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Auto-organizzazione e istanze partecipative nel doposisma 2016/17: i Montanari Testoni di Norcia-Cascia come esperienza grassroots
Auto-organizzazione e istanze partecipative nel doposisma 2016/17: i Montanari Testoni di Norcia-Cascia come esperienza grassroots di territorio
Elisa Castellucci e Marco Giovagnoli
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1. Auto-organizzazione e partecipazione: temi e riflessioni
La sequenza sismica che ha colpito Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria tra il 24 agosto del 2016 e il 17 gennaio 2017 (date delle scosse più rilevanti) ha, in analogia con altri eventi calamitosi, attivato o ri-attivato una mobilitazione grassroots (Horton Smith, 1997; Castells, 2005) a sostegno delle comunità locali, sia di ordine materiale (cura dei bisogni primari come cibo, accoglienza, beni di prima necessità) che squisitamente relazionale (attività di informazione, coordinamento, ri-creazione di rapporti comunitari, sostegno psicologico), con un rapporto non sempre di natura armonica, nonostante esempi virtuosi (Guarino et al., 2018), rispetto alle strutture istituzionali quali la Protezione Civile e le amministrazioni locali. La richiesta (la necessità) da parte dei soggetti del territorio colpiti dagli eventi calamitosi (sia gli abitanti nella loro genericità che le loro espressioni auto-organizzate) di essere parte integrante della gestione dell’emergenza è sempre stata molto forte, a smentire l’idea di una sorta di “stordimento sociale” che trasformerebbe quei soggetti in puri e semplici destinatari dell’aiuto; questo protagonismo si colloca sia sul versante concreto dell’autosostegno comunitario, in particolare rivolto alle fasce più deboli ed esposte (famiglie con vittime e senza casa, bambini, anziani); sia su quello che potremmo definire latamente identitario della cura del proprio territorio come elemento di auto-riconoscimento. Utilizziamo il termine identità con tutte le cautele del caso, espresse in un recente articolo di Giovagnoli (2018), ed in particolare il rischio di una sua declinazione divisiva (Remotti, 1996), e costruita sulla base di un dentro/fuori come ordinamento del mondo (Castells, 2003). Qui tuttavia ci riferiamo all’interpretazione territorialista di identità dei luoghi, esito di un processo di accumulazione dei saperi (ambientali, economici, di mutuo soccorso, ecc.) e di capacità di autodeterminazione non-esclusiva (Magnaghi, 2010, p. 77-79). Il “sentirsi parte” di una comunità territoriale è dichiarato nel logo stesso del gruppo oggetto di questo articolo (il richiamo alle terre alte nel termine Montanari) e restituito in termini di comunità di destino. Ci si riconosce (anzi, ci si istituisce) come realtà solidale territorialmente radicata: di qui il riferimento inclusivo all’identità (è tra i presenti, “tra chi c’è” che si instaurano le relazioni, anche quelle di aiuto: il sisma ha imposto, almeno nella primissima fase, una parità onto-
logica nella comunità che dunque non ammette distinzioni tra il dentro e il fuori). L’attivismo di base configura una sorta di empowerment (Alsop, Heinsohn, 2005; Dallago, 2006) non concesso, tuttavia, quanto piuttosto affermato, come esigenza di riconoscimento di ruoli e funzioni aventi dignità d’esistenza e capacità operativa, pur nella esiguità delle forze e di mezzi. Ruoli e funzioni che si vorrebbero situate a fianco di quelle di cui sono titolari i soggetti istituzionali, anche scontando il momento conflittuale e/o la delimitazione temporale imposta da questi al sostegno accettato nel primo momento emergenziale dai gruppi auto-organizzati. Non da ultimo, fa parte del processo di empowerment anche il ruolo di controllo che i soggetti non-istituzionali invocano nei confronti dell’azione dei soggetti mainstream (in particolare le amministrazioni locali e la struttura Commissariale di governo), in coerenza con la necessità di non immaginarsi solo come soggetti passivi destinatari dei provvedimenti sovraordinati.
Partecipare (Allegretti, 2012) significa, anche, prendersi carico in prima persona delle necessità della collettività cui ci si riferisce; nel caso di un sisma queste necessità spaziano dall’aiuto materiale al prendersi cura dei soggetti più esposti, contrattando, per così dire, di volta in volta il proprio ruolo e la propria azione con i titolari dell’aiuto formale. Pur nella destabilizzazione inevitabile dell’immediato dopo-catastrofe, la infantilizzazione comunitaria che rischia di determinarsi con l’azione esogena, sovraordinata delle istituzioni formali, nel loro applicare routine consolidate e poco elastiche e site-specific, non tiene conto dei potenziali esiti controproducenti di questo agire, sia in termini di efficacia, ma anche di consenso: per riconoscersi comunità le persone chiedono di contare sulle proprie forze, facendo ricorso alle capacità manifeste ma anche a quelle presenti e non esplicite, volendo mettere a disposizione la propria conoscenza (anche empirica) del territorio e della sfera vitale di riferimento.
Partecipazione e prassi auto-organizzativa (Fuchs, 2003; Caridi, 2019) procedono fianco a fianco, come rivendicazione di autonomia e rifiuto della passivizzazione e come opzione pragmatica, contro l’idea di una dipendenza totale dal sostegno e dalla direzione esterni. Anche guardando alle conseguenze che tale dipendenza potrebbe ingenerare non tanto nell’immediatezza (dove può essere, per breve tempo, anche inevitabile) ma sul lungo periodo, espropriando il livello locale e comunitario della propria capacità di voice (Hirschman, 2017). Scontando anche (ma non necessariamente) un certo grado di spontaneismo operativo e di inesperienza (soprattutto se si parla di realtà auto-organizzative ex novo), va detto che per molti aspetti la maggiore libertà di movimento, le routine informali e una relativa velocità e flessibilità di intervento possono rappresentare una risposta efficace e immediatamente percepibile alle situazioni di crisi. Vi è un ulteriore elemento di interesse nella comparsa di pratiche auto-organizzative e partecipative in contesti critici come quelli post-catastrofici: la possibilità del sorgere di pratiche politiche non contingenti,
legate alla mobilitazione di civismo (Putnam, 1994), dell’esercizio consapevole e competente della capacità critica e di analisi, dell’inventiva e della creatività sociale diffusa, della progettualità di lungo periodo – che richiede l’ascolto da parte della “controparte mainstream” – sul destino dei propri territori. L’auto-organizzazione può contribuire a creare (o riattivare) il capitale sociale (Mutti, 2003), nel momento della necessità di un ricorso alla sua dotazione, o in alternativa nell’obbligo di contrastarne la dissipazione. Non tutte le esperienze di auto-organizzazione (e oggi, dopo quattro anni dagli eventi sismici del 2016/17, lo intravediamo) hanno lunga durata (Ciccozzi, 2019); rimane tuttavia o la testimonianza della loro possibilità come agire sociale; o la persistenza di quelli che potremmo chiamare germogli di territorio; o la loro trasformazione in modalità diverse di prassi concreta. È il caso dei Montanari Testoni di Norcia-Cascia.
2. I Montanari Testoni di Norcia-Cascia: una esperienza grassroots
Una delle esperienze più interessanti di azione grassroots sorte in seguito alla crisi sismica avviatasi nel 2016/17 è quella dei Montanari Testoni di Norcia-Cascia, in territorio umbro (d’ora in poi MT). I MT si costituiscono ufficialmente venerdì 25 novembre 2016 a Norcia, anche se il gruppo si era informalmente già attivato all’indomani delle scosse sismiche del 26 e del 30 ottobre 2016 che hanno colpito più direttamente la zona umbro-marchigiana. Già nel nome stesso c’è una sorta di connotazione antropologica del gruppo: un richiamo ad una qualche radice centroitalica ed appenninica, contadina e pastorale, che trova nell’ambiente altocollinare e montano un motivo di fierezza e di legame con la terra. L’idea di mettersi a disposizione si concretizza, per persone che hanno vissuto in prima persona situazioni speculari a quelle dell’intera collettività colpita dagli eventi sismici, nel bisogno in prima istanza di organizzare quella complessità che si ha di fronte agli occhi: ad esempio, generi alimentari per chi è fuori casa, spiazzato dalla repentinità degli eventi tanto da vedersi messa in discussione anche una routine quotidiana come quella di comprare del cibo e prepararselo. Dal 31 ottobre 2016 il gruppo si coagula attorno all’esigenza di attivarsi, anche scontando l’inevitabile grado di spontaneismo sopra evocato e la difficoltà di mettersi in relazione tra loro di persone che in parte non lo erano mai state in precedenza. Questo primissimo ed emergenziale impulso diventa tuttavia rapidamente progetto di un gruppo che auto-riconosce come soggetto operativo ma anche politico a tutti gli effetti (Allegretti et al., 2019), in dialettica (anche conflittuale) con l’agire dei soggetti formali dell’aiuto, della politica e dell’amministrazione locale.
Questo primo impulso di auto-organizzazione infatti scorre in parte parallelamente ed in parte in connessione con la macchina degli aiuti uffi-
ciale, in un contesto di incertezza che deve fare i conti con il perdurare, martellante, delle scosse di assestamento susseguenti quelle principali. Il primo nucleo dei MT nasce così in maniera del tutto spontanea, come esercizio (non pianificato) di civicness1 e guardando in prima battuta al proprio territorio di riferimento. Questa (relativa) spontaneità trova sponda nell’incontro con un’altra realtà solidaristica, quella delle Brigate di Solidarietà Attiva (BSA), che invece provengono da una lunga serie di esperienze sui territori del nostro Paese interessati da eventi calamitosi e che sono presenti sin dal primo momento nell’area colpita dal sisma, e alle quali i MT riconoscono una forte azione di impulso nella loro costituzione e organizzazione. Le BSA offrono ai MT il supporto organizzativo indispensabile per convogliare un attivismo pronto e spontaneo entro l’efficacia dell’organizzazione, della risposta strutturata ai bisogni della collettività colpita dal disastro, della conoscenza delle dinamiche di gestione di una emergenza post-terremoto. L’azione viene dunque strutturata attorno ad una sorta di “campo base”, nodo riconoscibile di riferimento per gli abitanti, sedimentazione di quel primo impulso itinerante e, per certi versi, istituzione di un centro reale, di un punto fermo sul terreno. Vengono dunque montate due tende da campo, una per i generi alimentari e l’altra come ufficio di coordinamento e front office per la popolazione dell’area nursina. Da quel punto di riferimento i MT iniziano l’attività vera e propria di sostegno emergenziale, mettendosi in relazione con le strutture ufficiali della Protezione Civile, per una organizzazione della raccolta nella modalità più efficiente e veloce e cercando di minimizzare le disutilità. Quest’ultima nota non è di poco conto: la storia dell’aiuto in emergenza, fatta anche di grandi e generosi gesti di solidarietà da tutto il territorio nazionale e internazionale, è spesso anche una storia di invii sbagliati ed eccedenti di materiali (vestiti estivi nelle emergenze invernali, generi alimentari voluttuari, anche semplicemente quantitativi eccessivi di un dato articolo, ecc.). Attorno a questo primo nucleo sul territorio convergono numerosi volontari che vedono proprio nella visibilità dell’insediamento un punto di riferimento. Sono per lo più giovani, forze ulteriori che permettono ai MT di rispondere con efficacia ad un numero di contatti sempre crescente (più di 90 chiamate giornaliere nel primo periodo), segnale inequivocabile del disagio e del disorientamento della
1 Qui intesa come esperienza di cittadinanza attiva, che si esplica nell’impegno in prima persona nel sostegno materiale alla comunità (bisogni di base immediati della popolazione) ma anche nel farsi voce (organizzativa) di individui decentrati rispetto alla loro quotidianità. In altri termini, «One could argue that on the one hand civicness is associated with qualities which approximate to Marshall’s (1950) concept of citizenship (personal, political and social rights), and on the other hand to active citizenship: voicing claims and needs, defending freedom and respecting duties. Civicness would thus seem to have simultaneously objective, institutional and subjective features» (Brandsen et al., 2010). È anche il tema sottotraccia del volume che Sennett ha dedicato alle pratiche collaborative ed in particolare il capitolo 9 (Sennett, 2012) oltre che concetto centrale nel più avanti citato lavoro di Putnam.
comunità colpita. Accanto al flusso di aiuti materiali, anche le donazioni in denaro rappresentano un segno della solidarietà nazionale verso le aree colpite; questione delicata, questa, poiché è evidente come – al di là del rischio delle vere e proprie malversazioni – una gestione pubblica delle risorse economiche, una loro puntuale rendicontazione, l’efficacia dell’impiego e la cautela nell’investimento rappresentano altrettanti segnali di “erogazione di fiducia”, di patto reciproco di cittadinanza. Le donazioni vengono impiegate per le necessità e le emergenze più impellenti, come generatori di luce, stufette, pile, coperte termiche e piumoni per potersi riscaldare meglio in macchina o per chi pernotta in roulotte o camper. Ma l’impiego più rilevante delle somme donate viene convogliato nell’acquisto di un container, che diverrà in seguito lo ‘Spazio Solidale 24’ (dalla data della prima forte scossa del 2016), una struttura che si rivelerà il cuore dell’esperienza auto-organizzativa dei MT. L’azione dei MT si inserisce, com’è ovvio pensare, all’interno di un più ampio contesto organizzativo strutturato, dove attori pubblici e privati si relazionano per cercare di riorganizzare una “struttura di comunità” disarticolata dal disordine post-scosse; la chiusura di tutti i luoghi della socialità e dell’offerta turistica è compensata da un’unica struttura aperta, La Vineria, ultimo scampolo di quella normalità interrotta letteralmente nel giro di pochi minuti. Ancora, in una fase di estrema difficoltà nell’approvvigionamento di alimenti di base, la apertura di un unico supermercato (a Cascia) rappresenta un elemento di riferimento e di esplicita resistenza, così come le azioni di solidarietà nei confronti degli allevatori dell’areale nursino; fondamentale anche la messa a disposizione di competenze ed expertise di base – da parte dei volontari e nello specifico dei MT e delle BSA – per montare tende (gesto apparentemente semplice ma spesso fuori della portata della popolazione più anziana ad esempio), allacciare bagni e attaccare cavi elettrici, cucinare, distribuire volantini alla popolazione a scopi informativi, ecc. In più, con un occhio attento alle necessità relazionali e di socializzazione della comunità, i MT organizzano cineforum serali, “domeniche del sorriso” per bambini, clownterapia. La comunità dunque cerca di riorganizzarsi riconoscendosi tale, cercando di identificare i bisogni anche in relazione alle specificità sociali e rappresentando attorno a quelli (ai bisogni) le coordinate di una gestione post-scosse che contrastasse in prima battuta il rischio più evidente, quello dello sbandamento di una collettività che perde i suoi punti di riferimento, le sue routine quotidiane, la sua coesione e in ultima battuta rischia l’esplosione, la fuga, il dissolvimento. Ciò anche alla luce di quella che si andava delineando come una strategia (in buona parte imposta) di exit, di allontanamento dei residenti verso le strutture di accoglienza in aree sicure, negli alberghi, ecc., in particolare dopo la scossa più forte, di magnitudo 6.5, del 30 ottobre 2016. È in questo contesto che l’esperienza dello Spazio Solidale 24 assume una valenza che supera la pur indiscussa natura di centro di coordinamento degli aiuti e delle attività solidaristiche dei MT:
in un ambito di repentino de-centramento della comunità nursina, di evaporazione dei consueti punti di riferimento territoriale (si pensi ad esempio alla valenza simbolica del crollo della Cattedrale di San Benedetto), il container è piazza della comunità, biblioteca e teatro (la Corale di Norcia vi trova ospitalità), auditorium per la presentazione di libri, asilo e scuola, assemblea di condominio, studio legale e di consulenza sanitaria; la disponibilità di un posto fisico, protetto, assume valenza strategica e simbolica, considerando il fatto che spazi similari su tutto il territorio cittadino erano indisponibili per via dei danni provocati dalle scosse sismiche. Dentro quello spazio (quel luogo) infatti, tutto ciò che in tempi “normali” ha natura routinaria assume invece funzioni di frontiera, di forte istanza comunitaria, di riaffermazione dell’importanza delle ritualità che, con la dispersione degli abitanti seguita alle scosse, rivestono ancor di più una natura resistente. È anche, caparbiamente, centro di una comunità che si assottiglia di giorno in giorno per i trasferimenti forzati e che si pone la questione del senso della propria permanenza, della propria funzione di presidio e di supplenza di servizi per una città smantellata. La decisione di proseguire l’esperienza dello Spazio rappresenta, dunque, una duplice sfida: alla struttura motivazionale del gruppo organizzatore e all’idea della “delega in bianco” ad altri della gestione del dopo-sisma. «Continuare: ma per chi?» diventa quindi una sorta di domanda-programma, una sfida al senso dell’auto-organizzazione sociale al di là dell’istante emergenziale, l’affermazione di un “principio di territorialità” che pone la questione della necessità della persistenza degli abitanti, delle loro funzioni e della loro relazionalità – anche depotenziata nel numero degli attori in gioco – per una visione di continuità sull’asse temporale del “futuro immaginato”. Questa sfida è ancor più evidente, e dura, se si considera che l’esperienza dei MT ha sovente avuto una connotazione conflittuale con i referenti amministrativi cittadini, màssime nella natura precaria – al limite abusiva – della collocazione spaziale dello Spazio Solidale e nel ruolo non sempre riconosciuto del gruppo da parte dell’amministrazione comunale e di altri soggetti “forti” (Giovagnoli, 2018). Un progetto a termine, dunque, che ha scelto di contrastare questa doppia precarietà, quella del suo status nei confronti di una comunità centripeta e quella dell’inevitabilità della sua fine, almeno nelle forme nelle quali si era concretizzato.
L’esperienza dello Spazio Solidale 24, dopo un anno e mezzo circa dal suo avvio, va a conclusione, non solo per le ragioni sopra accennate (le difficoltà relazionali con l’amministrazione comunale e la natura “abusiva” del container), ma anche in parte per una relativa stanchezza dell’impegno militante, che si nutre sempre dello status di eccezionalità del contesto in cui si genera – la “febbre sociale”, per dirla con Piero Bevilacqua (2012, p. 73) – ma che risente poi del ritorno alle contingenze della vita normale, con il lavoro da riconquistare (per molti), gli studi da riprendere, la quotidianità da riformulare. Il senso e l’azione dei MT tuttavia non
si esauriscono con la fine della esperienza dello Spazio Solidale né con il diradarsi di quella disponibilità (numerica e di tempo) dell’ora emergenziale: il container viene donato alla comunanza agraria di Forca di Montegallo, paese marchigiano in provincia di Ascoli Piceno, come elemento di continuità solidaristica e di riaffermazione dei legami tra territori (segno di restanza, Teti, 2017). Il gruppo residuo (poco conta in questa sede il dato numerico) avvia un percorso di autoriflessione che si sostanzia in azioni plurali, di diversa presenza sul territorio: da quella dell’attività di informazione e controinformazione (via web e social)2 (Dattilo, 2018) alla realizzazione di progetti di conoscenza e di fruizione culturale del territorio, richiamo politico alla necessità di una riaffermazione della persistenza dei luoghi, al di là delle difficili condizioni che ancora quei luoghi stessi scontano. La decisione è stata dunque quella di continuare non all’interno di uno spazio fisico, ma attraverso altre modalità di vicinanza con la comunità.
3. Conclusioni
L’auto-organizzazione richiama elementi quali l’attivazione dell’autonomia e del mettersi a disposizione delle persone. Tutti coloro che si sono posti in contatto con i MT hanno espresso una reale fiducia nel fatto che la loro disponibilità – fosse stato un bene donato o una somma di denaro erogata – sarebbe stata incanalata sui binari della correttezza e del buon esito del gesto.
I volontari auto-organizzati hanno guadagnato riconoscenza e rispetto da parte della popolazione per aver avuto il merito di accelerare gli aiuti nell’emergenza e nell’aver contribuito a dare delle risposte immediate e concrete in un momento in cui alla comunità servivano fatti tangibili, per non soccombere sotto il peso della riscrittura delle proprie esistenze imposta dalla catastrofe. Ovviamente l’intervento non poteva essere esaustivo, per la complessità degli eventi, per l’asincronia tra la macchina ufficiale degli aiuti e un certo spontaneismo dei gruppi, per i livelli dei bisogni della comunità ai quali la risposta all’emergenza immediata poteva essere solo un primo – importantissimo – elemento di sostegno ma che avrebbe dovuto inevitabilmente fare i conti con il lunghissimo dopo (Di Vito, 2019) che si stava già profilando e che perdura ad oggi.
Auto-organizzazione ha significato, nell’esperienza dei MT di Norcia-Cascia, il tentativo della società locale o di una parte di essa di rispondere efficacemente alla destrutturazione sociale originata dalla micidiale sequenza sismica, sul versante degli aiuti materiali ma anche su quello, non
2 Si veda di Marianna Stella e Jonathan Zenti l’audio-documentario Ora: un anno col terremoto, TreSoldi, Rai Radio 3 consultato il 1/4/2021 (www.raiplayradio.it/playlist/2017/12/ tre-soldi-ora-ff902c27-f8ed-4c57-8365-5a4dbc7c0335.html)
meno decisivo, della tenuta delle reti relazionali. La catastrofe è un banco di prova della resistenza di una comunità, dell’attivazione delle sue capacità auto-organizzative esplicite e latenti, del suo sapersi porre con pari dignità, anche se non con altrettanto ingente dispiegamento di risorse, nei confronti delle istituzioni formali, in un regime di complementarità o sussidiarietà o, in taluni casi, anche in maniera sostitutiva.