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Prefazione di Tullio De Mauro

Prefazione

Il linguaggio, occorre dirlo? È una cosa seria. La spinta a comunicare attraversa l’intera biomassa e si è perciò arrivati a pensare che, insieme al raggiungimento e al mantenimento dell’equilibrio con l’ambiente, l’omeòstasi, e insieme alla riproduzione, quella spinta, quel bisogno di comunicare, sia parte del corredo indispensabile e costitutivo di un essere vivente. Ma comunicare vuol dire sottomettersi alla logica implacabile della trasmissione di informazioni, dunque alla necessità di farsi capire e di capire sfidando i disturbi del canale in cui viaggia il messaggio. E in ciò c’è la radice del potersi sbagliare, ma anche del trarre in inganno, di cui Umberto Eco ha voluto fare un tratto dirimente tra ciò che è semiotico e comunicativo e ciò che non lo è. Certo è che la capacità di ingannare scende, per dir così, assai in basso nella scala evolutiva, fino all’astuto polipo e a furbissimi virus. Dai bassifondi della biomassa la spinta al comunicare vediamo che va facendosi sempre più complessa nei suoi mezzi, nelle sue “lingue”, e nei suoi orizzonti di senso a mano a mano che ci spostiamo con l’osservazione verso specie di vita sociale complessa e di apparato cerebrale più potente, più ricco di memoria, progettualità, intelligenza, fino a raggiungere i mammiferi superiori, le grandi scimmie e la specie umana.

Tra gli umani, nel loro comunicare, intervengono e, è il caso di dire, giocano diversi fattori: la pluralità di semiotiche che essi sono capaci di sviluppare, apprendere e gestire; la straordinaria capacità e potenza di significazione del loro più tipico linguaggio, il linguaggio verbale fatto di verba, “parole”; la lunghezza della fase infantile, che tocca certo i bimbi, ma anche gli adulti, spinti dalle cure parentali a “bambineggiare”, e si ricordi che paízein, etimologicamente “bambineggiare”, era il verbo per “giocare” nel greco antico ed è sopravvissuto e vive nel neogreco. L’intreccio di questi fattori altamente specifici fa sì che tra gli umani le possibilità di inganno intenzionale, di menzogna e di manipolazione giocosa di atteggiamenti e parole celebrino i loro fasti 1 . E non sorprende quindi che lo sfruttamento di giochi di parole non sia sfuggito all’acuta attenzione e alle sottigliezze classificatorie dell’antica arte retorica greco-latina 2 gareggiante con le classificazioni della moderna enigmistica.

È ben vero: alla capacità di parola gli umani devono nozze, tribunali ed are, come nell’antichità classica avevano compreso Aristotele e gli epicurei, ma è vero pure che la parola è strumento della nostra libertà ed è dunque piegabile anche a mali usi. Ce lo ricorda con vena pessimistica un gentile poeta italiano dei nostri anni, Lucio Mariani:

[…] scrivere e legger parole servì solo a iniziare falsari, a ordire tradimenti a imitare vortici e venti ad uso del poeta e di altri bari….

Sta in questo vasto spazio che le parole ci dischiudono la possibilità di giocare con esse. Ma dire questo è poco. Ciò che chiamiamo giochi di parole, l’uso ludico e giocoso delle espressioni di una lingua, è il prodotto estremo di alcunché di più profondo e obbligante. A capire ciò ci sollecita non solo e tanto la remota etimologia che lega la radice indoeuropea di iocus alla nozione di formulazione verbale, al giocare con la parola, ma aiutano soprattutto quei due grandi teorici del Novecento, Ferdinand de Saussure e Ludwig Wittgenstein, che indipendentemente, giunti al difficile passo del dichiarare come davvero funziona il linguaggio verbale e funzionano le lingue, entrambi ricorrono alla stessa nozione di gioco 3 . È un jeu de signes appelé langue, è uno Sprachspiel, un linguistic game il funzionamento ordinario del nostro parlare, un gioco che facciamo attingendo alle risorse della nostra memoria a lungo termine per prelevarne le parole, per incastrarle insieme in frasi ed enunciati, per sostituirle o spiegarle o avvolgerle in altre, quando ci esprimiamo, o, quando ci sforziamo di comprendere, per ripercorrere a ritroso la stessa via e dinanzi all’altrui enunciazione e frase, ne saggiamo le commessure, le scomponiamo nelle parole di cui ci paiono fatte e di nuovo facciamo appello alla memoria del patrimonio di lingua per avventurarci a ricostruire probabilisticamente il senso che con esse qualcuno voleva, vuole trasmetterci. In verità, se appena accettiamo di riflettervi, non solo “la parola del passato”, come il grande Nietzsche suggeriva, ma anche le parole del nostro presente, perfino le più semplici, sono “simili alla sentenza dell’Oracolo” e chiedono anch’esse una partecipazione attiva che soltanto la routinarietà può occultare nella nostra comune consapevolezza, ma mai elimina.

Insomma se il linguaggio è cosa seria, parte altrettanto seria ne è il gioco. Non stupisce dunque che la didattica linguistica da tempo abbia saggiato le vie del gioco ai fini dell’apprendimento linguistico. Di giochi verbali si dilettava il grande logico e creatore di Alice, Lewis Carroll. Più di recente, con un intento più marcatamente educativo, un grande scrittore e poeta per l’infanzia, e non solo, Gianni Rodari, si divertì a proporre un’intera raccolta di filastrocche e raccontini che divertono i bambini e insieme li confortano in più sicuri apprendimenti: è Il libro degli errori, arricchito da disegni di Bruno Munari 4 .

In chiave più tecnica tra le prove oggettive ha avuto fortuna e si è sviluppato l’uso dei test cloze, test di completamento di frasi e testi, usati a fini di verifica, ma anche di stimolazione degli apprendimenti di lingue straniere e lingue materne: indovinelli piegati alle esigenze della didattica. Anthony Mollica ci ricorda che si è così sviluppata una grande e specifica attenzione per il ruolo che il gioco di parole, nelle sue varie forme, può svolgere nello stimolare e verificare l’apprendimento linguistico a diversi livelli di età. Così è nato questo ramo nuovo degli studi linguistici che da anni diciamo, in fran

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