Sezione 2
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12 L’APÒLOGO DI MENENIO AGRIPPA PLACA LA PLEBE IN RIVOLTA Tito Livio, Storie di Roma dalla sua fondazione, II, 24, 32-33 Lo storico romano Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.) descrive in questa celebre pagina delle Storie gli eventi che portarono all’istituzione del tribunato della plebe. Punto di partenza di quell’istituzione fu la rivolta («secessione») della plebe verificatasi nel 494 a.C. Quella separazione della moltitudine plebea dallo Stato patrizio portò a una grave crisi interna, che venne brillantemente risolta, dice Livio, dal senatore patrizio Menenio Agrippa. Egli si recò come ambasciatore dai plebei e pronunciò il famoso “apologo” (un racconto in forma di parabola, dal significato simbolico) che leggiamo:
Incombeva la guerra contro i volsci e intanto la città era drammaticamente lacerata al suo interno a causa dell’odio profondo che divideva patrizi e plebei per via della schiavitù per debiti. I plebei erano in rivolta, sostenendo che mentre oltre confine essi combattevano per la libertà e l’espansione dello Stato, nella loro patria erano invece oppressi e ridotti in schiavitù; accadeva perciò che essi fossero più liberi in guerra, faccia a faccia con il nemico, che non in pace, al cospetto dei loro concittadini. L’odio serpeggiava dunque spontaneo, quando intervenne a farlo divampare incontrollabile la sventura toccata ad un cittadino. Costui, uomo di nobile origine, [...] raccontò che durante la campagna da lui combattuta contro i sabini, il suo campo era stato devastato e reso praticamente improduttivo, incendiata la villa, rubato il bestiame; nonostante tutto questo, si era visto imporre dal fisco il pagamento di un tributo, a causa del quale era stato costretto a chiedere un prestito a un usuraio. Il debito, gravato da un oneroso interesse, si era portato via [...] tutte le sue superstiti sostanze e infine il creditore l’aveva ridotto non solo alla schiavitù, ma alla prigionia e alla tortura. [...] Alla fine i plebei che facevano parte dell’esercito decisero per la secessione, e si trasferirono in massa sul Monte Sacro, che si trova sulla riva destra del fiume Aniene, a tre miglia1 da Roma. Questa tradizione è più diffusa dell’altra, sostenuta da Pisone2, secondo la quale invece la secessione avrebbe avuto luogo sull’Aventino. [...] La plebe rimasta in città temeva le violenze dei patrizi vedendosi abbandonata dai compagni in armi; e proprio di questa plebe rimasta a Roma avevano al contempo timore i patrizi, i quali non sapevano se augurarsi che essa rimanesse in città, oppure che la abbandonasse. I patrizi finirono così per rendersi conto che non rimaneva speranza alcuna al di fuori di una riconciliazione; essi decisero pertanto di inviare come intermediario alla plebe secessionista Menenio Agrippa, abile parlatore e uomo a essa gradito per le sue origini appunto plebee. Costui, fatto entrare nel campo plebeo, pare non abbia detto altro all’infuori del celebre apologo: raccontò che le varie membra dell’uomo, indignate perché tutte le loro cure, fatiche e attività andavano a vantaggio dello stomaco, il quale dal canto suo se ne stava tranquillo nel mezzo del corpo, ordirono alla fine un complotto, per cui le mani non dovevano più offrire il cibo alla bocca, né la bocca accogliere quello offerto, né i denti masticare quello accolto. Così le membra finirono per ridursi in uno stato di deperimento estremo. Apparve allora evidente che anche il ventre rivestiva una funzione tutt’altro che inutile, giacché, se da un lato era nutrito, dall’altro nutriva a sua volta. Operando quindi un confronto tra la secessione interna al corpo e l’ira della plebe nei confronti dei patrizi, egli sarebbe riuscito infine ad ammorbidire gli animi. Furono così avviate delle trattative per la riconciliazione generale, e tra le varie condizioni si stabilì in particolare che la plebe avesse dei propri magistrati inviolabili, forniti del diritto di intercessione contro le decisioni dei consoli, e che a tale magistratura non fosse consentito accedere da parte dei patrizi.