CARCERE E SPAZIO URBANO

Page 70

138

Il fenomeno delle opposizioni locali, che mettono in scacco gli insediamenti “utili ma sgradevoli”, è uno spettro che si aggira, ormai da molto tempo, in tutti i paesi democratici e che suscita allarmi, riflessioni e indagini. In Italia, esso si sta manifestando con qualche decennio di ritardo. Nei paesi del Nord America, compare sistematicamente, ormai da vent’anni, ogni volta che viene proposta la localizzazione di un impianto indesiderato (un inceneritore, un aeroporto, una diga, ecc.), tanto che, per designarlo, è stato introdotto un termine specifico, NIMBY, ormai utilizzato in tutto il mondo. L’acronimo NIMBY è un’etichetta malevola che riflette il punto di vista dei portatori degli interessi generali; lascia infatti intendere che le opposizioni siano mosse dal cieco egoismo di chi non vuole un certo impianto a casa propria, ma non muoverebbe un dito se esso fosse invece a casa d’altri. Non a caso, all’inizio le opposizioni locali sono sempre accompagnate da un pregiudizio sfavorevole, in quanto dotate di un orizzonte particolaristico e meschino. Chi lo desidera, ha anche a sua disposizione l’acronimo più neutrale LULU (Locally Unwanted Land Use), con cui ci si limita a constatare che certe utilizzazioni del territorio sono malviste sul piano locale. Che venga chiamata NIMBY o LULU, la sindrome del rifiuto contro le localizzazioni indesiderate rappresenta ormai un importante tema di dibattito pubblico, sia negli Stati Uniti che in Canada. Non è un caso che i paesi democratici siano afflitti dalla sindrome NIMBY. Essa è figlia diretta della democrazia, delle sue promesse di cittadinanza, di autogoverno e del diritto al pursuit of happiness. Nello stesso tempo, costituisce però una sfida per il sistema democratico, dal momento che apre un solco, difficilmente colmabile, tra il generale e il particolare, tra il nazionale e il locale, tra il benessere dei più e il sacrificio dei meno. Mette impietosamente in luce il logoramento dei

139

tradizionali strumenti di articolazione e aggregazione degli interessi e sollecita una ricerca, notevolmente incerta, di strumenti alternativi. Ma sono anche frequenti i casi, più inquietanti, di NIMBY sociali, in cui i residenti si oppongono all’apertura di servizi sociali che minacciano di abbassare lo status del loro quartiere o di metterne in pericolo la sicurezza. Le cronache riferiscono, anche in Italia, un numero di proteste di questo tipo (spesso coronate da successo). I bersagli principali sono i servizi destinati agli stranieri (centri di accoglienza, campi nomadi, centri di raccolta in attesa di provvedimenti di espulsione), ai tossicodipendenti, ai malati mentali o semplicemente ai poveri. Questi tipi di protesta sono circondati, nell’opinione pubblica, da uno stigma ancora più negativo dal momento che si presentano come una lotta, odiosa e arrogante, del ricco contro il povero, del sano contro il malato, del normale contro il diverso. Qui non c’è solo un comprensibile egoismo; c’è il sospetto di insensibilità sociale, xenofobia, intolleranza e razzismo. Eppure le proteste per ragioni ambientali e quelle per ragioni sociali hanno motivazioni (e dinamiche) molto simili. Alla radice c’è infatti la comune esigenza di difendere uno status sociale faticosamente raggiunto, di contrastare la caduta dei valori immobiliari, di evitare di esporsi a nuovi rischi (per la salute o la sicurezza). Sono resistenze contro oscure minacce di degrado. L’unica vera differenza riguarda il cui prodest. Le proteste locali contro le minacce all’ambiente sono più facilmente (ma non sempre) raccolte e sostenute dalle associazioni ambientali e dalla sinistra, mentre la destra tende a farsi paladina delle proteste locali contro gli stranieri e i diversi. Si tratta di differenze che contano (e molto) nell’arena politica e nell’opinione pubblica, ma che sono -per così dire- esterne alle ragioni profonde di chi si trova a subire la minaccia. Le strategie che vengono solitamente usate per la scelta del sito

sono riconducibili a due approcci principali: l’approccio regolativo (o comprensivo) e l’approccio di mercato (o caso per caso). Con la prima strategia, la scelta del sito viene compiuta direttamente dall’autorità pubblica, attraverso uno scrutinio comparato delle localizzazioni alternative, valutate sulla base si criteri tecnici ed è poi imposta alle comunità locali in nome di un interesse superiore, mediante un provvedimento di carattere autoritativo. Con la seconda strategia, la scelta è rimessa al promotore dell’impianto che agisce secondo propri criteri di convenienza; una volta individuato il sito, il promotore si sottoporrà ai controlli pubblici previsti a seconda del caso (valutazione di impatto ambientale, autorizzazioni, ecc.) e cercherà di far accettare la propria scelta localizzativa alle autorità locali attraverso la persuasione e la negoziazione offrendo, per esempio, qualche forma di compensazione. In Italia la strategia dominante è sicuramente quella di mercato o “caso per caso”. Benché siano previste procedure diverse a seconda del tipo di impianto da localizzare, esiste uno schema comune e ricorrente: la scelta del sito è rimessa al singolo proponente dell’impianto, sia pure all’interno del quadro programmatico fissato, in modo più o meno stringente, dagli enti locali, dalla regione o, talvolta, dallo Stato. La verifica pubblica del sito prescelto è effettuata caso per caso, ex post (ossia dopo che la scelta di localizzazione è stata compiuta) e senza la possibilità di prendere in considerazione ubicazioni alternative. I comitati cittadini sono la specifica forma organizzativa che si accompagna alla sindrome NIMBY. Hanno un carattere reattivo: “non promuovono la mobilitazione per ottenere qualche vantaggio, ma per evitare quello che ritengono essere il danno che deriverebbe loro dalle decisioni che l’amministrazione intende assumere.”

Bisogna inoltre tenere conto del fatto che gli oppositori locali non temono soltanto gli effetti diretti del nuovo impianto, ma anche quello che potremmo chiamare “effetto calamita”, ossia che il nuovo impianto, una volta installato, abbia l’effetto di attrarre rifiuti da altre zone o ulteriori impianti sgradevoli. L’accettazione del singolo impianto può dare origine a una china scivolosa verso un processo inarrestabile di degrado. È difficile bollare di irrazionalità questa preoccupazione: il circolo vizioso per cui le zone degradate vengono destinate all’insediamento di impianti sgradevoli si è già verificato in più di un caso. Se si diffonde il timore che un certo impianto comporti pericoli per la salute, è probabile che i valori immobiliari scendano e, se i timori possono essere ingiustificati e aleatori, le perdite per i proprietari saranno terribilmente concrete. Quest’ultimo effetto confermerà ai residenti la convinzione che i loro timori sono fondati. La concezione utilitaristica considera come giuste quelle soluzioni che danno il maggior benessere al maggior numero di individui; e, quindi, nel nostro caso, ammette il sacrificio di singole comunità in nome di interessi collettivi più generali. La concezione della giustizia sociale (à la Rawls) considera come giuste quelle soluzioni che addossano i minori costi ai gruppi più svantaggiati; e quindi, nel nostro caso, favorisce quelle scelte che minimizzano i rischi per le comunità destinatarie.


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.