel grembo della madre terra dopo essersi tolto la vita. Credo che Fenoglio abbia sentito, con questa perdita, una responsabilità in più. Ancora: Pavese era un grumo di sofferenza, portava sulle spalle la morte, come ci dice lui stesso nella famosa poesia, "come un vecchio rimorso - o un vizio assurdo" ma non affrontava mai di petto il tragico nello scrivere. La sua cultura, la sua conoscenza dei capolavori, delle avanguardie, di tutte le letterature d'altri paesi, lo portava a trattenere le parole quando scriveva, ad adombrarle di una patina misteriosa. Pavese ha anche scritto: "Scrivere è come ballare". Per Fenoglio accadeva l'opposto. Scrivere era fare presente, denunciare. Sintetizza bene questa impostazione Pietro Chiodi r "Fenoglio fu, in ultima analisi 'scrittore civile', e la denuncia prese in lui la forma ancestrale del far-vedere: si tratta di un tar-vedere che è un guardare con stupore, orrore e commiserazione, il tutto concentrato - e non diluito - nel 'semplice' guardare. Ma la 'semplicità' di questo 'semplice' è la tensione composta e quasi irrilevabile del tragico. Fenoglio fu uno scrittore civile perché fece vedere il tragico come interiorizzazione della 'necessitudo' cioè come destino di una generazione che dovette assumere incolpevole una inesauribile eredità di colpa. Questa interiorizzazione prende la forma tragica del ritorno di Fenoglio alla Langa cioè del ritorno dopo l'educazione letteraria, al fango antico delle colline, impastato da secoli di sudore e ora di sangue". .

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