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la fotografia come strumento di narrazione della catastrofe

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BIOGRAFIE

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Non solo l’eco.

Immagini e immaginario: la fotografia come strumento di narrazione della catastrofe

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Sonia Bellinaso* e Andrea Fantini

1. Introduzione1

Il presente contributo è parte di un progetto di tesi più ampio che muove dalla volontà di approfondire alcune questioni legate agli eventi sismici che hanno interessato l’Appennino centrale, impiegando la fotografia come strumento di osservazione, ricerca e narrazione. Peculiarità del lavoro è l’impiego di una metodologia versatile e di un approccio multidisciplinare. Il progetto è il risultato di un’approfondita ricognizione in un luogo preciso del cratere: la zona di Ussita, paese montano dell’entroterra marchigiano fortemente danneggiato dalle scosse di ottobre 2016, dove ho avuto l’opportunità di avviare la mia ricerca attraverso un periodo di residenza svoltosi ad ottobre 2018. Il rapporto dialettico tra gli obiettivi iniziali e gli eventi fortuiti e imprevedibili che normalmente si verificano nella ricerca sul campo ha arricchito di stimoli il percorso di indagine e contribuito a delineare una metodologia di studio originale, che rifugge il linguaggio tipico della cronaca a favore di nuove forme di narrazione e comprensione. “Non solo l’eco” è il risultato di un continuo sforzo di immaginazione. Non esagero infatti nel dire che questo sia stato al contempo ossessione e motore del progetto, che vuol essere poi uno spiraglio: è sempre possibile tentare di immaginare altro, è sempre necessario tentare di reinventarsi.

2. Pensare la catastrofe: prospettive e immaginari

Riflettere sul concetto di catastrofe pone il pensiero umano ai limiti della razionalità poiché agisce proprio su quelle fondamenta fragili che determinano il nostro abitare il mondo (Carassai, Guidi, 2016). In questo processo di interiorizzazione e convivenza con la catastrofe, il linguaggio e la narrazione assumono ruoli essenziali, che ne influenzano la percezione. «Controfigura del tempo e dello spazio» (Ibidem, p. 9) la catastrofe sconvolge soprattutto a causa della sua repentinità, che mette a nudo i limiti dell’essere umano di fronte alle leggi della natura. Quali sono però gli effetti sul lungo periodo? Quali i punti da cui partire per (ri)pensarla? Se un intrinseco significato creatore del termine catastrofe può essere rinvenuto nella sua etimologia, nel legame con la narrazione e nella necessità di narrare, questa è la capacità di mettere in discussione la stabilità delle

* Contributo visivo Non solo l’eco (pp. 132-139) a cura di Sonia Bellinaso 1 Introduzione e paragrafo 3 a cura di Sonia Bellinaso

cose (Tagliapietra, 2016). L’evento calamitoso ci obbliga ad una torsione dello sguardo e dunque ci apre alla possibilità di generare nuovi significati, anche quando sembra scomodo o inopportuno.

Oggi la reazione alla catastrofe, non solo nella specificità del terremoto, sembra purtroppo peccare di immaginazione; la maggior parte delle descrizioni e delle narrazioni sottende un’incapacità di pensare al mondo in modo differente da come si presenta allo stato attuale. Il racconto, infatti, che sia di cronaca o di fantascienza, si nutre delle dinamiche del tempo in cui viene prodotto e contribuisce a consolidare la cornice mediante la quale la realtà ci appare (Ibidem, p. 30). Sono molti i pensatori contemporanei2 che sembrano sottolineare la necessità di ripensare e riconfigurare ciò che diamo per scontato del nostro rapporto con l’ambiente, sensazione che è il concetto stesso di rischio a sollecitare continuamente. In questo dibattito anche le discipline artistiche concorrono a creare e immaginare nuovi approcci e possibilità, assumendo ruoli reali nella ridistribuzione del sensibile (Mulvogue, 2017). La specificità del mezzo fotografico in particolare, si trova a dover fare i conti con un talvolta scomodo principio di verosimiglianza (Sontag, 2003). L’intrinseco legame di realtà che i medium tecnici hanno con il proprio referente (ad esempio l’oggetto fotografato) fa di essi degli strumenti dinamici e declinabili a diversi scopi, ma conferisce loro anche valori di documentazione e veridicità che rischiano di chiudere il documento fotografico ad una sola possibile lettura (Lemagny, Rouillé, 1988). La fotografia invece, come qualsiasi altro linguaggio visivo, è capace di sconvolgere o consolidare la nostra visione (Ibidem, p. 126) e in quanto tale andrebbe sempre proposto ed analizzato da più punti di vista, come un artefatto articolato.

Con “Non solo l’eco” si è deciso di porre l‘attenzione in modo particolare allo studio del paesaggio, nella convinzione che l’ambiente, tanto naturale quanto sociale, sia lo specchio di una società e del rapporto con ciò che la circonda (Settis, 2012). L’auspicio è di proporre una riflessione sull’importanza del rapporto tra uomo e ambiente e sulla necessità di tutelare il paesaggio tramite una rinnovata educazione ai luoghi (Teti, 2004). In queste immagini e in queste parole vi è la storia di molti e al contempo un impegno personale: il tentativo di essere presenti nel luogo-mondo sperimentando uno sguardo profondo su un paesaggio ferito e in forte trasformazione. È una tra le tante testimonianze di ciò che è successo dopo, consapevolmente frammentaria ma che del frammento e del salto temporale fa il proprio punto di forza. Un po’ come fa un geologo col suo martello, scavando la terra per capirne qualcosa di più.

2 Per un approfondimento si guardi Andrea Tagliapietra, op. cit, pp. 13-30; Jessica Siobhan Mulvogue, Catastrophe Aesthetics: the moving image and the mattering of the world, «transformationsjournal.org», 2017, issue 30, Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace; Mattia Thibault, With a bang or with a whimper in “I discorsi della fine”, Aracne, Canterano 2018.

3. Scavare la terra: contesto e approccio ai luoghi del post-terremoto

Durante la mia prima esperienza nella zona del cratere, avvenuta durante un cammino comunitario, non avevo in mente di sviluppare un progetto né tanto meno la mia tesi specialistica. A spingermi è stato semplicemente il desiderio di conoscere in prima persona un pezzo importante di storia, di esperire un paesaggio caratterizzato da una bellezza tanto maestosa quanto fragile attraverso il modo per me più innocuo e profondo: il passo. Percorrere a piedi la zona da Amatrice a L’Aquila, passando per Campotosto e Collebrincioni mi ha spinto a numerose riflessioni sull’ambiente e la sua complessa stratificazione, nonché sull’abitare nella sua accezione più ampia. Al tempo stesso mi ha permesso di vivere un’esperienza più libera e non vincolata da una ricerca già impostata: pur avendo la macchina fotografica nello zaino, infatti, non sono riuscita a scattare nemmeno una fotografia delle macerie o dei segni del terremoto. Alcuni mesi dopo quell’esperienza ho deciso di mettere ordine a questi pensieri e dedicarmi all’approfondimento della questione in vista della mia tesi in Fotografia dei Beni Culturali presso l’ISIA di Urbino, realizzata con il prezioso aiuto del fotografo Luca Capuano che mi ha seguito come relatore. Altrettanto indispensabile è stata la collaborazione con CASA3 (Cosa Accade Se Abitiamo) con cui sono entrata in contatto per svolgere un periodo di residenza che mi permettesse di esperire il territorio nella sua quotidianità. CASA è un’associazione con sede a Frontignano di Ussita, uno dei comuni più duramente colpiti dal sisma ed è formata da un gruppo di persone che ha deciso di dar vita ad un progetto collettivo con l’intenzione di lavorare alla ripartenza della comunità ferita. Attraverso una forte presenza a livello locale, CASA organizza progetti ed eventi guidati dallo spirito di accoglienza, con l’obiettivo di essere attivi e partecipi in un periodo estremamente complesso della storia di Ussita. Ciò avviene anche coinvolgendo ospiti esterni che, attraverso la propria sensibilità, contribuiscono alla riflessione sul territorio ed il suo destino, accompagnati e guidati dalle conoscenze e dall’esperienza di chi questo lo vive con costanza giorno dopo giorno.

Il mio sguardo e la mia produzione fotografica si sono quindi inizialmente concentrate su Frontignano di Ussita, assunto come luogo reale ed empirico in cui ricercare la restituzione di senso di un disastro socio-naturale così vasto e complesso. Da un lato si è trattato di una scelta di tipo pratico: di fronte alla frammentarietà del vasto territorio colpito dal sisma ho ritenuto necessario ritagliarmi un punto di osservazione in modo da impiegare al meglio il tempo e le risorse a disposizione per la ricerca. Dall’altro lato i limiti dello spazio fisico hanno in realtà determinato metodologicamente la possibilità di apertura dello spazio immaginativo,

3 www.portodimontagna.it

quello del non detto e dell’evocativo, implementato dall’immaginario della montagna, di grande rilevanza nella narrazione fotografica. Storicamente parlando, Frontignano è la frazione più recente di Ussita: sviluppatasi a partire dagli anni Cinquanta in particolare come località turistica essa è generalmente concepita come luogo di passaggio, di villeggiatura e di seconde case. La si potrebbe definire come un crocevia di diversi modi di esperire il paesaggio e al contempo luogo privilegiato dello stretto contatto tra cultura montana e natura. In questa sorta di paradosso, che vede in costante dialogo la temporaneità della presenza umana con la primogenitura geologica della montagna, ho tentato di rintracciare le basi per un discorso sull’equilibrio ambientale e antropologico.

4. Immagini e immaginario: il racconto fotografico

Il ruolo della fotografia nell’ esperienza progettuale qui presentata è stato duplice: essa è stata sia strumento utile all’osservazione e all’orientamento in un luogo, sia mezzo attraverso il quale dar vita ad una narrazione, e quindi a un processo di riscrittura autoriale. Il volontario distacco dal linguaggio di spettacolarizzazione dell’immagine fotografica in favore di uno sguardo attento sul paesaggio è sintomo di una precisa volontà discorsiva: far sì che attraverso il racconto fotografico si attuasse un ripensamento dell’approccio alla catastrofe, nel tentativo di ripristinare un dialogo tra scienza, arte e storia. All’interno della sequenza proposta nel libro fotografico vi sono infatti diversi tipi di immagini e livelli di significazione in continuo dialogo tra loro. Ciascuna immagine di “Non solo l’eco” rimanda a una o più tematiche, in una concatenazione che mira a restituire tutta la complessità del tema della catastrofe, che evidentemente non si esaurisce in un solo momento né tanto meno in un solo campo semantico.

Se il macro-tema della ricerca e del progetto fotografico si può dunque individuare nel rapporto tra essere umano ed ambiente, è altresì possibile distinguere alcuni sotto-temi che lo articolano e lo alimentano: paesaggio, trauma, memoria pubblica e privata, temporalità e conoscenza. Lo sguardo rivolto al paesaggio è uno sguardo attento e al contempo affascinato dall’esperienza estetica del luogo (Leopold, 2019). Se da un lato i segni dell’evento calamitoso rievocano un trauma individuale e collettivo, dall’altro la maestosità dell’immaginario montano sottende un intrinseco valore dei luoghi, che sfugge a ogni tentativo rigido di circoscriverlo o appropriarsene (Ibidem). La correlazione tra aree interne e catastrofe che ha tristemente caratterizzato il post sisma nell’Appennino centrale è fin troppo nota a chi ha strumenti critici e volontà per guardarlo (Emidio di Treviri, 2018). La conformazione geografica e la cultura abitativa delle zone colpite dal sisma, ascrivibili nelle aree interne (corrispondenti in Italia al 60% del territorio) sono inconciliabili con i ritmi e le logiche di sviluppo illimitato tipici della modernità. Questo ha provocato dal dopoguerra ad oggi un intenso fenomeno di spopolamento e una trasformazione di questi

luoghi secondo canoni di profitto e sfruttamento delle risorse, noncuranti degli aspetti più comunitari né tanto meno di quelli ambientali. La tragicità degli eventi sismici nell’Appenino centrale ha dunque accelerato ed amplificato processi già in atto, dettati da un’assenza di prospettive future. Ecco dunque che porre attenzione ad un paesaggio da molti dimenticato significa anche ripristinare simbolicamente il valore culturale e naturale delle zone colpite (Teti, 2017). Sono quindi tracce del trauma non solo le evidenti ferite sul territorio: macerie, crolli, sostegni, frane, buche, massi pericolanti. Sono tracce anche i vuoti e i segni dell’abbandono, che ad oltre due anni dal sisma ritrovano la loro espressione più malinconica.

Un’ulteriore forte contrapposizione avvertita nell’osservazione del paesaggio colpito dal terremoto è quello tra due temporalità: quella geologica e quella antropocentrica. Quando l’uomo tenta di comprendere i lunghi ritmi della natura e cerca di restituirli attraverso il linguaggio con metafore o paragoni compie uno sforzo di apertura mentale notevole, che sottolinea la necessità di stabilire un equilibrio tra queste realtà. Per indagare questo scontro è stato necessario aprire uno spazio visivo altro, differente dal paesaggio così come si presentava a due anni dal sisma e che si concretizza nell’impiego di immagini d’archivio e di strumentazione scientifica, messe in dialogo con le altre. L’approccio ad un luogo di cui non si conosceva l’aspetto prima dell’evento calamitoso ha infatti determinato la necessità di fare appello alla memoria altrui. Le immagini d’archivio, sia pubbliche che private, colmano così i vuoti e i silenzi della visione diretta. Un ultimo corpo di immagini è infine rappresentato da fotografie di strumentazione scientifica, alcune strettamente legate agli studi di sismologia, altre più in generale a quelli sul territorio. Queste fotografie sono state realizzate all’interno di diversi musei e centri di ricerca, cosa che ha permesso di entrare in relazione anche con la comunità scientifica. I dispositivi tecnico-scientifici simboleggiano una volta di più il tentativo dell’uomo di conoscere la natura, di adattarsi ai suoi ritmi così come di controllarli. Mediante l’accostamento e il dialogo con le altre immagini, le fotografie di questa sezione trascendono la pura dimensione documentaria per divenire anch’esse metafora di una profonda presenza dei luoghi.

In “Non solo l’eco” passato e presente, natura e cultura, micro e macro vengono mescolati così come accade nella realtà delle cose: non secondo uno schema rigido, bensì influenzandosi continuamente e reciprocamente (Didi-Huberman, 2011). La sequenza che mette insieme questi diversi tipi di immagini è quindi essa stessa ricerca, tentativo di comprensione. Lo sforzo richiesto al fruitore è quello di interiorizzare i principali aspetti legati alla specificità del luogo e della catastrofe analizzati nell’apparato teorico e ricercarli nelle suggestioni offerte dalle immagini: creando collegamenti e accettando il regime incostante delle fotografie, dei soggetti che propongono, dei legami che instaurano.

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