Suntime ottobre

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Giuseppe De Pietro

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Sommario

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Sogno Galapagos

ai confini del mondo testo di Valentino De Pietro

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Seychelles la magia di un arcipelago testo di Clara Racanelli

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Colombia, sulle orme dei conquistadores nel cuore delle tradizioni precolombiane testo e foto di Roberto Lippi

pag. 33

Turchia un crogiolo di civiltà testo e foto di Viviana Tessa

pag. 38

Marocco Incantato testo di Egidio Cherubini

pag. 42

Loira: di castello in relais nel cuore della Douce France, ai margini del fiume testo di Teresa Carrubba

pag. 46

LE PORTE DELLA TUNISIA: Sidi Bou Said testo di Viviana Tessa e foto di Pamela McCourt Francescone Due passi nella storia testo e foto di Pamela McCourt Francescone

pag. 54

Verso la Croazia, diario di un viaggio in moto testo e foto di Pierantonio Sborgia

pag. 60

Un percorso nel Gran Bosco della Mesola testo di Luisa Chiumenti

pag. 64

Magie autunnali nella laguna nord di Venezia, un itinerario sconosciuto testo e foto di Giuseppe Garbarino

pag. 68

EGO Montecatini terme testo di Maria Grazia Buccianti

pag. 74

EGO Spa Village Resort Tembok Bali Testo di Josée Gontier

pag. 14

Patagonia la terra del fuoco testo di Giuseppe De Pietro

pag. 19

L’Oro di Buddha

testo e foto di Pamela McCourt Francescone

EGO pag. 74

Spa Village Resort Tembok Bali testo di Josée Gontier

pag. 79

EGYPTAIR un mondo in evoluzione

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SPORT E AVVENTURA In palestra l’equilibrio del dopo-estate testo di Marina Arditi

pag. 86

pag. 89

GUSTO Vegetarianismo una filosofia di vita testo di Renato Alessio AGRITURISMO BIO Griffin’s Resort testo di Raffaella Ansuini

pag. 92

SAGRE E TRADIZIONI testi di Mariella Morosi

pag. 94

LIBRI E GUIDE

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Testo di Valentino De Pietro “Tanto nello spazio quanto nel tempo, sembra di venire trasportati vicino a quel grande evento, quel mistero dei misteri che fu la prima apparizione dei nuovi esseri su questa Terra”. E’ l’intrigante definizione delle Galapagos da parte del naturalista Charles Darwin il quale, dallo studio delle molteplici specie endemiche di flora e fauna di queste terre, ha trovato spunto per la sua illuminante Teoria dell’Evoluzione. Tant’è, il saggio “L’origine delle specie” rivela proprio l’attenta osservazione della natura delle Galapagos. Non a caso, visto che alcune isole dell’arcipelago datano circa 4 milioni di anni e il lunghissimo isolamento a causa della distanza da altre terre, della diversità del clima e di ecosistema influenzati dalle correnti marine, ha portato alla formazione di una Natura “esclusiva”. Il viaggio alle Galapagos, dunque, è un viaggio in un’altra dimensione. Seminascosta tra i sassi arrotondati in riva al mare, di cui assume persino colore e forma, scorgiamo

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Galapagos Dream To the ends of the earth Words by Valentino De Pietro “Both in space and in time, it seems like being transported close to that great event, that mystery of mysteries, which was the first apparition of new beings on this Earth.” This emotional description of th Galapagos islands is Charles Darwin’s. And it was having observed the numerous endemic species of flora and fauna on the islands that Darwin was inspired to write his illuminated theory of evolution. His famous treatise “On the Origin of Species” contains numerous references to his studies on the endemic species of the Galapagos islands. And it is no mere coincidence, as some of the islands in the archipelago date back 4 million years and, given their relative isolation and distance from the continent, apart from the ample variety of climates and habitats due to the marine currents, it is not surprising that they enjoy an “exclusive”

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a malapena una foca distesa e addormentata; si tratta di una giovane femmina di “lobo de mar”. Pochi passi più in là ci rendiamo conto della grande quantità di fitti cespugli di taglia bassa dove nidificano le fregate. Nidi ovunque, i maschi adulti gonfiano l’enorme gola rossa come vessillo della loro sensualità per ammaliare le femmine che però si concedono il lusso di scegliere il migliore. Dalle tortuosità della riva spunta il muso trogloditico di un’iguana marina, altre la seguono dando a noi visitatori una sequenza inarrivabile di stimoli. La superficie del terreno, solidificazione di remote colate di lava, s’increspa in rigide inquietanti pieghe e in rocce che simulano la ghisa, disegnando uno scenario illusorio che fa pensare ad un altro pianeta. L’eruzione di un secolo fa ha fatto piazza pulita di erbe rigogliose la-

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nature. And so a journey to the Galapagos is a journey into another dimension. Camouflaged by the rounded stones on the shore and of their same colour, we can barely make out a seal in the distance, it is a young female “lobo de mar” who is asleep. Then our attention wanders to the low shrubs where some frigate birds are nesting. There are nests everywhere with fledglings, more mature birds, and adult males blowing out their enormous red throats to attract the females who fly overhead seeking the most attractive males as mating partners. And then, hidden in the gorges along the shore, we see our first marine iguana, the first of many. There is so much to see that it is impossible to take it all in. A lava flow, the surface of which resembles a fluid that has only just solidified and on which the creases trace an unreal landscape. Rocks


sciando spazio solo a piante immarcescibili come cactus e poco altro. A Bartolomé ci inerpichiamo sulle pendici di un vulcano spento. Dal bordo del suo cratere il respiro si ferma di fronte allo spettacolo che si para ai nostri occhi. Un cordone di sabbia formata da polvere di corallo, s’insinua nel mare legando insieme la collina ad altre due più piccole. Al di là, l’isola di Santiago, un grande territorio disseminato da rocce nere di lava, ricordo di recenti eruzioni vulcaniche, in mezzo ad altre di colore naturale, con un effetto bicromatico davvero impressionante. Sembra che quest’isola funga da curioso spartiacque: a sinistra della lingua di sabbia, la baia è spesso ritrovo per i pescecani, quindi accuratamen-

so hard they resemble congealed cast iron. The eruption took place more than a century ago, but this arid and inhospitable landscape is colonized only by scattered cactus bushes, some lizards and a few insects. On Bartolomé we climb to the summit of an extinct volcano which is over a hundred meters high. The views are stunning, with a long bank of white coral sand linking the hill to two other smaller hills, on the right of which a blade of rock soars skywards. In the distance we see Santiago; it is a large island and the part covered by the lava flow is extensive with smaller, older, different coloured hillocks protruding from the black rocks. Our guide explains that the beach to the left of the

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te da evitare, quella di destra, almeno così ci assicura la guida, è tranquilla e balneabile. Un odore forte e pungente desta la nostra attenzione, ci spiegano che quest’isola è abitata da una colonia di leoni marini. Gli esemplari maschi, grazie alla loro forte stazza, alcune centinaia di chili, non devono faticare molto a difendere il proprio territorio, mentre le femmine si crogiolano al sole. A forza di rotolare sulle rocce dell’isola i leoni marini hanno smussato le loro asperità rendendole tipicamente arrotondate. La rara ed aspra vegetazione non riesce a nascondere quelle creature primordiali che qui sono a casa, le iguane, il cui aspetto rimanda ad un’altra era, quella dei dinosauri. Si nutrono dei frutti di cactus e si riuniscono a branchi cercando angoli riparati dal vento, con difficoltà, visto che Bartolomé è un’isola aspra e brulla, disseminata da concrezioni di lava

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sandbank is frequented by sharks, but that the beach on the right is safe and that we can swim there. The pungent air tells us that a colony of sea lions lives on the island; the coast is divided into areas for the massive males, which weight hundred of kilos and defend their territory against all intruders including unwary tourists, while the young females warm themselves in the sun as the cubs nuzzle up to them to feed. Their cries fill the air. There are hundreds of them and the rocks are worn and rounded by their constant comings and goings. We make our way between the rocks and meet the land iguanas. Given the sparse vegetation on the island they have adapted to eating cactus, and are particularly fond of the cactus fruit, although they also gobble the leaves. These strange animals, which are no longer than a metre in length and weight about fifteen


rappresa e rugosità simili a bocche di crateri che l’associano alla crosta lunare. Pochi gli interventi dell’uomo; una rudimentale scala di legno ci porta in cima a una collina da dove si offrono ad uno sguardo attonito le altre isole e la Roccia Pinnacolo, una formazione di tufo a picco sulla Baia di Sullivan, spesso popolata da pinguini endemici delle Galapagos, tartarughe marine e squali dalla pinna bianca. Lungo il cammino che porta alla cima, abbiamo la possibilità di incontrare una grande colonia di iguane e delle cosiddette “lucertole di lava” e di osservare decine di cactus e piante rare come rizoforee rosse e tiquilia. Dalla riva, invece, avvistiamo pinguini delle Galapagos, tartarughe marine e squali dalla pinna bianca. Le 14 isole Galapagos, 8 grandi, 6 minori e 41 isolotti, poco più di uno scoglio, di origine vulcanica, raggruppate nell’Oceano Pacifico e attraversate dall’ Equatore, sono in realtà un parco nazionale dalle rarità naturali uniche, uno dei più famosi al mondo. Le isole si susseguono l’una all’altra, le più vecchie hanno 4 milioni di anni, mentre ne emergono ancora di nuove grazie ai fenomeni vulcanici, che qui sono più frequenti che in qualsiasi altra parte del mondo. Di alcune si vede infatti solo un’altura con grande cratere annerito di lava solidificata, altro non è se non la cima di un vulcano che in gran parte rimane sommerso. La frequenza di tali formazioni dà all’arcipelago delle Galapagos una fisionomia davvero unica. Alcuni di questi isolotti, già ben visibili dalla barca, sono diventati meta stanziale di stormi di uccelli

kilos, descend from dinosaurs. As the temperatures are low the reptiles seek protection from the wind, gathering in their hundreds. Bartolomé is a small island with an arid lunar surface and volcanic formations including lava pumps, scattered cones and volcanic ash. Having climbed up wooden stairs we are rewarded with a stunning view over the island and Pinnacle Rock, an eroded tufa cone, as well as wonderful views of Sullivan Bay. On the climb to the top we come across large colonies of iguanas and “lava lizards” as well as rare plants like red mangroves, tiquilla and cactus. From the shore we can see some Galapagos penguins, sea turtles (January-March) and white fin sharks. The 14 Galapagos islands, eight are large and six small, and the 41 islets most of which are little more than volcanic rocks, lie in the Pacific Ocean on the Equator, some 1,000 kilometers from the west coast of South America and are one of the most famous natural parks in the world thanks to their unique characteristics. They are strung out, one after the other. The oldest are four million years old while the younger islands are still forming. In fact the archipelago is considered one of the world’s most active volcanic areas. Created by massive explosions, each island is the tip of a giant volcano, three-quarters of which is submerged under the ocean. Which is what makes the archipelago resemble the surface of the moon. Observing each mountain crowned by its crater and the endless flows of lava which can be clearly seen makes one think that in a recent geological n° 3 - ottobre 2011

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anche endemici che qui nidificano e si riproducono dovunque. Paradiso per gli ornitologi. Anche l’albatros fa parte della fauna di quest’arcipelago ma con un’apertura alare di due metri, ha bisogno di una vera pista di atterraggio, dunque sceglie isole più pianeggianti. Gli uccelli qui hanno motivo di “accasarsi” anche grazie ad un pescosissimo mare che giustifica anche il viavai senza sosta di navi da pesca che ne fanno base di cospicuo bottino per il commercio. Si nutrono di questi pesci anche le tartarughe giganti, tra gli animali più famosi delle Galapagos. Ogni isola ha la sua razza endemica per via dell’isolamento e del diverso habitat, secondo la teoria dell’evoluzione della specie di Darwin. Un numero considerevole di specie faunistiche endemiche, soprattutto in proporzione al territorio relativamente ridotto di queste isole. Ben 11 sottospecie di Tartaruga Gigante delle Galapagos, ma anche iguane di mare e di terra, pinguini e 13 specie di fringuelli detti di Darwin per via del particolare studio che ne fece il naturalista. Sono endemiche anche alcune specie vegetali, cactus, alberi e Rizoforee di quattro colori differenti. Infine, la fauna marina in cui ci imbattiamo facilmente tra le scogliere di queste isole, occasione straordinaria per i sub, ma anche per il semplice nuotatore che può trovarsi davanti a branchi di otarie e razze. Tutto questo appartiene

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era, the Galapagos could have been separated by the ocean. We land on a small island. It is covered by birds and it is difficult to proceed for fear of stepping on a fledgling, a nest or an egg which has been left unattended. There are many albatrosses on this island. These birds have a wing span of two metres, they are as large as a turkey and have a funny gait and an even stranger mating ritual which unfortunately we were unable to capture as the battery of our camera went flat. Although the albatross is strong once in the air he has great difficulty taking off, often falling back on the land, and so they prefer to launch themselves from high cliffs. Fishing boats ply these seas incessantly as they have an abundance of fish, and the advantage of the system is evident, as this abundance of fish, which provides constant nourishment, is the reason there are so many animals on the islands. One of the most famous of all the animals on the Galapagos islands is the giant tortoise: each island has its own race of tortoise, the isolation and the environmental conditions having modified the morphology. Which is Darwin’s theory. Considering how small these island are, we are constantly amazed by the number of endemic species. The tortoises are symbols of the archipelago with 11 subspecies of the Giant Tortoise. But there are also sea iguanas, penguins and 13 species of finch, the famous birds that led to Darwin’s theory on the evolution of the species. There are also various species of endemic cactii, vegetation, trees and mangroves in four different colours. And


all’esperienza Galapagos. Come pure allontanarsi in barca verso il canale Bolivar per avvistare balene e delfini. Di ritorno dal canale sbarchiamo alla Baia Urbina nell’Isola Isabela, la più grande delle Galapagos, con 5 imponenti vulcani, tra i quali il Vulcano Wolf, la vetta più alta delle Galapagos (1 707 m.). Il primo impatto è con la scogliera su cui sono visibili dei graffiti, forse per mano di pirati e bucanieri sbarcati qui nell’Ottocento. Ma poi, lungo il sentiero che porta alla laguna di acqua salata di Darwin, si apre la straordinaria vista dei campi di lava con pittoresche formazioni naturali ad opera delle eruzioni vulcaniche e dell’azione dilavante dell’Oceano. Addentrandoci nelle lagune di mongrovie per cercare le tartarughe giganti ci imbattiamo in una particolare specie di iguane di terra con vistose creste sul dorso e dai forti colori arancione e giallo. Quattromila tartarughe giganti, pinguini delle Galapagos e fregate, ma anche tartarughe marine, razze, pesci martello, squali delle Galapagos, avvistabili grazie ad un’escursione in barca lungo la costa. Nell’”ultimo santuario di vita naturale”, prendendo in prestito la definizione di Jacques Cousteau delle Galapagos, questi animali rudi e dall’aspetto preistorico sembrano non scomporsi di fronte all’essere umano che si avvicina a loro con naturalezza, quasi fosse un altro abitante del loro Eden.•

then, the marine life. It is fascinating to discover it in the creeks and bays and along the pristine reefs. Many of the beaches are perfect for diving and swimming with seals, rays and sharks, which is one Galapagos experience not to be missed. Having crossed the Bolivar Canal hoping to see whales and dolphins, we make a wet landing on Isabel Island to visit Urbina Bay. On our way to see the giant tortoises we come across orange and yellow land iguanas with high crests on their backs. Giant tortoises, some 400 of them, Galapagos penguins and frigate birds also live on Isabel and later, swimming in the waters off the island, we see marine lizards, sea turtles, rays, hammer-head fish and white-fin sharks as well as Galapagos sharks. Isabela is the largest island in the archipelago and consists of five active volcanoes of which the Wolf Volcano is the highest point on the islands (1,707 metres). Along the rocky coastline we come across some 19th-century graffiti, probably left by pirates and buccaneers and, taking the path towards Darwin’s salty lagoon, we have a perfect view of the lava fields, the volcanic formations and the ocean. We take a boat and follow the coast where we see more marine life including Galapagos penguins and cormorants. In this “last sanctuary of natural life,” to quote Jacques Cousteau, these rare animals with their prehistoric features have learned there is nothing to fear from man. It is incredible how easy it is to approach them and be considered just another inhabitant of their paradise.• n° 3 - ottobre 2011

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Patagonia

Testo di Giuseppe De Pietro

Ushuaia, la Terra del Fuoco, e il maestoso ghiacciaio Perito Moreno

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Patagonia, la Terra del Fuoco

La Terra del Fuoco. Già il nome evoca letture infantili miste a sogni da viaggiatori. Mito e smanie di avventura si affastellano nella mente già prima di arrivare in questo luogo carico di mistero e luccicante di magia. Qui siamo ai confini del mondo. Ci arrivò per primo Magellano mentre cercava di raggiungere le Indie doppiando Capo Horn, e rimase abbagliato dagli inquietanti falò accesi nella notte dagli indios Onas in tutta l’isola. La Terra del Fuoco, appunto. Ma la realtà che ci si para davanti al nostro arrivo è


ben diversa. Del colore del fuoco ha solo i tramonti che riscaldano il cielo e si riflettono sui ghiacciai perenni e sulle acque gelide del mare con effetto estetico drammatico. Specie in piena estate, quando il giorno si dilata incredibilmente e nasconde tutto nell’oscurità al massimo per quattro ore. Siamo ai margini del Polo Sud e

vicini all’Antartide che potrebbe essere stata la sede di Atlantide, la leggendaria isola scomparsa. Un’ipotesi che di riflesso aggiunge un sapore di arcano anche alla vicina Patagonia visto che per un secolo dalla scoperta di Magellano e fino al 1619, quando gli olandesi arrivarono a Capo Horn, sulle mappe geografiche la Terra

del Fuoco figurava come l’estremità dell’Antartico, coperto da miti e leggende di una certa suggestione che comunque, per altri duecento anni, pervasero anche l’isola in questione. Fantasia a parte, sembra che proprio qui lo scienziato naturalista Darwin abbia localizzato il famoso anello di congiunzione nel processo di trasfor-

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mazione dalla scimmia all’uomo. Anche se poi dovette ricredersi. La Terra del Fuoco era abitata da quattro diverse popolazioni, con lingue e abitudini distinte. Due gruppi erano dediti soprattutto alla pesca, altri due vivevano nelle pianure cacciando il guanaco. Verso la fine del secolo scorso alcuni grandi allevatori inglesi notarono che nell’isola c’era un clima favorevole per molti mesi l’anno e pascoli rigogliosi. Cominciò così l’importazione di

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Patagonia, la Terra del Fuoco

esemplari di ovini che si riprodussero facilmente e a poco a poco sorsero grandi fattorie, le estancias, in tutto il territorio. Gli uomini che lavorano nelle estancias e le loro pecore non sono però gli unici abitanti ad essere arrivati di recente nella Terra del Fuoco. Furono introdotti anche altri animali, come il castoro portato qui da un canadese e riprodottosi a dismisura tanto da modificare la morfologia dell’isola con la sua presenza e le sue

abitudini. Le dighe dei castori, infatti, sbarrano fiumi che prima scorrevano liberi, con l’effetto di vistose esondazioni e la conseguente trasformazione in palude di intere vallate. La Terra del Fuoco, divisa tra Argentina e Cile, praticamente è un arcipelago anche se è l’isola principale la più conosciuta e visitata, l’Isla Grande, la cui capitale Ushuaia è la città più lontana e meridionale del pianeta. Argentina solo politicamente, in re-


altà Ushuaia dista addirittura 3.200 chilometri da Buenos Aires ed è quindi un mondo a sé. La città è situata sulle rive del Canale di Beagle la cui navigazione consente l’avvicinamento a splendide isolette dove vivono uccelli, pinguini ed orche ed è immersa nel Parque Nacional Tierra del Fuego. Un’immensa riserva naturale, 63.000 ettari di boschi, fiumi, laghi e cascate che ospita una ricca fauna, composta per lo più da volpi, guanacos, castori e, nelle zone sulla costa, da cormorani, pinguini di Magellano e leoni marini. E anche specie vegetali come lo spinoso arbusto di Calafate: pare che solo chi ne assaggia le bacche si garantisca la possibilità di tornare qui. La riserva è l’attrazione principale del territorio e vi si possono ammirare vere e proprie bellezze naturali, come il ghiacciaio Martial o i laghi Escondido e Fagnano, nonché la Baia Ensenada e la pittoresca città di Tolhuin. Particolarmente famoso è anche il Faro di San Juan de Salvamento, noto come Faro alla fine del mondo, il più antico di tutta l’Argentina. La Terra del Fuoco vanta anche la stagione sciistica più lunga del Paese, che va da giugno a novembre, grazie alla presenza del Cerro Castor, un monte ricoperto di neve farinosa e contornato da magnifici boschi. L’avventura nella Terra del Fuoco può iniziare proprio da Ushuaia, rapiti dallo spettacolo delle vette innevate, le ultime propaggini della catena delle Ande e dei fitti boschi. Ushuaia è la città più a sud del mondo, qui terminano la Ruta 3, la strada che percorre tutta la costa dell’Argentina, e la Carrettiera Panamericana, che risale la costa occidentale delle Americhe fino all’Alaska. Di fronte ha un mare che sembra mescolare insieme le acque dell’Atlantico e del Pacifico. Appena ol-

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tre, l’immensità ghiacciata dell’Antartico, lo scenario che più di tutti ci resterà negli occhi come simbolo della Patagonia. Perito Moreno, l’estremità meridionale del continente americano, è uno dei ghiacciai più spettacolari al mondo. Qui, fra spazi immensi e disabitati, non si può non rendersi conto della maestosità della Natura. Sembra avere un’anima, Perito Moreno. Non a caso è definito “ghiacciaio in movimento”. E lo è davvero, visto che, grazie ad una sorta di cuscinetto d’acqua che lo tiene staccato dalla roccia, il ghiacciaio immerso nel lago Argentino si sposta di 2 metri al giorno causando ogni tanto, d’estate, il crollo in acqua di pinnacoli di ghiaccio anche di grandi dimensioni. Se non fosse distruttivo, lo si potrebbe definire uno spettacolo mozzafiato sia visivamente che per il tonfo sordo dell’iceberg che prima sprofonda e poi riemerge e continua a galleggiare trascinato dalle onde. Poi tornerà l’inverno, e il ghiaccio si formerà di nuovo. Fino a qualche anno fa, il Perito Moreno era uno degli ultimi ghiacciai in costante crescita. Inverno dopo inverno, i ghiacci avanzavano coprendo una superficie sempre più ampia del lago fino a saldarsi in una sorta di ponte con i ghiacci della riva opposta, praticamente dividendo il lago in due.

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Patagonia, la Terra del Fuoco

Un ponte che si spezzava quando non resisteva più alla pressione del ghiaccio in avanzamento. Un ciclo di 2-4 anni vede formarsi ed infrangersi queste possenti lingue di ghiaccio. Certo è che il fenomeno del riscaldamento globale sta cambiando ed allungando sensibilmente il processo di riformazione del ghiaccio, rischiando di modificare la morfologia di Perito Moreno che rimane pur sempre uno scenario straordinario. Sembra che risalga al 1988 l’ultima volta che il ghiaccio è riuscito a saldarsi con la riva opposta del lago Argentino. Negli ultimi anni il ghiaccio si è sempre riformato, ma non fino a costruire il ponte di cui si è detto. Nonostante tutto Perito Moreno resta uno dei pochi giganti di ghiaccio a mantenere comunque un processo di crescita. E’ sensazionale visitare queste zone dove si ha la percezione di essere stati proiettati in un luogo ai confini del mondo, avvolti dal mistero cresciuto in noi fin dall’infanzia. Il periodo consigliabile per un viaggio alla Terra del Fuoco è sicuramente l’estate australe, per evitare le forti perturbazioni e i violentissimi venti cui è spesso soggetta quest’area. Quanto alle temperature, al livello del mare non sono mai eccessivamente fredde neanche d’inverno, vanno da –3°C a

5°C e d’estate sono miti, ad Ushuaia, per esempio, vanno da un minimo di 4°C a un massimo di 14°C. Questi valori, data la singolare posizione in cui si trova la città e considerando che siamo a poca distanza dal Polo Sud, sono eccezionali. Se si visita la Terra del Fuoco durante la stagione estiva, ci si può dedicare al turismo d’avventura, dividendosi tra trekking, passeggiate a cavallo e in mountain bike, anche all’interno del Parco Nazionale della Terra del Fuoco. Da non trascurare una particolarità di ordine economico non di poco conto: Ushuaia è zona franca, dunque risulta particolarmente conveniente per lo shopping riguardante sia le merci importate che i prodotti locali. Altra caratteristica della zona è il buon cibo, caratterizzato da una gastronomia a base di granceola Maja, crostacei e agnello. E torniamo sul continente e, qualche centinaio di chilometri più a nord, sulla costa nei pressi della Penisola Valdés, troviamo la più grande colonia di pinguini a nord dell’Antartico. Perdersi nell’osservare il movimento continuo di questo simpatico popolo di uccelli in marsina basterebbe a distogliere il cuore e la mente dal rimpianto che già nasce in noi per aver lasciato l’indelebile Terra del Fuoco.•


L’Oro

di Buddha

Testo e foto di Pamela McCourt Francescone Kyaikhtiyo, la Roccia d’Oro, uno sei santuari più venerati in Birmania, è un luogo di grande suggestione e fascino

Buddha’s Golden Rock Kyaikhtiyo. The venerated Myanmar sanctuary enchants, enraptures and enthrals

Una massa di granito che pesa seicento tonnellate, ricoperta da uno spesso strato d’oro, in mirabolante bilico su uno strapiombo alla sommità di una montagna. E’ la Pagoda di Kyaikhtiyo, uno dei luoghi più sacri della Birmania, ed è sorretta da un singolo capello. Che, beninteso, non è un capello qualsiasi. Ma, come la leggenda racconta, un capello di Buddha, che miracolosamente impedisce al ciclopico macigno di precipitare giù nella vallata sottostante.

A hulk of granite weighting six hundred tons, covered by a thick layer of gold, precariously balanced on the edge of a cliff over a sheer and dizzying drop. The massive Pagoda of Kyaikhtiyo, one of Myanmar’s most sacred spots, is held in place, it is believed, by a single hair. Which, of course, is not just any old hair. But, according to legend, a hair from the head of Buddha, which admirably prevents the cyclopic boulder from hurtling into the valley at the foot of the mountain.


Si dice anche che sia in grado di ondeggiare leggermente avanti e indietro quando sollecitato dall’uomo, senza incomodare il suo strabiliante equilibrio. Questo capello di Buddha viene gelosamente custodito in una teca dentro il piccolo stupa sulla sommità della Rocca d’Oro - Kyaikhtiyo che si pronuncia ciai-ti-o - e nel dialetto Mon significa “la pagoda portata sulla testa dell’eremita”. Perché è stato un eremita, nell’ XI secolo, a portare fin qui il capello di Buddha nascosto nel ciuffo di capelli raccolti sulla propria testa e lasciando scritto, prima di morire, di cercare un masso che avesse la forma della sua testa per conservare il venerato capello. Il santuario dista un paio di ore in macchina da Yangon, ma il vero viaggio inizia quando si arriva al campo base di Kinpun, ai piedi del Monte Khaikhtiyo, da dove si parte per la seconda tappa verso la Roccia. Seduti fianco a fianco, sei per fila, su panche di legno all’aperto su un pesante camion che trasporta una cinquantina di persone, per undici chilometri si sale una strada tortuosa, attraversando la foresta tropicale fino ad arrivare alla grande piazza di Yatetaung dove parcheggiano i mezzi di trasporto. Da qui sono in molti a fare l’ultima tappa a piedi, impegnando oltre un’ora per salire il viottolo serpeggiante e le ripide scale di legno. Altri, soprattutto i turisti, si fanno trasportare su lettighe issate sulle spalle di muscolosi giovani. Semi-sdraiati su un sacco da riso dismesso che è stato legato a due robuste aste di bamboo, dopo circa 40 minuti di sballottamento, dovuto al passo ritmico e sostenuto dei quattro portatori che si fermano spesso lungo la ripida salita per prendere fiato, si arriva finalmente alla sommità. Straordinaria l’illusione di poter toccare il cielo con un dito. E di prima mattina, quando le nuvole avviluppano i viandanti in un leggiadro manto luminoso, si ha la sensazione di essersi perduti in un’altra dimensione. Silenziosa, suggestiva, solenne. Ogni anno a novembre, il grande piazzale antistante la Roccia d’Oro viene illuminato da 9.000 lumi, mentre 9.000 fiori profumati vengono sparpagliati intorno per celebrare la reliquia. Ma in tutte le stagioni migliaia di pellegrini arrivano a Kyaikhtiyo, portando sulle spalle semplici borse con dentro qualche indumento, con negli occhi la luce della speranza e sul viso quel sorriso dolce e luminoso che è una caratteristica del popolo birmano.

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L’Oro di Buddha - Buddha’s Golden Rock

The rock is even said to sway backwards and forwards if pushed, without in any way endangering its mind-blowing balance and this, of course, adds further mystery to its legendary mystique. Buddha’s hair is kept in a small case inside the little stupa at the top of the Golden Rock, Kyaikhtiyo, which is pronounced chai-ti-o and in Mon dialect means “the pagoda carried on the head of the hermit.” And, indeed, it was a hermit who brought the hair here in the 11th century, hidden in the topknot on his own head. Before he died he left written instructions to look for a boulder with the same shape as his head and to build a Buddhist stupa at the top in which to conserve the venerated hair. After a couple of hours by car from Yangon the journey takes on an unexpected twist when you reach the base camp of Kinpun, at the foot of Mount Khaikhtiyo. Because, for the second stage of the journey you have to clamber on to the back of a heavy lorry and sit, six abreast, on simple wooden planks. When the regulation 48 passengers are in place the vehicle labours up eleven kilometres of tortuous roads through the tropical forest to another large square, this time in the hamlet of Yatetaung where all vehicles have to stop. Many pilgrims, and the more athletic visitors, then make their way along the final stage on foot, taking over an hour to walk up the snaking pathway and the steep stairs, some in wood and others cut into the mountain face. But many tourists opt to be carried in litters on the shoulders of four muscular youths. Lounging back on old rice sacks, which have been tied to two thick bamboo poles, the visitors are bounced vigorously by the fast trotting pace set by the carriers, who stop at intervals to change shoulders, wipe the perspiration that streams in rivulets down their backs, and quench their thirst with cans of water from the small food stalls along the way. At the top the exhilarating feeling that you can touch the sky with a finger makes you catch your breath, and in the early morning, when swirling luminous mists envelop the wayfarers, you feel you have entered another dimension. Silent, unreal, solemn. Every November the large square beside the Golden Rock is lit by 9,000 flickering lights and 9,000 perfumed flowers are spread over the vast expanse to honour the relic. But this sanctuary is visited all year round by thousands of pilgrims, many carrying rucksacks on their backs and clutching small bags with their possessions, in


Solo agli uomini è consentito toccare il santuario, e quindi sono loro che con grande dedizione e pazienza, aggiungono di continuo piccoli quadratini di foglie d’oro sulla Roccia. Lentamente creano uno nuovo strato in modo che il macigno non perda, neanche per un instante, la sua incandescente doratura che, mentre il grande orbo tramonta dietro le montagne, assume sfumature dal rosa al purpureo. Intorno al grande piazzale sono tante le bancarelle che vendono offerte, lumi e ornamenti sacri. Dopo il tramonto, il momento più solenne davanti al santuario, sull’aria si innalzano i profumi dei bracieri dove vengono cotti pesce, carne e verdure. E oltre il piazzale, in discesa lungo la criniera, i visitatori si avviano verso il piccolo villaggio dove ci sono ristoranti, negozi di souvenir e pensioni dove passare la notte. Ma sono molti i pellegrini che, stanchi ma invigoriti dalla presenza di tanta bellezza e sacralità, rimangono svegli tutta la notte. Si siedono a tavolini bassi o in piccoli gruppi lungo il perimetro del monte per consumare un ultimo pasto, sorseggiare tazze di tè, raccontare il loro pellegrinaggio, pregare e vivere in pieno l’esperienza. Che per molti è l’esperienza di una vita. Per altri, un felice ritorno. Per altri ancora, la prima volta di un pellegrinaggio da perpetuare.Intorno, tutto tace. I declivi densamente tappezzati di vegetazione lussureggiante si confondono dietro i chiaroscuri della luna, e sul Monte Kyaikhtiyo si sente solo il mormorio delle preghiere, il fruscio di passi rispettosi, e quell’ inconfondibile suono del silenzio, privilegio dei luoghi di profonda e secolare sacralità.•

their eyes the light of hope, and on their faces those beguiling, luminous smiles which are a characteristic of the Burmese people. Only the men are allowed to touch the sanctuary and, patiently and with zealous dedication, they flock around the rock, adding tiny new squares of gold leaf to ensure that the mighty boulder loses none of its incandescent glow. And, as the sun sets behind the mountains, the gilded surface acquiesces to the ripplings of palest pinks and deep purples the Great Orb lavishly bestows on the majestic silhouette. Around the large square there are many stalls selling votive lights and sacred offerings and, as dusk falls, and the pilgrims pay their respects, the pungent odour of grilled fish and meat rises from braziers along the hillside, and people start to make their way towards the small village beyond the ridge and the guest houses where they will spend the night. But for many of them, tired yet invigorated in the presence of such beauty and sacredness, the night hours are precious and, huddled in small groups, they sip cups of strong Burmese tea, talk about their pilgrimage, pray and laugh. For many it is a landmark occasion. For others a happy return. And for yet others the first time of a pilgrimage they hope will become a perpetual event. Finally all is quiet. The mountain sides, with their thick blanket of greenery, a play of the chiaroscuro in the moonlight, and on Mount Kyaikhtiyo the only sounds are the gentle murmur of prayers, the swish of respectful footsteps, and that unmistakable sound of silence which is the privilege of places of profound and time-honoured spirituality.• www.orchestra-myanmar.com www.myanmar-tourism.com

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Foto di: Ivo Pervan

www.croazia.hr

Navigate verso la bellezza Chiudete gli occhi e immaginate il fruscio del vento sulle vele, l’infrangersi delle onde sulla barca, gli schizzi delle gocce d’acqua sulla sua coperta di legno e lo svolazzare dei vestiti al vento. Proverete una sensazione di libertà infinita ad ogni respiro.

Croazia. Suona bene.

ENTE NAZIONALE CROATO PER IL TuRISmO milano, tel. 02 86454497 - info@enteturismocroato.it Roma, tel. 06 32110396 - officeroma@enteturismocroato.it

DESTINAZIONE 2011/2012 PREFERITA DALL’ECTA AssociAzione europeA delle Agenzie di ViAggio e dei Tour operATor


Seychelles I

l piccolo ma vivacissimo aeroporto di Mahé, centro economico e politico delle Seychelles si staglia dall’alto insinuandosi in un mare, neanche a dirlo, davvero cristallino. L’arcipelago conta 115 isole, quasi tutte di origine granitica, affioranti dall’Oceano Indiano, a cavallo dell’Equatore e a largo delle coste africane. In realtà soltanto una decina

di esse sono antropizzate e quindi sono le più visitate. Saltare da un’isola all’altra in un unico viaggio è possibile visto che la compagnia Air Seychelles dispone di piccoli aerei dai 6 ai 20 passeggeri anche se, ogni volta, occorre passare per Mahé. Dal terminale locale dell’aeroporto di Victoria, per esempio, Air Seychelles assicura 3 voli quotidiani

Testo di Clara Racanelli tra Mahé e Praslin. Il volo dura solo un quarto d’ora. Dunque, anche in pochi giorni si può avere un’immagine complessiva di questo paradiso la cui temperatura raramente scende al di sotto dei 24°C. n° 3 - ottobre 2011

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Della scoperta delle Seychelles si ebbe notizia in Europa nel 1502 da parte dell’ammiraglio portoghese Vasco De Gama; queste isole furono a lungo abitate dai pirati cacciati dalle Indie Occidentali nel 1685, e dai primi schiavi resi liberi. Poi furono punto di scalo tra Africa e Asia, luogo di traffici e scambi commerciali. L’aeroporto internazionale di Mahé è stato aperto solo nel 1972, dopo un lungo isolamento che ha aiutato i suoi abitanti (europei, asiatici, africani) a conservare un carattere molto cordiale ed affabile. Il senso dell’ospitalità di questa gente è significativo e raramente ho visto convivere così serenamente razze tanto diverse tra loro. Le lingue parlate sono il creolo, il francese e l’inglese, e nei principali centri turistici anche un po’ di italiano. Scrigno prezioso delle Seychelles, anche se fa parte delle sue isole esterne, è l’atollo Aldabra, il secondo più esteso del mondo dopo quello dell’isola Christmas, Kiribati. Aldabra è un atollo corallino formato da 4 isole con una fauna autoctona tra cui la tartaruga gigante delle Seychelles; ne ospita circa 100.000 esemplari, la popolazione più numerosa esistente. L’atollo è noto anche per le sue tartarughe verdi, le Eretmochelys imbricate e per gli uccelli rari, compreso il Dryolimnas, l’ultimo degli uccelli dell’Oceano Indiano incapaci di volare.

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Seychelles: la magia di un arcipelago

Mahé Inizio il mio viaggio da Mahé, l’isola principale delle Seychelles, beandomi di una vistosa quanto rigogliosa vegetazione tropicale che conduce alla collina granitica di Morne Seychellois (905 mt), nel Morne Seychellois National Park, la cui cima offre una vista sulle isole circostanti che toglie il respiro. La costa di Mahé è un rincorrersi di baie e spiagge, oltre 60, una più suggestiva dell’altra. Grand Anse, è la più ricercata dai surfisti per via delle correnti che alzano le onde, mentre la più modaiola è Beau Vallon dove si praticano sport esclusivi come vela, e sci nautico; Anse a La Moouche è una delle più rilassanti, solo mare e pesca. Le abitazioni dei villaggi non devono superare in altezza la vegetazione circostante e ciò determina un risultato positivo ai fini dell’impatto ambientale. A Victoria, unica vera città delle Seychelles e anche capitale dell’arcipelago, si trova un artigianato locale di buona fattura. I negozi, che si concentrano soprattutto nella Market Street, offrono monili di corallo nero e rosso, oggetti di madreperla o in legno locale intarsiato, ma anche frutta esotica e le immancabili spezie come cannella e vaniglia.


Praslin Praslin, l’isola delle palme, seconda in grandezza dell’arcipelago. Si raggiunge da Mahé con un volo di 15 minuti o con 2 ore di barca. L’ideale è girare l’isola con una jeep, visto che le strade sono sassose; un disagio che si affronta volentieri per via delle splendide foreste tropicali popolate da uccelli rarissimi ed endemici come il Bulbul e il pappagallo nero delle Seychelles. La bellissima riserva naturale Vallée de Mai, ha la maggiore concentrazione di palme “Coco de Mer” di tutte le Seychelles - ben 4000. Qui crescono anche le mitiche orchidee vaniglia. Nel mezzo della Vallée de Mai sorge una foresta preistorica di granito, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. C’è chi è convinto che il biblico “Giardino dell’Eden” sia proprio questo. Dall’aeroporto di Praslin è facile raggiungere le isole intorno come Curieuse, La Digue, Cousine, Aride e Cousin. La spiaggia più bella di Praslin - e di tutte le Seychelles - è Anse Lazio, la sabbia bianca e fine è circondata da alcuni massi di granito levigato.

Cousin A due chilometri dalla costa sud-occidentale di Praslin, Cousin, dichiarata riserva naturale nel 1968 quando venne acquistata

dalla Royal Society for Nature Conservation, nel 1975 viene nominata riserva speciale dal governo delle Seychelles. Attualmente la gestione dell’isola è appannaggio di Nature Seychelles, ma agli inizi era coordinata da Birdlife International per via delle numerose specie rare ed endemiche di uccelli. Qui ogni anno nidificano 250.000 uccelli, qui dimorano alcuni tra gli esemplari più rari delle Seychells e del mondo, tra i quali l’uccello mosca delle Seychelles, l’usignolo delle Seychelles, il Magpie Robin, la parulide con la coda folta, lo shama delle Seychelles, la rarissima Brush Warbler Seychellese salvata dall’estinzione, e il toc-toc. Ma anche fetone codabianca, simbolo di Mauritius e Réunion. Insomma, un paradiso per gli uccelli, terrestri e marini, e ovviamente per gli ornitologi. Posso fotografare esemplari curiosi e nidi a distanza ravvicinata senza disturbare, grazie alla confidenza dei volatili con la presenza dell’uomo dovuta alla lunga attività di protezione. La protezione dell’isola è massima tanto che può essere visitata solo alcuni giorni la settimana e solo se guidati dai ranger. Sono giovani ed esperti, sono venuti a prelevarmi dalla barca a bordo di un veloce gommone che con un balzo fanno approdare sulla spiaggia; mi spiegano che sono gli unici abitanti part-time di quest’isola che non presenta alcuna opera dell’uomo. Mi parlan° 3 - ottobre 2011

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no subito delle specie rare di uccelli, apprendo con dispiacere che una volta il piumaggio dei piccoli volatili veniva usato per produrre piumini per cipria! Cousin è circondata da una delle barriere coralline più belle dell’arcipelago, severamente protetta. Altra meraviglia del posto sono le tartarughe giganti portate da Aldabra, tanto inquietantemente imponenti quanto pacifiche. Le Seychelles ospitano la seconda colonia di tartarughe giganti al mondo dopo le Galapagos. Esplorando l’isola, al mio passaggio vedo schizzar via molte lucertole, varie specie di geco; il gran numero di questi animali è dovuto, come per gli uccelli, alla mancanza di animali predatori. La mia visita termina con uno spuntino a base di pesce all’ombra della vegetazione in prossimità di una splendida baia, dove nidificano le tartarughe di mare Hawksbill e Green.

S. Pietro Si può dire che l’isola di S.Pietro sia assurta ad emblema delle Seychelles, la sua immagine d’effetto compare in tutti i depliant che parlino del meraviglioso arcipelago. E’ così che ce lo immaginiamo quel lontano Eden. Un’isoletta scavata nel granito e sormontata da palme piegate dal vento su una spiaggia, neanche a dirlo, d’impalpabile sabbia bianca. Dopo una breve navigazione durante la quale ha sfilato davanti a me un guizzante e allegro stormo di delfini, sbarco su questo scrigno di bellezze esotiche e subito mi tuffo nelle acque cristalline per un bagno rinfrescante. Un godimento anche per gli occhi visto che questo mare è abitato da 900 varietà di pesci che sembrano dipinti a mano. E non c’è bisogno di essere abili nuotatori per esplorare l’incredibile mondo sommerso custodito da quest’isola, basta avere l’avvertenza di indossare le pinne o le apposite scarpette di gomma per evitare fastidiosi tagli nel contatto con i coralli, qui decisamente numerosi, facilmente avvicinabili e fotografabili insieme ad anemoni, spugne e stelle marine. Dopo il tramonto, davvero spettacolare in quest’isola magica, mi abbandono alle delizie culinarie; la scelta è vastissima, dalla locale ottima cucina creola, alla francese o indiana.

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Seychelles: la magia di un arcipelago

Bird Island Il mio viaggio alle Seychelles si conclude a Bird Island, la più a nord di tutte. Da Mahé è raggiungibile in circa mezz’ora di volo. I francesi la chiamavano l’Ile du Vaches, “Isola delle Mucche”, a causa dei numerosi dugonghi che qui vivevano in passato, ora è Bird Island, un vero santuario per uccelli. L’isola è privata, appartiene a due inglesi puristi dell’ambiente, Mrs. e Mr. Savy, ed è aperta unicamente agli ospiti del Bird Island Lodge, una ventina di mimetizzatissimi bungalow. Da ottobre a marzo l’isola diventa meta di uccelli migratori dall’emisfero settentrionale, da maggio ad ottobre invece arrivano a nidificare sull’isola fino a due milioni di rondini di mare oltre a voltapietre, piovanelli, chiurli, fregate, piro-piro, fetonti e la civettuola sterna bianca. Quest’ultima ha la curiosa abitudine di deporre l’uovo in bilico sulla biforcazione dei rami, senza costruire il nido. Si fa avvicinare dal mio obiettivo senza timore. A terra bianchi aironi guardabuoi afferrano gli insetti, con tutta calma. Nel tardo pomeriggio la luce del cielo viene oscurata da una nuvola che si addensa e si sposta rapidamente, alzo gli occhi: sono le sterne fuscate che tornano dall’Oceano, Migliaia di ali fendono l’aria con ritmo frenetico e con un inquietante frastuono che si mescola al suono dei loro versi collettivi come un rituale della natura che si dispiega davanti ai miei occhi. Fino al calar del sole voleranno chiassose sopra i loro nidi. Immobile dietro al mio cavalletto, catturo i coinvolgenti colori del tramonto sull’Oceano Indiano, arancione, rosso, viola. Dopo la cena nella comune capanna del lodge, mi siedo nella veranda del mio bungalow sorseggiando del bacca (succo di canna da zucchero fermentato), poi mi addormento ascoltando gli ultimi pigolii degli uccelli che vivono sulla pianta di Takamaka, lì vicino. Non solo uccelli, in inverno anche le tartarughe embricate arrivano a nidificare a Bird Island dove già vivono una trentina di tartarughe giganti, tra cui la bicentenaria Esmeralda, ormai considerata la mascotte dell’isola. Girovagare per l’isola per me è un’esperienza quasi surreale, qui è ancora la Natura a dettare i ritmi della vita quotidiana e l’habitat degli animali ha la priorità rispetto allo sviluppo civile. Gli unici esseri umani abitanti fissi dell’isola sono i


proprietari e un piccolo staff; i visitatori sono in numero controllato, al massimo una quarantina, quanti ne può ospitare il lodge, per evitare di disturbare gli animali e le loro abitudini. Bird Island non ha illuminazione artificiale esterna per non distrarre gli uccelli e per non disorientare le tartarughe verdi che dopo la nidificazione cercano la via del ritorno verso il mare. In più, ogni anno l’isola è chiusa ai visitatori dal 1 al 20 dicembre per non disturbare questo fragile ecosistema ed il suo ciclo vitale. Un nemico però c’è: l’erosione costiera. Dal 1990 l’isola ha già perso oltre 75 metri di terra, tanto che il Ministero dell’Ambiente Seychelles, le Sezioni delle risorse naturali delle zone costiere e di Bird Island hanno preso parte a un programma nazionale a lungo termine di monitoraggio della spiaggia per proteggere l’ecosistema acquatico e terrestre dell’isola e per evitare un ulteriore degrado ambientale. La costa est e quella nord sono protette da una meravigliosa barriera corallina pulsante di vita marina, anzi, l’isola stessa è sul Banco corallino delle Seychelles, che precipita a 2000 metri di profondità. Questa realtà, anche se vissuta solo per pochi giorni, ridimensiona la visione della vita e permette di apprezzare molte cose che il consumismo moderno purtroppo ha cancellato.• Ufficio del Turismo delle Seychelles Via Pindaro 28/N - 00125 Roma tel. 06 5090135 fax 06 50935201 info@seychelles-stb.it www.seychelles.travel n° 3 - ottobre 2011

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COLOMBIA sulle orme dei conquistadores

Testo e foto di Roberto Lippi Al di fuori delle affollate rotte del turismo internazionale che approda in America Latina la Colombia è in grado di offrire al viaggiatore esigente emozioni davvero incomparabili. Unica è infatti la varietà dei suoi paesaggi, climi e colori: dalle cime ghiacciate della cordigliera andina, oltre i 5.000 metri, ai popolosi e verdissimi altipiani ove sorge la capitale Bogotà (a 2.600 metri di altezza). E poi, lungo le rotte del caffè e dei fiori (la Colombia è il primo produttore mondiale di orchidee), si giunge infine alle assolate spiagge del Pacifico o dei Caraibi, dato che il paese affaccia sui due oceani. Se a questi ingredienti si

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aggiunge la ricchezza della sua storia - precolombiana, coloniale e repubblicana - la varietà della musica, sempre presente e la frizzante vita culturale che si respira nelle città, ecco che questo Paese ancora poco conosciuto ai più, può risultare la meta ideale per un viaggio inconsueto e indimenticabile. Per questo nostro viaggio culturale e paesaggistico, abbiamo deciso di ripercorrere parte del lungo cammino che i primi conquistadores realizzarono nell’altipiano andino, risalendo il grande Rio Magdalena all’inseguimento del leggendario Eldorado e delle splendide ricchezze di cui, a ragione, si favoleggiava nelle assolate vie delle nascenti città costiere di Santa Marta e Cartagena de Indias. Il nostro itinerario inizia nel quar-

Colombia sulle orme dei conquistadores nel cuore delle tradizioni precolombiane


tiere coloniale della Candelaria, nel cuore della capitale colombiana. E’ qui che il rude capitano e fine letterato Gonzalo Jiménez de Quesada fonda nel 1538 la città di Santafè de Bogotà, in un luogo fino ad allora adibito al riposo del Zipa, il capo politico e religioso delle miti tribù dei Muisca, abitanti ancestrali dell’altopiano dediti al commercio del sale, di raffinati tessuti e della ceramica. La Candelaria colpisce il viaggiatore in primo luogo per la ricchezza della sua au-

stera architettura coloniale. Sulle strade lastricate che si inerpicano verso le montagne che proteggono le spalle di Bogotà, si affacciano palazzi e case coloniali con i tipici tetti di tegole, i massicci portoni, le balconate e le grandi finestre protette da grate di legno intagliato. Siamo nel cuore storico e culturale della capitale colombiana, uno dei centri meglio conservati del Sudamerica, in cui il profumo di altre epoche si mescola, durante il giorno, con il viavai della gente. Gente i cui volti ed abbigliamenti riflettono la varietà ed i contrasti che caratterizzano questa metropoli andina: dall’inappuntabile gessato dei funzionari pubblici degli adiacenti palazzi del potere, alle divise un po’ retrò dei collegi pubblici. I tipici visi larghi e bruni delle popolazioni andine che confluiscono nel centro città, si mescolano con i colorati venditori di qualunque cosa, i sempre più frequenti turisti, gli artigiani e i commercianti delle piccole botteghe del quartiere. Moderne automobili e grossi Suv si contendono le strette vie non pedonalizzate con gli immancabili taxi gialli e i vecchi minibus, che sbuffano quantità impressionanti di fumo nerastro. E’ questo lo spirito più autentico di questo barrio che nell’ultimo quindicennio ha saputo attirare artisti, scrittori e intellettuali che hanno riempito la zona di teatri, biblioteche e centri culturali. Ma che tuttavia continua ad essere la cerniera tra la città ricca e progredita del Nord ed i quartieri popolari del Sud. Un quartiere che ha mantenuto parte di quel sapore popolare ed autentico che si rispecchia in alcuni dei baretti e caffè popolari da cui proviene, insieme alla musica inces-

sante, l’odore delle arepas (focacce di mais) e dell’ajiaco bogotano, la tipica zuppa locale ricca di diversi tipi di patate, mais, pollo ed erbe. Oggi certamente essi convivono con i ristoranti e i locali sempre più sofisticati della Candelaria artistico-culturale, nei cui arredamenti e cucina spicca la creatività che contraddistingue la città. Un caffè nello splendido cortile del palazzo coloniale che ospita la sede dell’antica “Società economica amici del Paese”, vicino alla Plaza de Bolivar, darà conto di questa atmosfera sofisticata e un po’ retrò. Da non perdere, tra i molti luoghi da visitare, il recente complesso museale del “Museo Botero”, che comprende una parte coloniale (Casa de la Moneda) e vari ambienti espositivi dedicati alle opere del grande maestro colombiano e a molti capolavori di arte contemporanea che lo stesso Botero ha voluto donare al proprio paese, al fine di realizzare questo importante polo culturale. Per dormire nella Candelaria, che di notte però richiede ancora di certe attenzioni, oltre all’ottimo e sofisticato Hotel dell’Opera, vi sono numerose posadas ed alberghi tipicamente coloniali, per tutte le tasche. Partendo dall’enorme Piazza Bolivar, sui cui lati si affacciano l’imponente Cattedrale di Bogotà, il palazzo neoclassico del Parlamento, il bell’edificio del Municipio e lo sfortunato Palazzo di Giustizia, in cui nel 1985 persero la vita, durante un sanguinoso tentativo di liberazione, magistrati, funzionari e i guerriglieri dell’M 19 che l’avevano occupato, il nostro viaggio prosegue risalendo la Carrera Settima. Questa lunga e trafficata arteria attraversa tutta la parn° 3 - ottobre 2011

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te Nord di Bogotà, parallela alle montagne che sovrastano la città, sulla cui sommità meridionale rimane sempre ben visibile il bianco santuario del Cristo Caduto di Moserratte (3.152 metri), ai cui piedi si inginocchiano pellegrini di tutte le estrazioni (compresi, si dice, i sicari che popolano le zone più periferiche della città). La prima tappa obbligata, a pochi isolati dalla Candaleria, è per una visita nello splendido Museo dell’Oro. Il Museo racchiude in forma davvero suggestiva le testimonianze artistiche e culturali della differenti civiltà insediate nel territorio colombiano prima dell’arrivo dei conquistadores. E’ possibile vedere un’impressionante quantità di ma-

za ma vicino all’equatore, colpisce per la brillantezza dei toni negli sprazzi di sole. Le case sparse sono circondate da pascoli folti, in cui pascolano quietamente mucche e pecore. Sul versante delle montagne, il paramo (la parte più alta della cordigliera, dall’importante e fragile biodiversità) si staglia con la sua tipica vegetazione bassa e scura. Ci dirigiamo verso la laguna di Guatavita, luogo magico-religioso della cultura Muisca. Guatavita è una piccola laguna situata nel cono di un antico vulcano. La leggenda dell’Eldorado (l’uomo dorato) nasce qui, poiché una volta all’anno, durante il solstizio d’estate, le tribù Muisca confluivano sulle sue sponde mentre il Zipa,

nufatti in oro. Muisca, Tairona, Quimbaia, Tolima, Nariño, tanto per citare alcuni dei nomi dei popoli precolombiani nei cui tombe sono stati ritrovati i diademi, le collane e gli anelli rituali che oggi impreziosiscono i tre piani del museo. Da non perdere la suggestiva sala finale in cui, con giochi di luce ed effetti sonori, vengono presentati centinaia di manufatti in oro dalle caratteristiche figure stilizzate, zoomorfe ed antropomorfe, tipiche delle culture precolombiane. Alcune istantanee della città, risalendo la Carrera 7 verso l’uscita della città, ci mostrano un quartiere di piccole villette in mattoncini in stile inglese anni venti, con tanto di giardinetto e bow-windows, poi più a Nord, i moderni ed elevati palazzi in vetro-cemento del centro finanziario. Obbligata una sosta per un caffè, proseguendo sulla strada, nel piccolo quartiere di Usaquen. Si può scegliere uno dei tanti localini che si affacciano sulla piccola piazza di quello che era un tempo un villaggio, ormai inglobato nella città, che mantiene un’atmosfera distesa e cordiale e che ospita nelle sue vie, la domenica, un simpatico mercato di artigianato e bric-a-brac, molto amato dai bogotani. Superata l’estrema periferia Nord di Bogotà, con la sua corona di quartieri poveri brulicanti di traffico e persone, il paesaggio muta improvvisamente. Il verde dell’altopiano, a 2.600 metri d’altez-

ricoperto di polvere d’oro, veniva condotto su una balza dorata al centro del lago. Vi si immergeva poi in forma rituale, mentre dalle sponde le tribù, cantando, lanciavano monili d’oro per ingraziarsi gli dei. Oggi Guatavita è protetta da un parco e le sue sponde, che nei secoli sono state oggetto di avide ricerche, hanno finalmente ritrovato la pace di un tempo, interrotta solo dalle passeggiate di piccoli gruppi guidati di visitatori. Una sosta per mangiare patate salate e carne alla brace in un tipico ristorante popolare, un tempo forno del sale, e il viaggio prosegue. Il sale è un elemento determinante della cultura e dell’economia di questa zona della Colombia. Le enormi miniere di salgemma della zona di Zipaquirà hanno costituito fin dei tempi più remoti una risorsa strategica per la zona, tanto che uno dei prodotti centrali del commercio delle popolazioni precolombiane della regione era appunto costituito dal salgemma, estratto dalle miniere e raffinato negli improvvisati forni a carbone. Oggi appena sopra la piccola cittadina di Zipaquirà è possibile visitare una suggestiva cattedrale scavata nel cuore della miniera di sale. Si tratta di un enorme progetto architettonico di recente realizzazione (la cattedrale è ancora in costruzione), che fa seguito al crollo di una piccola cappella ottocentesca scavata dai minatori e crollata negli anni ottanta.

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Colombia sulle orme dei conquistadores nel cuore delle tradizioni precolombiane


Alla nuova cattedrale, non consacrata, si accede in visita guidata da una entrata della miniera, più avanti ancora in funzione. Gigantesche croci, suggestivi giochi di luce, statue e colonne, tutto realizzato nel salgemma, accompagnano il visitatore che si addentra nella miniera, scendendo fino ai 180 metri di profondità ove è stata realizzata un’enorme navata scavata nel sale. Per chi non soffre di claustrofobia, lo spettacolo è davvero seducente. Da Zipaquirà, ci si addentra nella verde regione di Boyacà, in direzione del piccolo villaggio di Villa de Leyva, circa 170 kilometri a Nord della capitale. Il paesaggio lungo il cammino cambia con molta rapidità. Il verde diviene più scuro o più brillante, a seconda dell’altitudine della strada che percorriamo, ormai quasi tutta a 4 corsie. A partire dall’insignificante ponticello di Boyacà, luogo importantissimo però per la storia colombiana e latinoamericana, poiché Bolivar nel 1819 vi sconfisse in modo definitivo le truppe spagnole spalancando la strada all’indipendenza, il paesaggio cambia di nuovo in maniera repentina. Abbandoniamo infatti la strada principale per una “scorciatoia” che, superata l’ennesima montagna, apre su una vallata dai colori decisamente più mediterranei. La vegetazione cambia nei toni e nella tipologia. L’esuberanza dei verdi del piovoso altipiano viene via via sostituita da

colori più caldi. Le montagne divengono più brulle e qua e là costellate di rocce spoglie. Il clima diviene progressivamente più mite e secco, mano a mano che si scende verso Villa de Leyva, situata a 2.118 metri sul livello del mare. Il piccolo villaggio di “Villa de Nuestra Señora de Santa María de Leyva”, oggi Villa de Leyva fu fondato nel 1572 al centro di un’amplia vallata dal clima differente da tutto ciò che la circonda, ove si coltivano addirittura olivi e oggi vigneti (anche se la qualità dei vini fa ancora desiderare). Il suo mercato ortofrutticolo del sabato attrae ancora una popolazione dai chiari tratti indigeni delle zone circostanti e ricorda che proprio qui era situato un importante insediamento Muisca, noto anche quale osservatorio astronomico, forse per la limpidezza del suo cielo stellato. Villa de Leyva ha un’elegante impostazione coloniale, con le sue strade lastricate di grandi ciottoli di pietra locale, le case ed i palazzi imbiancati e i balconi, in legno dipinto di verde, che traboccano di fiori. La cittadina, piccolo gioiello in mezzo alle Ande, è molto curata poiché essa è una delle mete turistiche preferite dai bogotani, che cercano il relax del fine settimana nelle piccole vie, nei caffè e ristoranti situati nei cortili porticati degli eleganti palazzi e nei negozietti di artigianato della zona. Ciò che colpisce immediatamente il visitatore è l’enormità della piazza centrale,

rispetto alle dimensioni contenute della cittadina. E’ una delle più grandi della Colombia, dalla tipica impostazione militare coloniale, nella quale sembra ancora di vedere schierate le truppe, con i cavalli, gli archibugi e gli elmi che scintillano al sole. Vi si affaccia una bella chiesa dal massiccio campanile e l’elegante palazzo del municipio, con il classico loggiato in legno massiccio. Sulla piazza confluiscono le poche vie della cittadina, sulla quali è piacevole passeggiare - con qualche attenzione alle irregolarità dell’acciottolato - fermandosi a guardare le buone produzioni artigianali dei negozietti (nella cittadina si sono trasferiti molti artisti) o entrando a visitare i bei patii fioriti. Molte anche le manifestazioni culturali e le feste di quest’angolo della Colombia dichiarato Monumento Nazionale. Spicca tra queste il colorato e popolare Festival degli Aquiloni di metà agosto. Da Villa di Leyva è possibile organizzare molte escursioni, anche a cavallo, nelle zone limitrofe: dal deserto della Candelaria (un pianoro semidesertico a pochi km dalla cittadina), alle suggestive lagune di Iguaque (7 laghetti di diverso colore sulle montagne circostanti), al vicino e coloratissimo villaggio di Raquira, dalla forte impronta indigena e caratterizzato da una notevole produzione di artigianato in ceramica. Per trascorrere qualche giorno, Villa de Leyva offre una n° 3 - ottobre 2011

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grande varietà di hostal e alberghi di varie categorie, tutti accomunati dell’inconfondibile sapore coloniale. Si va dal sofisticato cinquestelle Duruelo, appena sopra la città, alla singolare Hosteria del Molino La Mesopotamia, situata in un vecchio mulino in cui gorgoglia l’acqua tra i bungalow, all’indimenticabile Hotel Plazuela San Agustin, con i suoi ampi stanzoni dal mobilio antico e ricercato, che affacciano sugli splendidi cortili interni. Mangiare davvero per tutti i gusti, a patto di non far troppo tardi la sera (nella zona andina la gente non è particolarmente nottambula). Consigliamo, tra gli altri, il Ristorante Verde Oliva che è anche scuola di cucina, tanto per i ragazzi della zona che per le ricche signore che trascorrono il week end a Villa de Leyva. L’ultima tappa di questo viaggio nella Colombia della cordigliera centrale ci porta una quarantina di chilometri più a Est, di nuovo nel verde intenso in cui sorge Paipa, una cittadina conosciuta per le sue acque termali e per la vicina laguna di Sochagota, sulle cui sponde sorgono vari complessi ricreativi. In realtà, la nostra meta è la Casona del Salitre, splendido complesso coloniale a pochi chilometri dalla cittadina, immersa nel verde dei pascoli e dei boschi di eucalipti. L’ hacienda fu costruita nel 1566 da Don Domingo de Aguirre, capitano della conquista cui venne encomendado un ampio territorio ove risiedevano gli indios Paipa e, in parte, i più bellicosi Sogamuxi. La struttura architettonica fu poi più volte rimaneggiata nel corso dei secoli, ampliandola ed adattandola ai diversi usi, tra i quali un convento e una guarnigione militare. E come da noi per Garibaldi, non poteva mancare tra gli ospiti illustri che vi hanno soggiornato il libertador Simon Bolivar. Oggi, l’imponente struttura ospita un caratteristico hotel de charme, con le poche stanze che si affacciano sul grande patio interno, al centro del quale troneggia un gigantesco eucalipto secolare. Nel cortile posteriore, una raccolta piscina di acqua termale dalle proprietà curative è a disposizione degli ospiti di giorno e – soprattutto – di notte. Alcune delle stanze hanno anche rustiche vasche termali interne. La vista sulle verdissime colline circostanti, in cui si vedono pascolare placida-

mente mucche, pecore e cavalli, è davvero ritemprante. Nelle stradine sterrate attorno all’hotel, nelle quali si può passeggiare o andare in bici (disponibili per i clienti) fino alla laguna di Sochagota, spunta ogni tanto qualche contadino locale, spesso a cavallo o su vecchie motociclette da cross, con l’immancabile ruana (una sorta di mantella di lana) sulle spalle ed il cappello in testa. Al tramonto, il chiosco di legno a poche decine di metri dall’entrata dell’hotel, si riempie di uomini e donne del posto che, ruana in spalla e birra in mano, chiacchierano sommessamente come d’uso tra queste genti di montagna. E’ l’ora per un salto al bar dell’hotel per l’aperitivo davanti al caminetto acceso (di notte la temperatura è abbastanza rigida) e poi a cena nell’ottimo ristorante dell’hotel, che propone gustose zuppe locali ed eccellenti piatti di agnello o coniglio accompagnati, a seconda dei gusti, dai meravigliosi succhi di frutta tropicale preparati al momento (da non perdere la locale feijoa) o dai robusti vini cileni o argentini. Anche il ristorante riporta ad altri tempi: echi di un’epoca grandiosa e terribile, dalla quale risuonano i passi grevi degli stivali degli intrepidi nuovi padroni di Spagna e quelli sommessi degli indigeni ridotti in servitù. Al mattino, ritemprati dal bagno notturno nelle acque termali e da una robusta colazione a base di arepas e huevos pericos (cipolla e pomodoro) e approfittando di un buon massaggio nella beauty farm dell’hotel, si riparte per Bogotà. Con la nostalgia già a fior di pelle per quest’angolo di Colombia così evocativo per i paesaggi, la storia e il profumo del suo famoso caffè. Ma soprattutto per la straordinaria amabilità della sua gente, che non lesina mai un sorriso, un saluto affabile, un gesto di attenzione al visitatore, connazionale o straniero che sia.• Ufficio del Turismo c/o Consolato della Colombia Via G. Pisanelli, 4 00196 Roma Tel. 06 36122131 fax 06 3225798 Embajada.roma@sprintcol.sprint.com www.proexport.com/co


TURCHIA Turchia. Ponte naturale fra Oriente e Occidente, crocevia essenziale tra il Continente asiatico e l’Europa. E’ qui che i flussi della storia hanno lasciato una quantità incredibilmente ricca di tracce archeologiche ed architettoniche grazie alle quali quasi tutte le principali matrici del mondo classico sono presenti e convivono nella perfetta armonia unitaria del contrasto: capolavori dell’ellenismo accanto a quelli dell’arte islamica, splendidi monumenti romani accanto a possenti mura e fortezze di stampo asiatico, preziose basiliche bizantine accanto a imponenti moschee musulmane. Possiamo così trovarci a visitare luoghi dai nomi mitici come Troia cantata da Omero, o Tarso dove visse San Paolo, Smirne,

Efeso o Mileto, Pergamo o Antiochia, ed estasiarci di fronte alla bellezza degli stadi e dei teatri romani di Aphrodisias, Perge e Aspendo. Il fascino segreto della Turchia consiste appunto in questa copiosa varietà di espressioni delle civiltà più diverse, che proprio nelle differenze trovano il loro punto di fusione e di sintesi. Del resto, non solo dal punto di vista dell’architettura antica, il viaggio attraverso la Turchia è un continuo succedersi di contrasti. Ne troviamo di straordinari nel paesaggio che cambia in poche ore se dalle coste frastagliate dell’Egeo o del Mar Nero, dove il mare ha quel bel colore brillante che appunto si chiama turchese, ci si addentra verso il cuore dell’Anatolia superando catene di montagne coper-

Testo e Foto di Viviana Tessa te da nevi perenni e raggiungendo gli altipiani centrali o i villaggi trogloditici della Cappadocia. E non è detto che questo viaggio debba necessariamente esser vissuto soltanto come un’avventura nella memoria storica. La Turchia offre attrattive anche sul piano del puro relax, dalla splendida costa mediterranea fino alla singolare stazione termale di Pamukkale con le sue caratteristiche cascate pietrificate a forma di gigantesche canne d’organo e conche di acqua calda terapeutica. Qui è anche possibile nuotare nella piscina romana, tra colonne e capitelli immersi nell’acqua. n° 3 - ottobre 2011

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ISTANBUL Istanbul. Il Corno D’oro la divide in due. A sud, fra il Corno e il Mar di Marmara, si trova la parte antica, con tutti i monumenti più famosi, Santa Sofia, le grandi moschee, il Palazzi del sultano, le Cisterne, il Bazar. Al nord, tra il Corno e il Bosforo, la città moderna, il quartiere di Beyoglu con la vasta piazza Taksim, i negozi eleganti delle arterie principali, i teatri, gli alberghi. Le due parti sono collegate da tre ponti, tra cui il Ponte Galata quasi allo sbocco del Bosforo, centro brulicante della vita cittadina. A Istanbul il traffico è pittoresco e caotico. Dovunque s’incrociano auto di grossa cilindrata, camion, pullman di turisti, carretti a cavallo, e una marea di gente che attraversa dove vuole, fra continui suoni di clacson. Tutti sono perennemente indaffarati, uomini stracarichi di mercanzia, ragazzini che nelle ore libere dalla scuola vendono per strada lucide ciambelle di pane infilate in un bastone o tè caldo tenendo in mano un vassoio con i classici bicchierini svasati. E ancora, donne con lo scialle nero, altre col tipico soprabito azzurro, lungo e abbottonato, altre ancora vestite con colorati abiti europei. Nessuna più porta il velo, che venne “sconsigliato” settant’anni fa da Ataturk, così come nessun uomo porta più il fez, sempre per la proibizione, in questo caso esplicita, di Ataturk. Di solito, la prima tappa è Santa Sofia. Dedicata non a una santa ma alla Divina Sapienza (Sophia , in greco), venne fondata da Giustiniano imperatore nel VI secolo, e dopo essere stata chiesa cristiana e moschea musulmana, fu trasformata da Ataturk in museo. Santa Sofia è considerata uno dei capolavori dell’architettura di tutti i tempi per la sua struttura grandiosa culminante nella splendida cupola alta più di 50 metri. Giustiniano non era uomo da badare a spese, e fece trasportare a Costantinopoli (com’era chiamata allora Istanbul) colonne, marmi,

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Turchia un crogiuolo di civilta’

sculture, da tutto l’Impero: si vedono ancor oggi in Santa Sofia colonne di marmo verde provenienti dal tempio di Artemide a Efeso, altre di porfido dal tempio di Giove a Baalbek in Libano, ed altre di granito dall’ Egitto. Magnifici i grandi medaglioni con iscrizioni coraniche appesi alle pareti, otto, più che in tutte le altre moschee. Purtroppo molti mosaici andarono distrutti al tempo della lotta iconoclastica, altri invece si salvarono sotto una mano di calce, e furono riscoperti nel secolo scorso. E’ la grandiosità dell’insieme a dare un’impressione indelebile. Altrettanto forte l’emozione che offre la splendida Moschea del Sultano Ahmet, meglio conosciuta come Moschea blu. Un grandioso insieme di cupole (quella centrale misura 33 metri di diametro), che poggia su quattro colonne massicce, ma reso incredibilmente leggero dalle 260 finestre, e dalla decorazione di piastrelle di ceramica azzurra che ne riveste completamente l’interno e le dà il nome. Altra caratteristica che rende unica la moschea Blu è la presenza inusuale di sei minareti. Capolavoro sotterraneo di Istanbul è la Cisterna Yerebatan Sarnici, fatta costruire da Costantino come deposito idrico, con 336 colonne corinzie a sorreggere magnifiche volte di mattoni. Già dal primo impatto la suggestione è fortissima, amplificata dalle luci rossastre che riflettono nell’acqua l’atmosfera dei numerosi filari di colonne. Discorso a parte merita il mitico Palazzo Topkapi, residenza dei sultani per quattro secoli e centro del grandioso impero ottomano. La preziosità dei padiglioni, l’harem, le raccolte di abiti da cerimonia e le sacre reliquie dell’Islam culminano nello sfarzo del Tesoro, con oggetti strabilianti come il mitico diamante di 86 carati e il pugnale Topkapi, con tre enormi smeraldi. Dai sultani al popolo, dal Topkapi al Gran Bazar. Il Bazar di Istanbul è immenso, un dedalo di corridoi su cui si affacciano centinaia di negozietti, con


l’aria stemperata dall’essenza di vaniglia e di cumino, tra banchi che offrono montagnole di pistacchi e dolcissimi loukoum, crocchi di uomini con il rosario arabo in mano, dappertutto gente che porta sacchi, mercanzia, in un continuo e instancabile trafficare. Che cosa comprare? Ceramiche, oggetti di rame e di ottone, onici, alabastri, tutti i lavori dell’artigianato turco. Giacche di montone, articoli di pelle e, naturalmente, tappeti. C’è da dire, ad onor del vero, che qualcosa è cambiato rispetto al passato. Intanto i prezzi. Salvo qualche eccezione, in cui si parte da cifre basse ed è ancora consentito mercanteggiare, la maggior parte dei mercanti, qui, gioca al rialzo. Cifre inaspettate per qualsiasi mercanzia e senza possibilità di sconti. Inoltre, l’artigianato vero si è ormai infarcito di banali imitazioni di firme internazionali a prezzi davvero ingiustificati. Da Istanbul, vale la pena fare l’esperienza della gita in battello sul Bosforo. Scorrono davanti agli occhi le belle case di legno del secolo scorso, costruite proprio sulla riva, che ospitavano ambasciate e visitatori illustri; molte sono state finemente restaurate e sono abitate ancora oggi. Il giro in battello è piacevole, gremito di una folla allegra; a bordo si beve continuamente il tè, si mangiano ciambelle e una sorta di wafer a forma di doppio disco farcito di cremina.

IZMIR Smirne, l’odierna Izmir, è la terza città della Turchia, dopo Ankara e Istanbul ed è anche il principale porto del Mar Egeo. Una città viva e caotica che sembra celare l’antichissima origine (viene indicata tradizionalmente come la patria di Omero). Dell’antica città è rimasto ben poco: una parte dell’agorà, la piazza principale, con colonne e portico, un ricco museo archeologico con le statue di Poseidone, Demetra e Artemide provenienti dall’agorà, sarcofagi ed altri reperti. Ben altra atmosfera troviamo invece a Pergamo. La sua erede, la moderna città di Bergama, non ha inghiottito la parte archeologica, almeno la più importante. Qui esisteva una biblioteca con 200 mila volumi, che poi Antonio trasferì ad Alessandria d’Egitto per compiacere Cleopatra. Sulla collina dominante, gli imponenti ruderi dell’acropoli. Anzitutto il teatro, che poteva ospitare diecimila spettatori, con gradinate suggestivamente digradanti verso valle. Poi i templi di Traiano, Demetra, Era, l’altare di Zeus (oggi ricomposto nel Pergamon Museum di Berlino), la biblioteca, le due agorà, inferiore e superiore, i ginnasi. Pergamo, tra l’altro, ha dato al mondo e alla cultura, la pergamena, fatta con pelle conciata di ovini. A valle sorgeva un famoso istituto terapeutico, frequentato, tra gli altri, dagli imperatori Adriano, Marco Aurelio e Caracalla. Era l’Asclepieion, dedicato ad Asclepio (per i Latini Esculapio), il dio della medicina. Più che un ospedale,

era un centro per il benessere, le cure a base di bagni, massaggi, ginnastica, diete; con un pizzico di psicanalisi ante litteram, perché le terapie venivano prescritte dopo un approfondita anamnesi del paziente e l’interpretazione dei suoi sogni. Oggi l’A-sclepieion, con i suoi lunghi colonnati, i resti della biblioteca, del teatro, del tempio, costituisce una meta di grande suggestione. Vi si giunge percorrendo la via Tecta, monumentale. EFESO La prima delle città dell’Apocalisse citate da Giovanni, è la prediletta Efeso. Fu uno dei maggiori centri dell’antichità, in epoca romana raggiunse i 300 mila abitanti, ed era il centro del culto di Artemide, identificata dai Romani con Diana cacciatrice. Qui sorgeva un grandioso santuario dedicato a questa divinità, magnifico al punto da esser considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Tuttavia aveva caratteri peculiari, persi nella trasposizione romana. Figlia di Zeus e Latona, sorella di Apollo, a Efeso veniva raffigurata con la testa coperta da un moggio cilindrico e con un busto polimastide, cioè con numerose mammelle. Simboleggiava la Luna ed anche il ciclo della fecondità femminile, così misteriosamente legato nei tempi con le fasi lunari. Vergine, proteggeva le gravidanze e veniva invocata dalle partorienti. E’ singolare come il culto di questa Grande Madre sarebbe stato qui soppiantato, forse non del tutto casualmente, da quello di un’altra Vergine, la

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Madonna, come vedremo. Oggi del celebrato santuario non resta che uno spiazzo costellato di ruderi ed una colonna rifatta mettendo assieme frammenti spezzati e risollevata. Grande ed importante era dunque Efeso, luogo cruciale per la diffusione del cristianesimo e la cancellazione degli dei pagani. Tanto che Giovanni non solo le dedicò l’“Apocalisse” con priorità assoluta, ma vi si recò di persona lasciando Patmos, dove era finito in esilio. Quando Giovanni si recò a Efeso, era ormai vecchio. Ma l’apostolo era già stato qui in altri tempi, portando con sé la Madonna affidatagli da Gesù. Ad Efeso Maria avrebbe vissuto gli ultimi anni e vi sarebbe morta. Ipotesi dapprima contestata, ma poi suffragata da Paolo VI , Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, qui venuti a pregare nella casa di Maria. Oggi Meryem Ana Evi, cioè la Casa di Madre Maria, è un luogo di pellegrinaggio e di culto, per i cristiani ma anche per i musulmani. All’interno c’è un altare e sopra, in una nicchia, una statua di Meryem Ana; alle pareti qualche quadro devozionale, un recente frammento di affresco in stile antico, ex voto. Nei pressi, un negozietto di ricordini sacri. E la statuina della Madonna che ci portiamo via,

vecento. Aggirandosi tra queste scenografiche rovine, dinanzi a noi si apre la via dei Cureti, sacerdoti, che discende con il suo elegante lastricato delimitata da frammenti di statue e colonne, pilastri con cariatidi ed omenoni. Dalla tomba di Mamrnio ci guardano figure sepolcrali. Più in là la fontana di Traiano, un tempo alta dodici metri e popolata di statue (quelle superstiti oggi sono al museo), ricostruita con tronchi di colonne, capitelli corinzi e un timpano sovrastante. E ancora, il tempio di Adriano, di cui è stato restaurato il pronao, con colonne reggenti un arco, preceduto dai basamenti di quattro statue. Monumento di eccezionale valore, dietro cui si possono scorgere i ruderi del lupanare e delle terme di Scolastica. Ma un palazzo spettacolare ci attende in fondo alla strada: è la biblioteca di Celso, eretta tra il 114 e il 135 in onore di Tiberio Giulio I. Il Celso Polemeano, governatore dell’Asia alcuni anni prima. Un meticoloso restauro ha ripristinato la facciata, a due piani, ciascuno con otto colonne sorreggenti frontoni e trabeazioni riccamente decorati; nelle nicchie al piano terreno quattro statue (copie, le originali si trovano a Vienna) raffiguranti le doti di Celso: sophia

piccola copia di quella venerata in loco, tiene le braccia abbassate sui fianchi ma sporgenti in avanti, con i palmi aperti. Più o meno l’atteggiamento che aveva l’antica divinità qui venerata, la vergine polimastide Artemide. Efeso sorse nel secondo millennio a.C., fondata dai Greci. Nel 17 d.C. la città fu devastata da un terremoto. L’imperatore Tiberio ne avviò la ricostruzione e i successori Domiziano, Traiano e Adriano, tra il I ed il II secolo, si prodigarono per abbellirla. Gli impressionanti resti archeologici che oggi si possono ammirare risalgono a quell’epoca. Giustiniano, imperatore d’Oriente (527-565), ne trasferì il centro nei pressi della basilica di San Giovanni, in una zona sopraelevata da lui ricostruita e così sulla zona monumentale ellenistico-romana cadde a poco a poco l’oblìo. La prima basilica era stata eretta nel IV secolo sul luogo dove, secondo la tradizione, sarebbe stato sepolto l’apostolo. Ma l’edificio di cui oggi possiamo visitare le imponenti testimonianze è quello bizantino. Poi Efeso vide una fioritura islamica e la basilica fu trasformata in moschea distrutta da un terremoto verso la fine di quel secolo. Quello che oggi vediamo è il frutto di scavi archeologici e di restauri svoltisi a partire dagli anni Venti del No-

(saggezza), episteme (sapienza), arete (virtù), ennoia (pensiero). Nell’abside interna si trovava la statua di Celso, oggi esposta al museo archeologico di Istanbul. Ma ciò che fa di Efeso qualcosa di eccezionale, paragonabile a Pompei, sono alcune case poste sulla sinistra della biblioteca, arrampicate sul pendio del colle Bulbul: probabilmente dimore di gente benestante, erette in epoca augustea, con pianta analoga a quelle di Pompei, cioè una serie di stanze poste in quadrato ed affacciantisi su un peristilio, cioè un cortile porticato interno. Alle pareti affreschi, in parte conservati, con figure umane, tra cui Eros reggente una corona, Dioniso ed Arianna, e riquadri di colore simile al rosso pompeiano. Archeologi e restauratori sono tuttora all’opera per ricostruire gli ambienti.•

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Turchia un crogiuolo di civilta’

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beyond traveling n° 3 - ottobre 2011


Testo di Egidio Cherubini Marrakech. Il fascino che si sprigiona dalla folla che fluisce in modo incessante nelle piazze e nelle strade, variopinti tuareg del Sahara, montanari berberi dell’Atlante, commercianti chleuh indaffarati e vocianti. Questo è Marrakech. Il suo cuore palpitante è la Piazza Djeema-el-Fna, il “raduno dei trapassati”, così chiamata perché una volta vi si esponevano le teste dei giustiziati dal sultano, ma a dispetto del nome è la piazza più viva del Marocco. Seduti sulla terrazza di uno dei caffè, cullati dal ritmo ossessivo di centinaia di tamburelli, sfileranno davanti a voi ballerini e uccellatori, gio-

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Marocco incantato

colieri e acrobati, cantastorie e incantatori di serpenti, che creano all’impronta l’anima del Grande Sud del Marocco e la propongono senza intermediazioni agli spettatori, come un’incandescente pièce de théatre. Entrati nella mischia, riconoscerete dal tintinnìo del cappello il venditore di acqua che sa di guadagnare meglio facendosi fotografare piuttosto che vendendo la sua merce, e vi scosterete non appena vi si avvicinerà un uomo scarmigliato, con un grosso cesto sulle spalle. Improvvisamente il cesto viene posto per terra, il coperchio foderato di rosso si apre ed esce un cobra nero


e lucente, dalla testa piatta, che si snoda poco alla volta, come incantato. A volte il serpente sembra più innocuo, sottile e strisciante, te lo appoggiano sulle spalle. I turisti sono terrorizzati e non esitano a mettere mano alla borsa pur di vederlo di nuovo scomparire. Passano sveltissime le donne berbere con la fronte decorata da neri tatuaggi. Sono puntini disegnati come costellazioni, segni magici, a volte è solo qualcosa che si intuisce più che vedere, sotto il velo nero. Qui nella Piazza ci sono giovani donne accovacciate per terra, pronte a dare anche a te l’illusione di un tatuaggio berbero, un accurato disegno nero lucido sul dorso della mano o sulla caviglia, che svanirà pian piano, lavaggio dopo lavaggio, insieme al ricordo di quel momento. Ogni tanto, nella marea di gente drappeggiata in colori scuri si nota il balenìo di un monile d’argento (la lavorazione berbera è magnifica) o la luce morbida di grossi chicchi d’ambra color miele o rossastri a seconda della zona dove sono stati raccolti e dal colore della sabbia che vi si è inclusa quando erano ancora resina molle, secoli fa. Le babbucce non fanno rumore. Fanno rumore i sonagli alle caviglie e le voci che danno un colore tutto particolare alla Piazza. Sono voci abituate ai grandi spazi, alle note più acute della nostalgia, a volte forti e stridenti, altre cantilenanti come se recitassero misteriose poesie. I pochi punti in ombra della piazza, a volte creati con degli ombrelloni, raccolgono capannelli di uomini vestiti con la tradizionale djellaba e con il tarbusc di feltro rosso. Chi gioca a scacchi per terra, chi racconta storie straordinarie. Muli, ciclomotori, vecchi camioncini scassati, macchine nuove a tutto gas, file di bancarelle per venditori ambulanti di

frittelle, di datteri e frutta secca, di fichi infilati in lunghissime collane o di succose arance da spremere al momento. Un miscuglio incredibile di colori, di suoni, di profumi. La vita si scandisce convulsa anche nel viavai delle viuzze della Medina, proprio adiacente alla Piazza Djeema-el-Fna, una delle città vecchie più affascinanti dell’Africa del nord, piena di bei ricami berberi in oro e argento accuratamente eseguiti su tessuti di poco prezzo, specchi e scrigni adornati con osso di cammello e metallo cesellato, bellissimi lavori in rame, pelli malamente conciate, spiedini in ferro da barbecue lavorati lì sulla strada, splendidi tappeti. Soltanto quando il sole è alto la confusione diminuisce: è l’ora della grande calura che va mitigata all’ombra dei caffè o dietro le persiane di casa. E’ proprio questo momento sonnolento il migliore per visitare la Medina prima che, al tramonto, l’intera città si riversi negli stretti vicoli pieni di tentazioni. Poi ci aspetta la mersea, cioè la scuola coranica, Ben Youssef, un gioiello di decorazioni policrome che risplendono dentro un buio androne. Il minareto della Moschea della Koutoubia, che è il gemello della torre Hassan di Rabat e della Giralda di Siviglia, un vero e proprio ricamo di pietra, uno dei migliori esempi di stile ispano-moresco. Narra la leggenda che le sue cupole d’oro siano state ricavate dalla fusione dei gioielli della moglie di Yacoub-eI-Mansour che portò a termine la torre. Attraverso uno splendido giardino cintato di siepi di rosmarino si giunge poi ai Sepolcri della famiglia imperiale dei Saadi dove, nella più ricca e armonica delle decorazioni moresche, ha trovato riposo Ahmed-el-Mansour detto l’invincibile, il mitico conquistatore di Timbuctu che nel 1591 n° 3 - ottobre 2011

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attraversò il Sahara con le sue truppe e ne tornò talmente carico d’oro da coprirne letteralmente Marrakech. Il Palazzo della Bahia, un sontuoso esempio di architettura maghrebina, rutilante di intarsi e decorazioni, dal bellissimo giardino moresco con galleria a vetrate e colonne a mosaico. Meritano le stanze della favorita del visir e la sala del consiglio con magnifico soffitto di cedro intarsiato. Poi, il Palazzo el Badi (o meglio le sue splendide rovine) che era definito “l’incomparabile” proprio come Allah. Girando per il centro storico in visita a questi monumenti non è insolito, alzando gli occhi, scorgere un nido di cicogne su tetti, torri e persino sui pali della luce. Così come è frequente imbattersi in uno dei tanti magnifici portali dalle decorazioni moresche che indicano dimore tradizionali, spesso nobiliari, dette Riad. Alcune sono antiche, seicentesche. Ristrutturate con estremo gusto, molte di esse sono state trasformate in hotel di charme. Anche gli stranieri sembrano essersi accorti di questa opportunità che offre oggi Marrakech specie all’interno della Medina, cominciano a essere numerosi, per esempio, gli italiani che gestiscono un Riad. Oppure che lo ristrutturano per se stessi, per vivere ogni tanto l’atmosfera incantata e coinvolgente di questa città. Marta Marzotto, Sergio Tanzi, Romeo Gigli e persino Yves Saint Laurent, recentemente scomparso, sono tra questi. Tutto diverso ad Essaouira. Il primo impatto è l’emozione che sprigiona dal porto. Una distesa fittissima di barchette blu scolorito, una accanto all’altra, vuote, immobili, tanto da sembrare un’unica immensa chiatta. Più al largo alcune navi da pesca, nel cielo una moltitudine incredibile e incessante di gabbiani a volo basso, insolitamente silenziosi. Non è un caso che proprio qui Alfred Hitchcock abbia girato il suo film “Gli uccelli”, nel 1963. Sulle banchine, mucchi di rete colorata e qualche pescatore seduto a terra a rammendarle. Qui, i pescatori fanno gran parte dell’economia per quell’incredibile quantità di sardine che vivono in queste coste e che le loro mogli vendono direttamente nel porto eviscerando i pesci al momento. Ecco il perché dei gabbiani. Poi lo sguardo, catalizzato dal porto, seguendo il volo degli uccelli si sposta all’altra meraviglia di questa città, il complesso dei Bastioni

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Marocco incantato


che circondano con possenti mura tutta la città vecchia, la Medina. La cittadella fortificata che difende il porto, infatti, è una piattaforma protetta da mura merlate su cui si trovano cannoni spagnoli dei secoli XVII e XVIII rivolti verso l’oceano Altantico. Fu il sultano Mohamed ben Abdellah Nel 1764, a voler fare di Essaouira una base navale fortificata e chiamò l’architetto militare francese Théodore Cornut a ridisegnare la città. In tre anni i lavori stravolsero l’impianto urbanistico della vecchia Mogador per creare una città con un largo viale centrale a portici e dritte vie trasversali, il tutto rinchiuso nella poderosa cinta di mura. Alla sua planimetria perfettamente regolare, a pianta romana, la città deve il suo nome attuale Essaouira, “la ben disegnata”. Dalla Porte de la Marine si entra nella Medina , che è divisa in tre settori, il suq, la mellah, la kasbah. Vie ordinate, scandite solo da negozi; questo è il centro del commercio, l’altra risorsa di Essaouira. In una delle strade interne si trovano i laboratori degli intarsiatori su radica di legno d’ebano e di cedro, che realizzano veri capolavori di artigianato spesso arricchiti da argento e madreperla. Ma il porto di Essaouira, ricco di fascino tanto da sembrare un set cinematografico, niente ha a che vedere con quello di Casablanca, il più importante del Marocco. Se la capitale ufficiale e sede del governo è Rabat, Casablanca ne è considerata la capitale economica. Una città moderna, con un’architettura curata ed alberghi di livello, come lo Hyatt-Regency, il cui piano bar è la ricostruzione del Rick’s Café Americain del celeberrimo film Casablanca, con tanto di foto degli attori in scena. Tanta modernità è in contrasto con l’unica struttura relativamente antica della città, la medi-

na vecchia con le sue stradine strette e tortuose, cinta da mura del XVI secolo. C’è anche una medina nuova costruita dal 1923 nelle vicinanze della zona europea della città per dare una soluzione al problema dell’inurbamento; cerca di riprodurre in chiave architettonica moderna la struttura tradizionale delle medine con i souk, e le botteghe artigiane. La vera attrazione di Casablanca è la Moschea Hassan II, la seconda al mondo per dimensioni (dopo la Mecca). Il suo minareto, con 210 metri, è il più alto del mondo e serve anche da faro per il porto. Venne costruita su progetto dell’architetto francese Michel Pinseau per celebrare il sessantesimo compleanno di Re Hassan II del Marocco. Sorge in parte sull’oceano, occupa 90.000 metri quadrati, può ospitare fino a 20.000 fedeli che salgono a 80.000 col piazzale antistante ed è ricca di marmi di diversi tipi e di splendidi lampadari. Contiene anche una medersa con biblioteca e sale per conferenze, nei sotterranei ci sono sale per abluzioni. Un’opera grandiosa, in termini di spazi e di preziosità che è costata l’equivalente di oltre 500 milioni di euro. Da non mancare, una passeggiata sul Boulevard de la Corniche, il lungomare di Casablanca, fittissimo di stabilimenti balneari modernamente attrezzati, ristoranti, locali ed alberghi. Insomma, la parte mondana della città.• Ente Nazionale per il Turismo del Marocco Via Larga 23 – 20122 Milano Tel. 02 58303633 – fax 02 58303970 info@turismomarocco.it www.tourism-in-morocco.com www.tourism-marocain.com n° 3 - ottobre 2011

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LOIRA:

DI CASTELLO IN RELAIS Testo di Teresa Carrubba

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n tempo erano fortezze armate. Macchine da difesa. Fu alla fine del Quattrocento che i mastodontici castelli francesi costruiti lungo il fiume Loira, rudi ed essenziali, possenti e trincerati, cominciarono a snellire le gravi strutture a favore di ornamenti, fregi, mollezze d’architettura. L’influenza italiana aveva operato la trasformazione. Carlo III, Luigi XII e Francesco I dovettero capitolare di fronte ai più convincenti costumi del Bel Paese che privilegiava l’arte del

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vivere persino nel concetto di potere. Ecco arrivare dall’Italia artisti del calibro di Laurana e Spinelli, chiamati da Luigi XII che abbandonava la reggia del Louvre per Plessis-lès-Tours. E, rubato alla corte di Napoli, Pacello da Marcogliano, architetto d’esterni, il quale sublimò le geometrie dei verdi mediterranei in quelli che poi sarebbero diventati i “giardini alla francese”, come nei suoi progetti per Blois ed Amboise. Persino Leonardo da Vinci degnò dei suoi tratti geniali spunti notevoli per i castelli francesi, come, così sembra, la superba scala a doppia vite di Chambord. I castelli della

Loira disegnano, nel cuore della Douce France, un percorso che nell’immaginario collettivo nasce e si snoda in un’atmosfera fiabesca. Veri e propri palazzi reali di cui è lecito immaginare lo sfarzo e l’eleganza già dalle belle strutture turrite con cupole coniche o a pagoda, abbaini e lucernari; dai decori delle facciate; dagli immensi giardini esaltati da sculture, fontane e giochi d’acqua per stupire. Una realtà per un viaggio sognato. Se poi si dà voce alla possibilità di soggiornare, di castello in castello, in dimore d’altra razza ma di uguale fascino tutto francese, quali sono i Relais du Silence, il progetto si

LOIRA: DI CASTELLO IN RELAIS - Nel cuore della Douce France, ai margini del fiume


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fa davvero interessante. “Relais du Silence”. Non un semplice nome, ma una promessa di quiete e intimità. Ricercatissimi alberghi che offrono un mondo esclusivo in cui ci si possa rigenerare, ma anche l’estrema attenzione per il cliente che viene coccolato di tutto punto, a distanza, con discrezione. Siamo partiti da Parigi, alla volta del castello di Chambord. Già per la colazione, la scelta caduta su La Solognote, ha dato al viaggio un primo impatto di qualità. Relais du Silence a Brinon sur Sauldre, lungo la strada per Orleans, La Solognote è un momento di tranquillità da consegnare a una vacanza o a un week-end. Elegante e riservato, caldo e curatissimo. enu che uniscono, in matrimonio riuscitissimo, l’eleganza della proposta, ai margini della nouvel cuisine, e la prelibatezza della sostanza, carica di sapori genuini, a ricordo dell’origine del relais, un tempo fattoria. La buona cucina, dunque, unita alla possibilità di dormire in camere raccolte, fanno di questo Relais du Silence un interessante punto di partenza per conoscere la zona, a partire dalla foresta Solognote, e per visitare i castelli della Loira. Anche noi siamo qui per questo. Chambord. A voce di popolo, uno tra i castelli più rappresentativi del Rinascimento francese. Fu Francesco I a volerlo. Residenza di campagna, riserva di caccia. Molti, nel progetto strutturale, i segni del pensiero di Leonardo da Vinci, che il re volle in Francia. Specie nei grandi terrazzi articolati e nella magnifica scala a vite posta al centro delle sale a croce e divisa in due scalee concentriche. La silohuette sontuosa del castello si sfrangia verso l’alto in elaboratissimi tetti, con torrette, abbaini, sovrastrutture classicheggianti all’italiana,

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padiglioni, comignoli, colonnati, intarsi d’ardesia. L’interno, spoglio d’arredamento ma non d’architetture, mostra gli appartamenti di Francesco I e di Luigi XIV e le sale settecentesche, rimaneggiate secondo il gusto e i criteri dell’epoca. La notte può prevedere il Relais du Silence Le Rivage, in riva al fiume Loiret. E’ proprio lungo quel fiume, dopo un’elegante cena nella sala tutta vetri dell’hotel, che l’atmosfera languida invita a passeggiate intime, nel perfetto silenzio di una zona residenziale selezionata. Il castello di Cheverny. Ancora meno usuale rispetto ai nostri canoni dei manieri merlati del Medioevo. Uno splendido palazzo reale, dalla ricchezza nitida nel mastio simmetrico, nelle cupole a pagoda, nei busti scultorei delle nicchie di facciata che stemperano gusto classico in un’impronta decisamente rinascimentale. Il raro privilegio di essere sempre stato proprietà della stessa famiglia, ha permesso al castello di mantenere una grande unitarietà di stile negli arredi, che trionfano in una magnifica e intatta decorazione di epoca luigi XIII. Splendida la Sala dei Trofei, ricca di oltre duemila corna di cervo. Segno di una forte vocazione alla caccia, mantenuta viva anche dagli attuali proprietari di Cheverny, che organizzano spesso battute venatorie. Un altro castello, Beaulieu, a Joué-lès-Tours, acquistato nel 1648 da Jacques de Bussy, consigliere del re, appartenuto al conte di Rochefort e al barone Margaron, ora è un ricercatissimo Relais du Silence. Tracce di nobiltà ovunque in questo maniero registrato nell’inventario dei monumenti storici: nei voli architettonici delle suites, nella ricercatezza di drappeggi e punti luce, nell’inappuntabile table habillé. Dall’e-

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legante creatività del maitre cuisinier, nascono gourmandises di altissimo livello, servite con superbi vini francesi. Sembra davvero uscito da una favola questo castello interamente poggiato sull’acqua, Chenonceau. Di un nitore straordinario, il profilo del castello disegna il nucleo di un complesso che snocciola perle di bellezza naturale. Il palazzo, ma anche la geometria dei magnifici giardini di Caterina dé Medici, il placidissimo fiume Cher, il fitto bosco tutt’intorno. Proprietà, nel Cinquecento, di Bohier, intendente delle finanze per la Normandia, il castello fu poi espropriato da Francesco I che, assecondando le tendenze dell’epoca, vi promosse battute di caccia a cavallo, feste, incontri intellettuali. Tradizione ripresa dal ricco finanziere Claude Dupin, che nel Settecento acquistò il palazzo. Chenonceau divenne un famoso salotto borghese frequentato anche da Montesquieu e da Jean-Jacques Rousseau che del castello scrisse:” Ci si divertiva molto in quel bel luogo e vi si mangiava bene; diventai grasso come un frate”. Ci trasferiamo al castello La Tortiniere un

bellissimo Relais du Silence proprietà di Xavier Olivereau. I blasoni aristocratici, qui, sono degnamente sostituiti dalla frequentazione di ospiti di rango come Georges Pompidou e Chirac: suite numero 12, suggestiva già nella sua forma circolare, da torre del castello, sulla valle e sulla piscina. Ma intriganti anche le camere-abbaino, da dove l’ospite irrequieto si inoltra tra angusti tetti di ardesia e guglie, per strappare uno sguardo da portarsi nei ricordi. La tavola, un tempio della raffinatezza. Servizio inappuntabile. Per non commettere errori della memoria il cameriere annota, con discrezione, gli ordini su una piantina che riporta la disposizione dei commensali. Un’attenzione tutta francese. Ultimo invito alla bellezza: i giardini del Castello di Villandry. L’arte del verde d’autore, nata con il Rinascimento italiano per armonizzarsi con l’architettura, giunge anche in Francia traducendosi nei celebri giardini alla francese, più ampi e senza muri perimetrali. Splendidi, i giardini di Villandry, sono emblematici di questo stile e ne ricalcano tutta la suggestione, nella struttura a grandi

terrazze che ne consentono incredibili, cangianti visioni. Ultima tentazione: un pranzo al Relais du Silence La Caillere. L’ala più antica risale a prima della rivoluzione francese, il resto fu costruito nel 1850, già con destinazione locanda. Oggi è un delizioso Relais du Silence. Nessun dubbio sul suo merito nel trovarsi citata nelle più prestigiose guide internazionali come Michelin, Gault et Millau, Bottin Gourmand, Touring Club e molte altre. Vi si gusta un eccellente fegato d’oca fresco, tra i migliori. Oltre ad altre superbe ghiottonerie. Per finire con il caffè da sorbire nell’intimo giardino spilluzicando irrinunciabili frutti glassati.• Ente Nazionale Francese per il Turismo Maison de la France Via Tiziano 32 Tel. 899 199072 02 5848656 fax 02 58486222 Info.it@franceguide.com www.franceguide.com

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Sidi Bou Said

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a prima sensazione, arrivati a Sidi Bou Said, è quella di aver sbagliato rotta e di essere giunti in un’isola greca delle Cicladi. Stile Santorini, per intenderci. Piccole case cubiche di un bianco abbacinante con porte e finestre dal tipico azzurro apotropaico disegnano viuzze acciottolate traboccanti di bouganville e gelsomini. Ed è proprio il profumo penetrante dei gelsomini a guidarci nell’ordinato reticolo di vicoli che s’inerpicano per la collina a picco sul Mar Mediterraneo, incastonata nel Parc National du Jebel Bou Kornine, catturando una luce straordinaria che amplifica il contrasto di colori di questa architettura. La stessa luce che ammaliò artisti come Paul Klee, August Macke, alcuni membri dell’ Ecole de Tunis (scuola di pittura di Tunisi), come Yahia Turki e Brahim Dhahak e scrittori del calibro di Simone de Beauvoir e Cervantes. Ma conquistò anche il marabutto Bou Said Khalaf el Beji, asceta musulmano considerato santo, che qui si ritirò in preghiera intorno al 1220 e diventò patrono della città dandole il nome. Qui, in suo onore, fu

Testo di Viviana Tessa e Foto di Pamela McCourt Francescone

THE DOORS OF TUNISIA Sidi Bou Said. The Jasmine Village

Words by Viviana Tessa and photos by Pamela McCourt Francescone The first sensation you get when you arrive in Sidi Bou Said is that you have taken the wrong direction, and have ended up on one of the Greek Cyclades islands. On a kind of Santorini. Low cubic, dazzling-white houses, with doors and windows painted that typical apotropaic blue, line the narrow little cobblestone streets that overspill with bougainvillea and jasmine. And it is the heady perfume of jasmine that leads us through the neat grid of alleyways that wind their way up the hill with its sheer drop down to the blue Mediterranean Sea, set in the Jebel Bou Kornine National Park, and capturing the extraordinary light that intensifies the strongly contrasting colours of the architecture. The same light that enchanted artists like Paul Klee, August Macke, artists of the Tunis School of Painting like Yan° 3 - ottobre 2011

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eretto un mausoleo a cupola dietro al celebre Café des Nattes, meta obbligata per chi visita questo villaggio. Il Café gode di notorietà per almeno tre motivi: una vista mozzafiato sulla darsena nel Mediterraneo e su tutto il pendio abitato di Sidi Bou Said; le numerose stuoie colorate che ne arredano la terrazza coperta, e un delizioso tè caldo alla menta in cui galleggiano croccanti pinoli. Il percorso per raggiungere il Café des Nattes è una gioia per gli occhi, intriso com’è di romanticismo tra i fiori e le piante che spuntano da minuscoli giardini incastrati tra muri imbiancati a calce. Lungo le viuzze è facile imbattersi nei pittoreschi venditori di gelsomini confezionati in eleganti minuscoli bouquets e offerti su vassoi di paglia intrecciata. Gelsomini assurti a simbolo del villaggio fin dal XIII° secolo, quando gli arabi ne portarono le prime piantine dall’Andalusia. Ma l’attrazione straordinaria e singolare di Sidi Bou Said è costituita dalle porte, elemento distintivo di ogni casa. Porte in legno dipinto, prevalentemente azzurre, semplici o con ghirigori di borchie metalliche e batacchi; raramente in altri colori ma sempre accesi come verderosso o giallo ocra. Alcune finestre alte delle case sono coperte da una sorta di veranda in legno intagliato e dipinto di azzurro, non solo elemento decorativo e protezione dalla forte luce del sole, ma anche schermo di discrezione per le donne del passato che da lì potevano osservare, non viste, la vita che scorreva nelle vie. Sembra che la tradizione degli infissi azzurri per le case trattate a calce bianca sia stata voluta dal Baron Rodolphe d’Erlanger filantropo francese che

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hia Turki and Brahim Dhahak, and writers of the calibre of Simone de Beauvoir and Cervantes. And also enchanted the marabout Bou Said Khalaf el Beji, a Muslim ascetic considered a saint who retired here to pray around 1220 and became the patron of the city, giving it his name. Here, to honour him, they built a mausoleum with a dome behind the famous Café des Nattes, an obligatory stop for anyone visiting the village. The Café is famous for three reasons: the breathtaking view over the Mediterranean and the residential hillside of Sidi Bou Said; the brightly coloured mats scattered around the shaded terrace, and the delectable hot mint tea with floating pine kernels. The climb up to the Café des Nattes is a delight for the eyes: a romantic walk along shady streets with tiny flowering gardens wedged between whitewashed walls Along these same streets you come across picturesque jasmine vendors, the perfumes blossoms tied into elegant little bouquets and laid out on small woven-straw trays. Because jasmine became the symbol of this village in the 13th century when the Arabs brought the first plants here from Andalusia. But Sidi Bou Said’s most extraordinary and unique attraction are its doors, each one different from the last. Wooden doors painted, for the most part, bright blue, simple doors, and doors with elaborate metal studs and knockers: sometimes not blue, but bright red and green, or ochre yellow. Some of the tall windows on the houses are enclosed by lattice verandas, which are also painted blue. These are not merely decorative elements and protection against the bright

LE PORTE DELLA TUNISIA - Sidi Bou Said il paese dei gelsomini


dal 1910 ha trascorso gli ultimi vent’anni della sua vita a Sidi Bou Said dove ha contribuito alla conservazione e alla rinascita della musica araba. L’amore del Barone d’Erlanger per questa terra si evince ancora dai giardini della sua casa, una serie di terrazze dove piante di boungaville, agrumi in particolare aranci, palme, fiori multicolori e cipressi, ne fanno un piccolo Eden. Un villaggio dai colori forti, dunque, Sidi Bou Said, borgo arabo-andaluso, anche se le sue origini risalgono ai Cartaginesi, inserito dalle autorità tunisine tra i siti storici del Paese e sottoposto a vincolo conservativo per cui gli abitanti sono obbligati a ridipingere le case nei colori originali. Colori anche nell’artigianato locale messo in bella mostra da ogni bottega della via principale. Ceramiche dipinte a mano di ogni foggia e fattura, piatti, vassoi, ciotole, vasi e mattonelle dai lucidi smalti variopinti, gabbiette per uccelli a cupola e narghilè. Colori persino nel folklore locale. Se siete qui ad Agosto non dovete assolutamente perdere la festa religiosa della Kharja, tra le più importanti della Tunisia. Tutto il borgo è invaso da varie confraternite che ricordano così l’eroico sacrificio dei martiri islamici caduti per mano dei francesi nel 1271.• Info: Ente Nazionale Tunisino per il Turismo www.tunisiaturismo.it - Via Baracchini 10 - 20123 Milano Tel. 0286453026/44 - Fax 0286452752 - milano@tunisiaturismo.it Ufficio di Roma: Via Calabria 25 - 00187 Roma Tel. 0642010149 - Fax 0642010151 - roma@tunisiaturismo.it

sunlight, but also a discreet screen used by women long ago who could sit behind them unobserved and follow what was going on down on the street. It would seem that the tradition of the blue casings on the whitewashed houses was the idea of Baron Rodolphe d’Erlanger, a French philanthropist who moved to the little town in 1910, and spent the last twenty years of his life in Sidi Bou Said, contributing to the conservation and renaissance of Arab music Baron d’Erlanger’s love for this town can also be gathered from the gardens of his house: a series of terraces with bougainvillea, citrus trees, in particular oranges, colourful flowering plants and shrubs and cypresses that turn the garden into a miniature paradise. Sidi Bou Said is a town of strong contrasting colours, an Arab-Andalusian settlement even though its origins date back to the Carthaginians. It has been listed as one of Tunisia’s historic sites, and as such is subject to strict regulations that oblige the residents to repaint their houses in the original colours. The local handcrafts, on display in the many artisan shops along the main street, are also colourful. Hand-painted ceramics in all shapes and sizes: plates, vases, dishes, bowls and tiles in bright colours, but also elaborate birdcages and hookah pipes. The local folklore is also colourful. And, if you happen to be here in August, don’t miss the Kharja religious festival, one of the most important in Tunisia, when the entire town is invaded by confraternities to commemorate the heroic sacrifice of the Islamic martyrs who were killed by the French in 1271.• Info: Tunisian National Tourist Board www.tunisiaturismo.it - Via Baracchini 10 – 20123 Milan Tel. 02 86453026/44 - Fax 02 86452752 milano@tunisiaturismo.it Rome Branch: Via Calabria 25 – 00187 Rome Tel. 06 42010149 - Fax 06 42010151 roma@tunisiaturismo.it n° 3 - ottobre 2011

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Due Passi nella Storia

Testo e Foto di Pamela McCourt Francescone

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n dedalo di viottoli e viuzze strette e tortuose che si snodano senza soluzione di continuità. Palazzi secolari, case basse intorno a cortili ombreggiati, archi e passaggi che proiettano ombre su ombre, lo sfruscìo di passi lenti, sguardi enigmatici, porte borchiate in legno e dalle tinte forti. La Medina di Tunisi, fondata dagli Arabi nel 8° secolo, ha raggiungo il massimo del suo splendore sotto la dinastia Hafside nel 13° secolo. Decaduto nel 16° durante i conflitti tra Ottomani e Spagnoli, rinasce due secoli dopo e diventa il fulcro commerciale ed artigiano della città. Oggi rimane ben poco delle antiche mura di cinta che facevano della Medina (la parola in arabo significa città) una fortezza invalicabile, ma i mercati all’aperto - i caratteristici souk - e le zone residenziali sono tutt’oggi una straordinaria testimonianza della coesistenza di due culture secolari: quella Mediterranea e quella Islam. Su 270 ettari con oltre 700 monumenti e 100,000 abitanti, la Medina, che nel 1979 è stata proclamata patrimonio dell’UNESCO per “l’omogeneità della sua struttura urbana”, è una delle città musulmane tradizionali più popolate al mondo. Già negli anni ‘60 l’integrità dell’antico quartiere è stata minacciata dalla costruzione di nuove strade a scorrimento veloce. Nel 1967 viene fondato l’ASM, l’Association de Souvegarde de la Médina, un’agenzia il cui compito è quello di studiare la riabilitazione della vecchia città, tutelare la sua identità e sovraintendere agli interventi di restauro. “Tra i nostri obiettivi c’è anche quello di conservare la Medina come una entità coerente, in modo che non diventi un quartiere marginale della moderna città, e che acquisti nuovo valore come specchio della lunga storia della capitale”, spiega Messaoud Yamoun, uno dei fondatori dell’ASM. “Ci sono moschee, palazzi, hamman (ba-

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LE PORTE DELLA TUNISIA - Due Passi nella Storia

A Stroll Through History

Discovering the architectonic treasures and ageold history of the Medina of Tunis Words and photos by Pamela McCourt Francescone

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Daedalus of alleyways and narrow passages that meander and ramble, seemingly without end. Ancient palaces, low houses built around shady courtyards, arches and passageways that throw shadows upon shadows, the rustle of unhurried footsteps, enigmatic glances, wooden doors in vibrant colours with heavy studs. The Medina of Tunis, founded by the Arabs in the 8th century, shone at its brightest under the Hafside dynasty in the 13th century. After a decline in the 16th century under the Ottomans and the Spaniards, it flourished again two centuries later, becoming the commercial and artisan hub of the city. Today little is left of the old encircling walls which made the Medina (the name means city in Arabic) an impenetrable fortress, but the open markets - the characteristic souks - and the residential areas are an extraordinary testimonial to the coexistence of two ancient civilizations: Mediterranean and Islamic. The Medina, is on 270 hectares, has 700 monuments and 100,000 inhabitants, was named a UNESCO World Heritage Site in 1979 for the “homogeneity of


gni turchi ), zaouia (santuari) e medersa (collegi) di grandissimo valore architettonico e storico che non hanno subito cambiamenti nei secoli. Alcuni sono stati restaurati, preservando antiche attività artigianali quali la scultura della pietra, la ceramica e il nakch hadid, l’arte dell’incisione di motivi geometrici sullo stucco”. Negli ultimi anni sono stati fatti diversi investimenti pubblici in progetti per la conservazione del quartiere. Pochi, a dire la verità, ma hanno comunque permesso il restauro di numerosi edifici, conservando le loro caratteristiche storiche e ricollocandoli in un contesto contemporaneo. “Ogni qualvolta una nuova bottega o attività commerciale apre nella Medina, è un importante passo verso la conservazione dell’identità secolare del quartiere”, dice Yamoun. “Oggi, in seguito alla Rivoluzione dei Gelsomini di gennaio e il corso della Nouvelle Tunisie, c’è da augurarsi che La Medina possa beneficiare di nuovi interventi per valorizzare il patrimonio artistico e culturale del centro storico di Tunisi”. Al turista esigente, a colui che ama scavare oltre la superficie di una destinazione per entrare in simbiosi con il suo palpito più verace, piacerà l’itinerario turistico

its urban structure,” and is one of the most densely populated Muslim cities in the world. In the ‘60s the integrity of this old quarter was threatened by the construction of new high-speed roads. Then, in 1967, the ASM, l’Association de Souvegarde de la Médina, was founded, with the aim of studying the rehabilitation of the old city, protecting its identity, and supervising restoration on its buildings and monuments. “One of our aims is to conserve the Medina as a coherent entity, to stop it from becoming a marginal quarter of the modern city. We also hope to turn it into mirror of the age-old history of the capital,” says Messaoud Yamoun, one of ASM’s founders. “In the Medina there are mosques, palaces, hamman (Turkish baths), zaouia (santuaries) and medersa (colleges) of inestimable architectonic and historical importance. Some have been restored, preserving old artisan trades like stone sculpture, ceramics and nakch hadid, the art of engraving geometric motives on stucco.” n° 3 - ottobre 2011

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Les Architectures de la Médina che porta oltre le strade commerciali del grande bazar che si diramano dalla porta Bab Bhar e brulicano di vita a tutte le ore. Lungo questo itinerario di forte interesse architettonico-storico, che richiede circa tre ore di tempo e scarpe comode, si visitano i luoghi più intimi della Medina: i souk delle erbe, dei sarti, dell’ottone e dell’oro, la Grande Moschea di Zitouna, utilizzata ancora oggi per il culto, il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, bei palazzi residenziali come il Dar ed-Haddad che è uno dei più antichi della Medina. Poi, Turbet el-Bey, il grande mausoleo dove sono sepolti molti bei – i signori di Tunisi - e personaggi di spicco, e il Medersa Bir Lahjar, passeggiando lungo strade dai nomi evocativi: Via del Tesoro, Via dei Martiri, Via dei Giudici, Via dei Ricchi. Affascinanti e variegate le porte della Medina che illustrano il pensiero e lo stile di vita dei residenti: porte semplici ad un anta, porte a due ante, e porte con una piccola sotto-porta che si chiama hkoukha ed è stata introdotta da una principessa spagnola per obbligare i sudditi musulmani ad abbassarsi davanti al marito monarca. Anche i colori hanno il loro significato. Il giallo ocra è il colore preferito da Dio, il verde il colore del paradiso, e il celeste, introdotto in tempi più recenti, richiama il colore delle porte del piccolo villaggio costiero di Sidi Bou Said. Poi ci sono le porte tricolori – bianco, rosso e verde - in omaggio alle dinastie che precedettero quella Hafside. Per le decorazioni vengono usati chiodi di varie dimensioni che disegnano simboli e forme geometrici come il tanit per la dea della fertilità, la stella di Davide, la croce, il mihrab (la parte delle moschea dedicato alle preghiere), la luna, l’occhio e il pesce. Vestigia di un passato secolare e, come tutti i monumenti ed edifici nella Medina, di grande fascino e da conservare gelosamente. In questo delicato momento per il Paese, il testimone passa alle autorità municipali e governative post-rivoluzionarie. A loro il compito di rendere disponibili i mezzi, le perizie e i fondi di cui hanno bisogno l’ASM e tutti coloro che si prodigano per assicurare, nell’immediato e in futuro, la salvaguardia delle bellezze inestimabili della Medina di Tunisi. Patrimonio non solo del popolo tunisino, ma del mondo intero.•

In recent years public investments have gone into projects to preserve the Medina. Unfortunately they have not been very many, but they have allowed numerous buildings to be restored, preserving their historical characteristics and giving them a new lease of life in a contemporary context. “Each time a new workshop or a new commercial activity opens in the Medina it is an important step towards conserving the quarter’s ancient identity,” says Yamoun. “And now, in the wake of the January Jasmine Revolution, and with the Nouvelle Tunisie, we hope the Medina can benefit from new projects to develop and preserve the artistic and cultural heritage of Tunis’s historic centre.” The demanding visitor, the traveller who likes to scratch the surface of a destination to discover its heartbeat, will enjoy the itinerary called Les Architectures de la Médina which leads away from the busy shopping streets of the Grand Bazaar that start at the Bab Bhar gate and are crowded with locals and tourists at all hours of the day and night. This architectonic-historical itinerary takes about three hours, calls for comfortable walking shoes, and leads to some of the most intimate parts of the Medina: the souks here herbs are sold, where tailors work, where brass is fashioned and where goldsmiths ply their trade, the Zitouna Mosque which is still used today, the Museum of Popular Arts and Traditions, handsome residential palaces like the Dar ed-Haddad which is one of the oldest in the Medina, Turbet el-Bey, the large mausoleum where many of Tunis’s beis – who once ruled the city - are buried, the Medersa Bir Lahjar, and streets with evocative names: Treasure Street, Martyrs’ Street, Judges’ Street, Richman’s Street. The doors of the Medina are one of its peculiarities, illustrating as they do the philosophy and way of life of the residents. Simple doors, double doors and doors with small under-doors called hkoukha, which were introduced by a Spanish princess to oblige her husband’s Muslim subjects to bow down before their monarch. Each colour has a meaning. Yellow is the colour preferred by God, green the colour of paradise and blue, introduced in more recent times, is the colour of the doors in the picturesque little coastal village of Sidi Bou Said. Then there are doors in three colours – white, red and green – for the dynasties that preceded the Hafsides. The doors are decorated with nails of varying sizes which design symbols and geometric forms like the tanit for the goddess of fertility, the cross of David, the Christian cross and the mihrab (the part of the mosque devoted to prayer), the moon, the eye and the fish. Century-old relics and, like all the monuments in the Medina, treasures to be admired and jealously conserved. In this delicate moment for the country it is now up to the municipal and post-revolutionary authorities to make available the means, the skills and the funds to support the ASM and other groups and concerns that are doing what they can to ensure, both in the short and in the long term, that the priceless beauties of the Medina be safeguarded and preserved. A precious heritage that belongs not only to the people of Tunisia, but to the world at large.•



Testo e foto di Pierantonio Sborgia

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VERSO LA CROAZIA - Diario di un viaggio in moto

inalmente si parte... sono le 10:00 a.m. e da Pescara ci dirigiamo verso Ravenna, prendiamo l’autostrada e dopo i primi chilometri già il sentore della vacanza ci pervade. Fa molto caldo e per fortuna abbiamo portato con noi delle giacche da moto traforate. Prima di Ancona usciamo e facciamo la nostra prima deviazione, La Madonna di Loreto; da lÏ verso il Conero,


un paesaggio stupendo. L’effetto dei monti che si riflettono nell’ acqua sembra un “trucco” di photoshop e nemmeno a dirlo le acque turchine sono tappezzate di barche a vela. Il bello del viaggiare in moto è che si è dentro il paesaggio e non lo si guarda come da un finestrino, lo si vive appieno, si sente l‘odore dei pini, delle ginestre che quasi sfioriamo con i caschi, delle foglie che danzano al nostro passaggio ma altresì si sentono

le differenze di temperatura, si prende l’acqua quando piove, ci si brucia le braccia quando c’è il sole, insomma si è tutt’uno con la natura. Viaggiando a fasi alterne, lento–veloce-lento, giungiamo in quel di Ravenna e arriviamo a Casa di Paola un bellissimo e consigliatissimo Bed and Breakfast. Posate le valige e trovato un giusto ricovero per la moto, ci diamo alla ricerca di un buon ristorante. Niente da dire, a Ravenna si mangia proprio bene e dopo una breve passeggiata per il centro storico, passando in rassegna la tomba dell’illustrissimo esiliato: “ Dante” e la maestosa ma poco illuminata Basilica di San Vitale il letto era il nostro ultimo traguardo. La mattina seguente carichiamo la moto e partiamo alla volta di Venezia. La via Romea è la strada che collega Ravenna a Mestre e deve il suo nome al fatto che ricalca un’antica arteria che portava da Venezia a Roma. Attraversiamo le valli di Comacchio, una delle zone umide più estese e belle d’ Italia, e passiamo in rassegna i tipici casoni da pesca, capanne fatte di pali, paglia e canne palustri che fiancheggiano le rive dei fiumi e che tanto ricordano i Travocchi abruzzesi. Sulla destra un Cartello di quelli che indicano luoghi di interesse turistico riportava la scritta Villa Foscari... si tratta della Malcontenta la famosa villa Palladiana, che deve il suo nome ad una leggenda... in breve e con il beneficio del dubbio, si narra di una dama che allontanata da Venezia per una condotta alquanto chiacchierata sia stata esiliata in questa villa da cui il nome. La deviazione è infruttuosa, bisogna prenotare in anticipo. Arriviamo fino a Fusina, dove è possibile lasciare la moto e raggiungere Venezia con un traghetto. Entrare

a Venezia dalla Laguna è stupendo, si vede avvicinarsi una quinta di case variopinte, un brulicare di imbarcazioni affollano la lingua di mare che stiamo percorrendo chiusa a sinistra da Dorsoduro e a destra dalla Giudecca, con gli occhi scorro lo skyline alla ricerca di S.Marco, ma la prospettiva non è favorevole è la mia attenzione viene catturata da un fuori scala incredibile. Vicino il molo S.Basilio, alla Marina sono ormeggiate delle navi da crociera, il loro rapporto con la città è spaventoso: sovrastano ampiamente gli edifici più alti e con la loro mole proiettano ombre innaturali. Si sbarca di fronte alla bella chiesa dei Gesuiti e da lì inizia la ricerca del nostro albergo; le valige sono pesantissime e dimenarsi tra il fiume di persone che affollano le calle Veneziane è arduo. In lontananza si sentono dei rumori, il cielo borbotta e da lì a poco ci prende un acquazzone. Fortunatamente troviamo il nostro albergo. Si girovaga senza meta, stanchi, ma affascinati dalle prospettive sempre diverse che ci si parano dinanzi, chiese, canali, piazze ( che poi scopriremo chiamarsi Campi ). Nel nostro errare veniamo notati da uno strano signore che affiancandosi ci dice che la biennale oggi, Domenica, è chiusa e che il cartello sulla nostra destra è un fuori concorso. Non riesce a non notare che siamo un po’ spaesati; ci rivolge alcune domande, siamo impreparati e si sente stranamente in obbligo di farci lui stesso da guida. La nostra nuova conoscenza si chiama Agostino un signore sulla settantina, distinto, con grandi occhiali e capelli neri, uno studioso di Venezia, per di più veneziano. Ci bacchetta dicendoci che in questo modo non avremmo mai capito Venezia e che prima di arrivare in una città bisogna studiarla, altrimenti è come non esserci stati. Non possiamo che condividere. Ci porta verso L’arsenale e camminando descrive i luoghi che man mano attraversiamo, in uno slargo indica due pozzi e ci chiede sornione, sapete da dove prendono l’acqua? Senza aspettare risposta descrive l’interessante sistema di cisterne che raccogliendo l’acqua piovana permettevano l’approvvigionamento idrico, poi tira dritto e si infila in una strettoia. Lo seguiamo e indica un sovra-porta, n° 3 - ottobre 2011

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si intravedeva appena un mattone sagomato a mò di cuore : “Qui una leggenda vuole che se due innamorati lo toccano rimarranno insieme per la vita” Calle e Campi al posto di Vie e Piazze, a Venezia esiste una sola Via ed è via Garibaldi; le Calle stanno ad indicare gli stretti passaggi nei campi di grano i Campi invece sono gli slarghi, poi la nostra guida prende a dire : “Vedete, qui i veneziani si son fatti forestieri, siamo una città che muore le case sono vuote, gli stranieri comprano e mettono su alberghi e Bed and Breakfast. I prezzi salgono ed i veneziani sono costretti ad andare via. Il turismo ha lentamente trasformato gli equilibri delle cose, oggi c’è un turismo che spazza via gli altri lavori, vedete altri negozi se non quelli di Souvenir?” Siamo ben oltre l’orario di cena, lo salutiamo e lo invitiamo a venire a trovarci a Pescara. Un giorno è nulla per vedere Venezia, ci tratteniamo fino al pomeriggio ma dobbiamo ripartire, la tabella di marcia prevedeva l’arrivo a Trieste

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in serata quindi di nuovo in moto. Il sole scende sul mare, ci fermiamo ad osservare lo scenario, mare, coste a strapiombo ed ancora mare. Una luce unica ed un altro elemento, il vento, ci avvertono che siamo arrivati. L’ingresso dalla strada Panoramica lascia di stucco poi si entra in una città caratterizzata da grossi palazzi ottocenteschi, vie larghe e piazze monumentali. Purtroppo è tardi e finiamo la giornata dritti a letto. L’indomani si parte presto, non abbiamo molto tempo per vedere Trieste, un giro fugace in centro e la salutiamo ripromettendoci che saremo tornati presto, ma prima di lasciarla puntiamo la moto verso il castello di Miramare, assolutamente da non perdere. Passiamo il confine e, come ci hanno detto, ci fermiamo per acquistare la vignetta, una sorta di pedaggio autostradale. Il paesaggio non cambia, l’unica cosa diversa è il prezzo della benzina, sensibilmente più conveniente. Decidiamo di fare il tragitto sulla costa passando per Capo D’Istria, Parenzo, Rovigno, fino ad

VERSO LA CROAZIA - Diario di un viaggio in moto

arrivare a Pola. Soggiorniamo all’Hotel Riviera, una struttura alberghiera di qualche anno, le camere non ci piacciono molto, ma la posizione è centralissima ed in fin dei conti il servizio è buono. Siamo affamati ed appena usciti dall’albergo siamo alla ricerca di un ristorante, nulla di più facile, anzi c’è l’imbarazzo della scelta. Menù turistici in ogni angolo, scegliamo e prontamente siamo serviti; il pesce è ottimo ed i prezzi sono da osteria. Rifocillati, passeggiamo per il pregevole centro e ci troviamo di fronte al famoso anfiteatro, una struttura molto ben conservata che conferma l’egemonia romana su queste terre. Inoltre sono presenti numerose strutture che la dicono lunga sull’importanza strategica di questo porto. Prenotiamo una gita in barca che da Fazana ci porta all’arcipelago delle isole di Brioni, parco nazionale costituito da 14 isole di diversa grandezza. Circumnavighiamo le isolette circostanti su di un’acqua cristallina con un piccolo taxiboat. Una guida improvvisata ci indica l’iso-


la di Tito e ci dice che è ancora un presidio militare, poi ripete la stessa cosa in inglese e tedesco. Infine ci lasciano su di un piccolo isolotto, l’unico dove per poter mangiare e fare il bagno. Dopo una lunga giornata di mare decidiamo di andare a cenare a Rovigno, in un delizioso ristorante con tavoli sparsi tra le viuzze. Dopo aver mangiato piatti a base di tartufo, tipico del luogo, percorriamo il vicolo a gradini chiamato Grisia che risale la collina fino ad arrivare alla chiesa di Santa Eufemia che si affaccia sul mare da dove al tramonto si gode uno splendido panorama. Si riparte, direzione Fiume. Prima di arrivare ci consigliano di fare una piccola sosta ad Abbazia, chiamata la “piccola Montecarlo”, una deliziosa città sulla costa nord orientale dell’Istria, famosa anche per il suo centro termale. Soggiorniamo a Cavle a pochi chilometri da Fiume e nota per l’autodromo. Fiume è la terza città della Croazia in ordine di grandezza, nonché il principale porto. Ci consigliano di andare a prendere l’aperitivo nel caffè Groff all’interno del Castello di Trsat raggiungibile percorrendo 561 gradini della scalinata di Peter Kruzic. Da qui si gode una splendida vista su Fiume, sul Quarnaro e sull’istria. Dopo una breve passeggiata lungo il n° 3 - ottobre 2011

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Korzo, torniamo in hotel per riposarci, il giorno successivo ci aspetterà una dura giornata. Percorrendo con la nostra moto le nuove e bellissime autostrade croate, circondate da paesaggi mozzafiato, arriviamo nel parco nazionale dei Laghi di Plitvice, dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Questo posto quasi surreale è un susseguirsi di cascate, torrenti e laghi (un totale di 16), il tutto delimitato da pareti scoscese, da boschi di abeti e da prati. E’ possibile attraversare il lago principale con un traghetto elettrico, ma noi scegliamo di raggiungere l’altra sponda passando lungo il sentiero che costeggia il lago. Dopo una lunga passeggiata durata circa sei ore ci troviamo al punto di partenza dove ci aspetta una pausa mangereccia: salsicce, patatine fritte e birra! Ritornando sulla costa giungiamo a Zara che fino al 1919 fu la capitale della Dalmazia. Il centro storico è circondato da una cinta muraria di epoca veneziana, all’interno della quale si susseguono piazze e vie incorniciate da palazzi di varie epoche e stili e fanno bella mostra di sé le rovine di epoca romana. Dirigendoci verso il porto rimaniamo incantati dal suono che viene dal mare: è l’organo marino creato nel 2005 dall’architetto Nikola Basic, una struttura a gradoni sul mare. L’acqua del mare in continuo movimento pe-

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netra all’interno di tubi di varie dimensioni che a loro volta portano a cavità di forme diverse e il suono viene convogliato verso l’esterno attraverso delle fenditure. Ne approfittiamo per distenderci al sole e riposarci, è molto suggestivo e rilassante. Alzando lo sguardo è possibile ammirare l’Isola di Pasman, separata da Zara solo da qualche chilometro di mare. Arriviamo finalmente a Sibenico, è ora di cena; una doccia veloce e subito alla ricerca di un ristorante. Attraversiamo slarghi e vie costellate di negozi, c’è tanta gente, in lontananza una musica coglie la nostra attenzione, ci ritroviamo in una bellissima piazza su cui domina la cattedrale di Sveti Jakov, ballano il tango... l’atmosfera è magica. A pochi metri il ristorante che ci sfamerà: “ i Pelegrini”. Si mangia a lume di

candela, con mare e cattedrale come sfondo, il cibo è ottimo!, consigliamo di provare le pappardelle con tartufo e prosciutto, speciali! La Serata è stata bellissima, decidiamo di rimanere due giorni. Sibenico dista solo pochi chilometri dal Parco nazionale di Krka; qui fiumi e cascate si rincorrono fino ad arrivare a Skradin un piccolo paese all’ingresso del parco. Qui é possibile fare il bagno sotto le cascate, non ci facciamo sfuggire l’occasione: l’acqua è fredda, ma l’esperienza ne vale la pena. Ultimo giorno a Sibenico, finalmente una giornata di mare. Andiamo sulla spiaggia di Solaris, un complesso turistico dove convivono a stretto contatto camper tende ed alberghi ed è possibile fare diversi sport acquatici; affittiamo un gommone per visitare alcune delle isole antistanti Si-

benico. Ci fermiamo sull’isola di San Nicola e poi una sosta con bagno in una delle calette dell’isola più grande, Zlarin. Trogir è l’ultima tappa prima del rientro in Italia, una piccola isola di passaggio tra la costa croata e l’isola di Čiovo. E’ stata dichiarata patrimonio dell’UNESCO nel 1997. Le sue vie sono lastricate in pietra e non è consentito l’accesso alle automobili per cui si può visitarla solo a piedi. L’influenza veneziana è presente come in molte altre città croate, ma qui i locali ci fanno notare con orgoglio il portale della cattedrale di Sveti Lovro, opera di un maestro croato di indubbio talento (Radovan 1240). Entrando nella cattedrale non si può non rimanere impressionati dalle raffinatissime decorazioni che l’arricchiscono, inoltre è possibile salire sulla torre campa-

naria, dalla quale, una volta superati gli improbabili scalini, si gode di una vista stupenda. Il giorno della partenza è arrivato, carichiamo la moto sul catamarano della Snav e ci lasciamo alle spalle un viaggio stupendo che entrerà a pieno titolo tra i nostri migliori ricordi.• Ente Nazionale Croato per il Turismo Via dell’Oca 48, 00186 Roma Tel: 06.32.11.03.96 Fax: 06.32.11.14.62 www.croazia.hr

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Gran Bosco della Mesola Testo di Luisa Chiumenti l Bosco é stato definito più volte “figlio del Po”, perché il fiume, con i suoi depositi, ha sottratto quest’area al mare a cominciare dall’anno Mille. Vi si giunge uscendo dal casello di Ferrara sud dell’autostrada Bo-Fe, prendendo poi la superstrada per Porto Garibaldi fino all’uscita di Migliarino e proseguendo per Codigoro. Qui la Romea (SS. 309) incontra il ramo del Po di Goro, che segna in quella zona il confine fra Emilia e Veneto. Si incontra dapprima il centro abitato di Mesola e poco

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Un percorso nel Gran Bosco della Mesola

più avanti, in direzione sud, superata l’Abbazia di Pomposa, svoltando a sinistra, ecco la grande distesa del Bosco. L’area del Boscone si presenta quale residuo della secolare tenuta di caccia estense costituita in riserva naturale per ben 1058 ettari, percorribile, se pur non completamente, a piedi o in bicicletta. Grande é la suggestione delle luci e dei colori nelle prime ore del mattino e prima del tramonto, nel rigoglio della vegetazione, nella curiosa conformazione di origine alluvionale delle dune e degli spazi fra di esse, in cui si formano ristagni d’acqua, che si combinano con l’intrecciarsi dei canali, evidente memoria di oculati interventi dell’uomo, per irreggimentare le acque.


Il grande Bosco si presenta come una macchia molto estesa che, dalla sponda destra del Po di Goro, per circa 16 chilometri, si spinge a sud ovest fino al mare offrendosi ad un interesse naturalistico elevatissimo, trattandosi di un biotopo forestale unico per ampiezza e stato di naturalità lungo tutta la fascia costiera da Ravenna a Venezia. Superato il cancello d’ingresso nel Boscone ci si immerge subito nella selva, percorrendo l’ampia pista che attraversa tutta l’area protetta da ovest ad est. Poco dopo si stacca a destra un’importante via forestale che attraversa tutta la parte meridionale del Gran Bosco il cui accesso é, in alcune parti, consentito solo in particolari festività (in genere 25 aprile e primo maggio) e solo con l’accompagnamento delle n° 3 - ottobre 2011

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Guardie Forestali. Continuando quindi sulla carrareccia che arriva alla recinzione che chiude da est il Gran Bosco, la si segue verso sinistra con un bel percorso sulle mulattiere e sentieri che consentono di zigzagare in piena libertà fra i grandi esemplari di essenze arboree e il distendersi di zone umide particolarmente interessanti. Uno degli ultimi e meglio conservati residui di “bosco di pianura”, il Gran Bosco della Mesola rappresenta in effetti l’esempio più cospicuo di “bosco termofilo planiziale litoraneo”, memoria delle antiche foreste che si trovavano un tempo lungo la costa adriatica. Cordoni di dune, ancora riconoscibili come deboli ondulazioni del terreno, creano differenti microambienti per le vegetazioni della Riserva, in cui protagonista assoluto é il leccio, un tipo di quercia caratteristico della macchia mediterranea e poi il biancospino e il pruno spinoso, la felce aquilina e palustre, il pungitopo e il ligustro. Per quanto riguarda la fauna, vi sopravvive una delle tre uniche specie di cervo autoctono che in Europa si possa definire geneticamente pura, quella del “cervo della Mesola”, unica in Italia e presente nel Bosco con circa sessanta capi. E non soltanto cervi, ma si posso-

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Un percorso nel Gran Bosco della Mesola


no incontrare daini, lepri e conigli selvatici, cinghiali, tassi e puzzole, che popolano il sottobosco, in cui, nelle giuste stagioni, si possono intravedere i migliori esemplari dei tanti funghi che spuntano qua e là. Fra gli uccelli che stanziano nel Bosco ecco i notturni barbagianni, ma anche i gufi e le civette, come pure i picchi, le poiane, le albanelle e i fagiani. Ed ecco, nel bacino dell’Elciola (6 ettari di acqua dolce), aironi e cavalieri d’Italia, garzette, nitticore, che “ci fanno sperare”, dicono le Guide appassionate, “che la Pianura Padana non sia destinata a diventare del tutto inospitale per gli stanziali e tappa vietata per i migratori”. E ancora, se un certo brivido può essere suscitato nel visitatore dalla presenza di qualche vipera, é curioso e affascinante osservare il lento movimento delle belle, grandi testuggini. E’ da ricordare come il Boscone faccia parte di un grande progetto ideato dalla dinastia di Casa d’Este che, con il Castello delle Robinie (oggi sede museale), fatto costruire attorno al 1580 da Alfonso II per motivi strategici relativi al presidio delle vie d’accesso al ducato del mare, ha mirato a realizzare una grande riserva di caccia, che sarebbe rimasta in possesso degli Este fino alla metà del ‘700, per poi giungere in un primo tempo allo Stato Pontificio e infine allo Stato Italiano (1954) che cominciò a tutelare l’intero complesso come Riserva Naturale Protetta. •

Per informazioni: tel. 0533 794028

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Testo e foto di Giuseppe Garbarino d accogliere il visitatore in quella parte della laguna veneta chiusa dietro il litorale nord potrebbe essere quel tintinnare argentino di conchiglie, di quelle migliaia di gusci mossi dalla risacca delle spiagge che si affacciano sull’Adriatico, dove i primi giorni di autunno sono ancora privi di nebbie e pieni dei colori caldi della natura. E’ un invito a scoprire un mondo creato lanciando in mezzo alle basse acque della laguna una manciata di sabbia, per decorarla con merletti di terre, lì dove le strade sembrano canali e i canali strade. Lasciate le spiagge del Cavallino, ormai svuotate dalla presenza estiva di un chiassoso turismo internazionale, possiamo iniziare a curiosare in questo entroterra dove sembra che il tempo sia scandito dalle maree e dal passeggiare elegante del Cavaliere d’Italia, il vero padrone delle barene e delle valli da pesca. Dopo Cà di Valle, accanto all’interminabile

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Magie autunnali nella Laguna Nord di Venezia - Un itinerario sconosciuto


via Fausta seguiamo l’istinto e voltiamo verso Cà Ballarin, qui seguiamo via dei Sette Casoni, una strada antica che sinuosamente costeggia i canali che si dirigono verso Treporti e Punta Sabbioni. In breve ci troviamo lungo il canale della Saccagnana dove lo sguardo si perde a cercare un punto di riferimento, ma sembra che il paesaggio sia dominato solo da alte torri in cemento la cui funzione non ci è subito chiara. Sono strutture realizzate quando questa terra era teatro di guerra, la Grande Guerra del 1915–1918. Si tratta di torri telemetriche dalle quali venivano presi i riferimenti per l’artiglieria che sparava contro l’esercito austriaco. Oltre il canale della Saccagnana ci sono nomi magici che raccontano di un mondo al limite della fantasia, un mondo scomparso, fatto di storia e di tramonti. Ammiana, Costanziaca, Sant’Ariano, Motta dei Cunigi, Olivaria, Castrasia; nomi che evocano tempi di ricchezza e prosperità per questa terra che vive sott’acqua, dove tutto è sparito, inghiottito dall’abbandono e dal tempo. A Punta dei Sabbioni i grandi parcheggi per i turisti sono vuoti; i vaporetti per Venezia continuano il loro ritmato andirivieni per il Lido e Piazza San Marco. A poca distanza, seguendo le indicazioni per Treporti incontriamo il Forte Vecchio, una grande struttura fortificata realizzata alla metà dell’Ottocento con il compito di difendere la bocca di Porto del Lido insieme al Forte di Sant’Erasmo. Circondato da fossati, costruito con mattoni rossi e l’immancabile pietra bianca d’Istria, oggi il Forte Vecchio vive un periodo di immobile e maestosa

decadenza in attesa di un qualche progetto di recupero. Qui abita, appartato in una baracca, Valentino, testimone di mille storie, anziano personaggio della laguna scomparsa, raccoglitore di oggetti portati dal mare, tirati su dal fango delle barene, il tutto accatastato in quella confusione dove ognuno è padrone del proprio destino. Ecco Treporti con la cinquecentesca chiesa della SS Trinità, i suoi due campanili a sfidare i venti invernali, piccole osterie curate e case dipinte con colori vivaci. Le indicazioni stradali segnalano per Lio Piccolo, ma prima raggiungiamo il molo della Ricevitoria da dove partono i traghetti per Sant’Erasmo, Burano e Torcello. Da qui si vede chiaramente la linea verdeggiante dell’isola di Sant’Erasmo, una terra, un orto gigantesco che da sempre fornisce verdura e frutta alla Venezia del Carnevale e delle crociere, alla città delle folle estive e delle follie nascoste, la Venezia dei veneziani, quando in novembre le calli sono vuote e silenziose e ci si sente stretti tra i fantasmi. Qui si coltivano le castraùre, il primo germoglio del carciofo violetto e le zizole o giuggiole. Famosa per i suoi carciofi, Sant’Erasmo è un mondo a parte; per visitarlo è consigliabile l’uso di una bicicletta e percorrere lentamente le sue stradine, magari fino all’attracco del Lazzaretto Nuovo e alla Torre di Massimiliano o Forte di Sant’Erasmo, oggi finalmente restaurato. Torniamo alla strada per Lio Piccolo. Improvvisamente sembra di entrare in un cortile privato, siamo a Prà di Saccagnana o Cà Zanella, con il palazzetto nobiliare di chiaro gusto veneto del XVI secolo, n° 3 - ottobre 2011

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affiancato dalle strutture rurali decadenti. Un microcosmo: chiesa, casa, magazzini. Qui una certa generale trascuratezza è sinonimo di genuinità. L’immancabile sedia davanti all’uscio di casa ci fa capire come le persone siano aperte e disponibili o forse fanno da padroni sulla strada di tutti. La strada continua con un percorso unico, dove la terra è stretta tra acqua e cielo, con una strada che sembra poco più di un sottile nastro per capelli steso ad asciugare in mezzo alle barene, quegli affioramenti di terre umide in mezzo alle acque ferme delle valli da pesca, quell’insieme indivisibile di un mondo diverso. Lontani, verso il tramonto, si notano i campanili di Torcello e di Burano, mentre alla

insieme alle abitazioni di ricchi commercianti. Dal 1300 al 1500 il luogo venne completamente abbandonato a causa delle cattive condizioni ambientali. La strada continua e lungo il nostro percorso siamo costantemente sorvegliati dai Cavalieri d’Italia e dalle Garzette, uccelli acquatici che qui vivono indisturbati. Cà Ballarin, tre case al limite del mondo, è la fine del percorso stradale, qui possiamo affacciarci nella laguna delle città scomparse. Se guardiamo verso nord ovest possiamo chiudere gli occhi ed immaginarci una città antica, della quale nulla rimane: Ammiana e oltre l’isola sommersa di Costanziaca. Oggi è possibile percorrere una strada sterrata, un argine, che indica l’anti-

nostra destra le Prealpi venete, appena accennate, fanno da corona al campanile della Madonna della Neve di Lio Piccolo edificata nel 1791 e che per lunghi anni, prima di un oblio e decadenza, è stata dei padri armeni mechitaristi dell’isola di San Lazzaro. Il minuscolo abitato è testimone di un periodo di passata feconda prosperità, lo testimonia la chiesa e il palazzetto nobiliare della famiglia Boldù, che nel settecento fu proprietaria del luogo. Ma si è scoperto che l’origine di questo lembo di terra è di epoca tardo imperiale, quando i nobili e ricchi romani si contendevano le terre migliori. Qui sono stati trovati i resti di due ville con i loro antichi mosaici, tutto nascosto dalle acque con mura perimetrali che raggiungono i due metri di altezza, una nuova Pompei sconosciuta. Tra il XI e XIII secolo in questa località si trovava un monastero e due chiese oggi scomparse,

co contorno dell’isola; qua e là emergono le motte, isolette che nascondono i resti di antichi edifici, chiese e palazzi di epoca romana, fattorie e ville dove si rifugiarono gli abitanti di Altino e Eraclea sotto la spinta delle invasioni barbariche. La motta di San Lorenzo di Ammiana è forse il luogo dove sono stati scoperti i più interessanti resti d’età imperiale. Queste nel X secolo erano le cosiddette isole torcellane e in esse si raggiunse il massimo splendore grazie al mercato internazionale degli schiavi, del legname e delle merci di lusso orientali, passaggio obbligato tra Oriente ed Occidente. Tutto il percorso ci permette di vivere momenti di grande solitudine, il silenzio è a volte profondo ed unico. Lo sguardo, soprattutto se camminiamo lungo gli argini di Sant’Erasmo o di Lio Piccolo, viene attratto da colorati frammenti di ceramica. Sono cocci di epoca medievale,

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Magie autunnali nella Laguna Nord di Venezia - Un itinerario sconosciuto


bizantina e medioevale, tracce di quella vitalità che faceva della Laguna Nord la terra di origine di Venezia, quando le chiese e i monasteri citati dai cronisti dell’epoca erano decine, gli abitanti ricchi e i commerci prosperosi. Lungo i canali navigabili passano rari motoscafi, la sera arriva presto e dopo aver velocemente visitato Mesole per scoprire quello che forse era un monastero femminile del 1380, se ci attardiamo, nel cielo limpido iniziano ad accendersi le stelle e i colori del tramonto accendono la Venezia dei sogni, il tutto incorniciato dalle tracce lasciate dagli aerei.• Regione Veneto Assessorato alle Politiche Agricole e al Turismo: Palazzo Balbi - Dorsoduro 3901 30123 Venezia tel. 041 2792828 - fax 041 2792870 vicepresidente@regione.veneto.it Direzione Turismo: Palazzo Sheriman Cannaregio 168 - 30121 Venezia Tel. 041 2792651/3/4 - Fax 041 2792601 turismo@regione.veneto.it - www.regione. veneto.it

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Montecatini Terme


Sull’onda dei fasti della Belle Epoque,
Terme all’insegna della modernità

Testo di Maria Grazia Buccianti e foto dell’Archivio Terme di Montecatini Spa

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el fascino del passato non si è perso nulla. Basta avvicinarsi al cospetto delle magnifiche Terme Tettuccio per capire che tutto può ricominciare. Con la stessa eleganza di allora, quando i personaggi illustri della nobiltà

e dell’alta borghesia venivano qui, a “passare le acque”. Un trionfo del Liberty, l’edificio che nel 1916 fu ristrutturato dall’architetto fiorentino Ugo Giovannozzi, ornato da imponenti colonnati, tribune, esedre e un curatissimo parco. n° 3 - ottobre 2011

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Al centro, un Kiosque à musique per la tradizionale orchestra ed una fonte artistica a forma di conchiglia in granito sorretta da un gruppo bronzeo di figure marine. Un edificio, quello del Tettuccio, molto appetibile per manifestazioni culturali di prestigio, possibili solo adesso dopo decenni in cui il “Tempio del Benessere” è stato precluso ad ogni altra attività. Oggi il Tettuccio, ancora specializzato nelle cure idroponiche, fa parte di un sistema di strutture sparse in tutta Montecatini, che fanno capo all’Ente

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Montecatini Terme

Terme, praticamente la più importante risorsa cittadina che porta un guadagno indotto grazie al turismo cittadino legato alle cure. Gli altri stabilimenti sono l’Excelsior, moderno centro fitness che sfrutta le sorgenti termali con bagni ed impacchi di fango al servizio della bellezza, Leopoldine, Tamerici, le Terme Redi con 2 nuovi reparti operativi, La Salute, e Torretta. Un percorso salutistico che sembrerebbe completo, con le molte sfaccettature dovute ai diversi trattamenti ed ambientazioni. Ma non sarà

mai completo fino a che non sarà ultimata l’opera termale tanto attesa: la “Piscina di Fuksas” una struttura rotonda di 2500 mq, all’interno di un moderno centro benessere di 4800 mq, presso le settecentesche Terme Leopoldine. “Un’opera che cambierà notevolmente le possibilità ricettive di Montecatini” ha dichiarato Massimo Guidi, responsabile commerciale e marketing delle Terme. La piscina disegnata da Fuksas, sarà conclusa, così sembra, nella primavera del 2012. La piscina, dunque, insieme


Simonetti, dell’Accademia Olistica Dolce Armonia quale prima ed unica esperienza in Italia. Associando la terapia termale classica ai trattamenti olistici e bio naturali, come massaggi, impacchi di fanghi, trattamenti estetici, ginnastica e corretta alimentazione, biologica e salutare, sia toscana che macrobiotica, vegetariana e ayurvedica, se ne ottimizza l’effetto riuscendo a rigenerarsi nel corpo e nello spirito. Montecatini, dunque, è al centro di grandi rinnovamenti ed iniziative che puntano a comporre un’offerta turistica globale in grado di ospitare un turismo sempre più qualificato, che comprenda anche quello dei giovani. “Gli investimenti che stiamo sottoscrivendo sono possibili anche grazie al sostegno della Regione e del Comune” sostiene Massimo Porciani, direttore del Convention Bureau “Non dimentichiamo che, oltre al termalismo, Montecatini ha una buona tradizione congressuale, dei suoi 14.000 posti letto, circa 6000 sono dislocati in strutture alberghiere dotate di sale per congressi”.

allo sviluppo del centro benessere delle Leopoldine, rafforzeranno l’attività dello stabilimento Excelsior per quanto riguarda il segmento estetica-benessere delle proprietà termali spostando il target del turismo di Montecatini anche sulla fascia dei giovani, fino a qualche decennio fa poco interessata al termalismo. In questa ottica di rinnovamento e di estensione delle cure termali ad un principio più generale di fitness, rientra il “Percorso Montecatini Benessere Bio Naturale”, un progetto che potrà costituire lo strumento per raggiungere un equilibrio psico-fisico praticando una serie di attività complementari tra loro: terapie con acque termali, trattamenti olistici e bio naturali, termalismo applicato all’estetica, educazione alimentare e attività fisica. Lo ha messo a punto la dott.ssa Barbara

MONTECATINI: ACQUA, MUSICA E LIBERTY Sicuramente la più classica ed elegante “ville d’eau”, Montecatini è il simbolo di un’epoca raffinata, quella finde-siècle, che ha lasciato intatto il fascino tutto liberty, tipico di molte città termali. Liberty, nel costume del primo Novecento, significò infatti lusso, mondanità, raffinatezza, templi sontuosi come le terme Tettuccio e Tamerici di Montecatini da decorare con l’eclettica fantasia dello stile Floreale o dell’ Art Nouveau, come fece in modo sublime Galileo Chini. Al Tettuccio, con le rotonde a colonnati, i cortili e i festoni scolpiti nel travertino, che ricordano il San Pietro del Bernini, e nelle altre tre celebri fonti, Tamerici, Torretta e Regina si beve acqua con la stessa base salina, cloruro-solfato-sodico-alcalina ma in concentrazione variante che esplica le diverse azioni benefiche sul fegato, sull’apparato digerente e sul metabolismo. Oltre alle cure idropiniche (per via orale), l’acqua di Montecatini si utilizza anche per la balneoterapia efficace nelle malattie dell’apparato locomotore e nelle forme reumatiche, spesso in associazione con la fisiochinesiterapia in piscina termale o con la fangoterapia. Gli attestati di queste virtù, già conosciute dagli antichi romani, ebbero una profonda eco nei secoli scorsi. Il Redi, medico poeta, definiva quella di Montecatini: “acqua gentilmente salata, ella è il solo certissimo rimedio contro tutte le dissenterie”. E Trilussa, con la sua astuta ironia: “Se ciai avuto ‘na passione, - se ciai er sangue invelenito, - va ar Tettuccio e sei guarito, - bevi l’acqua e stai benone”. Senza contare il duca Vincenzo I di Gonzaga che, pur senza mettere piede a Montecatini, si faceva prescrivere l’acqua Tettuccio dal suo consulente medico, e nomi illustri che Montecatini accoglieva nel trionfo della Belle Epoque e del termalismo mondano: Verdi, Puccini, Toscanini, Mascagni, Giacosa e Leoncavallo, ma anche Pirandello e Trilussa. Più tardi Chistian Dior, lo scià di Persia, Gary Cooper e poi ancora l’ex presidente Leone e Andreotti, che qui è sempre stato di casa. Grazie a certe frequentazioni famosi Montecatini diventò fin dall’inizio un vero e proprio punto d’incontro di fama internazionale: vi si discuteva di politica, si concludevano affari. La sua fama crebbe al punto che, nel 1926 registrò ben 75.000 presenze di non residenti, una cifra ragguardevole n° 3 - ottobre 2011

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per quell’epoca. Al Tettuccio, mentre l’orchestra intona pezzi d’epoca e melodie ungheresi, si assiste al rito della “bevuta” da parte di piccole folle d’ogni età che attingono alle fonti con in mano il bicchiere regolamentare e il foglietto delle prescrizioni mediche che a volte prevedono dosi successive di acque diverse. Ecco allora che i curandi si aggirano tra i parchi, di passaggio tra una fonte e l’altra. Del resto l’itinerario da percorrere fa parte della cura che, come sappiamo, alle terme è intesa in senso complessivo. La natura in questo grande gioco della salute ha mosso bene le sue carte qui a Montecatini. Cinquecentomila metri quadrati di lussureggiante vegetazione che vanta 1800 lecci, 600 pini, 600 cipressi, 300 palme di varie specie.• specie. www.montecatini.it

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Montecatini Terme



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Spa Village Resort Tembok Bali


Spa Village Res or t Tembok Bali

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’isola Indonesiana è da sempre meta del lusso assoluto e il Resort Tembok ha un traguardo ambizioso: superare gli altri. La ricercatezza della Spa, dei ristoranti, di camere e ville, del servizio ineccepibile e dei colori, lo rende meno lontano da raggiungere di quanto sembri. L’esperienza della Spa Villa Resort Tembok Bali inizia appena usciti dall’aeroporto di Denpensar a Bali, dopo 3 ore di volo con la Malaysia Airlines da Kuala Lumpur. Si è subito accolti dal rappresentante del Resort che si occupa del bagaglio e vi accompagna all’auto

Testo di Josée Gontier che vi condurrà nel massimo comfort della Spa Village Tembok Bali. Lungo il tragitto si attraversano piccoli villaggi, con i loro templi e mercatini, in un paesaggio dove si alternano risaie ed una vegetazione lussureggiante. Dopo due ore e mezza si arriva alla destinazione lungo uno stretto viale, il Bamboo Avenue. Il primo impatto è già un’anticipazione di quello che vi attenderà nella Spa village di Tembok Bali.

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Ego

Dopo il welcome drink vi verrĂ chiesto di accomodarvi in una comoda poltrona e di togliervi le scarpe; quindi i vostri piedi verranno immersi in una bacinella di acqua tiepida e profumata con petali di frangipane per un primo sollievo alla stanchezza del viaggio. Un esperto terapista inizierĂ a massaggiarvi i piedi, il collo, le spalle e la schiena per terminare questo delicato massaggio di benvenuto nuovamente con

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Spa Village Resort Tembok Bali

i piedi, procurando un senso di ringiovanimento e di benessere. Con il jet lag capita di alzarsi presto, anche prima dell’alba, e di assistere allo spettacolo del cielo trapunto di stelle che poco a poco si trasforma in un paesaggio drammatico con cime slanciate che scivolano giÚ lungo verdi pianure sino alla sabbia nera vulcanica che si congiunge con il blu del mare di Bali. Il Resort dispone di ventisette Ka-


mar Rooms, due executive suites e due strepitose ville con piscina privata. Le camere, così come le ville, sono arredate con materiali naturali ed elementi tipici Balinesi. Lusso, pace e comfort sono all’ordine del giorno. L’eleganza sobria del Resort riesce a farti estraniare dal mondo caotico per iniziare una vacanza di pace, di ringiovanimento e di bellezza a Tembok Bali. Il soggiorno si costruisce attorno ad un percorso di “sentieri di terapie”. Potrete scegliere fra il –Vigore-, per migliorare la salute e per la perdita di peso, l’-Equilibrio-, per ridurre lo stress attraverso tecniche di meditazione e disintossicazione, la –Creatività-, per scoprire i propri talenti nascosti. Ci sono sette stanze per le terapie nel Resort ed ognuna di loro riflette uno stile di arredamento proprio di una regione specifica di questo meraviglioso Paese. Fra i vari massaggi, singolare il Signature massage, ovvero il Peganten Melika, che consiste in un rituale per la preparazione degli sposi prima del matrimonio. Il trattamento ideato per la purificazione e il lavaggio del corpo, della mente e dello spirito, consiste nel massaggio tradizionale Balinese (Mevangsul) seguito da uno “scrub” (Meodak) e infine del latte fresco (Empehan) viene applicato su tutto il corpo, lasciandolo soffice e idratato. I colori, qui, sono un fattore fondamentale. Il giardino è dotato di alberi di frangipane con fiori bianchi che permeano l’atmosfera con i loro profumi, i petali formano un tappeto bianco per terra, le orchidee di diversi colori brillanti sono sparse dappertutto, il blu del mare con il contrasto della sabbia nera è uno spettacolo unico e poi il tramonto rosso che rimane scolpito nella memoria. La cucina è un punto di forza del Resort; la freschezza assoluta della materia prima ormai è il suo motto. Potrete gustare sia la

cucina europea che quella asiatica oppure la più appetitosa “Fusion Cuisine” nel ristorante Wantilan; ma prima e dopo cena c’è il “chill out” dove sorseggiare l’aperitivo al tramonto o il digestivo sotto la luna piena nel Gazebo Taman Gili. Un soggiorno a Tembok Bali Resort può essere arricchito dalle diverse attività previste oppure fatto di giornate a “far niente” sulla spiaggia, o a bordo della “infinity pool” o in relax totale nel vostro gazebo intorno la piscina. Se volete essere meno sedentari avete a disposizione la sala gym aperta 24 ore, lo sport tradizionale e, perché no?, imparare l’arte dell’autentico massaggio della Spa Academy dal guaritore di 75 anni che arriva dal villaggio vicino per insegnare le sue destrezze. Se vorrete invece avventurarvi fuori dal Resort, ci sono delle escursioni nei villaggi vicini con diversi templi lungo la strada, la foresta delle scimmie e i villaggi Tegalalang e Ubuh, famosi per l’artigianato, mobili, quadri, oggetti, vero paradiso per lo shopping. A Ubuh non potete perdere l’occasione di andare a Bebek Bedigil, ristorante con sullo sfondo una grande risaia, dotato di diversi gazebi arredati con tavoli e cuscini per terra, dove viene servito il piatto tipico del posto, da cui prende il nome il locale (Anatra nutrita nella risaia). Qualunque sentiero imboccherete durante il vostro soggiorno qui, la Spa Village Tembok Bali vi soddisferà profondamente sia fisicamente che spiritualmente. Un rifugio nascosto ricco di antiche tradizioni Balinesi per il benessere, fatto su misura per voi al fine di guarirvi e ringiovanirvi. Info: Josée Gontier GOMAN – tel. 06 68 72 330 joseeg@tiscali.it - www.ytlhotels.com n° 3 - ottobre 2011

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EGYPTAIR

Un mondo in evoluzione

a cura di Teresa Carrubba Intervista all’ing. Hussein Massoud, Presidente e CEO di EGYPTAIR HOLDING L’Egitto è in pieno rilancio dopo le vicende politiche di inizio anno e la compagnia di bandiera, Egyptair esprime questo intento con l’acquisizione di nuovi velivoli di ultima generazione contando ormai 76 aeromobili. Quali traguardi a breve termine in questo senso? Per quanto riguarda la modernizzazione della flotta, EGYPTAIR opera con Boeing 777-300ER e Airbus 330-300. Questi nuovi aeromobili permettono ai viaggiatori di beneficiare di servizi innovativi: i clienti di prima classe potranno trovare le prese di alimentazione per ricaricare i loro computer portatili mentre si rilassano nelle poltrone spaziose e comode, potranno anche utilizzare i servizi SMS, o in alternativa godere del sistema personale di intrattenimento, che viene visualizzato su uno schermo da 15” con centinaia di opzioni, fino al momento di dormire. A quel punto sperimenteranno che il loro sedile diventa un letto a tutti gli effetti, invitante e rilassante, per godere di un sonno profondo. I clienti della business class possono viaggiare comodi in uno dei 49 posti a loro dedicati. Nella fase successiva al decollo i passeggeri potranno utilizzare il servizio internet e il loro cellulare a bordo.
L’Economy Class su questo tipo di aeromobile ha dei sedili più ampi e distanziati e ogni posto è fornito del sistema personale di intrattenimento con schermi sul retro di ogni sedile per permettere ai clienti e alle loro famiglie di scegliere il meglio tra le centinaia di programmi di intrattenimento audiovisivi. Inoltre, i clienti dell’economy class avranno a disposizione due prese di corrente nelle loro sedi per ricaricare i propri dispositivi elettronici personali. Nonostante il periodo difficile la compagnia di bandiera egiziana non ha fermato, anzi ha intensificato i voli e i collegamenti. Quali? EGYPTAIR ha riorganizzato i precedenti operativi. Il nuovo programma è di operare 511 voli settimanali durante la stagione invernale 2011/2012 rispetto ai 493 voli nella stagione invernale 2010/2011.
Ri-

EGYPTAIR An evolving world Interview to Eng Hussein Massoud, EGYPTAIR HOLDING CHAIRMAN & CEO Egypt has recovered from the recent political unrest and is now purchasing new-generation plans to add to its fleet of 65. What other innovations are in the pipeline? Regarding the fleet modernization, EGYPTAIR operates Boeing 777-300ER and Airbus 330-300. These new aircrafts will allow the customers to benefit from new innovative services, as the first class customers will be able to find laptop power outlets to recharge their lap tops while resting on their magnificent seats, as well, they will be able to use the SMS service, till they feel asleep and they will find their seats turning into full flat beds to enjoy deep sleeping, or they can enjoy the personal entertainment system which is displayed on the 15” screen with hundreds of entertainment options. Moreover, the Business class customers can enjoy any of the 49 Business class seats provided in this aircraft. In the next phase, the customers will be able to use the internet service and their mobile phones on board. The Economy Class on this type accommodates wider and more relaxing seats, and each seat is provided by Personal Entertainment System with screens in each seat’s back to enable the customers and their families of selecting the best from the hundreds of audio visual entertainment programs. Further, economy class customers will enjoy using two power outlets in their seats to recharge their personal electronic devices. Despite the recent difficulties the Egyptian flag-carrier has added new flights and destinations. What are they? EgyptAir restored the previous rates of operation, the company planned to operate 511 weekly flights during the 2011/2012 winter se-

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guardo ai voli per il Medio Oriente si prevede un aumento del 14% rispetto allo scorso anno, mentre i voli dal Cairo per i diversi aeroporti nazionali saranno incrementati del 48%.
Inoltre, EGYPTAIR aumenterà gli operativi per un certo numero di destinazioni europee; per esempio Roma e Milano avranno 11 voli settimanali ognuno.

 Priorità di Egyptair sono l’eccellenza operativa e la sicurezza che rientra tra gli standard più elevati a livello internazionale. Quali strategie per mantenere o addirittura migliorare questi livelli? EGYPTAIR è la compagnia di bandiera dell’Egitto di fama mondiale, con sede nella città cosmopolita del Cairo. EGYPTAIR ha iniziato la sua attività il 7 maggio 1932 come la prima compagnia aerea del Medio Oriente e Africa e la settima nel mondo ad unirsi alla IATA, diventando un marchio prestigioso. Nel corso dei suoi 79 anni di servizio, EGYPTAIR ha conosciuto una crescita significativa.
EGYPTAIR dimostra il suo impegno per la sicurezza, nel 2004 è diventato il primo operatore IOSA in Medio Oriente e Africa. Egyptair, per le sue caratteristiche, ha ricevuto negli anni prestigiosi riconoscimenti internazionali. A cosa ambisce per il futuro? EGYPTAIR è riconosciuta come la più grande compagnia aerea in Africa e a metà settembre, a conferma del suo rango internazionale tra le altre compagnie aeree a livello mondiale, EGYPTAIR è stata selezionata come il miglior vettore africano per la Business Class per il 2011 dal World Travel Awards.
Il Capitano Ayman Nasr, Presidente e CEO di EGYPTAIR AIRLINES ha ricevuto il premio durante la cerimonia tenutasi il 16 settembre 2011 a Sharm El-Sheikh. Nasr dopo aver ricevuto il premio, ha dichiarato “Questo premio prestigioso è un riconoscimento per gli sforzi fatti da tutti i dipendenti EGYPTAIR. E’ anche un’assicurazione del rango dell’EGYPTAIR, una linea aerea mondiale competitiva e partner di Star Alliance”. Il piano di ammodernamento della flotta dell’EGYPTAIR, che fornisce ai nostri clienti di tutto il mondo il massimo nel comfort e nell’intrattenimento, dà una grandissima soddisfazione ai suoi passeggeri e di conseguenza è stato possibile ottenere questo premio e riconoscimento. Questo premio ha un’elevata credibilità in quanto dipende dal voto diretto di clienti in tutto il mondo secondo le loro esperienze personali durante il volo con le diverse compagnie aeree”.
Naturalmente ci sono altri obiettivi nel nostro target che saranno annunciati nel prossimo futuro a tempo debito. Quali gli accordi con i tour operator e quali i vantaggi sui flussi turistici? Lavoriamo a stretto contatto con il Ministero del Turismo per spingere il flusso turistico a tornare al suo livello normale. Moltissimi viaggi ‘educational’ sono stati organizzati per il Cairo e per altre località dell’Egitto dai tour operators di tutto il mondo per testimoniare la stabilità del Paese, per trasmettere l’immagine reale dell’Egitto. Il primo viaggio è stato organizzato da tour operators italiani che hanno visitato il Cairo e dopo un breve periodo il Governo italiano ha tolto il divieto di viaggio in Egitto. Qual è il beneficio per Egyptair come partner di Star Alliance e quali sono i vantaggi per i vostri passeggeri? Innanzitutto i benefici più importanti derivano dal fatto che i nostri passeggeri godono della grande rete di Alleanza e del riconoscimento a livello mondiale delle carte fedeltà che permettono lo scambio di acquisizione su tutti i vettori membri, l’uso delle sale d’aspetto Star Alliance in tutto il mondo e, soprattutto, connessioni ininterrotte in tutto il mondo.
EGYPTAIR beneficia del coordinamento del network, con l’Alleanza i nostri clienti hanno accesso a più 1.182 aeroporti in 181 Paesi. Le enormi possibilità di code-sharing abbasserà il costo per le compagnie aeree con l’acquisto congiunto di materiali e servizi.•

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EGYPTAIR un mondo in evoluzione

ason compared to 493 flights in the winter season of 2010/2011.
It is planned to increase Middle East operation by 14% compared to running last year, while we will increase in flights from domestic airports other than the Cairo airport to 48%” .
On the other hand, the EGYPTAIR will increase the operation of a number of points the European, such as Rome and Milan, which will occupy each of them 11 flights weekly Egyptair prioritizes operative excellence and safety, and they are among the highest levels globally. What strategies could be adopted to maintain or even improve these levels? EGYPTAIR is the world-renowned national airline of Egypt, based in the cosmopolitan city of Cairo. EGYPTAIR started operation on the 7th of May 1932 as the first airline in the Middle East and Africa and the seventh in the world to join IATA and become a treasured brand. Throughout its 79 years of service, EGYPTAIR has experienced a significant growth. EGYPTAIR exhibits its commitment of safety by being the first IOSA operator in the Middle East and Africa in 2004. Egyptair has received many prestigious awards. Are here any others you are aiming for in particular? Yes, we are listed as the biggest airline in Africa and on the middle of September, as a confirmation of its international rank among other world-class airlines, EGYPTAIR was selected as the best African business class carrier for 2011 by the World Travel Awards. Captain Ayman Nasr, EGYPTAIR AIRLINES Chairman & CEO received the award during the ceremony held in 16th September 2011 in Sharm El- Sheikh. Nasr declared after receiving the award, “This prestigious award is an enthronement to the efforts exerted by all EGYPTAIR employees. It also comes as an assurance on the company’s rank as a competitive world airline and members of Star Alliance.” EGYPTAIR fleet modernization plan, which provides our customers around the globe with optimum comfort and entertainment, has great effect on customer satisfaction and consequently obtaining this award. This award has high credibility as it depends on the direct voting of customers around the globe according to their personal experiences while flying with the different airlines.” Of course there will be others which we are targeting in the near future and will announce this in due time. What agreements do you have with tour operators and what are the advantages for tourism? We work closely with the Ministry of Tourism to push the leisure traffic back to its normal levels. Lots of fam trips has been received in Cairo and elsewhere from tour operators all over the world to witness the stability in the country and to convey the real picture of Egypt. The first trip was from the Italian tour operators who visited Cairo and after a short while the Italian government lifted the ban on the travel to Egypt. What is the benefit for egyptair by joining star alliance and also what your costumer will benefit from using Egyptair a star alliance member? First of all the most important benefits are for our customers, they enjoy the huge network of the Alliance and the worldwide recognition with their loyalty program cards, exchange of acquiring and redeeming mules across all member carriers, usage of Star Alliance lounges worldwide and above all seamless connections around the globe. EGYPTAIR is benefiting from the coordinated network, with the Alliance our customers have access to more 1182 airports in 181 countries. The huge codesharing possibilities which will lower the cost on the airlines and the joint purchasing of materials and services.•




Sport e Avventura

La vita non è vivere, ma vivere in buona salute” sentenziava il saggio Marziale. E la salute del corpo, così come quella della mente, comincia dal movimento. Ne sono convinti ortopedici e psicologi, dietologi e -operatori della bellezza-. Automobili, ascensori e persino i tapis-roulants delle metropolitane, lusinghe accattivanti per la nostra pigrizia, sedimentano ruggine nelle articolazioni e inflaccidiscono muscoli e cervello. L’allarme vero viene dalle statistische: in Italia il 14% degli adolescenti è sovrappeso e più del 50% non pratica attività sportiva. Altrettanto sconfortante è la realtà opposta, di chi cioè, ammaliato dalla longilinea figura di una top-model che ammicca dalla copertina di una rivista, comincia a seguire un mito, concentrando tutti gli sforzi risparmiati fino ad allora, sorretto da illusorie aspettative miracolistiche. Tentativo inutile quanto pericoloso se solo si considera che alla fine di uno sforzo prolungato, come possono esserlo una corsa nel parco o un’estenuante seduta in palestra,

non sempre si riesce a tirare un sospiro soddisfatto. Anzi, è più facile avere un respiro affannoso o un inizio di crisi asmatica. Ginnastica sì, dunque, ma cum grano salis. Dosata, equilibrata, adeguata alle esigenze e alle energie di ognuno. Magari nella protezione di una palestra attrezzata. Condannata la possibilità da parte di casalinghe irrequiete di trovare nella palestra un riempitivo per i numerosi coni d’ombra, o di ghiottoni impenitenti di vedere nei pesanti manubri l’espiazione di irrinunciabili peccati di gola (un’ora di ginnastica per neutralizzare un piatto di spaghetti e 35 minuti di cyclette per un gelato), o di amanti della bella vita che fanno dell’estate un momento di tutto riposo e di grandi scorpacciate, sicuri della complicità riparatrice di un corso di ginnastica ai primi d’autunno, una sana igiene mentale suggerisce l’approccio razionale e costante con l’attività fisica guidata da istruttori e assistenti qualificati. Al rientro in città dopo il periodo estivo, l’impatto con la caotica vita routinaria fatta di traf-

Testo di Marina Arditi fico, di rumori, di lavoro stressante o, al contrario, con la sedentarietà, viene spesso mitigato da appuntamenti liberatori in palestra. La corsa autunnale alla piscina coperta, al body-building, allo yoga o all’aerobica non è infatti determinata solo dalla linea perduta ma anche dal desiderio di affrancare il proprio corpo dalla schiavitù di una società dell’efficienza produttiva. I più informati però sanno che esiste soprattutto una motivazione legata al benessere fisico. Una ginnastica ben fatta non solo modella e rassoda il corpo, ma aumenta l’elasticità dei polmoni favorendo una migliore respirazione, facilita la mobilità delle articolazioni e mantiene un giusto tono muscolare. Senza contare che spesso le persone che prendono la ginnastica come una cosa seria, e non come un trastullo per snob sfaccendati, liberamente scelgono di smettere di fumare o migliorano senza sforzi la loro alimentazione. Sale e salette tappezzate n° 3 - ottobre 2011

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Sport e Avventura

di specchi, dapprima crudeli e poi via via più incoraggianti, e zeppe di macchinari strani, solo apparentemente simili a strumenti di tortura ma in realtà fonte di una perfetta forma fisica. Dalla semplice e familiare spalliera ai numerosi robot fatti di tubolari metallici e cinghie di cuoio che avvolgono, vibrano, sollevano e massaggiano. Per ogni parte del corpo che crei un complesso c’è la macchina adatta che si chiama sedia romana, multipower, lat-machine, panca curva, butterfly vt o semplicemente bilanciere. Molti gli attrezzi per il body-building, sempre più apprezzato anche dalle donne, che, eliminato il pregiudizio degli indesiderati muscoli nerboruti, sanno di poter ottenere una vera e propria scultura del corpo. Questo tipo di ginnastica va però considerato integrativo di altre forme sportive e quindi praticato con moderazione per evitare che i muscoli, rassodati con esercizio eccessivo, si affloscino quando si smette. Gli esperti infatti consigliano corsi al massimo di quattro mesi per non più di tre giorni la settimana. In sale sgombre da macchinari di sorta si svolgono lezioni di ginnastiche cosiddette “a corpo libero”. La fantasmagorica aerobica, grata all’affascinante Jane Fonda per averla lanciata in tutto il mondo, è in realtà la più pesante e faticosa perché viene eseguita senza interruzione a ritmo di musica. Ha lo scopo di portare i ritmi cardiaci ad un certo limite oltre il quale l’organismo brucia soltanto zuccheri. Entro quel limite, invece, vengono aggrediti i tanto detestati grassi. Meno popolare ma molto prezioso per la prevenzione di piccoli infortuni è lo stretching, o ginnastica leggera, che si basa su un principio fondamentale: ogni movimento che si compie è potenzialmente pericoloso se il fisico non è preparato ad esso. Persino gli sports più impegnativi richiedono spesso solo un ristretto numero di movimenti. Lo stretching, “stirando” delicatamente il tessuto connettivo che avvolge muscoli e articolazioni, rende il corpo elastico in ogni sua parte tanto da garantire ogni movimento senza

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In palestra l’equilibrio del dopo-estate

sforzi o danni. A metà tra il fisico e il meditativo, frutto delle sagge filosofie orientali, lo yoga, che, attraverso lentissimi movimenti e contrazioni prolungate, risveglia e accumula l’energia vitale del corpo in funzione dello sviluppo interiore. Dal “fior di loto” alla “locusta” le 64 (o 84, secondo le scuole) posizioni principali dell’Hatha Yoga (o yoga fisico, il tipo più diffuso in Occidente) ricompongono l’equilibrio psi-cofisico attraverso la concentrazione e il controllo della respirazione. I seguaci dello yoga, che in genere armonizzano la loro vita a quella filosofia seguendo anche un regime alimentare vegetariano, seguono corsi di impegno crescente, guidati di solito da maestri indiani. Sempre più diffuso nelle palestre italiane lo squash. Una sorta di tennis, altamente competitivo, in cui uno dei due contendenti con una racchetta speciale lancia la palla contro il muro con velocità e violenza tali da rendere difficile il rinvio dell’avversario. Per parteciparvi sono richieste una perfetta efficienza fisica e una prova da sforzo valutata dal medico della palestra. L’assistenza medica nell’attività ginnica è imprescindibile: a partire dalla visita preliminare al momento dell’iscrizione, all’indicazione degli esercizi permessi o vietati, alla progressione dell’entità dello sforzo. Chi se lo può permettere trascorre molte ore in queste “oasi della salute”, veri e propri centri attrezzatissimi, passando dalla ginnastica per scaldare i muscoli ai pesi, dalla sauna all’idromassaggio. E all’ora del pranzo? Nessun problema. Quasi tutte le mega-palestre moderne hanno un ristorante (o un bar fornitissimo) dove poter consumare un pasto ipocalorico programmato dal dietologo del centro. Dopo, un breve relax su apposite sdraio, magari lungo il bordo della piscina, e infine l’abbronzatura per prolungare il “tono” dell’estate e per mantenere un sano e lucido aspetto da vita all’aperto. Niente paura: oggigiorno le radiazioni sono sotto controllo con apparecchiature a lampade filtrate e lettini completamente schermati.•


© Eric Cuvillier

Rome is Magnifique

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Gusto

Il primo a sostenere che mangiar verde è bene sembra essere stato addirittura Pitagora, matematico e filosofo greco del VI secolo a.C. Da allora, tutta una genìa di pensatori, artisti e personaggi storici (Platone e Tiziano, Voltaire e G. B. Shaw, Leonardo da Vinci e Tolstoj) hanno sostenuto in modi e termini diversi la causa vegetariana. Eppure ancora oggi intorno a tale pratica alimentare è sospeso un alone di mistero e di diffidenza. C’è chi considera i vegetariani degli asceti i quali “spilluzzicano” insipide verdure, anziché godere delle numerose gioie della tavola. La realtà è che il vegetarianismo è un mondo complesso in cui convivono atteggiamenti diversi, spesso frutto di profonde meditazioni. Una scelta un po’ igienica, un po’ morale, un po’ filosofica, ma non necessariamente spartana, il vegetarianismo può nascere infatti da diverse visioni della vita. Da un punto di vista strettamente salutistico, i vegetariani sostengono non solo che l’organismo umano è più affine a un erbivoro che a un carnivoro(a partire dalla dentatura), ma soprattutto che il nutrirsi di verdure previene le cosiddette malattie del progresso. Sembra infatti che indagini effettuate su gruppi vegetariani, come i monaci buddisti, abbiano rilevato un bassissimo livello di colesterolo, causa prima di arteriosclerosi e infarto. I motivi morali e religiosi, che spesso si identificano con quelli ecologici, nascono invece dal rifiuto di uccidere esseri viventi. C’è anche chi si spinge più in là, attribuendo al vegetarianismo il potere di influire sul carattere dell’uomo. Lo stesso Einstein sostiene: “Un sistema di vita vegetariana, con i suoi benefici effetti sull’uomo, potrebbe migliorare la sorte dell’umanità”. Certamente, l’illustre

Testo di Renato Alessio

scienziato intendeva riferirsi a una dieta vegetariana ben condotta ed equilibrata, accompagnata da abitudini di vita igieniche, sia fisiche che mentali. Al di là delle argomentazioni, cambia anche il modo di condurre la dieta vegetariana. Accanto ai vegetariani più moderati, che si limitano a rifiutare la carne e il pesce, convivono gli integralisti, cioè i “vegetaliani” o “vegan”, i quali aborriscono non solo carne e pesce, ma anche i prodotti degli animali come latte, uova e persino il miele. Si va anche oltre. Il fanatico del “verde” può addirittura farsi “fruttariano” o “crudista”. Cioè mangiatore di sola frutta (spesso con esclusione dei semi per non nuocere al ciclo vitale

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della pianta), o di soli cibi crudi, il che elimina dal menu anche molti legumi e cereali che necessitano per forza di cottura. Ma, lasciando le soluzioni estreme a chi vede nel vegetarianismo una sorta di espiazione, c’è da sfatare un luogo comune: la cucina vegetariana non è affatto una breve lista di squallide zuppe insapori o di verdurine bollite. Al contrario, può essere un trionfo di fantasie e sapori. Gustosi piatti presi in prestito alla cucina mediterranea, come la pasta con ragù di verdure, ortaggi ripieni e gratinati, strudel, sformati e soufflé vegetali, vellutate di legumi, torte di cereali. Vitamine e fibre sembrano assicurate, e anche le proteine, specie se con-

Vegetarianismo, una filosofia di vita

sideriamo i legumi e un ingrediente molto consumato dai vegetariani: la soia, sorta di legume-trasformista che, pur di somigliare all’“illecita” carne, si fa bistecca, spezzatino e persino wurstel. Il tutto, vegan permettendo, viene “legato” con latte, (formaggi e uova, che, oltre a consentire la preparazione di piatti sufficientemente elaborati, completano l’apporto nutrizionale della pietanza. Visto l’interesse crescente per la cucina verde, vuoi per la spinta della moderna educazione alimentare, vuoi per una convinzione filosofica, le associazioni dei ristoranti stanno vagliando la proposta di introdurre di routine un menu vegetariano alternativo.•


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Serena Majestic - Abruzzo

Serenè Village - Calabria

Grand Hotel Serena - Puglia

Calaserena Village - Sardegna

Torreserena Village - Puglia

Serenusa Village - Sicilia

Sibari Green Village - Calabria

Una vacanza Bluserena rimane nel Cuore. Rimane perchè Bluserena propone Qualità/Prezzo tra i più competitivi sul mercato. Perchè è Resort 4 Stelle, strutture Nuove o continuamente rinnovate, direttamente su ampie spiagge sabbiose, “sicure” per i più piccoli. Perchè è Ristorazione a buffet, sempre Ricca, Varia e di Qualità. Perchè è Sport, Fitness e Wellness: tanti campi sportivi, piscine e un’attrezzata area per le ultime tendenze del fitness. Bluserena rimane perchè è un mondo di spazi, strutture e servizi pensati per bambini e ragazzi di ogni età. Rimane perchè offre una delle migliori animazioni italiane: Staff di 40/50 animatori assicurano divertimento ma anche servizi puntuali ed assistenza rigorosa. Una vacanza Bluserena rimane perchè ogni Ospite è Unico, Prezioso, Speciale. Bluserena è tra le più solide compagnie alberghiere italiane, Leader del mercato “Mare Italia” con la maggiore ricettività: 3000 camere in 7 Resort 4 stelle in ABRUZZO, CALABRIA, PUGLIA, SARDEGNA, SICILIA. La lealtà commerciale Bluserena GARANTISCE il tuo Business. La qualità Bluserena garantisce il Tuo Portfolio Clienti. Bluserena Club & Hotels - Montesilvano (Pe) - Tel +39.085.8369777 - info@bluserena.it www.bluserena.it


Agriturismo bio

n tempo residenza nobiliare, oggi il Griffins’ Resort è un perfetto e sapiente connubio fra gli standard artistici della tradizione del luogo e soluzioni moderne. Immerso in 86 ettari, il Resort, in località San Faustino, dista appena 15 chilometri da Orvieto (Tr) e poco più da località quali Assisi, Cascia, Foligno, Gubbio, Norcia, Perugia, Spello, Todi. Gli ospiti, se lo desiderano, potranno effettuare escursioni giornaliere in queste splendide città della regione Umbria e ricevere, dallo staff del Griffin’s, oltre ai programmi degli eventi più importanti,

suggerimenti su percorsi tematici, in mountain bike, a cavallo, accompagnati da gustosi cestini picnic. L’Umbria, regione di straordinaria bellezza, è infatti tutta da esplorare grazie alle proprie infinite attrattive che, dall’arte alla gastronomia, raccontano la nostra storia: le vestigia della civiltà etrusca, il periodo romano, quello medievale con le cattedrali di Assisi e Orvieto e i palazzi di Todi, Perugia e Gubbio, i dipinti del Pinturicchio e del Perugino risalenti al Rinascimento, per citare solo alcuni dei capolavori che questa terra offre. Ad attendere invece coloro che vogliano restare nelle vicinan-

Testo di Raffaella Ansuini ze del resort, splendide passeggiate lungo i sentieri che da esso si diramano. A fare da colonna sonora... il silenzio. L’intimo legame del Griffin’s Resort con il passato e il valore attribuito alla storia è sottolineato dal nome delle camere, legato ognuno a una divinità del pantheon etrusco a cui si ispira. Quindici in totale di cui tre con accesso indipendente; una con meravigliosa vista sulla vallata è parte integrante della villa, mentre le altre due sono collocate nelle vicinanze. Ogni camera è diversa: la grandezza, n° 3 - ottobre 2011

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Agriturismo bio la forma e la disposizione variano, ma tutte sono magnificamente arredate con colori e tessuti naturali, legni scuri e tappeti. Tocchi di moderna eleganza si contrappongono al mobilio antico. Il giardino, più simile a un parco per dimensione e disposizione, con il suo verde ininterrotto che collega le costruzioni al resto della tenuta, appare come un “tutto coerente”, perfetta combinazione di elementi naturali e artificialmente costruiti, ma dove la spontaneità trionfa sull’artificio. I sentieri, per gli amanti delle passeggiate, i prati, i cespugli di rose, le aiuole creano un piacevole ambiente all’aria aperta, luogo di riposo, ombra e svago. Ma oltre al ruolo essenzialmente ornamentale, questo giardino esprime un ritorno alla natura, poiché alcune sue parti sono dedicate alla coltivazione di alberi da frutta, vigneti, oliveti, ortaggi, erbe aromatiche e officinali. La piscina, come uno specchio d’acqua naturale, non fa che riflettere il cielo, la flora circostante e gli straordinari effetti che la natura offre in ogni momento dell’anno. La cucina mette in tavola il meglio della tradizione locale con classiche radici italiane, ma con una propria individualità, in un’ampia scelta di delizie gastronomiche create utilizzando gli ingredienti locali più freschi per gustare la ricca storia culinaria in ogni specialità. Dagli antipasti ai dessert il fine è quello di offrire la migliore produzione delle coltivazioni locali e del Griffin’s Resort, preparata da mani esperte ed eseguita con creatività insie-

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me alla migliore scelta di vini. Piatti semplici che non fanno altro che esaltare i sapori. Menu stagionali e à la carte sono a disposizione di tutti, anche di coloro che non soggiornano al Griffin’s, previa prenotazione. Il Griffin’s, oltre ad essere un resort, è anche un’azienda agricola: vigneti, ma anche frutteti, alberi di olivo, ortaggi per il consumo interno e allevamento del bestiame. Lo sviluppo dell’eccellenza nella gastronomia implica l’uso delle migliori materie prime, selezionate secondo alti standard di qualità, coltivate seguendo il naturale ritmo delle stagioni secondo metodi rispettosi dell’ambiente. La loro freschezza e genuinità esaltano il sapore di ogni menu e sono un essenziale contributo per la salute e il benessere fisico. A breve sarà disponibile un piccolo punto vendita per poter acquistare i prodotti a marchio Griffin’s - della produzione del resort - di vino, olio e confettura di frutta. A proposito di vino, la coltivazione dell’uva da vino è di considerevole importanza per l’azienda. Il raccolto è lavorato direttamente nell’azienda agricola. I grappoli migliori e pienamente maturi vengono selezionati e tutte le fasi del processo di lavorazione – la spremitura, il trattamento del mosto, la fermentazione, l’imbottigliamento e l’invecchiamento – vengono eseguite secondo alti standard di qualità e sorvegliate da un esperto enologo, al fine di produrre un vino bianco e un vino rosso che possano competere con i migliori della regione.

Griffin’s Resort perfetto connubio fra passato, presente e futuro


Nessun particolare è stato trascurato anche nella progettazione della cantina e nell’uso dei materiali. Per questa nuova costruzione è stato usato il tufo, pietra tipica della zona, poiché il vino deve essere protetto dalle temperature estreme, dalla luce e dalle vibrazioni. I clienti possono visitare, su richiesta, la cantina per vivere un’esperienza nuova e per conoscere i segreti di questa straordinaria forma d’arte.•

Info e prenotazioni: Griffin’s Resort Località San Faustino 24 05018 Orvieto (TR) Italy. Tel.+39 0763 616727, fax +39 0763 616716, http://www.griffinslands.com, reception@griffinslands.com

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Sagre e tradizioni

Testi di Mariella Morosi

Dal 18 al 20 novembre a Cremona la festa più dolce dell’anno E’ più di una festa questa dedicata al torrone, che trasformerà in un vivace palcoscenico le strade e le piazze di Cremona. A questa città la tradizione assegna il merito di aver unito in una sublime alchimia il miele, lo zucchero e le mandorle creando una delizia che avrebbe avuto un grande futuro. Il primo torrone della storia, infatti, sarebbe stato servito il 25 ottobre 1441 al banchetto che si tenne alle nozze celebrate fra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, dopo un fidanzamento decennale, come usava allora, deciso falle famiglie. Quel dolce intrigante, sempre secondo la tradizione, fu chiamato torrone perché era stato modellato riproducendo la forma del Torrazzo, la torre campanaria della città. Eventi, degustazioni, visite guidate, laboratori, premiazioni e talk show valorizzeranno in un’atmosfera coinvolgente tutti gli aspetti e le eccellenze del territorio cremonese e del Po, il grande fiume che l’attraversa. Sulla motonave Stradivari sarà in funzione un ristorante su cui sarà possibile degustare golose tipicità ammirando il paesaggio fluviale. Un corteo in costume d’epoca, con 140 figuranti, tra dame, cavalieri, giullari e sbandieratori in preziosi abiti rinascimentali riproporrà la cerimonia delle nozze principesche nella piazza del comune. Alla sua quarta edizione, la kermesse “Torrone & Torroni” si è affermata come appuntamento di rilievo nel panorama nazionale, come testimoniano i numeri della passata edizione: 100 espositori presenti, 24 tonnellate di

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torrone venduto, 50 iniziative culturali e di intrattenimento e oltre 100mila presenze di turisti provenienti da ogni parte d’Italia. Ogni edizione della kermesse -questa è la quarta- si arricchisce di novità. Quest’anno il tema attorno al quale ruoterà la grande festa sarà il viaggio, nelle sue molteplici forme ed esperienze seguendo in particolare due direttrici guida: l’arte e il territorio. Saranno proposti itinerari nel centro storico della città, ricco di monumenti, si parlerà del viaggio al femminile in un talk show, saranno premiati personaggi e iniziative. Ci sarà davvero molto da ammirare e da gustare. Sono previste visite nei laboratori artigiani dove si fa il torrone e in particolare i bambini saranno invitati a cimentarsi nella creazione di deliziose barrette alle mandorle, alle nocciole o ai pistacchi. L’ingrediente segreto sarà la loro fantasia. Anche gli adulti potranno creare il loro personale torrone, anzi, proprio a loro è riservato un concorso a premi per la migliore ricetta di un piatto che lo preveda come uno dei componenti. Fra le strade, le piazze, sotto gli antichi portici, tanti i banchetti in cui sarà possibile assaggiare, acquistare e imparare a conoscere non solo il torrone classico di cui si fa vanto Cremona ma anche quello portato da città lontane. Ma questa è anche la città della musica, famosa per le botteghe dei maestri liutai come Stradivari e Guarneri e nell’aria, oltre al profumo del torrone, si spanderanno le note altrettanto dolci dei violini.•


Festival della Cucina Italiana a Piobbico

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egustazioni di prodotti tipici e incontri sulle nostre eccellenze agroalimentari con produttori, gastronomi e chef: è il programma dell’11ma edizione del Festival della Cucina Italiana, per la prima volta nelle Marche, dal 15 al 17 ottobre. Ad ospitare la manifestazione sarà il Castello Brancaleoni di Piobbico (Urbino), ribattezzato per l’occasione “La fortezza del gusto”. Mentre tra le possenti mura del maniero sarà predisposta una grande vetrina con le migliori eccellenze dell’agroalimentare, nelle vie del borgo medievale si svolgerà una mostra mercato dell’artigianato e delle tipicità locali. Fil rouge dell’evento saranno i sapori mediterranei, alla base di una corretta alimentazione che nulla toglie al gusto, tornata sotto i riflettori grazie al riconoscimento internazionale dell’Unesco che ha elevato la Dieta Mediterranea a Patrimonio dell’Umanità. In questa direzione va anche il patrocinio del Ministero delle Politiche Agricole in collaborazione con il Culinary Institute of America che ha sede in California, che ha costruito la famosa Piramide alimentare alla base dell’antichissimo, eppure innovativo, stile di alimentazione. Ogni sala del castello sarà dedicata a un prodotto o ad un tema. Particolar-

mente invitante sarà la “Salumoterapia”, un percorso sensoriale tra la migliore arte salumiera italiana e non solo, fra culatelli, strolghini, prosciutti di Parma, di San Daniele, di Nero Calabrese e del Casentino. Protagonisti di “Capolavori a Tavola” saranno il Bitto, Presidio Slow food, il Parmigiano Vacche rosse e la Chianina IGP del re delle carni Simone Fracassi. “A Tutta Birra” sarà uno spazio cult dedicato alla degustazione delle birre artigianali più prestigiose, come l’“Amarcord’, prodotta ad Apecchio, realizzata dal maestro Garret Oliver, il più celebre birraio del mondo, e vestita da un’etichetta disegnata da Tonino Guerra. Altri protagonisti, tra le grandi tipicità italiane, il tonno Callippo, le carni e i salumi infuocati per il peperoncino offerti dall’Accademia dei Cuochi Calabresi, l’olio e i formaggi marchigiani, la mozzarella di Caserta, il caffè dell’antica torrefazione artigianale Pascucci e grandi vini. Ai gourmet sarà riservato il punto “Ostriche e champagne” e ai bambini golosi il percorso “Pinocchio” mentre i loro padri si rilasseranno nella “Sala del sigaro e del grappino”. Le Mariette, seguaci di Pellegrino Artusi, insegneranno a fare la vera sfoglia e un premio finale, il Galvanina, sarà assegnato a protagonisti della valorizzazione

della nostra enogastronomia. La rivista “La Madia Travelfood” di Elsa Mazzolini, l’unica impegnata da 23 anni nella ristorazione, nell’ospitalità e nella cultura alimentare e vinicola, sempre nell’ambito della valorizzazione del buon mangiare mediterraneo promuoverà un convegno dal titolo “La dieta una volta per tutti” con il nutrizionista Primo Vercilli.• Info www.festivaldellacucinaitaliana.it

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Libri e guide

“SILA Dono Sovrano “

A cura di Elena Paloscia Polyorama Edizioni 2011-07-17

Testo di Luisa Chiumenti

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l volume “SILA. Dono Sovrano”, scaturisce da un progetto dedicato al Parco Nazionale della Sila e mette molto bene in evidenza come le montagne di Calabria siano così ricche di tanti spunti visivi e carichi di suggestione, da stimolare l’animo degli artisti a rappresentarle e a darne testimonianza nel loro così alto potere attrattivo. Le fotografie realizzate nel corso di oltre un anno di lavoro dai fotografi Tony Atheron, Paola Binante, Francesco Granelli, Antonio Manta, Paolo Pagni e Pietro Vallone costituiscono un prezioso documento delle bellezze, della natura e della cultura in Sila, attraverso l’interpretazione sperimentale, emotiva, razionale, concettuale ed antropologica del Parco, con le sue foreste, i corsi d’acqua, i paesi e le testimonianze della cultura materiale. Dice Elena Paloscia nella presentazione del testo: “L’ideale continuità con la storia di questa antica terra é una nota costante del progetto e si riflette in tutti i lavori, non a caso citazioni e testi di autori, viaggiatori e letterati si sposano perfettamente con le immagini scelte creando un ponte tra passato, presente e futuro”. Si tratta di un gruppo di “viaggiatori” che, con lo spirito del Grand Tour, portando con sé, non il classico “taccuino”, ma una macchina fotografica, si sono messi in cammino alla scoperta dei boschi, i fiumi, i laghi e le montagne della Sila, per appropriarsi di ogni particolare, per studiarne i colori e le forme in ogni ora del giorno e nel variare delle stagioni, per poi darne una propria interpretazione artistica. Ma se per molti viaggiatori del Grand Tour la Sila era ritenuta pressoché irraggiungibile, così come veniva definita: “venerando altipiano granitico”, “grandiosa”, “epica”, “Urwald, foresta vergine”, ecco che, nel 1926, sottolinea Elena Paloscia, Ulderico Tegani comincia col definirla “dono sovrano concesso alla Calabria” .Non é più quindi il tipico “viaggio di formazione” che vedeva i giovani della migliore società europea andare alla scoperta del “sud”, di cui l’ultima meta in effetti riconosciuta era Napoli, ma appunto un vero e proprio

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cammino verso un “dono “ da scoprire, apprezzare e interpretare artisticamente, comunicandone agli altri tutta la bellezza. Questo gruppo di viaggiatori dunque, al di là di ogni metodo contemporaneo di approccio immediato ai luoghi di tutto il mondo, ha deciso di affrontare un viaggio diverso che permettesse loro di immergersi totalmente e di lasciarsi coinvolgere da quella Natura così potente e ”sovrana”. Ed é così che i fotografi Paola Binante, Antonio Manta, Tony Atheron, Francesco Granelli, Paolo Pagni e Pietro Vallone, hanno compiuto, ciascuno con la propria sensibilità il viaggio nella Sila nelle diverse stagioni. Si susseguono quindi immagini della Sila “storica”, evocata nella sua antichità, lungo il corso di un fiume (Tony Atheron), mentre gli stessi rivivono nelle immagini tratte da Antonio Manta e Paolo Pagni, che con la loro polaroid sono riusciti a captare anche l’atmosfera e l’emozione trasmessa da quel territorio. “Storia, tradizione e cultura” sono anche alla base del lavoro interpretativo di Paola Binante, che da anni si occupa dell’interpretazione artistica di quel che lega il passato al presente. E’ un libro che incanta per le sue belle immagini e per le raffinate citazioni letterarie, ma stimola anche ad andare a visitare quei luoghi, citati fra i tanti da Guido Piovene, nel suo “Viaggio in Italia”, con queste parole, che la curatrice ricorda nel testo:”Regna il pino silano, albero libero i cui semi attecchiscono anche se portati dal vento...esso forma cattedrali arboree dai tronchi regolari e fitti che si prolungano talvolta per qualche chilometro avviluppando anche le cime, e riempiendo perciò la Sila di luoghi segreti” (Guido Piovene, 1957). Ricordiamo che il volume, che contiene interventi di Sonia Ferrari, Presidente del Parco e docente universitaria, Michele Laudati, Direttore del Parco, Fabio De Chirico, Soprintendente BSAE della Calabria Antonio Manta, Fotografo e docente all’ISIA di Urbino, Elena Paloscia, storico e critico d’arte e giornalista, presenta un progetto ideato e curato da Antonio Manta, finanziato e promosso dall’Ente Parco Nazionale della Sila, che mira a implementare attraverso la fotografia artistica, la scoperta e la valorizzazione del territorio del Parco.•


“Il cammino e il pellegrino“

Autore: Gladis Alicia Pereyra Manni Editore Narrativa italiana 395 pagine

18 Euro

QUATTRO ADOLESCENTI ALLA RICERCA DI SE STESSI NELLA FIRENZE BASSOMEDIEVALE Testo di Josè de Arcangelo

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n romanzo appassionante e coinvolgente ma non proprio un romanzo storico, nonostante la splendida cornice della Firenze del Duecento, ricca di particolari degni di Luchino Visconti e frutto di una lunga, accurata, minuziosa ricerca – questa sì – storica. “Il cammino e il pellegrino” è il romanzo di formazione di quattro adolescenti – Fiammetta, Guido, Agnola e Lapo - uniti da solida amicizia e da amori incrociati, un libro che ci trascina in un affascinante viaggio non solo nel tempo ma anche nei sentimenti e nelle sensazioni dei personaggi. Gladis Alicia Pereyra prima ci seduce, poi ci conduce e infine ci conquista, tanto che una volta ‘entrati’ nella vicenda ci ritroviamo immersi in quel Medioevo zeppo di avvenimenti ed emozioni che finiscono per ricostruire un quadro artistico, storico e politico della quinta protagonista: la Fiorenza di Dante, Giotto e Guido Cavalcanti.

Quella di Giano della Bella, delle famiglie Cerchi e Donati, delle lotte tra Guelfi Bianchi e Neri e della costruzione di Santa Maria del Fiore, a sua volta all’interno di un contesto più ampio, quello delle Crociate, delle guerre, dei conflitti dentro e fuori della Chiesa, dei pontificati di Celestino V e di Bonifazio VIII. Quasi quattrocento pagine – il numero non deve spaventare il lettore perché una volta catapultati in quel mondo medievistico non vogliamo più uscirne fino alla conclusione – fitte di avvenimenti e sconvolgimenti: la crisi mistica di Fiammetta, lo stupro di Agnola, le battaglie, gli incontri e gli scontri – anche culturali - di Guido e Lapo, la nascita di un erede. E se l’ambientazione che circonda questi personaggi inventati ma veri, è realistica, veridica, anche il linguaggio, fluido, elegante, si adatta alla perfezione all’epoca di cui parla, possiamo definirlo mimetico, nel vero senso del termine, però, non come lo intende oggi un certo cinema e una certa letteratura. Ci troviamo di fronte ai ritratti di quattro

giovani e della loro rischiosa e spesso dolorosa avventura di diventare adulti, un periodo dell’esistenza comune a tutti - e dunque universale e senza tempo - quello dei turbamenti e del dubbio, dell’amore e delle illusioni, della ricerca di Dio e di se stessi. L’indagine psicologica di Pereyra non si ferma in superficie ma si insinua nel più profondo dell’anima dei personaggi alla ricerca delle radici dei loro sentimenti; fin nell’inconscio dove sono custoditi e/o imprigionati il senso del sacro, il Bene e il Male, la violenza e la creatività. Il romanzo è pervaso da una profonda religiosità, non si tratta, però, di una religiosità confessionale, anzi è quella della ricerca e del dubbio, delle origini e dell’ideale. Quel sentimento religioso che è vicino a ognuno di noi perché ci sono in esso tutti gli elementi della fede al di là di qualsiasi credo. Lo sguardo è invece quello di chi osserva, scopre e ammira per la prima volta; disincantato e al tempo stesso innamorato, non abbagliato, ma lucido.• n° 3 - ottobre 2011

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Libri e guide “IL VINO E IL MARE. GUIDA ALLA VITE DIFFICILE DELLE PICCOLE ISOLE”

di Andrea Gabbrielli. Introduzione di Attilio Scienza Iacobelli Editore 192 pagine

15,00 euro

Testo di Mariella Morosi un libro sul vino, attualissimo in questi tempi di vendemmia. Parla di vini speciali, nati nelle piccole isole in mezzo al mare da terreni difficili, aridi e battuti dal vento. A farli sono gli “angeli matti”, come l’enogastronomo Luigi Veronelli definiva i pochi che si ostinavano a coltivare i piccolissimi vigneti, delimitati da muretti a secco, perpetuando una tradizione antica, ben consapevoli che non sarebbero state le poche bottiglie a fare reddito. E’ una viticoltura eroica, ma che dà, anche se con parsimonia, frutti unici e preziosi, sempre più apprezzati, come il Moscato a Pantelleria, la Malvasia nelle Eolie, l’Aleatico all’Elba, l’Ansonica al Giglio, il Greco a Capri, il Piedirosso ad Ischia e poi tanti altri nelle isole dei mari veneti, laziali e sardi. Storia, gastronomia e paesaggio si fondono dentro il bicchiere, in

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luoghi dove la coltura vuol dire ancora cultura. Il libro di Andrea Gabbrielli ci racconta la storia di questi vini, inseparabile da quella degli uomini. Il vino è sacro e profano, è stato alimento e merce di scambio, ha fatto incontrare culture diverse. E le isole del Mediterraneo hanno costituito gli avamposti di questi incontri divenendo le prime protagoniste della civiltà del vino europeo. Oggi, proprio mentre si grida all’abbandono delle terre, è proprio nelle piccole isole come Favignana, Pantelleria, Sant’Antioco o Capraia che si tende a reinvestire sui vitigni autoctoni, per avere un prodotto forse di nicchia ma certamente unico, che ha in sé tutta l’identità di un territorio, a sua volta unico, emerso dal mare per chissà quali sconvolgimenti geologici di milioni di anni fa. E’ un libro che mancava, oggi che si parla tanto di vino e spesso a sproposito, da leggere come un romanzo, riscoprendo itinerari inediti, sfuggiti ai viaggiatori

distratti. Pochi sanno che sono i detenuti del penitenziario dell’Isola della Gorgona, nell’Arcipelago toscano, a fare un apprezzatissimo Vermentino e che esistono nelle isole molte viti centenarie “a piede franco”, cioè non innestate, sfuggite grazie all’isolamento del mare alla micidiale fillossera che annientò nei primi del Novecento i vigneti di tutt’Europa. Ma il vignaiolo diventa anche custode del suo territorio. Scrive Attilio Scienza nella prefazione del libro: «La vera agricoltura sostenibile, oggi tanto di moda, è l’unica presente nelle piccole isole a tal punto che la produzione è talmente integrata con la manutenzione del territorio da identificarsi con la natura dei luoghi stessi». La protezione dell’ambiente nelle isole del Mediterraneo attraverso la vitivinicoltura ha già ispirato numerosi progetti nazionali ed internazionali, con l’effetto di salvarne l’identità ed integrare, anche con il turismo, il reddito degli agricoltori.•



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