Balena volume2

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IL PROCESSO DI COGNIZIONE DAL 1865 AD OGGI Il primo codice post-unitario, del 1865, disciplinava essenzialmente due modelli di processo: quello formale, considerato normale davanti ai tribunali e alle corti d'appello; e quello sommario, che trovava applicazione davanti ai conciliatori e ai pretori, e nei casi previsti dalla legge, anche davanti agli uffici giudiziari. Il rito formale prevedeva l'assegnazione al convenuto di un breve termine per comparire (in realtà termine per la costituzione dei procuratori delle parti in cancelleria, con deposito dei rispettivi mandati); quindi scambio di comparse finalizzate a trattare ed approfondire tutte le questioni preliminari, processuali o di merito prima che la causa fosse portata davanti al giudice per essere discussa oralmente. Con l'iscrizione della causa a ruolo il giudice veniva concretamente investito della controversia. Nel rito sommario il convenuto veniva citato per comparire ad udienza fissa, direttamente davanti al giudice, e la causa veniva iscritta immediatamente a ruolo, prima ancora dell'udienza. La prassi preferì il processo sommario a quello formale, perché più semplice e perché consentiva un immediato contatto tra le parti e il giudice. Il codice del 1865 era di stampo liberale, orientato in senso garantistico e fondamentalmente ispirato al principio dell'iniziativa delle parti; il giudice era scarsamente coinvolto nella determinazione dei ritmi del giudizio. La comparizione delle parti avveniva in un primo momento davanti al solo presidente, all'occorrenza poteva proseguire nella stessa udienza davanti al collegio per la discussione orale delle questioni insorte. La causa arrivava all'udienza ad istruttoria ancora aperta. Nel primo decennio del '900, Chiovenda impost una battaglia per la revisione globale del codice basata essenzialmente su tre principi: • oralità, intesa come netta preferenza della parola sullo scritto, trattazione della causa a viva voce all'udienza piuttosto che scambio di comparse; • immediatezza, consistente nella coincidenza tra il giudice-persona fisica che istruisce la causa ed assume le prove e quello che poi la decide; • concentrazione, che postula il processo di esaurisca, se non in un'udienza unica, in un ristrettissimo numero di udienze ravvicinate. Scopo fondamentale del processo non era la semplice composizione della controversia o la realizzazione del diritto di cui l'attore invocava la tutela, ma l'attuazione della volontà della legge, cioè del diritto oggettivo. Nel 1926 si ha un progetto originale ed organico ad opera di Carnelutti, che non avrà per seguito. Negli anni '30 si commissiona un nuovo progetto a Redenti. Tra il 1937 e il 1939 si hanno due versioni del progetto del Guardasigilli Solmi, che rappresentano una virate del processo in senso autoritario. Verso la fine del 1939 vengono chiamati a collaborare alla stesura definitiva del codice i tre più autorevoli processualisti dell'epoca, cioè Redenti, Carnelutti e Calamandrei. Questi si troveranno di fronte a soluzioni in gran parte preconfezionate ed a scelte di principio operate a livello politico. Nasce il codice del 1940, che si dice ispirato a Chiovenda per giustificare soluzioni che non erano chiovendiane, se non addirittura antitetiche rispetto ai principi di oralità, immediatezza e concentrazione: • si inventa la figura del giudice istruttore, che ha l'esclusiva direzione del procedimento nella fase della trattazione e dell'istruzione della causa, fino al momento in cui la riterrà matura per la decisione e la rimetterà al collegio, del quale fa parte egli stesso. Il processo viene così diviso in fasi ben distinte, estraniando il collegio dall'istruzione della causa e quindi contraddicendo il principio di immediatezza; • viene introdotto un sistema tendenzialmente rigoroso di preclusioni, stabilendo che nuove eccezioni, nuove richieste istruttorie e nuovi documenti fossero consentiti, di regola, solamente entro la prima udienza davanti al giudice istruttore, e a condizione che il giudice li avesse ritenuti rispondenti ai fini di giustizia. Nel prosieguo del giudizio i nova potevano ammettersi solo in presenza di gravi motivi; • viene attribuita al giudice la competenza a provvedere con ordinanza sull'ammissione delle prove e su ogni altra questione che non fosse idonea a condurre un'immediata definizione del giudizio, escludendo ogni forma d'impuògnazione del relativo provvedimento, negando l'impuògnabilità immediata di tutte le sentenze non definitive, comprese quelle parziali di merito; • vengono creati nuovi termini perentori più brevi, la cui inosservanza poteva condurre all'estinzione del processo, dichiarabile dallo stesso giudice d'ufficio. Tale codice è fortemente criticato da tutti gli operatori del diritto. Nonostante la caduta del fascismo e il malcontento generato dal nuovo processo, il codice, nelle sue linee portanti, sopravvisse, ma con l. 581/1950 ne furono emendati alcuni dei profili maggiormente e più aspramente criticati, in particolare: • viene introdotto un reclamo immediato al collegio nei confronti delle sole ordinanze


risolutive di questioni concernenti l'ammissibilità o la rilevanza di mezzi di prova, per mitigare l'assoluta autonomia dell'istruttore su tali delicate decisioni; • vengono eliminate delle preclusioni e l'incondizionata ammissione di nuove eccezioni, nuove richieste istruttorie e nuovi documenti nel corso del processo di primo grado e poi anche in appello, indirettamente sanzionata solamente sul piano delle spese processuali; • ritorna l'impuògnabilità immediata di tutte le sentenze non definitive; • viene attenuta la concentrazione del processo attraverso un generale allungamento dei termini perentori stabiliti a pena d'estinzione nonché escludendo la rilevabilità d'ufficio dell'estinzione. La l. 533/1973 riscrisse la disciplina del processo del lavoro, sostituendo integralmente il Titolo IV del Libro II, gli art. da 409 a 473. Uno degli aspetti più qualificanti del processo del lavoro è costituito da un sistema di preclusioni rigido che, escludendo tendenzialmente ogni nuova allegazione o nuova prova successiva ai rispettivi atti introduttivi delle parti, costringe ciascuna di esse a formulare le proprie richieste istruttorie al buio, senza ancora sapere quale posizione difensiva assumerà l'avversario e senza poter contare sulle eventuali ammissioni di quest'ultimo. Il puònto di forza di questa riforma fu, primo fra tutti, la scelta del giudice unico e monocratico, munito di competenza ratione materiae, che fu messo in grado di partire da un ruolo azzerato, quindi senza processi già pendenti. Si avrà una riforma con la l. 353/1990, e poi con la l. 374/1991, che sostituì il conciliatore con il giudice di pace, affidando a questo una competenza per materia e per valore che sembrava ragguardevole e che sarebbe dovuta servire ad alleggerire il carico di lavoro gravante sui giudici togati. Queste leggi entrano in vigore solo nel 1995, e viene esclusa l'applicazione ai processi già pendenti. Il d.lgs. 51/1998 dà attuazione al giudice unico di primo grado, sopprimendo l'ufficio del pretore. Il d.lgs. 5/2003 introduce un modello processuale inedito in materia societaria e di intermediazione finanziaria, bancaria e creditizia. La l. 80/2005 interviene sulla disciplina del processo esecutivo, dei procedimenti cautelari e possessori, e dei giudizi di separazione personale e divorzio. Il d.lgs. 40/2006 interviene sul processo di cassazione e riforma la materia dell'arbitrato. La l. 69/2009 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, entrata in vigore il 4 Luglio 2009, contiene numerose modifiche sparse delle norme codicistiche. Abroga il rito societario del 2003. 1. L'INSTAURAZIONE DEL PROCESSO Il Libro II del codice, “Del processo di cognizione”, si apre con la disciplina del procedimento davanti al tribunale, artt. da 163 a 310. Il procedimento dinanzi al tribunale costituisce il modello di processo di cognizione, quello cui solitamente si allude quando si discorre di processo ordinario. Questa disciplina può servire ad integrare la normativa dei vari processi a cognizione piena, detti speciali proprio per contrapporsi ad essa. L'ATTO INTRODUTTIVO La domanda giudiziale è idonea a produrre importanti effetti sia sul piano processuale che su quello sostanziale. Gli effetti processuali ruotano intorno alla nozione di litispendenza. La proposizione della domanda, ad es., individua il momento a partire dal quale nessun altro giudice, adito successivamente, potrà conoscere e decidere la medesima causa (art. 39); i mutamenti della legge o dello stato di fatto, incidenti sulla giurisdizione o sulla competenza del giudice adito, non potranno sottrarre la causa al giudice stesso; il trasferimento del diritto controverso non farà venir meno la legittimazione, ad agire o a contraddire, del suo originario titolare. Si impediscono eventuali decadenze che operino sul terreno strettamente processuale, ad es. ai termini cui sono soggette le domande di impuògnazione o la domanda di opposizione a decreto ingiuntivo. Gli effetti sostanziali si distinguono tra quelli che la domanda produce “di per sé”, indipendentemente dall'esito del processo, e quelli che invece presuppongono che il soggetto arrivi ad una sentenza. Alla categoria degli effetti sostanziali “di per sé” appartiene l'effetto interruttivo della prescrizione: per l'art. 2943 c.c. la proposizione della domanda giudiziale, anche se rivolta a giudice incompetente o privo di giurisdizione, vale ad interrompere la prescrizione del diritto azionato; tale effetto è conservativo, mira a paralizzare le conseguenze negative che la durata del processo potrebbe determinare rispetto al diritto che si è fatto valere. La prescrizione, oltre ad essere interrotta, rimane sospesa fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio; e solo da questo momento prende a decorrere un nuovo periodo di prescrizione. Rientrano tra tali effetti anche tutti quelli che la domanda produce accidentalmente, quando cioè costituisce il mezzo di attuazione di un potere che il suo autore avrebbe potuto


esercitare anche al di fuori del processo. Gli effetti sostanziali attributivi, condizionati all'accoglimento della domanda, retroagiscono al giorno in cui la domanda sia stata proposta, una volta intervenuta la sentenza di accoglimento. Ad es. è dalla domanda che gli interessi scaduti producono a propria volta interessi (art. 1283 c.c.), o che il possessore in buona fede risponde nei confronti del rivendicante dei frutti percepiti o percepibili (art. 1148). La trascrizione nei puòbblici registri immobiliari delle domande giudiziali ha, in genere, l'effetto di rendere inopponibili all'attore vittorioso i diritti acquistati da terzi con un atto trascritto o iscritto prima della sentenza ma dopo la trascrizione stessa. È possibile distinguere una terza categoria di effetti sostanziali intermedia, per i quali la domanda giudiziale è condizione necessaria e sufficiente, e che sono destinati a caducarsi quando la pendenza del processo, per qualunque motivo, venga meno e non sia possibile arrivare ad una sentenza; ad es. le preclusioni previste dall'art. 1453 c.c. per cui, una volta proposta domanda di risoluzione, per un verso l'attore non può più optare per la domanda di adempimento, e per altro verso il debitore non può più adempiere. Secondo l'art. 163 co 1°, “La domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza fissa”. La domanda può essere per proposta anche con ricorso, ad esempio nel rito del lavoro. L'atto di citazione si dirige essenzialmente e direttamente nei confronti del convenuto, deve quindi contenere, oltre agli elementi che si concretano nella c.d. edictio actionis, che cioè individuano le domande sottoposte al giudice (soggetti, petitum, causa petendi), quelli necessari per provocare e consentire la partecipazione del convenuto stesso al processo (la c.d. vocatio in ius), compresa l'indicazione dell'udienza in cui dovrà avvenire la prima comparizione delle parti. Il ricorso invece ha come naturale e immediato destinatario il giudice e mira, col deposito in cancelleria, ad investire della causa l'ufficio giudiziario, sicché esige esclusivamente la determinazione della domanda. La vocatio in ius e l'instaurazione del contraddittorio fra le parti conseguono ad una distinta e successiva attività dello stesso giudice, che fissa con decreto la data dell'udienza di comparizione o l'audizione delle parti, nonché ad un'ulteriore attività dell'attore, che deve poi provvedere alla notificazione dell'atto introduttivo e del decreto di fissazione dell'udienza. Il principio del contraddittorio esclude che l'introduzione della causa con ricorso possa rendere inutile l'instaurazione del contraddittorio, eccezion fatta per i casi in cui la decisione inaudita altera parte sia prevista dal legislatore. Nei casi in cui l'attore utilizzi un modello diverso da quello prescritto dalla legge, la giurisprudenza si mostra indulgente, ammettendo una certa equipollenza e fungibilità dei due modelli e dei diversi riti, ed escludendo che l'erronea adozione dell'uno in luogo dell'altro sia motivo di nullità o impedisca al processo di pervenire alla decisione di merito. Tale fungibilità trova un limite nel caso in cui l'instaurazione del giudizio fosse assoggettata ad un termine di decadenza, in questo caso la tempestività dell'atto introduttivo deve essere valutata non alla luce del modello erroneamente utilizzato, ma secondo quello che avrebbe dovuto correttamente impiegarsi. Se il processo doveva promuoversi con ricorso, la domanda formulata con citazione si considera proposta solo dal momento in cui la citazione stessa viene successivamente depositata nella cancelleria del giudice adito, e non dal giorno della notifica al convenuto; se è stato utilizzato ricorso in luogo della prescritta citazione, il giudizio si ha per iniziato dal momento in cui questo, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, viene notificato all'altra parte, e non dal giorno del deposito dell'atto introduttivo in cancelleria. L'atto compiuto in forma erronea è nullo ed il vizio sanabile solo ex nunc. Gli atti processuali compiuti nelle forme proprie di un rito errato sono considerati di per sé pienamente validi, dopo che il giudice abbia disposto il mutamento di rito non devono essere rinnovati. L'errore iniziale, non rilevato ed emendato in primo grado, condiziona anche le forme dell'atto di impuògnazione. Alla luce della l. 69/2009 anche la domanda proposta ad un giudice privo di giurisdizione è pienamente idonea a produrre i consueti effetti sostanziali e processuali. Alla luce di tali principi deve allora ritenersi, a differenza di quanto sostenuto dalla giurisprudenza dominante, che la tempestività della domanda debba valutarsi in base al modello effettivamente utilizzato. L'atto di citazione, ex art. 163, deve contenere: • l'indicazione del tribunale al quale la domanda è proposta, • nome, cognome, codice fiscale e residenza dell'attore; nome, cognome, codice fiscale e residenza o domicilio o dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono. Se sia parte una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, è


richiesta la denominazione o la ditta, con l'indicazione dell'organo o ufficio che ha la rappresentanza in giudizio; • la determinazione della cosa oggetto della domanda, cioè il petitum, inteso come mediato ed immediato; • esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni. I fatti costituenti le ragioni della domanda, di regola, si identificano con i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio; • indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione. Sono consentite anche in un momento successivo del processo; • nome e cognome del procuratore ed indicazione della procura, quando questa sia già stata rilasciata. Il procuratore deve comunque sottoscrivere l'atto di citazione, e la procura può essere rilasciata anche dopo l'inizio del processo, puòrché anteriormente alla costituzione della parte; • indicazione del giorno dell'udienza di comparizione; invito al convenuto a costituirsi nel termine di 20 giorni prima dell'udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166, ovvero di 10 giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell'art. 168-bis, con l'avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167. La riforma del 2005 consente alla cancelleria di effettuare le comunicazioni dell'avviso di deposito della sentenza e delle ordinanze pronunciate fuori dall'udienza anche a mezzo telefax o a mezzo posta elettronica; a tale fine il difensore deve indicare nel primo scritto difensivo utile, il numero di fax o l'indirizzo di posta elettronica presso cui dichiara di voler ricevere l'avviso. Una volta che sia completa e sottoscritta, ex art. 125, la citazione deve essere consegnata dalla parte o dal procuratore all'ufficiale giudiziario, affinché questi provveda alla sua notificazione. La notificazione rappresenta condizione indispensabile perché l'atto introduttivo produca gli effetti sostanziali e processuali. In linea di principio è lo stesso attore a dover scegliere ed indicare la data dell'udienza di prima comparizione. Tale scelta non è totalmente libera: il presidente del tribunale adito, entro il 30 novembre di ogni anno, stabilisce i giorni della settimana e le ore destinate, nel successivo anno giudiziario, esclusivamente alla prima comparizione delle parti. L'art. 163-bis prescrive che tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell'udienza di prima comparizione intercorra un termine libero non minore di 90 o 150 giorni, a seconda che il luogo della notificazione si trovi in Italia o all'estero. Tale termine può essere abbreviato fino alla metà nelle cause che richiedono pronta spedizione, su istanza dell'attore e con decreto motivato del presidente del tribunale steso in calce all'originale e alle copie della citazione. Quando il termine assegnato dall'attore nella citazione ecceda in misura considerevole il termine minimo, il convenuto, costituendosi prima della scadenza del termine minimo, può chiedere al presidente del tribunale una congrua anticipazione della prima udienza, nel rispetto del predetto termine minimo. Il presidente provvede con decreto che dovrà essere portato a conoscenza dell'attore almeno 5 giorni liberi prima della nuova data, attraverso una comunicazione del cancelliere. La data indicata nell'atto di citazione rappresenta la data prima della quale non potrebbe tenersi l'udienza di prima comparizione. LA COSTITUZIONE DELLE PARTI La costituzione è l'atto attraverso il quale la parte, che ha già assunto tale qualità per aver proposto una domanda giudiziale o per esserne soggetto passivo, rende effettiva la propria partecipazione al processo. Con la costituzione il procuratore diviene, a norma art. 170, il naturale destinatario di tutte le notificazioni e le comunicazioni virtualmente diretta alla parte, per le quali la legge non disponga altrimenti. Alla costituzione in giudizio, personale o a mezzo di procuratore, è subordinata la possibilità di esercitare concretamente i poteri processuali attribuiti alla parte, in particolare le attività di allegazione e d'impuòlso istruttorio. Una volta compiuta, la costituzione vale, in linea di principio, per l'intero grado di giudizio indipendentemente dall'effettiva partecipazione alle singole fasi del processo: la contumacia, cioè la situazione derivante dalla mancata costituzione di una parte, non va confusa con la mera assenza della parte stessa ad una o più udienze o all'esperimento di un determinato mezzo istruttorio. La costituzione si attua con il deposito in cancelleria del fascicolo di parte, contenente: • l'originale del primo atto processuale della stessa parte (citazione/comparsa di risposta), • le copie in carta libera da destinare al fascicolo d'ufficio, • la procura, • i documenti eventualmente offerti in comunicazione. A conferma dell'avvenuto deposito è previsto che ogni atto o documento sia riportato in un apposito indice del fascicolo, che il cancelliere, dopo aver


controllato la regolarità anche fiscale dell'atto o del documento, è tenuto a sottoscrivere in occasione di ogni nuova inserzione o produzione. Nel corso del procedimento il fascicolo di parte viene custodito in un'unica cartella col fascicolo d'ufficio, salvo la parte si faccia autorizzare dal giudice istruttore a ritirarlo temporaneamente. Nei processi che iniziano col ricorso depositato nella cancelleria del giudice adito non è configurabile un'autonoma attività di costituzione del ricorrente, questa coincide con quella con la quale si instaura il giudizio. L'art. 165 disciplina la costituzione dell'attore, che deve avvenire entro i 10 giorni successivi alla notificazione della citazione, 5 se abbia usufruito dell'abbreviazione dei termini di comparizione ex art. 163-bis. Si effettua con il deposito in cancelleria del fascicolo, che dovrà contenere anche l'originale della citazione, comprovante l'avvenuta notificazione. Se la citazione deve essere notificata a più parti, il termine di costituzione decorre dalla prima notifica, ma l'originale della citazione può essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall'ultima notifica. Quando l'attore si costituisce personalmente deve anche dichiarare la propria residenza o eleggere domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. L'art. 166 disciplina la costituzione del convenuto, che deve costituirsi almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione o, in caso di abbreviazione dei termini, almeno 10 giorni prima dell'udienza fissata. Anche quando la data dell'udienza dovesse essere posteriore a quella indicata dall'attore, il termine di costituzione deve essere calcolato in relazione a questa data; fa eccezione solo l'udienza di prima comparizione differita ex art. 168-bis co 5°, qui il termine si calcola con riferimento alla nuova data effettiva dell'udienza. Questo termine fa scattare importanti preclusioni, una costituzione tardiva impedirebbe al convenuto alcune attività difensive non trascurabili. La costituzione del convenuto si attua mediante deposito del fascicolo di parte che dovrà contenere anche la copia della citazione notificata al convenuto e la comparsa di risposta. Le attività che possono essere compiute dal convenuto solo con la comparsa di risposta sono: • proposizione di domande riconvenzionali, comprese quelle formulate nei confronti di un altro convenuto, le domande di accertamento incidentale con cui il convenuto chiede che una questione pregiudiziale venga decisa con efficacia di giudicato; • la proposizione di eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio; • la chiamata di un terzo, a norma art. 106. Il convenuto nella sua comparsa di risposta dovrebbe proporre, senza per subire preclusioni, tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare le proprie generalità e il codice fiscale, i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni. Con l'iscrizione della causa a ruolo l'ufficio giudiziario adito prende formalmente in carico la controversia. Il cancelliere, su richiesta della parte che per prima si costituisce ( e tenuta al pagamento del contributo unificato per le spese giudiziarie), deve presentare un'apposita nota di iscrizione della causa nel ruolo generale, contenete l'indicazione delle parti, del procuratore che si costituisce, dell'oggetto della domanda, della data di notifica della citazione e dell'udienza fissata per la prima comparizione. Il ruolo generale è un registro in cui ogni singola causa viene annotata secondo un ordine cronologico, assumendo in questo modo un proprio numero di ruolo generale che servirà a contrassegnarla in modo univoco. Contemporaneamente all'iscrizione a ruolo, il cancelliere deve formare il fascicolo d'ufficio della causa, in cui verranno inseriti la nota d'iscrizione a ruolo, una copia di carta libera dell'atto di citazione e degli altri atti di parte, i verbali di udienza, i provvedimenti del giudice, gli atti di istruzione e la copia del dispositivo delle sentenze. Formato il fascicolo, il cancelliere deve presentarlo al presidente del tribunale affinché questi designi con decreto il giudice istruttore. Questo deve avvenire entro il secondo giorno successivo alla costituzione della parte che ha chiesto l'iscrizione a ruolo. Il cancelliere quindi deve iscrivere la causa sul ruolo del giudice istruttore, cui viene trasmesso il fascicolo. Una volta noto il magistrato incaricato dell'istruzione della causa, si può determinare la data effettiva dell'udienza di prima comparizione. Le parti, per conoscere il giudice designato e la data reale dell'udienza di comparizione dovranno accedere alla cancelleria e leggerlo dal ruolo generale. L'art. 171 co 2° precede che, se una delle parti si è effettivamente costituita nel termine a lei assegnato, l'altra può costituirsi successivamente fino alla prima udienza. Se per il convenuto utilizza tale possibilità, restano ferme le decadenze ex art. 167, costituendosi oltre il termine indicato dall'art. 166 non potrà


più proporre domande riconvenzionali o eccezioni in senso stretto, né chiamare in causa terzi. Si parla di contumacia quando la parte non si sia costituita in giudizio entro l'udienza di prima comparizione; in questo caso il giudice la dichiara all'udienza stessa con ordinanza. Nel processo ordinario la contumacia può riguardare sia il convenuto, sia lo stesso attore, non entrambe le parti perché in questo caso la causa non verrebbe neppuòre iscritta a ruolo e si applicherebbe l'art. 307. Quando sia l'attore a non costituirsi, l'art. 290 fa dipendere la prosecuzione del giudizio dalla volontà del convenuto, che potrebbe avere interesse alla sentenza di merito: se lo chiede, il giudice darà le disposizioni ex art. 187, iniziando a trattare la causa; altrimenti deve essere ordinata la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue immediatamente. L'avvocato che assuma la rappresentanza di una parte in giudizio che si svolge fuori dalla circoscrizione del tribunale cui è assegnato, è tenuto, al momento della propria costituzione, ad eleggere domicilio nel luogo in cui ha sede il giudice adito; in mancanza il domicilio si intende eletto presso la cancelleria dell'ufficio giudiziario. Se la parte è costituita personalmente, le notificazioni e le comunicazioni ad essa dirette si faranno nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto al momento della costituzione. 2. L'UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE E I VIZI DEL CONTRADDITTORIO Fino alla riforma del 1990 l'udienza di prima comparizione coincideva, almeno potenzialmente, con l'inizio della trattazione della causa, cioè delle attività dirette alla definitiva fissazione dell'oggetto del giudizio e alla determinazione dei fatti da provare e all'ammissione dei relativi mezzi istruttori. Nella prassi il convenuto si costituiva in tale udienza, inducendo l'attore a chiedere un rinvio per poter prendere visione della comparsa di risposta e dei documenti allegati. La riforma 353/1990 stabilisce che la prima udienza serva esclusivamente alla comparizione delle parti e alla verifica della regolare instaurazione del contraddittorio, e che alla seconda udienza inizi la trattazione della causa effettiva. La l. 80/2005 torna a far coincidere l'inizio della trattazione della causa con l'udienza di prima comparizione. Il giudice è tenuto a compiere delle verifiche preliminari all'udienza di prima comparizione: • l'art. 182 co 1° prevede genericamente che il giudice istruttore debba verificare d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, all'occorrenza, invitare queste a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi; • l'art. 183 co 1° prende in considerazione le vere e proprie nullità che potrebbero essersi verificate nella fase introduttiva del processo, prevedendo che il giudice, alla prima udienza, debba verificare d'ufficio la regolarità del contraddittorio, e pronunciare all'occorrenza i provvedimenti previsti all'art. 102, 164 e 167, 182, 291, per porre rimedio all'omessa citazione di un litisconsorte necessario, alle nullità dell'atto introduttivo o della domanda riconvenzionale, ai difetti di rappresentanza, assistenza o autorizzazione, o ai vizi della notificazione della citazione. Tali vizi resterebbero rilevabili d'ufficio anche dopo la prima udienza; • l'udienza di prima comparizione costituisce l'ultima occasione in cui può esser sollevata la questione concernente l'inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate. Se il convenuto non si sia costituito entro la prima udienza, il giudice, prima di dichiararlo contumace, deve verificare che la citazione gli sia stata regolarmente notificata e, quando rilevi un vizio che implichi la mera nullità della notifica, deve ordinare all'attore la rinnovazione della notifica (tramite nuova citazione), fissando a tal fine un termine perentorio ed una nuova udienza. La rinnovazione sana la nullità con effetto retroattivo ed impedisce ogni decadenza: il processo si considera pendente fin dal giorno della prima notificazione, e da questo momento decorreranno tutti gli effetti sostanziali della domanda di natura conservativa. Il convenuto è tenuto a costituirsi in cancelleria almeno venti giorni prima della nuova udienza, e sarà dichiarato contumace se non si costituisca entro l'udienza stessa. Se l'ordine di rinnovazione non viene rispettato, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo ed il processo si estingue immediatamente, ex art. 307 co 3°. La nullità della citazione può derivare da vizi che attengano alla vocatio in ius: • l'omessa o assolutamente incerta indicazione del tribunale adito; • l'omessa o assolutamente incerta indicazione delle generalità di una delle parti o di uno degli elementi previsti al n. 2 art. 163, sempre che tale vizio sia tale da impedire la sicura ed univoca individuazione dell'attore o del convenuto; • l'omessa indicazione della data dell'udienza in cui il convenuto è chiamato a comparire; • l'assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello minimo previsto


dall'art. 163-bis; • l'omissione del formale avvertimento prescritto al n.7 art. 163, cioè le decadenze ex art. 38 e 167. La nullità della citazione può derivare anche da vizi che attengano alla editio actionis: • l'omessa o incerta determinazione della cosa oggetto della domanda, cioè del petitum; • la mancata esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda. Parte della dottrina ritiene che la mancata esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda debba ricorrere solo quando si tratti di un diritto eterodeterminato, e quindi l'omessa specificazione dei fatti costitutivi renda impossibile l'individuazione con certezza del diritto stesso o il rapporto giuridico per il quale si invoca la tutela giurisdizionale; e non anche quando la domanda sia autodeterminata. L'art. 164 per non permette di condividere tale interpretazione: i fatti non rilevano solo per l'identificazione dell'oggetto del giudizio, ma anche a consentire al convenuto di difendersi adeguatamente e al giudice di esercitare i poteri attribuitigli. L'art. 164 non esaurisce le fattispecie di invalidità della citazione. Per quanto riguarda le nullità concernenti la vocatio in ius, l'eventuale costituzione del convenuto sana i vizi della citazione, restano salvi gli effetti, sostanziali e processuali, dell'atto introduttivo. Tale sanatoria elimina la nullità indipendentemente dalla volontà del convenuto; l'unica eccezione è quando la nullità dipenda da inosservanza del termine minimo di comparizione, o da omissione dell'avvertimento prescritto dal n. 7 art. 163: il convenuto costituendosi al più tardi all'udienza di prima comparizione, potrebbe dedurre il vizio al fine di ottenere che il giudice fissi una nuova udienza nel rispetto dei termini. Questo regime vale solo per l'ipotesi in cui il convenuto si costituisce tempestivamente, entro la prima udienza. Se il convenuto non si costituisce spontaneamente, il giudice è tenuto, in qualunque momento si accorga della nullità, a disporre d'ufficio la rinnovazione della citazione, a cura dell'attore, fissando a tal fine un termine perentorio e una nuova udienza. Se la rinnovazione avviene, essa consente al processo di continuare e gli effetti della domanda si producono fin dal momento in cui era stata notificata la citazione invalida. Se l'attore invece non ottemperi, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue immediatamente, a norma dell'art. 307 co 3°. La disciplina delle nullità riguardanti la domanda in senso stretto, editio actionis, invece stabilisce che l'eventuale costituzione spontanea del convenuto, indipendentemente dal momento in cui si realizzi, non è mai sufficiente, di per sé, a sanare il vizio della citazione, a tal fine è necessaria infatti un'attività dell'attore. I giudice è quindi tenuto ad ordinare a questo l'integrazione della domanda, fissando per tale adempimento un termine perentorio e rinviando la causa ad un'altra udienza. Qualora l'attore ottemperi, il processo resta sanato, ma ex nunc, la domanda produce i propri effetti da questo momento e restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti. Se l'ordine di integrazione non viene eseguito, deve ritenersi che la nullità divenga insanabile e che il giudice sia tenuto, a seconda dei casi, a dichiarare l'estinzione o a definire il processo in rito; a meno che il vizio non riguardi alcuna soltanto delle più domande proposte. Quando il convenuto sia rimasto contumace, il giudice, in qualunque momento rilevi la nullità, deve ordinare all'attore di rinnovare la citazione. L'art. 167 co 2° prevede che la domanda riconvenzionale sia nulla allorché ne sia stato omesso o ne risulti assolutamente incerto l'oggetto o il titolo, ossia il petitum o la causa petendi. Il giudice assegna al convenuto un termine per l'integrazione della domanda, che opera solo ex nunc, lasciando ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente. Tace circa l'ipotesi dell'inosservanza dell'ordine di integrazione, ma ne consegue l'insanabilità del vizio e la definizione della domanda riconvenzionale in mero rito. 3. LA TRATTAZIONE DELLA CAUSA E LE PRECLUSIONI In dottrina e giurisprudenza prevale l'idea che le disposizioni in materia di preclusioni rispondano ad esigenze di ordine puòbblico e debbano trovare applicazione indipendentemente dalla volontà delle parti. La disciplina della prima udienza di trattazione è interamente contenuta nell'art. 183. Premesso che la trattazione della causa è, per principio, orale, anche se debba redigersene processo verbale, l'art. 183 dispone che la causa abbia inizio nell'udienza di prima comparizione e si concluda, in principio, in quella stessa udienza. Si ha, eccezionalmente, un differimento dell'inizio della trattazione ad una nuova udienza quando il giudice, in seguito a verifiche preliminari, rilevi un vizio relativo alla costituzione delle parti o all'instaurazione del contraddittorio ed ordini le necessarie misure sananti; nonché quando debba procedersi a norma dell'art. 185, cioè quando il giudice, di propria iniziativa o su richiesta congiunta delle parti, disponga la comparizione personale di queste, al fine di


interrogare liberamente ed eventualmente di tentarne la conciliazione. Sebbene l'art. 183 riferisca le attività relative alla trattazione della causa alla prima udienza, è da ritenere che si tratti di un'indicazione tendenziale, la cui rigidità deve fare i conti con esigenze obiettive del processo, legate al principio del contraddittorio, le quali possono rendere talvolta ineludibile il frazionamento delle predette attività in più udienze, se non addirittura il differimento dell'inizio della trattazione. Dopo le verifiche preliminari, concernenti la regolare instaurazione del processo e del contraddittorio, nonché dopo l'eventuale esperimento dell'interrogatorio libero e del tentativo infruttuoso di conciliazione, l'art. 183 prevede una serie di attività delle parti, talora sollecitabili dallo stesso giudice, dirette a pervenire ad una compiuta definizione dell'oggetto del giudizio e dei fatti sui quali, se del caso, dovranno poi assumersi prove. Il giudice chiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari: questa attività dovrebbe servire a far luce sulle rispettive posizioni difensive e a far emergere i fatti realmente controversi. Deve quindi indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, al fine di tutelare l'effettività del contraddittorio e di impedire che il giudice stresso pronunci su una di tali questioni senza aver previamente sentito le parti. L'attore può proporre nella prima udienza di trattazione le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Per quel che riguarda le domande, tale facoltà deroga al principio secondo cui l'oggetto del giudizio viene determinato dagli atti introduttivi e non può essere ampliato in corso di causa; per quel che riguarda le eccezioni, bisogna intendere le sole eccezioni in senso stretto, ossia non rilevabili d'ufficio, dell'attore (le eccezioni in senso stretto del convenuto decadono alla scadenza del termine di costituzione in cancelleria). Le eccezioni rilevabili d'ufficio restano consentite ad entrambe le parti anche nel prosieguo del giudizio. Lo stesso attore può chiedere al giudice, nella stessa prima udienza, l'autorizzazione alla chiamata in causa di un terzo, a condizione che l'esigenza di tale chiamata sia sorta dalle difese del convenuto. Entrambe le parti possono inoltre precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate. La modifica (emendatio libelli) è consentita solo in questa prima udienza di trattazione, resta ben distinta dal vero e proprio mutamento della domanda (mutatio libelli), che è di regola sempre vietato, poiché inciderebbe in modo sostanziale sull'oggetto del giudizio. La precisazione rappresenta a sua volta un minus rispetto alla modifica della domanda, una specificazione o variazione di circostanze marginali relative ad un fatto già allegato, o la deduzione di un diverso effetto giuridico del fatto stesso. Nella stessa udienza le parti hanno la possibilità di integrare liberamente le iniziali richieste istruttorie, indicando nuovi mezzi di prova e producendo nuovi documenti. L'art. 183 co 6° prevede che le parti, anziché precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, e integrare liberamente le iniziali richieste istruttorie indicando i nuovi mezzi di prova e producendo nuovi documenti, direttamente in udienza, possano farlo successivamente, per iscritto, chiedendo al giudice l'assegnazione di un triplo termine perentorio: • 30 giorni per il deposito in cancelleria di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte; • 30 giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime, nonché per indicare nuovi mezzi di prova e produzioni documentali; • 20 giorni per le sole indicazioni di prova contraria. Quando le parti chiedano tali termini, il giudice, salvo che non repuòti la causa già matura per la decisione senza la necessità di istruttoria, decide sull'ammissibilità e la rilevanza dei mezzi di prova richiesti dalle parti, fissando l'udienza in cui le prove ammesse devono essere assunte; a tal fine provvede con ordinanza emanata fuori udienza, da pronunciarsi entro trenta giorni. L'art. 81-bis disp. att., introdotto con la riforma del 2009, prevede che il giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, debba fissare il calendario del processo con l'indicazione delle udienze successive e degli incombenti che verranno espletati, sentite a tal proposito le parti e tenendo conto della natura, dell'urgenza e della complessità della causa. L'ordinanza con cui il giudice provvede sulle richieste istruttorie e fissa il calendario del processo, qualora sia resa fuori dell'udienza, deve essere comunicata dal cancelliere alle parti costituite entro i tre giorni successivi al deposito; e per tale comunicazione sono utilizzabili anche il telefax o la posta elettronica, nel rispetto delle prescrizioni normative circa la sottoscrizione e la trasmissione dei documenti


informatici o teletrasmessi. L'esaurimento dell'udienza di trattazione, ovvero la scadenza dei termini perentori assegnati per le memorie, preclude alle parti la richiesta di nuovi mezzi di prova e la produzione di nuovi documenti, ma non esclude che il giudice stesso eserciti in un momento successivo i poteri istruttori officiosi che la legge gli attribuisce. A tutela delle parti, l'art. 183 co 8° prevede che quando vengano disposti d'ufficio dei mezzi di prova, il giudice debba contestualmente assegnare alle parti, col medesimo provvedimento, un ulteriore doppio termine perentorio: il primo per la richiesta dei nuovi mezzi di prova che si rendono necessari in relazione a quelli disposti ex officio; il secondo per il deposito di un'eventuale memoria di replica. In questo caso lo stesso giudice, anziché fissare immediatamente l'udienza per l'assunzione dei mezzi di prova già ammessi, attenderà lo spirare di tali termini e provvederà sulle richieste delle parti entro i successivi 30 giorni. La preclusione desumibile dall'art. 183, cioè l'esclusione di qualunque nuova allegazione di fatto dopo la conclusione della fase di trattazione, riguarda esclusivamente l'allegazione di nuovi fatti principali (costitutivi, estintivi, impeditivi modificativi) che implichino la proposizione di domande o di eccezioni nuove, oppuòre la modifica di quelle già proposte. Al contrario, nessuno specifico limite temporale deve ritenersi previsto per: • la proposizione di mere difese, consistenti nella contestazione dei fatti allegati dall'avversario a fondamento della propria domanda o eccezione; • l'allegazione di fatti secondari, ossia di quelli che rilevano esclusivamente sul piano probatorio, in quanto da essi, direttamente o indirettamente, può desumersi l'esistenza o l'inesistenza di un fatto principale; • l'allegazione di fatti principali estintivi, impeditivi o modificativi che il giudice potrebbe rilevare d'ufficio. Grazie all'art. 153 co 2° queste preclusioni trovano un opportuno temperamento nella rimessione in termini che la parte può ottenere dal giudice quando dimostri di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non impuòtabile. 4. LA DISCIPLINA DELL'INTERVENTO DI TERZI In base agli artt. 267 e 268 l'intervento è ammesso finché non vengono precisate le conclusioni e si realizza attraverso la semplice costituzione in giudizio del terzo. L'interveniente deve depositare, col proprio fascicolo, una comparsa di risposta avente lo stesso contenuto previsto dall'art. 167 per la comparsa di risposta del convenuto, con le copie occorrenti per l'altra parte, i documenti offerti in comunicazione e la procura, quando sia conferita con atto separato. Tale deposito può avvenire direttamente in udienza, e quindi se ne darà atto nel relativo verbale, o in cancelleria, nel qual caso il cancelliere è tenuto a darne comunicazione alle altre parti. Secondo l'art. 268 co 2° il terzo, salvo quando intervenga per l'integrazione necessaria del contraddittorio (e sia quindi un litisconsorte necessario pretermesso), non può compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte, deve accettare il processo nello stato in cui si trova, con tutte le preclusioni fino a quel momento già maturate. Secondo l'orientamento preferibile, la proposizione della domanda è sempre implicitamente consentita al terzo nel momento in cui interviene, e le limitazioni cui allude l'art. 268 co 2° sono solo quelle di natura istruttoria. Quando sussista una comunanza di causa o un'ipotesi di garanzia (art. 106), la chiamata del terzo costituisce un diritto per il convenuto, che può provvedervi mediante un normale atto di citazione, a condizione che • ne abbia fatto tempestiva dichiarazione, a pena di decadenza, nella propria comparsa di risposta; • che richieda contestualmente al giudice istruttore lo spostamento della data della prima udienza, affinché sia possibile citare il terzo nel rispetto dei termini minimi di comparizione contemplati dall'art. 163-bis. Nel caso sia l'attore a volere l'intervento di un terzo, il legislatore esclude che egli possa tardivamente chiamare in causa chi avrebbe potuto citare, unitamente al convenuto, fin dal primo momento. A questo proposito, l'art. 269 co 3° stabilisce che in questo caso la citazione del terzo deve essere preventivamente autorizzata dal giudice, a condizione che • l'interesse alla chiamata del terzo sia sorto a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta; • l'attore ne faccia richiesta, a pena di decadenza, nella prima udienza di trattazione. Se il giudice accoglie questa richiesta, fissa una nuova udienza, affinché il terzo possa essere citato nel rispetto dei termini di comparizione dell'art. 163-bis, nonché il termine perentorio entro cui l'attore deve provvedere a notificare la relativa citazione. Indipendentemente da chi abbia chiesto l'intervento del terzo, la parte che chiama in causa il terzo deve depositare la relativa citazione nel termine dell'art. 165, cioè entro 10 giorni dall'avvenuta notifica, mentre il terzo deve costituirsi entro il termine di cui all'art. 166, cioè almeno


20 giorni prima dell'udienza. L'intervento ordinato dal giudice ai sensi dell'art. 107 non è soggetto ad alcun termine, può essere disposto in qualunque momento del processo di primo grado. La chiamata si realizza con la notifica di un normale atto di citazione in cui viene fatta menzione del processo già pendente fra le parti ed è indicata, quale udienza di prima comparizione, quella fissata nel provvedimento del giudice. È sufficiente che la citazione avvenga in tempo utile per l'udienza cui la causa è stata rinviata, tenuto conto dei termini minimi di comparizione da concedere al terzo chiamato. Se a tale udienza nessuna delle parti ha ancora provveduto, il giudice dispone con ordinanza non impuògnabile la cancellazione della causa dal ruolo; questo consente alle parti, entro 3 mesi da tale provvedimento, di ridare impuòlso alla causa, tramite riassunzione, adempiendo all'ordine del giudice. La costituzione del terzo in giudizio è disciplinata in maniera analoga a quella del convenuto, deve quindi rispettare il termine indicato nell'art. 166 (20 giorni prima dell'udienza fissata per la sua comparizione) e proporre, con la comparsa di risposta, le proprie domande riconvenzionali ed eccezioni in senso stretto. Circa la sua eventuale richiesta di chiamare a propria volta in causa un altro soggetto, l'art. 271 esige che il terzo dichiari tale intenzione, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta e si faccia poi autorizzare dal giudice alla prima udienza. Se l'intervento si realizza a processo già da tempo iniziato si applicherà un'ampia rimessione in termini al terzo ma anche alle parti originarie, le quali avranno diritto di essere ammesse al compimento di ogni ulteriore attività, assertiva o probatoria, resa necessaria dalle deduzioni dell'interveniente. 5. IL GIUDICE ISTRUTTORE Secondo gli intenti del legislatore del '40, l'intera direzione e responsabilità della causa veniva affidata ad un organo monocratico, che rimaneva lo stesso per tutte la durata del processo, per far intervenire poi il collegio (del quale avesse fatto parte il medesimo giudice istruttore) solo quando la causa fosse ormai pronta per essere decisa. Al posto di rendere il processo più agile, ne provoc la divisione in due fasi nettamente distinte, quella istruttoria e quella decisoria, introducendo un diaframma tra le parti ed il giudice collegiale, unico titolare del potere di pronunciare sentenza, e attribuendo all'istruttore ampi poteri. La riforma degli anni '50 aveva cercato di attenuare questo potere del giudice istruttore, accordando alle parti il potere di provocare l'intervento del collegio già nel corso dell'istruttoria per un controllo anticipato sui provvedimenti che stabiliscono quali prove ammettere e su quali fatti. La riforma del '90 risolve trasformando il tribunale da giudice collegiale ad organo monocratico, con la conseguenza che il giudice istruttore, escluse le ipotesi all'art. 50-bis, cumula in sé anche i pieni poteri decisori. L'art. 175 attribuisce al giudice istruttore tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento. È a lui che spetta fissare di volta in volta l'udienza successiva, con un intervallo, tra un'udienza e l'altra, che per l'art. 81 disp. att., non dovrebbe superare i quindici giorni, nonché gli eventuali termini ordinatori entro i quali le parti devono compiere determinati atti processuali. L'art. 187 gli riconosce il potere di dare ogni altra disposizione relativa al processo. L'art. 174 enuncia il principio per cui egli, designato immediatamente dopo l'iscrizione a ruolo, resta investito di tutta l'istruzione della causa e della relazione al collegio; si potrebbe procedere alla sua sostituzione soltanto in caso di assoluto impedimento o di gravi esigenze di servizio, con un provvedimento scritto dal presidente. Tutti i provvedimenti del giudice istruttore rivestono la forma dell'ordinanza e, se pronunciati direttamente in udienza, si ritengono conosciuti sia dalle parti presenti sia da quelle che avrebbero dovuto comparirvi; se pronunciati fuori dall'udienza, il cancelliere ne dà comunicazione (di regola solo alle parti costituite) entro i tre giorni successivi. Al giudice istruttore compete indeclinabilmente, ai sensi art. 183, l'ammissione e l'assunzione dei mezzi di prova, non solo quelli che le parti abbiano richiesto, ma anche quelli che lui stesso può disporre. Dovendo verificare se un determinato mezzo di prova è rilevante, si trova inevitabilmente ad affrontare in anticipo questioni di merito controverse, che saranno poi decise dal collegio. Si può quindi comprendere l'art. 177 secondo cui le ordinanze, comunque motivate, non possono mai pregiudicare la decisione della causa, e dunque non possono in nessun caso costituire giudicato sulle questioni, di rito o di merito, in esse affrontate; né tantomeno possono vincolare il collegio, davanti al quale le stesse questioni potranno essere, di regola, liberamente riproposte allorché la causa gli verrà rimessa. Le ordinanze del giudice istruttore o del collegio sono liberamente revocabili e modificabili, tanto dal giudice che le ha pronunciate, quanto dal collegio, allorché siano state rese


dal giudice istruttore. Fanno eccezione, non essendo né revocabili né modificabili: • le ordinanze pronunciate sull'accordo delle parti, in materia della quale esse possono disporre, in questo caso anche la revoca o modifica presuppone vi sia accordo di tutte le parti; • le ordinanze che la legge dichiari espressamente non impuògnabili; • le ordinanze per le quali la legge disponga uno speciale mezzo di reclamo, giacché tale reclamo è l'unico mezzo per ottenere la modifica del provvedimento; oggi l'unica ordinanza reclamabile al collegio è quella dichiarativa dell'estinzione del processo, cui viene assimilata l'ordinanza con cui il giudice decida sulla sola competenza, impuògnabile tramite regolamento di competenza. 6. L'ISTRUZIONE PROBATORIA I PRINCIPI IN MATERIA DI PROVE Tradizionalmente si è soliti schematizzare la decisione del giudice come il risultato di un'attività di sussunzione che, muovendo da una fattispecie concreta, mira a ricondurla ad una determinata fattispecie legale, ricavata dal diritto sostanziale, fino a dedurne le conseguenze giuridiche da dichiarare nel proprio provvedimento. In tale attività il giudice è chiamato ad individuare ed accertare il complesso di fatti rilevanti per la corretta determinazione della fattispecie legale di riferimento, e ad individuare ed interpretare il complesso di norme che meglio si adattano alla fattispecie concreta. Il giudice deve sempre procedere autonomamente alla ricerca e all'interpretazione della norma applicabile al caso concreto, senza che le eventuali allegazioni provenienti dalle parti possano in tale direzione vincolarlo o limitarlo, anche quando la relativa individuazione possa risultare poco agevole; ad es. gli usi, il diritto straniero. Tale principio trova conferma nell'art. 14 l. 218/1995, a norma del quale l'accertamento della legge straniera è compito d'ufficio del giudice, che può avvalersi a tal fine, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite tramite il Ministero della giustizia, e può interpellare esperti o istituzioni specializzate. Rispetto alla norma giuridica quindi non può mai porsi un problema di prova in senso proprio. Per quanto riguarda invece la conoscenza dei fatti, non è possibile presumere che il giudice conosca direttamente i fatti rilevanti per la decisione, ma anzi, dovendo egli essere imparziale e dovendo l'iter logico, attraverso il quale egli perviene ad accertare i fatti stessi, essere verificabile, al giudice è vietata l'utilizzazione della sua c.d. scienza privata, cioè della diretta e personale conoscenza che egli abbia eventualmente di tali fatti. Al giudice è vietato anche ricevere private informazioni sulle cause pendenti davanti a sé (art. 97 disp. att.). L'unica eccezione è la possibilità di porre a fondamento della decisione, senza bisogno di prova, le ragioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115 co 2°), che include i fatti notori, cioè quei fatti che, nel tempo e nel luogo in cui si svolge il processo, possono considerarsi patrimonio di comune conoscenza da parte dell'uomo medio e quindi storicizzati, che rilevano come fatti secondari o come fatti principali. Salvo i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione il risultato delle prove proposte dalle parti o da puòbblico ministero. La prova dei fatti allegati si configura come un vero e proprio diritto di natura processuale, strumentale all'attuazione dei diritti di azione e di difesa garantiti dall'art. 24 Cost. Alla luce dell'art. 115, devono considerarsi eccezionali le ipotesi in cui il giudice è abilitato a disporre di propria iniziativa i mezzi di prova. Nel processo ordinario i poteri istruttorii esercitabili d'ufficio sono piuttosto limitati e riguardano, prescindendo dalla consulenza tecnica: l'ispezione giudiziale, la richiesta d'informazioni alla puòbblica amministrazione, l'interrogatorio libero, il giuramento suppletorio, la prova testimoniale. Il principio all'art. 115 va coordinato col principio di acquisizione della prova, per cui questa, una volta che sia stata richiesta o comunque introdotta nel processo, esce dalla sfera di disponibilità della parte istante, così che tale parte non può rinunciare alla sua assunzione né può revocare la sua produzione se non vi sia il consenso delle altre parti e l'autorizzazione del giudice; e i risultati della prova potranno giovare ad una qualunque delle parti, non soltanto a quella che l'aveva richiesta. Il legislatore spesso parla di prova come sinonimo di mezzo di prova, per riferirsi cioè all'insieme di strumenti e procedimenti attraverso i quali il giudice deve formare il proprio convincimento circa l'esistenza o inesistenza di determinati fatti che egli debba utilizzare per la decisione. Altre volte il termine prova indica il risultato dell'iter logico-intellettivo attraverso cui il giudice è pervenuto ad accertare i fatti, a convincersi del loro verificarsi. Le prove possono classificarsi in diversi modi, tra i quali: • prova diretta e prova indiretta, tale distinzione riguarda le modalità di conoscenza del fatto


(oggetto di prova) da parte del giudice, in relazione alla fonte materiale della prova: in questo senso l'unica prova diretta sarebbe l'ispezione, che consiste nell'esame obiettivo di una cosa da cui il giudice può immediatamente percepire i fatti da provare; in tutti gli altri casi la conoscenza è solo mediata, poiché si attua attraverso l'esame di un documento o di una dichiarazione di scienza rappresentativi del factum probandum. Una diversa accezione sostiene che la distinzione attenga l'oggetto della prova: diretta quella che accerta un fatto principale, indiretta quella che accerta un fatto secondario, dalla cui conoscenza il giudice possa poi risalire all'esistenza o all'inesistenza di un fatto principale; • prova diretta e prova contraria, a seconda che la prova verta sull'esistenza o sull'inesistenza di un determinato fatto; • prova precostituita e prova costituenda. La prova precostituita è quella che preesiste al processo, e si identifica con la prova documentale; la prova costituenda si forma direttamente nel processo, grazie ad un'apposita attività istruttoria di assunzione, subordinata ad un esplicito provvedimento di ammissione, che a sua volta presuppone la verifica dell'ammissibilità e della rilevanza della prova stessa. Il giudizio di ammissibilità si traduce in un controllo di legalità, mirante ad accertare che si tratti di un mezzo di prova consentito dall'ordinamento, non soltanto in via generale, ma anche con specifico riguardo alle peculiarità del fatto da provare. Ad es. la prova testimoniale non può avere ad oggetto l'esistenza di un contratto per cui sia richiesta la forma scritta; il giuramento non può essere deferito su un fatto illecito. Il giudizio di rilevanza attiene alla circostanza che la prova abbia effettivamente ad oggetto un fatto da utilizzare per la decisione della causa. In tale verifica il giudice è costretto ad anticipare la decisione finale, giacché per individuare i fatti principali che gli serviranno nel decidere, non può fare a meno di determinare le fattispecie legale di riferimento, risolvendo ogni connessa questione giuridica. Quando poi la prova verta su fatti secondari, il giudice, per appuòrare se tali fatti siano rilevanti, dovrà puòre anticipare, seppuòre in via ipotetica, quell'attività logico-deduttiva che gli consentirebbe di risalire, partendo dai fatti stessi, ai diversi fatti principali sui quali dovrà fondarsi la decisione. Un'altra distinzione possibile è quella tra prova libera, prova legale e argomento di prova. La prova libera è quella corrispondente al principio generale in base al quale, salvo che la legge disponga diversamente, il giudice è tenuto a valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116), facendo uso di canoni di logica e buon senso, oggettivamente verificabili tramite la motivazione. La prova legale è quella che vincola il giudice a considerare per vero il risultato della prova stessa, ossia i fatti che ne sono stati oggetto, senza alcun margine per l'esercizio del suo prudente apprezzamento. Ad es. le prove documentali (atto puòbblico, scrittura privata), la confessione, il giuramento. Gli argomenti di prova sono quelli che il giudice può desumere: dalle risposte che le parti gli danno in sede di interrogatorio libero; dal loro ingiustificato rifiuto a consentire l'ispezione o l'esibizione; dalle dichiarazioni rese dalle parti dinanzi al consulente tecnico, nonché da quelle proveniente da terzi, che non costituiscano una vera e propria testimonianza; dalle prove raccolte nel processo estinto; in generale dal contegno delle parti stesse nel processo. Secondo l'opinione tradizionale, gli argomenti di prova si distinguono nettamente dalle prove vere e proprie perché non sono mai sufficienti, puòr quando siano più di uno, a fondare il convincimento del giudice, ma costituiscono elementi sussidiari cui il giudice stesso può attingere per valutare e comparare tra loro le prove soggette al suo prudente apprezzamento. L'art. 2697 c.c. al co 1° “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”e, al co 2°, “chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti sui cui l'eccezione si fonda”. Non è pensabile che il giudice si sottragga al dovere di giudicare adducendo l'incertezza dei fatti controversi (c.d. divieto di non liquet), è necessario quindi che l'ordinamento gli fornisca un criterio oggettivo in base al quale egli possa decidere comunque, puòr quando ritenga di non aver elementi sufficienti per accertare l'esistenza o l'inesistenza di taluno dei fatti a tal fine rilevanti, e che, nel contempo, permetta di verificare ex post la correttezza dell'iter logico da lui seguito nella ricostruzione dei fatti posta a base della decisione. Si ha l'esigenza di ripartire, in modo equo e ragionevole, tra le parti l'onere di dimostrare l'esistenza dei fatti controversi nonché le conseguenze negative derivanti dal mancato raggiungimento della prova. L'onere di provare, da parte del convenuto, l'esistenza di un fatto impeditivo, estintivo modificativo sorge soltanto dopo che l'attore abbia assolto l'onere di provare


l'esistenza di tutti i fatti necessari perché il diritto da lui vantato venga in vita. Si ritiene, puòr in assenza di una disposizione ad hoc, che le allegazioni concordi delle parti, rendendo non controversi e pacifici i fatti che ne sono oggetto, siano idonee ad escludere questi ultimi, quanto meno provvisoriamente, dal c.d. thema probandum, e nel contempo vincolino il giudice a ritenerli veri a prescindere da qualunque prova. Questo principio opera solamente nell'ambito dei giudizi aventi ad oggetto diritti disponibili, al di fuori di questi l'allegazione concorde non escluderebbe l'applicazione della regola ex art. 2697 c.c., e potrebbe al massimo fornire al giudice un argomento di prova. Questo principio deve valere per qualunque fatto, principale o secondario, inclusi quelli che siano rilevabili d'ufficio. I fatti si considerano pacifici non solo quando la parte destinataria delle allegazioni ne ammetta esplicitamente la verità, ma anche quando essa imposti la propria difesa su argomenti logicamente inconciliabili con la negazione dei fatti allegati dall'avversario. Niente sembra escludere che un fatto inizialmente pacifico divenga successivamente controverso in conseguenza del mutamento della posizione difensiva di taluna delle parti. La riforma del 2009 ha introdotto, all'art. 115, il principio per cui il giudice deve porre a fondamento della decisione, oltre alle prove poste dalle parti o dal puòbblico ministero, i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Oggi, la circostanza che una parte ometta di prendere posizione circa i fatti allegati dall'avversario a sostegno della propria domanda o eccezione, o ometta di contestare specificatamente tali fatti, consentirà al giudice di repuòtare veri i fatti stessi senza bisogno di prova. Il principio è applicabile solamente rispetto alle parti costituite, è escluso che alla contumacia possa attribuirsi il valore di una generale non contestazione. L'omessa contestazione non implica in via automatica e necessaria la verità dei fatti non contestati, ma costituisce un comportamento processuale significativo e rilevante sul piano della prova dei fatti medesimi. Gli effetti dell'omessa contestazione devono essere gli stessi per i fatti principali e per quelli secondari. La contestazione richiesta dall'art. 115 deve essere specifica; non può risolversi nella mera negazione formale della verità dell'avversa allegazione, ma deve esplicitare, ove sia materialmente possibile, la diversa e contrapposta versione dei fatti della parte da cui proviene. L'effetto dell'omessa contestazione consiste nella relevatio ab onere probandi, ossia nell'esonero della parte, autrice dell'allegazione non contestata, dall'onere di dar prova del fatto allegato. può operare solamente rispetto all'allegazione dei fatti che spetterebbe alla parte allegante provare, mentre non avrebbe senso relativamente ai fatti che dovrebbero essere provati dall'avversario. L'aver escluso che l'omessa contestazione vincoli il giudice a repuòtare veri i fatti non contestati consente di ammetterne l'utilizzazione puòre nei giudizi aventi ad oggetto diritti indisponibili. Avendo l'art. 115 ribadito che la contumacia non equivale a non contestazione, deve escludersi che la contestazione, cioè l'allegazione di segno negativo, sia soggetta ad una vera e propria preclusione. In teoria, non è escluso che la contestazione possa utilmente intervenire, seppuòre col dovuto rispetto del principio del contraddittorio, nel corso del processo di primo grado e finanche in appello, facendo conseguentemente sorgere nell'altra parte l'onere di dar prova del fatto allegato, puòr quando tale prova non sarebbe consentita per il verificarsi delle preclusioni istruttorie. LE REGOLE GENERALI DELL'ISTRUZIONE PROBATORIA Anche la fase istruttoria si snoda tra udienze, il cui intervallo, a norma art. 81 disp. att., non dovrebbe essere superiore a quindici giorni. Il giudice istruttore, quando dispone mezzi di prova (ci si riferisce alla prove costituende), salvo possa assumerli immediatamente, stabilisce il tempo, il luogo e il modo di assunzione, fissando solitamente un'udienza ad hoc, a meno che non si tratti di prova da assumere necessariamente fuori dall'udienza. In quest'ultimo caso, fermo restando che di regola è lo stesso giudice istruttore a dovervi provvedere, l'art. 203 prevede che, se l'assunzione deve avvenire fuori della circoscrizione del tribunale, venga delegato a procedervi il giudice istruttore del luogo, salvo che le parti chiedano concordemente e il presidente del tribunale lo consenta che vi si trasferisca lo stesso giudice procedente. Quando ricorra tale delega, l'ordinanza che la dispone deve fissare il termine massimo entro cui la prova deve essere assunta e la successiva udienza alla quale le parti dovranno poi comparire per la prosecuzione del processo. Il giudice delegato procede all'assunzione del mezzo di prova su istanza della parte interessata e quindi, d'ufficio, ne rimette il relativo processo verbale al


giudice delegante prima dell'udienza da questi fissata per la prosecuzione del giudizio, anche se l'assunzione non si è ancora esaurita. Per quanto riguarda l'acquisizione di prove tramite rogatoria internazionale, la materia è regolata, all'interno dell'Unione, nel regolamento 1206/2001 del Consiglio, in generale dalla Convenzione dell'Aja del 1970. La disciplina convenzionale dispone che ciascuno Stato contraente designi una Autorità centrale con lo specifico incarico di ricevere le richieste di rogatoria provenienti dall'autorità giudiziaria di un altro Stato contraente e di trasmetterle all'autorità interna competente per darvi esecuzione. Il regolamento comunitario consente invece la trasmissione diretta di richieste di assunzione di prove tra autorità giudiziarie di diversi Stati membri e, a talune condizioni, l'assunzione diretta della prova all'estero, da parte dell'autorità giudiziaria richiedente. Il giudice che procede all'espletamento della prova, puòr quando sia stato a ci delegato a norma dell'art. 203, è competente a risolvere ogni questione che dovesse sorgere in tale sede (art. 205). Le parti possono assistere personalmente all'assunzione dei mezzi di prova, per la quale si redige un processo verbale sotto la direzione del giudice. Nel processo verbale le dichiarazioni delle parti e dei testimoni sono riportate in prima persona e devono essere lette al dichiarante e da lui sottoscritte. È previsto che il giudice, quando lo ritenga opportuno, possa far descrivere nel verbale il contegno di chi ha reso la dichiarazione, al fine di mantenere traccia di elementi che potranno essergli d'aiuto nel valutare l'attendibilità della dichiarazione stessa. L'art. 208 stabilisce una decadenza dal diritto di far assumere la prova quando la parte, su istanza della quale dovrebbe iniziarsi o proseguirsi la prova stessa, ometta di presentarsi. Tale decadenza deve essere dichiarata d'ufficio dal giudice, a meno che non sia l'altra parte, presente, a chiederne l'assunzione. La decadenza non opera rispetto ai mezzi di prova che siano stati disposti d'ufficio dal giudice, nonché quando nessuna delle parti sia comparsa all'udienza. Quando sia stata dichiarata la decadenza, la parte interessata può chiedere al giudice, nell'udienza successiva, la revoca del provvedimento, allorché la sua mancata comparizione sia stata provocata da causa ad essa non impuòtabile. La chiusura della fase di assunzione delle prove viene dichiarata dal giudice istruttore • • • quando siano stati esauriti tutti i mezzi di prova ammessi; quando, essendo le parti decadute dal diritto di assumerne taluno, non ve ne siano altre da esperire; quando il giudice repuòti superflua, per i risultati già raggiunti, l'assunzione di ulteriori prove originariamente ammesse. 7. I SINGOLI MEZZI ISTRUTTORII LA CONSULENZA TECNICA L'art. 61 consente al giudice, quando sia necessario, di farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica, che il codice ricomprende nella categoria degli ausiliari del giudice. A questo scopo, presso ciascun tribunale esiste un apposito albo dei consulenti tecnici, diviso in categorie a seconda delle specifiche competenze e disciplinato dagli artt. 13 ss. disp. att., cui il giudice è tenuto normalmente ad attingere per la scelta del consulente. Secondo l'idea del legislatore del '40, la consulenza tecnica non era un vero e proprio mezzo di prova, depuòtato all'accertamento dei fatti, ma serviva essenzialmente a fornire al giudice le nozioni del sapere tecnico-scientifico eventualmente occorrenti per valutare ed interpretare correttamente le risultanze delle prove; per questo è uno dei mezzi istruttorii di cui il giudice può avvalersi d'ufficio, puòr non essendo obbligato a farlo. Al giudice spetta sempre l'ultima parola, non è mai vincolato alle conclusioni o alle indicazioni fornitegli dal consulente. Diversamente da quanto previsto nel '40, nella prassi la consulenza è spesso impiegata puòramente e semplicemente per l'accertamento di fatti controversi, il consulente finisce coll'operare in sostituzione del magistrato, facendo acquisire al giudice, con la sua narrazione, la conoscenza di fatti che il giudice stesso non ha potuto percepire direttamente. La consulenza tecnica è quindi un vero e proprio mezzo di prova, soggetto, quanto all'efficacia probatoria, alla regola generale del prudente apprezzamento del giudice. La collaborazione dl consulente tecnico può assumere due diverse forme, a seconda che si limiti ad una mera assistenza al giudice e alle parti, nelle udienze cui è invitato a partecipare, oppuòre implichi lo svolgimento di vere e proprie indagini, coll'intervento dello stesso giudice o in modo autonomo. Nel primo caso il suo compito consiste nel fornire in forma orale i chiarimenti richiesti, oppuòre, qualora il presidente del collegio lo ritenga opportuno, nell'esprimere il suo parere in camera di consiglio alla presenza delle parti. Nel secondo caso assume un ruolo attivo, soprattutto quando svolge le indagini da solo, in questo caso sarà tenuto a redigere relazione scritta in cui deve


riassumere le operazioni eseguite ed i risultati ottenuti. Con l'iscrizione volontaria all'albo il consulente tecnico assume l'obbligo, in caso di nomina, di prestare il proprio ufficio, cui può sottrarsi soltanto quando ricorra un giusto motivo di astensione oppuòre quando, nelle stesse ipotesi previste all'art. 51 per il giudice, siano le parti a ricusarlo. L'ordinanza di nomina del consulente tecnico deve già formulare i quesiti, cioè indicare l'oggetto specifico degli accertamenti e delle valutazioni che è chiamato a compiere, e deve essere a lui notificata, a cura del cancelliere, unitamente all'invito a comparire all'udienza fissata dal giudice. Con la stessa ordinanza di nomina, il giudice assegna alle parti un termine entro cui designare, con una dichiarazione ricevuta dal cancelliere, un loro consulente tecnico di parte che potrà assistere a tutte le operazioni del consulente del giudice e alle udienze cui questo partecipa. All'udienza cui è stato convocato, il consulente nominato dal giudice è tenuto a prestare giuramento di adempiere bene e fedelmente le funzioni affidategli al solo scopo di fare conoscere al giudice la verità (art. 193). Successivamente il giudice, se le indagini del consulente devono aver luogo autonomamente e gli è richiesta una relazione scritta, fissa con ordinanza, nella stessa udienza, un primo termine entro cui il consulente deve trasmettere detta relazione alle parti costituite; un secondo termine entro cui le parti possono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione, sollecitandone eventualmente integrazioni o chiarimenti; e un terzo termine, sempre anteriore all'udienza successiva, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la propria relazione, le osservazione delle parti e una sintetica valutazione delle stesse. Se le indagini avvengono senza la partecipazione del giudice, è necessario che il consulente dia comunicazione alle parti della data e del luogo di inizio delle operazioni, attraverso una dichiarazione inserita nel verbale d'udienza o con biglietto a mezzo del cancelliere. può accadere che il consulente d'ufficio riesca a propiziare una conciliazione della controversia: dovrà allora procedersi alla redazione del relativo verbale, sottoscritto dalle parti e dallo stesso consulente, inserito nel fascicolo d'ufficio e successivamente munito di efficacia di titolo esecutivo con un apposito decreto del giudice (art. 199). Se invece la conciliazione non riesce, il consulente darà corso all'incarico per depositare in cancelleria, entro il termine assegnatogli, la relazione scritta, relativa ai risultati delle indagini compiute, le osservazioni che le parti gli abbiano fatto tempestivamente pervenire in merito alla relazione stessa, una propria sintetica valutazione di tali osservazioni. Se nel corso delle indagini sorgano questioni circa i poteri ed i limiti dell'incarico del consulente, questi, senza essere tenuto a sospendere le operazioni, deve informarne il giudice, al quale spetta dare i provvedimenti opportuni. L'ISPEZIONE GIUDIZIALE L'art. 118 prevede che il giudice possa ordinare alle parti o ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiano indispensabili per conoscere i fatti, puòrché ci possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare segreto professionale, segreto d'ufficio o segreto di Stato. L'ispezione è un mezzo istruttorio di cui il giudice può servirsi ex officio, al fine di entrare a diretto contatto con una fonte di prova che non è acquisita al processo, al fine di percepirne personalmente fatti rilevanti per la decisione. Oggetto dell'ispezione può essere una cosa (con l'esclusione dei documenti, che invece sono acquisiti con l'esibizione), oppuòre la persona stessa di una delle parti o di un terzo. All'ispezione dovrebbe sempre procedere il giudice istruttore, anche quando debba compiersi fuori dalla circoscrizione del tribunale. L'unica eccezione espressamente prevista riguarda l'ispezione corporale, cui il giudice può astenersi dal partecipare, disponendo che vi proceda il solo consulente tecnico. Generalmente si riconosce che il potere di ispezione non può mai trasformarsi in un potere di perquisizione, né può avere finalità meramente esplorative, dovendo essere preventivamente allegati e determinati i fatti che mira ad accertare. Soggetto passivo dell'ordine di ispezione può essere sia la parte che un terzo. In caso di inottemperanza del provvedimento del giudice la disciplina è diversa: dal rifiuto della parte possono trasti contro la medesima argomenti di prova a norma dell'art 116 co 2°; il rifiuto del terzo implica solamente l'applicazione, nei suoi confronti, di una pena pecuniaria tra 250 e 1500 euro. L'art. 374 c.p. sanziona come reato il comportamento di chi, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, al fine di trarre in inganno il giudice di un atto d'ispezione o di esperimento giudiziale, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone. L'ordine di ispezione compete normalmente al giudice istruttore, che deve fissarne il tempo, il luogo e il modo


(art. 258). Il relativo provvedimento ha la forma dell'ordinanza e può intervenire in qualunque momento del giudizio di primo grado nonché in appello. Per l'ispezione corporale sono prescritte particolari misure, il giudice deve procedere con ogni cautela diretta a garantire il rispetto della persona. Il soggetto passivo ha il diritto di farsi assistere, durante l'assunzione della prova, da persona di sua fiducia che sia riconosciuta idonea dal giudice (art. 93 disp. att.), e le altre parti possono esserne escluse. Gli art. 261 e 262 attribuiscono al giudice alcuni poteri, finalizzati ad un proficuo svolgimento dell'ispezione o alla documentazione dei risultati della stessa; in particolare, nel corso dell'ispezione può : • ordinare l'esecuzione di rilievi, calchi e riproduzioni anche fotografiche di oggetti, documenti e luoghi, nonché, all'occorrenza, di rilevazioni cinematografiche o altre che richiedono l'impiego di mezzi, strumenti o procedimenti meccanici; • ordinare un esperimento giudiziale, ossia la riproduzione di un certo fatto per accertare se il fatto stesso sia o possa essersi verificato in un dato modo; • sentire testimoni per informazioni; • dare i provvedimenti necessari per l'esibizione della cosa o per accedere alla località, disporre l'accesso in luoghi appartenenti a persone estranee al processo, sentite se è possibile queste ultime, e prendendo in ogni caso le cautele necessarie alla tutela dei loro interessi. L'ESIBIZIONE DELLE PROVE E LA RICHIESTA DI INFORMAZIONI ALLA puòBBLICA AMMNISTRAZIONE In base all'art. 210 co 1°, negli stessi limiti in cui può disporsi l'ispezione delle cose, il giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all'altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l'acquisizione al processo. L'ordine di esibizione è finalizzato alla acquisizione di un documento o di una cosa mobile (nei limiti entro cui possa materialmente conservarsi insieme al fascicolo d'ufficio), che sia in possesso dell'altra parte o di un terzo. L'esibizione ha una dimensione strettamente processuale, non è richiesto che la parte istante possa vantare un qualsiasi diritto, sul piano sostanziale, riguardo al documento o alla cosa che chiede di acquisire. Presupposto essenziale è invece che tale documento debba utilizzarsi come prova nel processo, che appaia indispensabile per conoscere i fatti della causa. Questo implica che si tratti di oggetti ben determinati o di documenti dal contenuto già noto, e che l'acquisizione non possa ottenersi in altro modo. L'esibizione non è ammessa quando determinerebbe un grave danno per la parte o per il terzo, oppuòre quando li costringerebbe a violare il segreto professionale d'ufficio o i segreto di Stato. L'esibizione presuppone l'istanza di parte e non può mai essere disposta d'ufficio, a meno che la legge stessa lo preveda espressamente. L'ordinanza con cui viene disposta l'esibizione deve indicare il tempo, il luogo e il modo dell'esibizione; quando l'ordine sia rivolto ad una parte contumace o ad un terzo, l'ordinanza deve indicare il termine per la notificazione della stessa e la parte che deve provvedervi; quando l'esibizione implichi una spesa, deve porne la relativa anticipazione a carico della parte che l'ha richiesta. Se l'ordine di esibizione è richiesto nei confronti di un terzo, il giudice deve sempre cercare di conciliare nel miglior modo possibile l'interesse della giustizia col riguardo dovuto ai diritti del terzo; puòò disporre, prima di pronunciarsi, che il terzo sia citato in giudizio (al solo fine di poter contraddire, eventualmente, la richiesta di esibizione), a cura della parte istante e nel termine fissato dallo stesso giudice. Il terzo, anche se non sia stato citato, può sempre contestare l'ordine di esibizione, intervenendo nel giudizio prima della scadenza del termine assegnatogli per esibire il documento o la cosa (art. 211). L'unica ipotesi in cui può riconoscersi al provvedimento di esibizione una certa coercibilità, anche se indiretta, è quella in cui, potendo la parte istante vantare un vero e proprio diritto sostanziale sul documento, sia possibile ricorrere ad un altro specifico strumento processuale, il sequestro giudiziario, previsto all'art. 670, per poi ottenere che all'esibizione provveda il custode designato dal giudice. Il giudice, fuori dai casi previsti negli artt. 210 e 211, quando cioè non sussistano i presupposti per un ordine di esibizione, può richiedere alla puòbblica amministrazione le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell'amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo. GLI INTERROGATORI E LA CONFESSIONE Il nostro ordinamento prevede due tipi di interrogatorio delle parti: l'interrogatorio formale e l'interrogatorio libero. L'interrogatorio formale è rimesso all'esclusiva disponibilità delle parti ed appartiene al novero dei mezzi di prova; l'interrogatorio libero, ai sensi dell'art. 117 è utilizzabile discrezionalmente dal giudice d'ufficio in qualunque stato e grado del processo. Per l'art. 2730 c.c. “La confessione è la dichiarazione che una parte fa della


verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte”; una dichiarazione cui la legge attribuisce normalmente valore di prova legale, idonea a vincolare il convincimento del giudice. La confessione può essere giudiziale, quando si forma nel processo (ed è quindi prova costituenda), oppuòre stragiudiziale, quando preesiste o si realizza fuori da questo. In caso di confessione stragiudiziale la dichiarazione confessoria, se contestata, dovrà essere essa stessa, preliminarmente, oggetto di prova (documentale se sia contenuta in uno scritto, testimoniale se sia resa oralmente), affinché il giudice possa poi dedurne le conseguenze probatorie previste dalla legge. La confessione ha ad oggetto dei fatti, e può considerarsi una species del genus delle ammissioni, definibili come il riconoscimento, espresso o tacito, di fatti allegati dall'altra parte. L'ammissione tuttavia non opera (diversamente dalla confessione) sul piano probatorio, ma realizza un'allegazione concorde del fatto, con l'effetto di porre il fatto stesso al di fuori del thema probandum, rendendolo pacifico e vincolando il giudice a ritenerlo vero prescindendo dalla sua prova; sul piano delle conseguenze, la confessione può essere revocata solamente quando si provi che è stata determinata da errore di fatto (cioè l'erronea convinzione che i fatti dichiarati fossero veri) o da violenza, l'ammissione può essere ritrattata in ogni momento. Secondo l'opinione prevalente, è sufficiente che il dichiarante sia consapevole di dichiarare un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte, non serve un animus confitendi, la volontà di confessare. La dichiarazione contra se non può valere come una vera confessione se non proviene da persona capace di disporre del diritto, a cui i fatti confessati si riferiscono. Nell'ambito del giudizio la confessione può essere spontanea, quando sia la stessa parte, di propria iniziativa, a dichiarare fatti a sé sfavorevoli, oppuòre provocata mediante interrogatorio formale (art. 228). La confessione spontanea può essere contenuta in qualunque atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell'art. 117, nel senso che le eventuali dichiarazioni “contra se” rese dalla parte in sede di interrogatorio libero, puòr se racchiuse in un verbale sottoscritto dalla parte stessa, non possono considerarsi vera e propria confessione, ma mere ammissioni. Indipendentemente che sia intervenuta spontaneamente o nel corso dell'interrogatorio formale, la confessione giudiziale forma piena prova, di regola, contro colui che l'ha resa, ed è quindi idonea a vincolare il giudice circa la verità dei fatti confessati. A tale principio l'art 2733 c.c. deroga in due casi: • quando i fatti riguardano diritti non disponibili dalle parti; • quando, ricorrendo un'ipotesi di litisconsorzio necessario, la confessione proviene da alcuni soltanto dei litisconsorti; in questo caso la confessione è liberamente apprezzato dal giudice, degradando da prova legale a prova libera nei confronti di tutti. Solitamente colui che confessa non si limita ad una confessione contra se, ma accompagna l'affermazione di altri fatti o circostanze a sé favorevoli tendenti ad infirmare l'efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o a estinguerne gli effetti (art. 2734). Si parla di “confessione complessa” quando l'aggiunta sia rappresentata da un fatto del tutto distinto, idoneo a modificare o ad estinguere gli effetti del fatto sfavorevole al dichiarante; oppuòre “qualificata”, quando la dichiarazione pro se riguardi un fatto strettamente connesso a quello confessato, tale da reagire sulla qualificazione stessa della fattispecie. In entrambi i casi l'efficacia probatoria delle dichiarazioni, nel complesso, dipende dall'atteggiamento dell'altra parte: se questa non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, esse fanno piena prova, vincolando il giudice nella loro integrità, senza distinguere tra fatti sfavorevoli e fatti favorevoli al loro autore; se invece l'altra parte contesta, è rimesso al giudice apprezzare secondo le circostanze, l'efficacia probatoria delle dichiarazioni. Si parla a riguardo di inscindibilità della confessione. Nel caso di confessione stragiudiziale, il legislatore esclude la prova per testi ogniqualvolta la confessione verta su fatti che, a loro volta, non potrebbero essere provati in tal modo. Bisogna anche distinguere se la dichiarazione confessoria è rivolta all'altra parte o ad un rappresentante di questa, essa avrà la stessa efficacia che compete alla confessione giudiziale (di regola prova legale); se invece è diretta ad un terzo oppuòre contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice (art. 2735). A norma dell'art. 230, la parte che intende far sottoporre l'avversario ad interrogatorio formale è tenuta a dedurre tale interrogatorio per articoli separati e specifici. L'interrogando deve essere messo in condizione di conoscere in anticipo i fatti su cui dovrà riferire. Le domande non potranno vertere su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli, a meno che non si tratti di domande sulle quali le parti


concordano e che il giudice ritiene utili, rilevanti, e salvo il potere del giudice stesso di chiedere in ogni caso i chiarimenti opportuni sulle risposte date. La parte interrogata non ha alcun obbligo, giuridicamente sanzionabile, di dire la verità contro i propri interessi; ci non toglie che abbia il dovere di presentarsi a rendere l'interrogatorio e di rispondere personalmente alle relative domande, senza potersi servire di scritti preparati, ad eccezione delle note e degli appuònti che il giudice le abbia consentito di utilizzare, quando deve fare riferimento a nomi o a cifre, o quando particolari esigenze lo consigliano (art. 231). La mancata comparizione, al pari del rifiuto a rispondere, produrrebbe come conseguenza, in assenza di un giustificato motivo, la possibilità valutato ogni elemento di prova, di ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio (art. 232). Il comportamento omissivo costituisce una prova libera, soggetta al prudente apprezzamento del giudice. Scopo dell'interrogatorio formale è ottenere la confessione della parte cui esso è deferito. Nella pratica per questo serve piuttosto a costringere la parte a dichiararsi, cioè ad assumere una specifica posizione circa i fatti allegati dall'avversario, al fine di selezionare quelli effettivamente bisognevoli di prova. LA PROVA DOCUMENTALE Per i documenti, a differenza che per le prove costituende, l'acquisizione al processo avviene con la relativa produzione, senza passare attraverso un preventivo giudizio di ammissibilità o rilevanza ad opera del giudice, dovendo solo rispettare le limitazioni temporali risultanti dall'art. 183. I documenti prodotti al momento della costituzione in giudizio devono essere indicati nei rispettivi atti introduttivi; quelli successivi possono essere prodotti o mediante deposito in cancelleria, dandone avviso alle parti attraverso un apposito elenco, da comunicare secondo le forme dell'art. 170, oppuòre direttamente in udienza, facendo menzione di essi nel relativo verbale. Al contumace deve notificarsi il verbale in cui si dà atto della produzione di una scrittura non indicata in atti precedentemente a lui non notificati. A norma dell'art. 2699 c.c., si definisce atto puòbblico il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da un altro puòbblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli puòbblica fede nel luogo dove l'atto è formato. Devono quindi concorrere un elemento soggettivo, cioè la qualità del notaio o del puòbblico ufficiale in colui dal quale l'atto proviene, ed un elemento oggettivo, costituito dal complesso di formalità prescritte per quel determinato tipo di atto, anche in ragione del suo contenuto. L'efficacia probatoria è quella tipica della prova legale: vincola il giudice a ritenere veri i fatti risultanti dall'atto stesso, con la peculiarità che può essere superata solo attraverso il vittorioso esperimento, ad opera della parte interessata, di un'apposita impuògnazione del documento, la querela di falso. In base all'art. 2700 c.c. l'atto puòbblico fa piena prova, fino a querela di falso: • della provenienza del documento dal puòbblico ufficiale che l'ha formato; • delle dichiarazioni delle parti e gli altri fatti che il puòbblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Circa l'estrinseco del documento, la sua provenienza, potrebbe aversi una falsità materiale quando l'atto puòbblico fosse stato interamente contraffatto oppuòre alterato dopo la sua formazione. Circa li contenuto rappresentativo, cioè l'intrinseco, l'atto puòbblico potrebbe essere affetto da falsità ideologica. L'efficacia di piena prova non si estende indiscriminatamente a tutto ci che risulta dall'atto puòbblico: sono esclusi i meri apprezzamenti o le valutazioni eventualmente espresse dal puòbblico ufficiale, contano soltanto i fatti caduti sotto la sua diretta percezione e responsabilità, cioè quelli che dia atto di aver personalmente compiuto o che certifichi essere avvenuti in sua presenza, le circostanze di luogo e di tempo in cui l'atto è formato. Riguardo le dichiarazioni delle parti, l'atto puòbblico prova soltanto che le parti hanno effettivamente reso tali dichiarazioni in presenza del puòbblico ufficiale, non rende incontestabile il contenuto e la veridicità delle stesse, né la loro corrispondenza alla volontà delle parti. Il legislatore ha espressamente previsto la possibile conversione dell'atto puòbblico, che sia viziato vuoi dalla incompetenza o incapacità del puòbblico ufficiale da cui proviene, vuoi dalla violazione delle relative prescrizioni formali, in una scrittura privata, a condizione che abbia l'indispensabile requisito di forma rappresentato dalla sottoscrizione delle parti. Dall'esame dell'art. 2702 c.c. si deduce che la scrittura privata sia costituita da un qualsiasi documento scritto, attribuibile ad uno o più soggetti, che non sia qualificabile come atto puòbblico. Con l'apposizione della firma il sottoscrittore accetta che le dichiarazioni racchiuse nel documento siano a lui giuridicamente impuòtate. La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta. Costituisce prova legale


limitatamente alla provenienza delle dichiarazioni della parte o delle parti che l'hanno sottoscritta, ossia all'estrinseco del documento; non prova invece nulla circa il contenuto e la veridicità di tali dichiarazioni. La falsità che si fa valere con la querela di falso riguarda solo la contraffazione della firma di colui che risulta esserne l'autore, oppuòre quando, successivamente alla sottoscrizione, siano state indebitamente apportate modifiche o aggiunte al suo contenuto. Affinché la scrittura privata consegua tale efficacia probatoria, è necessario che la sottoscrizione sia riconosciuta da colui contro il quale è prodotta. Per far acquisire piena efficacia probatoria alla scrittura privata, è necessario farne autenticare la sottoscrizione da un notaio o da un puòbblico ufficiale autorizzato (art. 2703 c.c.). L'autenticazione consiste materialmente nell'attestazione che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza da persona di cui lo stesso puòbblico ufficiale deve aver previamente accertato l'identità. Un importante effetto di natura sostanziale dell'autenticazione è rendere la data della scrittura privata certa e compuòtabile riguardo ai terzi. In mancanza di autenticazione, la certezza della data potrebbe conseguirsi solamente: dal giorno della registrazione dell'atto, dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica a sottoscrivere di colui che l'aveva sottoscritto, dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in un atto puòbblico, dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l'anteriorità della formazione del documento. Fanno eccezione le scritture contenenti dichiarazioni unilaterali non destinate a persona determinata, la cui data puòò essere accertata, anche riguardo ai terzi, con qualsiasi mezzo di prova, e le quietanze, ossia le ricevute di avvenuto pagamento, per l'accertamento della cui data è consentito al giudice, tenuto conto delle circostanze, di ammettere qualsiasi mezzo di prova. La riforma del 2005 ha insulso le scritture private autenticate fra i titoli esecutivi stragiudiziali. La scrittura privata può acquisire efficacia probatoria attraverso il riconoscimento, espresso o tacito, ad opera di colui contro il quale è prodotta in giudizio. Il riconoscimento, contemplato all'art. 2702 c.c. riguarda inequivocabilmente e specificamente la sola sottoscrizione della scrittura privata, non la scrittura nel suo complesso. Il riconoscimento espresso è contemplato dall'art. 2702. Il riconoscimento tacito si realizza invece in due ipotesi: • quando la scrittura venga prodotta nei confronti di una parte contumace (che per potrà sempre far venir meno, in seguito, gli effetti, costituendosi nel corso del giudizio e disconoscendo le scritture contro di lei prodotte in precedenza); • quando, essendo stata la scrittura prodotta contro una parte comparsa, questa non la disconosca nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione. Per impedire il riconoscimento tacito è quindi necessario il disconoscimento, cioè una dichiarazione con cui si nega formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione. Quando una scrittura privata sia stata disconosciuta, questa sarà inutilizzabile come prova, salva la possibilità, per la parte che intenda egualmente valersene di chiederne la verificazione a norma dell'art. 216. L'istanza di verificazione introduce un procedimento incidentale, destinato a concludersi con una sentenza sull'autenticità della scrittura che, se affermativa, consentirà di ritenere il documento come legalmente riconosciuto, facendogli acquisire l'efficacia probatoria dell'art. 2702. La verificazione verterà sull'autenticità della sottoscrizione, tranne nei casi eccezionali in cui è da ritenere che possa avere ad oggetto la scrittura stessa dell'autore. Si tratta di una domanda incidentale di mero accertamento, che trae interesse dall'avvenuto disconoscimento del documento e si caratterizza per la peculiarità di vertere su un mero fatto. L'istanza di verificazione può proporsi anche in via principale e con citazione, in un autonomo giudizio, a condizione che l'attore dimostri di avervi interesse; in questo caso se il convenuto riconosce la scrittura, le spese processuali sono poste a carico dell'attore. Il giudizio di verificazione, mirando ad accertare l'autografia della sottoscrizione, deve ricorrere solitamente ad un consulente tecnico calligrafo, che a sua volta necessita delle scritture di comparazione, scritti autografi attribuibili alla persona indicata come autrice della scrittura. Il giudice, dopo aver disposto le cautele opportune per la custodia del documento ed aver fissato il termine per il deposito in cancelleria delle scritture di comparazione, determina quali tra le scritture disponibili debbono essere utilizzate per la comparazione, dando la preferenza a quelle la cui provenienza dalla persona che si afferma autrice della scrittura è riconosciuta oppuòre accertata per sentenza di giudice o per atto puòbblico (art. 217). Il giudice può anche ordinare al preteso autore del documento di scrivere sotto dettatura, anche alla presenza del consulente tecnico: se la parte non


si presenta o rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può intendere per riconosciuta (art. 219). La sentenza che accoglie l'istanza di verificazione può anche condannare ad una modesta pena pecuniaria la parte che aveva ingiustamente negato l'autenticità della scrittura (art. 220). La querela di falso, attribuita alla competenza per materia del tribunale, ha come obiettivo di accertare che il documento è stato totalmente contraffatto, o materialmente alterato, oppuòre, quando investa un atto puòbblico, che non corrispondano al vero i fatti in esso affermati (falso ideologico). Il legislatore consente di proporre querela di falso non soltanto in via incidentale, quando l'efficacia probatoria del documento sia stata già invocata in un processo, ma puòre in via principale, in un giudizio ad hoc. Il giudizio civile di falso richiede l'obbligatoria partecipazione del puòbblico ministero (art. 221). Riguardo alla scrittura privata sorgono due problemi, il primo riguarda l'abuso di biancosegno, ossia il riempimento abusivo di un foglio preventivamente firmato in bianco. Poiché la parte danneggiata non può non riconoscere la propria sottoscrizione, che è autentica, la querela di falso è diretta a dimostrare che il contenuto del documento non è a lei riferibile. La giurisprudenza distingue a seconda che voglia farsi valere la mancanza di una qualsiasi preventiva autorizzazione all'utilizzazione del biancosegno, oppuòre si intenda contestare la corrispondenza delle dichiarazioni a quanto le parti avevano effettivamente pattuito: nella prima ipotesi non potrebbe prescindersi dalla querela di falso; nel secondo caso la querela non sarebbe neppuòre ammissibile e si tratterebbe di fornire la prova delle difformità tra le dichiarazioni contenute nella scrittura e quelle che le parti avevano concordato, ossia la violazione del patto di riempimento. La querela di falso incidentale è proponibile in qualunque stato e grado del giudizio, finché la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato (art. 221), è ammessa anche nei confronti di una scrittura che si abbia per riconosciuta in conseguenza del suo mancato disconoscimento entro il termine dell'art. 215. L'atto con cui si propone la querela, che può essere un atto di citazione o una dichiarazione da unirsi al relativo verbale d'udienza, deve contenere, a pena di nullità, l'indicazione degli elementi e delle prove dell'asserita falsità; la querela deve essere proposta dalla parte personalmente o a mezzo di un suo procuratore speciale, non è sufficiente la procura conferita per il giudizio. Nel solo caso in cui la procura sia proposta in via incidentale, l'art. 222 impone al giudice istruttore una duplice verifica: • deve chiedere alla parte che aveva prodotto il documento se intende ancora valersene, nonostante l'avvenuta proposizione della querela (c.d. interpello); • se la risposta all'interpello è positiva, deve controllare che il documento sia realmente rilevante ai fini della decisione. Solo se ricorrono entrambi i presupposti, il giudice dà il via libera alla presentazione della querela, nella stessa udienza o in una successiva, ed ammette i mezzi istruttorii che ritiene idonei, disponendo modi e termini della loro assunzione. Tramite il deposito in cancelleria, con apposito processo verbale, il documento impuògnato non può essere sottratto o materialmente alterato durante le attività istruttorie che ne accerteranno la genuinità o la falsità (artt. 223 e 224). La pronuncia della sentenza compete sempre al collegio, ma è possibile che sia investito della sola decisione circa la querela, indipendentemente dal merito (rimessione parziale), e che, su istanza di parte, il giudice istruttore possa disporre la continuazione della causa davanti a sé limitatamente alle domande che possono essere eventualmente decise indipendentemente dal documento contestato. Se la querela sia proposta in un giudizio davanti al giudice di pace o alla corte d'appello, non potendosi derogare alla competenza per materia del tribunale, è necessario sospendere il processo principale in attesa della decisione sulla causa concernente la querela di falso. Il giudicato sulla querela ha valore assoluto, efficacia erga omnes, indipendentemente dalla circostanza che abbia ritenuto falso o genuino il documento impuògnato ed anche quando sia stato reso nei confronti di alcuni soltanto dei soggetti legittimati. Le copie dell'atto puòbblico, rilasciate nelle forme prescritte da puòbblici depositari autorizzati, e le copie di scritture private depositate presso puòbblici uffici e spedite da puòbblici depositari autorizzati, hanno la stessa efficacia della scrittura originale da cui sono estratte (art. 2715), a meno che non presentino cancellature abrasioni, intercalazioni o altri difetti esteriori, nel qual caso il giudice può apprezzarne l'efficacia probatoria sulla base del suo prudente apprezzamento (art. 2716). L'art. 2719 dispone che la fotocopia ha la stessa efficacia di una copia autentica quando la sua conformità con l'originale è attestata da puòbblico ufficiale competente o non è espressamente disconosciuta. L'art.


2712 c.c. prende in considerazione le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose, stabilendo che esse costituiscono piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. L'elenco non è tassativo. Nei confronti di questi documenti non è possibile una verificazione analoga a quella della scrittura privata disconosciuta, puòr non essendo escludibili accertamenti di natura tecnica. Il telegramma può essere sottoscritto dal mittente, limitatamente all'originale consegnato all'ufficio postale, e la relativa sottoscrizione potrebbe essere anche autenticata, in questo caso equivale in tutto e per tutto ad una scrittura privata autenticata. L'art. 2705 c.c. attribuisce al telegramma la stessa efficacia probatoria della scrittura privata, anche quando non sia stato sottoscritto dal mittente, ma sia stato consegnato o fatto consegnare dal mittente stesso. In questo modo per non può soddisfare il requisito della forma scritta, laddove questa sia essenziale per la validità dell'atto stesso. L'art. 2706 c.c. prevede una mera presunzione di conformità tra l'originale e la copia pervenuta al destinatario, superabile attraverso prova contraria. Il telefax ha il vantaggio di trasmettere un'immagine completa del documento originarle, compresa la sottoscrizione, quindi la trasmissione di un documento a mezzo fax soddisfa il requisito di forma scritta, escludendo che debba fare seguito la trasmissione dell'originale. Per dimostrare materialmente l'effettiva ricezione della copia del documento da parte del destinatario si ha il rapporto di trasmissione, stampato in via automatica dall'apparecchio del mittente. Quando il destinatario ne contesti la veridicità, tale rapporto farà piena prova della sola circostanza che un documento è stato trasmesso da un certo numero telefonico ad un altro, nella data e ora indicate, senza poter provare quale documento è stato effettivamente trasmesso. La copia esibita dal destinatario dovrebbe avere la stessa efficacia di una copia autentica quando la sua conformità rispetto all'originale teletrasmesso non sia stata espressamente disconosciuta. Il documento informatico è definito dal d.lgs. 82/2005 (codice dell'amministrazione digitale) come la “rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”. Si tratta di un documento che nasce come versione codificata, espressa in forma digitale, di un documento convenzionale ed è sempre decodificabile nel documento di partenza, l'unico che possa essere di fatto utilizzato sia sul piano sostanziale che probatorio. Per firma elettronica qualificata si intende quella ottenuta attraverso una procedura informatica che garantisce la connessione univoca al firmatario e la sua univoca autenticazione informatica, creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce in modo da consentire di rilevare se i dati stessi siano stati successivamente modificati. Viene creata con un dispositivo sicuro (smart card) e sulla base di un determinato certificato elettronico qualificato che potrà consentire di collegare in modo univoco il documento al titolare e di confermare l'identità informatica di questo. La firma digitale è un particolare tipo di firma elettronica qualificata basata su un sistema di chiavi crittografiche, una puòbblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e la destinatario tramite la chiave puòbblica, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l'integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici. Sul piano sostanziale, il documento informatico soddisfa il requisito legale della forma scritta quando sia sottoscritto con firma elettronica qualificata o digitale e sia formato nel rispetto delle regole tecniche che garantiscano l'identificabilità dell'autore, l'integrità e immodificabilità del documento. Fuori da tali presupposti, l'idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta resta liberamente valutabile in giudizio. Sul piano probatorio il giudice può liberamente valutare anche il documento informatico sottoscritto con firma elettronica non qualificata, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità. Gli arti. 2709 e 2710 c.c. considerano l'efficacia probatoria dei libri e delle scritture contabili delle imprese, distinguendo a seconda che debbano utilizzarsi contro l'imprenditore da cui provengono o a suo favore. Se sono contro l'imprenditore, è sufficiente che si tratti di libri o scritture contabili di imprese soggette a registrazione e che dal loro contenuto sia possibile dedurre fatti contrari all'interesse della parte che ne è autrice, col solo limite che chi invoca a proprio vantaggio tali scritture non può scinderne il contenuto ma deve accettarlo per quello che complessivamente possono dimostrare. Se sono a


favore si fa riferimento ai soli libri bollati e vidimati nelle forme di legge che siano regolarmente tenuti, inoltre l'efficacia pro se vale solo tra imprenditori e per i rapporti inerenti l'esercizio dell'impresa. Sono prove soggette al prudente apprezzamento del giudice. IL GIURAMENTO Il giuramento è il mezzo istruttorio in cui una delle parti è chiamata ad affermare in forma grave e solenne la verità di fatti a sé sfavorevoli, che in tal modo si hanno per definitivamente accertati nel processo, senza alcuna possibilità di prova contraria. L'art. 2736 c.c. distingue due tipi di giuramento: quello decisorio, che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa; e quello suppletorio, che è deferito d'ufficio ad una qualunque delle parti, al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova, oppuòre per stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertare altrimenti (giuramento di estimazione). Il giuramento è decisorio perché deve vertere su fatti decisivi, idonei a portare all'immediata definizione, totale o parziale, della causa; costituisce una prova legale, che prevale sempre e comunque su tutte le altre prove, sia nell'ipotesi in cui venga prestato che nel caso in cui la parte si rifiuti di renderlo. Attraverso il deferimento del giuramento ciascuna parte ha la possibilità di sfidare l'altra ad affermare la verità di fatti ad essa favorevoli, ponendola di fronte all'alternativa tra rendere la dichiarazione giurata, ottenendo che la verità dei fatti resti definitivamente accertata in suo favore, senza possibilità di prova contraria, oppuòre rifiutarsi di giurare, rimanendo soccombente rispetto alla domanda o al puònto relativamente al quale il giuramento era stato ammesso (art. 239). Si impone alla parte alla quale è stato deferito il giuramento il divieto di mentire. Questa, quando i fatti siano comuni all'altra parte, può sottrarsi al tale alternativa solo attraverso il “riferimento” del giuramento, chiedendo che a giurare sia proprio la parte che glielo aveva deferito. La capacità richiesta alla parte per deferire o riferire il giuramento è il poter disporre del diritto controverso, il che esclude la legittimazione del sostituto processuale. Il deferimento può avere come destinatario anche la persona fisica cui compete la rappresentanza di una persona giuridica o di una società che sia parte del processo. Il giuramento deve essere de veritate, quando riguardi un fatto proprio della parte a cui si deferisce, oppuòre de scentia, quando verte sulla conoscenza che essa ha di un fatto altrui. L'art. 2739 c.c. esclude la possibilità di avvalersi di tale mezzo di prova: • nelle cause relative a diritti di cui le parti non possono disporre; • quando il giuramento dovrebbe vertere sopra un fatto illecito; • quando sia diretto a provare l'esistenza di un contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta, che evidentemente sarebbe nullo se non fosse stato consacrato in un documento; tale limitazione non si applica quando la forma sia richiesta solo ad probationem; • quando il giuramento mirerebbe a negare un fatto che da un atto puòbblico risulti avvenuto alla presenza del puòbblico ufficiale che ha formato l'atto stesso. Il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, fino alla precisazione delle conclusioni, e, in deroga al divieto di nuovi mezzi di prova, in appello e nel giudizio di rinvio. può riguardare fatti già accertati attraverso altre prove anteriormente assunte, tenuto conto che prevale su ogni altra prova. Il deferimento (ed il riferimento) deve essere compiuto personalmente dalla parte, con atto scritto da essa sottoscritto o con dichiarazione resa all'udienza, oppuòre dal difensore munito di procura ad hoc con dichiarazione in udienza (art. 233). Al momento del deferimento il giuramento deve essere formulato in articoli separati, in modo chiaro e specifico. In caso di riferimento, tale formula verrà invertita, al fine di riprodurre la tesi difensiva della parte che aveva originariamente deferito il giuramento e che viene in tal modo chiamata essa stessa a giurare. Sia il deferimento che il riferimento sono di regola revocabili solo fino a quando l'avversario non si sia dichiarato pronto a prestare giuramento (o abbia a sua volta riferito); se per il giudice, nell'ammettere la prova, abbia modificato la formula indicata dalla parte, essi potranno essere revocati anche dopo tale momento, fino all'effettiva prestazione. Quando sorgano contestazioni circa l'ammissibilità del giuramento, la risoluzione spetta al collegio (art. 273), se si tratti di causa per la quale è prevista la decisione collegiale. L'ordinanza ammissiva del giuramento deve essere sempre notificata direttamente alla parte (non al procuratore costituito), anche quando sia contumace (art. 237). Il giuramento deve essere prestato personalmente davanti al giudice istruttore, che previamente ammonisce la parte sull'importanza morale dell'atto e circa le conseguenze penali delle dichiarazioni false. Se la parte


delata non si presenta, senza giustificato motivo, all'udienza fissata per l'assunzione del mezzo istruttorio, o rifiuti di prestare giuramento o ne modifichi arbitrariamente e sostanzialmente la formula, tale parte rimane soccombente rispetto alla domanda o al puònto relativamente al quale il giuramento è ammesso, a meno che il giudice, repuòtando giustificata la sua mancata comparizione, provveda a fissare una nuova udienza o disponga per l'assunzione del giuramento fuori dalla sede giudiziaria. Il giuramento suppletorio è deferibile esclusivamente dal giudice, sul presupposto che una domanda o un'eccezione non sia pienamente provata ma neanche del tutto sfornita di prova. Non è utilizzabile prima dell'esaurimento dei mezzi istruttorii richiesti dalle parti. Il giudice gode di ampia discrezionalità sia nell'accertamento dei relativi presupposti, che nella scelta della parte cui deferirlo (che non può riferirlo). È escluso che il deferimento del giuramento, una volta prestato, possa essere revocato con una valutazione discrezionale. L'unica eccezione è che il relativo provvedimento di ammissione sia revocato sia dal giudice che l'aveva reso sia dal giudice d'appello, quando questi, sulla base di una nuova e diversa valutazione del materiale istruttorio già raccolto, si convinca che non ne sussistevano i presupposti, perché mancava qualunque prova o all'opposto la parte aveva già assolto completamente il relativo onere probatorio. La particolarità del giuramento d'estimazione, deferibile d'ufficio, consiste nell'impossibilità di accertare in altro modo il valore della cosa domandata (art. 241). Per aversi tale giuramento è necessario che sia stata previamente raggiunta la certezza in ordine all'an debeatur e che rimanga da stabilire solamente il valore, non altrimenti determinabile, della cosa domandata. Il deferimento del giuramento è del tutto discrezionale per il giudice, che è per tenuto a determinare previamente la somma fino a concorrenza della quale il giuramento avrà efficacia. Se ne deduce che il legislatore ha riservato il giuramento estimatorio al solo creditore. La mancata prestazione del giuramento, deferito o riferito, decisorio o suppletorio, determina l'accertamento del fatto in senso sfavorevole al delato, la sua prestazione vincola il giudice a ritenere il fatto incontrovertibilmente accertato in senso favorevole al giurante, senza che l'altra parte abbia più alcuna possibilità di provare il contrario, e neppuòre di chiedere la revocazione della sentenza quando venga successivamente accertata, in sede penale, la falsità del giuramento. L'unica eccezione, all'art. 2738 c.c., si ha quando in caso di litisconsorzio necessario, il giuramento prestato da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzabile dal giudice. Nel litisconsorzio necessario la dichiarazione giurata resa solo da alcuni dei litisconsorti varrà sempre come prova libera nei confronti di tutti e non potrà mai condurre ad accertamenti di fatto difformi rispetto a taluno di essi. In caso di litisconsorzio facoltativo, l'efficacia di prova legale opera solo a favore o contro il litisconsorte che ha prestato o ricusato il giuramento. Alla parte danneggiata da un giuramento falso viene accordata una tutela meramente risarcitoria, che presuppone sia la sussistenza del reato, compreso l'elemento soggettivo, sia che sia stata conseguentemente pronunciata una condanna penale per falso giuramento. L'unica ipotesi in cui si prescinde dalla condanna penale, potendo il giudice civile accertare l'esistenza del reato al solo fine del risarcimento, ricorre quando la condanna penale non possa essere pronunciata per estinzione del reato. LA PROVA TESTIMONIALE La prova per testimoni consente al giudice di conoscere un determinato fatto attraverso la narrazione di un terzo che a sua volta l'abbia percepito direttamente o l'abbia appreso da altri (testimonianza de relato). Tale narrazione deve essere resa all'interno del processo, in forma orale, attraverso un esame diretto del teste, che mira essenzialmente a verificare, nel contraddittorio delle parti, l'attendibilità delle sue dichiarazioni. Il teste deve solennemente impegnarsi a dire la verità ed incorre in sanzioni penali in caso di testimonianza falsa o reticente. L'apprezzamento del giudice di tale prova deve essere prudente. L'art. 249 rinvia alle disposizioni del c.p.p., concernenti il segreto professionale, d'ufficio o di Stato, come ipotesi obbligatorie di astensione dal deporre. Gli artt. 246- 248 prevedono limitazioni soggettive per la prova testimoniale: • l'incapacità di testimoniare per coloro che abbiano un interesse nella causa che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio; • il divieto di testimoniare per il coniuge, i parenti e gli affini in linea retta, ammessi a testimoniare nelle sole cause vertenti su questioni di stato, di separazione personale o relative a rapporti di famiglia (limite venuto meno per intervento Corte costituzionale); • il divieto di testimoniare per i minori di quattordici anni, che potrebbero essere sentiti solamente quando la loro audizione è resa necessaria da particolari circostanze (limite


venuto meno per intervento Corte costituzionale). Le limitazioni oggettive della prova testimoniale fanno riferimento ai fatti sui quali la testimonianza è esclusa o è ammessa solo a certe condizioni. Tali limitazioni riguardano in particolare la prova per testi dei contratti: • ipotesi in cui, attraverso la testimonianza, dovrebbe provarsi l'esistenza di un contratto per la cui validità è richiesta la forma scritta: l'atto scritto è richiesto ad substantiam, per la validità stessa del rapporto, e l'unica eccezione all'esclusione della prova testimoniale è prevista per il caso in cui miri a dimostrare che il contratto è stato effettivamente stipuòlato per iscritto e che il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova (art. 2724 co 3°). Limite analogo quando l'atto scritto sia richiesto ad probationem; • gli art. 2722 e 2723 c.c. limitano la testimonianza che abbia ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, in particolare quando si assuma che la stipuòlazione di tali patti è stata anteriore o contemporanea rispetto alla formazione del documento, la prova testimoniale è esclusa. Quando invece si alleghi che i patti aggiunti o contrari siano stati stipuòlati dopo la formazione del documento, il giudice ha il potere di ammettere la prova per testi solamente se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali; • l'art. 2721 c.c. prevede che la prova per testi non è ammessa quando il valore dell'oggetto sia superiore a 2,58 euro, e al co 2° consente al giudice di ammettere la testimonianza al di là del limite, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. In base all'art. 2724 c.c., la prova testimoniale è sempre ammessa, in deroga ai limiti visti, quando: • sussista un principio di prova scritta, qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o il suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato; • il contraente sia stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; • la parte abbia perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova. La prova testimoniale ricade nella disponibilità delle parti e deve essere richiesta attraverso l'indicazione specifica dei testi, nonché dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuno di essi sarà interrogato (art. 244). Il giudice può disporre d'ufficio, formulandone egli stesso i capitoli, la testimonianza di persone alle quali le parti si sono riferite nell'esposizione dei fatti e che appaiono in grado di conoscere la verità (art. 281-bis). La preventiva formulazione dei capitoli di prova serve essenzialmente a valutare l'ammissibilità e la rilevanza della prova stessa. Con l'ordinanza di ammissione il giudice può eliminare dalla lista dei tesi, oltre a quelli incapaci di testimoniare a norma dell'art. 246, anche quelli che repuòti semplicemente sovrabbondanti. La parte che aveva indicato i testi può invece rinunciare alla loro audizione solo a condizione che alla rinuncia aderiscano le altre parti ed acconsenta il giudice. Una volta che la prova sia stata ammessa, la parte interessata ha l'onere di provvedere alla citazione dei testi, deve chiedere all'ufficiale giudiziario che provveda ad intimare ai testi (con atto scritto che viene loro notificato), almeno sette giorni prima dell'udienza fissata, di comparire in detta udienza, indicando luogo, giorno e ora fissati, nonché il giudice che dovrà assumere la testimonianza e la causa cui essa si riferisce. La riforma del 2005 ha consentito, limitatamente ai testimoni ammessi su richiesta di parti private, che a tale adempimento provveda direttamente il difensore, senza avvalersi dell'ufficiale giudiziario, tramite l'invio di una copia dell'intimazione mediante raccomandata con avviso di ricevimento, fax o posta elettronica. Quando la parte onerata non provveda all'intimazione, decade dalla prova (salvo sussista giusto motivo per l'omessa citazione) e la decadenza è dichiarabile d'ufficio. L'altra parte può per evitarla dichiarando di essere interessata all'audizione del testimone. Il testimone ha l'obbligo di comparire. Le deroghe riguardano esclusivamente le ipotesi in cui si trovi nell'impossibilità di presentarsi o ne sia esentato dalla legge o da convenzioni internazionali, in questo caso è previsto che il giudice si rechi ad assumere la deposizione presso l'abitazione o l'ufficio del teste, oppuòre deleghi a procedervi il giudice del luogo. Fuori dalle deroghe, se il teste regolarmente citato non si presenta, il giudice può ordinare una nuova intimazione oppuòre l'accompagnamento coattivo alla stessa udienza o ad altra successiva, e può condannare il teste ad una pena pecuniaria compresa tra 100 e 1000 euro. Se, nonostante tale sanzione, il teste omette nuovamente di comparire senza giustificato motivo, il giudice ne dispone l'accompagnamento coattivo e lo condanna al pagamento di un'ulteriore pena pecuniaria compresa tra 200 e 1000 euro. I testimoni devono essere esaminati


separatamente. Prima di interrogare il teste, il giudice istruttore deve avvertirlo circa l'obbligo di dire la verità e le conseguenze penali previste per la testimonianza falsa o reticente, e deve invitarlo a rendere una precisa dichiarazione di impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua conoscenza (art. 251). Il giudice chiede al teste nome e cognome, luogo e data di nascita, età e professione, invitandolo a dichiarare se ha rapporti di parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con alcuna delle parti, o se ha interesse nella causa; le parti possono fare osservazioni sull'attendibilità del testimone, il quale è tenuto a fornire in proposito i chiarimenti necessari, di cui si fa menzione nel processo verbale prima di dar corso all'audizione del teste (art. 252). L'art. 253 regola la deposizione: il giudice esclusivamente ha il potere di interrogare il teste sui fatti per i quali era stata ammessa la prova nonché di rivolgergli, di propria iniziativa o su istanza di parte, tutte le domande che ritenga utili a chiarire i fatti stessi. Le parti ed il puòbblico ministero non possono interrogare direttamente i testimoni. Il teste non può servirsi, per le proprie risposte, di scritti preparati, salvo che sia stato autorizzato dal giudice a valersi di note o appuònti. Il giudice può disporre, anche d'ufficio, il confronto tra più testimoni, quando nelle rispettive deposizioni siano emerse divergenze (art. 254); ordinare d'ufficio che siano chiamate a deporre le persone cui alcuno dei testimoni abbia fatto riferimento per la conoscenza dei fatti (art. 257); decidere di sentire i testi ritenuti in un primo momento sovrabbondanti o dei quali aveva consentito la rinuncia; disporre la rinnovazione dell'esame di testi già escussi, al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere eventuali irregolarità nel precedente esame. La riforma del 2009 ha introdotto l'art. 257-bis relativa alla testimonianza scritta, cioè alla possibilità di assumere la deposizione del testimone per iscritto e al di fuori dell'udienza, attraverso la compilazione di un apposito modello, anziché mediante l'interrogatorio ad opera del giudice e nel contraddittorio delle parti. Tale possibilità è subordinata all'accordo delle stesse parti costituite, e rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, che tenga conto della natura della causa e di ogni altra circostanza. Il giudice nell'ammettere la testimonianza scritta deve fissare il termine entro cui il testimone è tenuto a rispondere ai quesiti, ordinando alla parte che ne aveva richiesto l'assunzione di predisporre il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi, e di notificarlo al testimone. Il giudice deve fissare anche il termine per la notifica del modulo al teste, la cui inosservanza determinerebbe la decadenza della parte dalla prova. Quando la testimonianza abbia ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, sicché si tratta solo di far confermare dal testimone quanto già risulti dai predetti documenti, si può prescindere dalla compilazione del modulo e la disposizione può rendersi mediante dichiarazione scritta e sottoscritta, trasmessa direttamente al difensore della parte, nel cui interesse è stata ammessa la prova testimoniale. Rimane necessario comunque l'accordo delle parti. Il giudice, dopo aver esaminato le risposte o le dichiarazioni scritte del teste, tenendo conto degli eventuali rilievi delle parti, può optare per il suo interrogatorio diretto in udienza, disponendo che sia chiamato a deporre davanti a lui ovvero davanti al giudice delegato del luogo. LE PRESUNZIONE E LE C.D. PROVE ATIPICHE L'art. 2727 ss c.c. definisce le presunzioni come le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, e data la collocazione, se ne deduce che apparterrebbero al novero dei mezzi di prova. Tale classificazione è impropria in relazione alle presunzioni legali, che servono solo a ripartire l'onere della prova tra le parti in modo razionale. L'art. 2728 c.c. precisa che l'effetto delle presunzioni è dispensare da qualunque prova coloro in favore dei quali sono stabilite, sarà l'altra parte a dover provare il contrario, ossia l'inesistenza del fatto oggetto della presunzione legale (si discorre a riguardo di presunzioni legali relative perché ammettono prova contraria). Le presunzioni legali assolute escludono invece la possibilità di qualunque prova contraria, ma sono estranee al tema della prova, essendo una tecnica che il legislatore utilizza per meglio definir una fattispecie sul piano sostanziale. Le presunzioni semplici, quelle cioè lasciate alla prudenza del giudice (art. 2729 c.c.), più che un vero e proprio mezzo di prova, no un modo di ragionare, un procedimento logico che potrebbe definirsi induttivo, al quale il giudice è costretto a ricorrere frequentemente nella formazione del proprio convincimento circa i fatti rilevanti per la decisione e nella valutazione stessa delle prove. Il giudice, partendo da un fatto noto, risale al fatto ignoto da provare tramite l'applicazione delle massime d'esperienza, le quali indicano l'insieme delle regole e dei principi offerti dalla logica


nonché dalle scienze naturali e sociali, o semplicemente desumibili dall'osservazione empirica dei comportamenti umani; regole che il giudice ricerca autonomamente e che devono avere valenza oggettiva, essendo generalmente riconosciute o percepibili e condivisibili dall'uomo di media cultura. La presunzione si riferisce alle ipotesi in cui l'applicazione della massima d'esperienza consente solamente di formulare un giudizio di probabilità circa l'esistenza del fatto da provare. Il giudice deve ammettere solo presunzioni gravi, precise e concordanti, quindi il convincimento del giudice deve sempre rispondere a criteri razionali e deve far ricorso solo a massime d'esperienza in grado di fornire risultati altamente attendibili. È escluso l'uso delle presunzioni quando debba provarsi un fatto per cui non sarebbe ammessa la prova per testimoni. Le prove atipiche non sono comprese nel catalogo risultante dal codice civile e dal codice di procedura civile. Possono anche corrispondere a prove che puòr trovandosi nei codici, siano state assunte con modalità diverse da quelle prescritte dalla legge. Le più frequenti sono la dichiarazione di scienza contenuta in uno scritto proveniente da un terzo; la perizia stragiudiziale; le prove raccolte o i fatti accertati dalla sentenza pronunciata in un diverso processo; le nuove prove create dal progresso delle scienze e della tecnologia quando non siano assimilabili alle prove tipiche. In dottrina prevale l'idea che la possibilità di far ricorso a mezzi di prova diversi da quelli tipici sia confermata, in via generale e indiretta, dall'art. 2729 c.c., da cui può desumersi la atipicità degli indizi utilizzabili per risalire da un fatto noto a un fatto ignoto. In base a tale premessa, l'utilizzazione della prova atipica incontra delle limitazioni: • non sembra ammissibile che, invocando a sproposito il principio del libero convincimento del giudice, trovino ingresso nel processo prove che altrimenti risulterebbero in concreto sostitutive di quelle disciplinate dalla legge; • non è pensabile che il giudice fondi il proprio convincimento (valutandola come prova atipica) su una prova tipica che sia stata assunta irritualmente, ossia in violazione delle disposizioni ad essa relative; • deve sempre essere assicurato il rispetto del principio del contraddittorio, tanto nella fase di formazione della prova quanto nel momento della sua valutazione. Questo dovrebbe far dubitare dell'utilizzabilità delle prove costituende raccolte in altri processi riguardanti parti diverse. Le prove atipiche hanno un valore essenzialmente indiziario. Le prove illecite sono quelle assunte o acquisite al processo con modalità diverse da quelle prescritte, o in violazione dei limiti indicati dal legislatore, e le prove di cui la parte sia entrata in possesso contra legem. 8. LA CONCLUSIONE DEL PROCESSO CON DECISIONE LA FASE DECISORIA Di regola, il tribunale giudica quale organo monocratico, nella persona del giudice istruttore. Vi sono per materie in cui il tribunale decide in composizione collegiale, contemplate all'art. 50- bis: • cause nelle quali è obbligatorio l'intervento del puòbblico ministero (art. 70), salvo sia altrimenti disposto; • cause in materia di procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare e dalle leggi speciali circa la liquidazione coatta amministrativa, limitatamente alle ipotesi di opposizione, impuògnazione e revocazione previste, nonché alle cause conseguenti a dichiarazioni tardive di crediti e a quelle di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo; • cause devolute alle sezioni specializzate; • cause di impuògnazione delle deliberazioni dell'assemblea e del consiglio d'amministrazione, cause di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e i liquidatori delle società, delle mutue assicuratrici e società cooperative, delle associazioni in partecipazione e dei consorzi; • cause d'impuògnazione di testamenti e di riduzione per lesione di legittima; • cause relative la responsabilità civile dei magistrati; • cause aventi ad oggetto azioni risarcitorie o restitutorie di classe promosse a tutela di consumatori o utenti; • procedimenti in camera di consiglio, disciplinati dagli artt. 737 ss, salvo sia altrimenti disposto. In caso di connessione tra cause che dovrebbero essere decise dal tribunale in composizione monocratica e cause attribuite al collegio, l'art. 281-nonies stabilisce che il giudice istruttore deve disporre la riunione di più cause e, al termine dell'istruttoria, deve rimetterle tutte insieme al collegio, che le deciderà congiuntamente, salvo che non ritenga di disporne la separazione ai sensi dell'art. 279 co 2°, decidendone solo alcune e rimettendo le altre al giudice istruttore. Perché sia possibile la connessione deve essere qualificata, tale da poter implicare deroghe alla competenza e/o al rito di taluna delle cause, non la connessione meramente soggettiva o impropria. Il collegio viene investito della causa quando: • la causa appaia


matura per la decisione senza bisogno di assunzione di mezzi di prova (art. 187 co 1°), ad esempio quando la causa verta esclusivamente su questioni giuridiche; • il giudice abbia esaurito o dichiarato chiusa l'assunzione dei mezzi di prova ammessi; • sorga una questione attinente alla giurisdizione o alla competenza o ad altra pregiudiziale di rito, oppuòre una questione di merito avente carattere preliminare ed egualmente idonea a definire il giudizio; il giudice istruttore può scegliere se investire immediatamente della questione il collegio oppuòre completare l'istruttoria è far decidere la questione stessa alla fine, unitamente al merito. La rimessione è totale, il collegio viene investito di tutta la causa (art. 189 co 2°), cosi che, puòr quando la rimessione fosse stata occasionata dal sorgere di una questione preliminare o pregiudiziale, il collegio potrebbe pronunciare sul merito della causa, qualora repuòtasse matura per la decisione senza bisogno di assumere delle prove. Quando il giudice istruttore decida di rimettere la causa al collegio, deve invitare le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi. La prassi riserva a tale incombenza un'udienza ad hoc, la c.d. udienza di precisazione delle conclusioni. La precisazione delle conclusioni ha una duplice utilità: fare il puònto circa le eventuali modificazioni apportate alle conclusioni iniziali in sede di trattazione della causa, e procedere a qualche ulteriore aggiustamento, sia in senso riduttivo sia nel senso della precisazione di domande ed eccezioni anteriormente proposte. In concreto per si risolve in una mera formalità, le parti si limitano a richiamare genericamente tutte le conclusioni prospettate nei propri anteriori scritti difensivi. Dopo la precisazione delle conclusioni, la causa passa effettivamente al collegio, al quale non resta, di regola, che deciderla. Le parti devono scambiarsi le comparse conclusionali (scritti in cui si sviluppano, alla luce dei risultati dell'eventuale istruttoria, le tesi difensive della parte) e le memorie di replica (scritti che contraddicano le comparse conclusionali, senza poter ampliare i tema controverso). L'art. 190 prevede che le comparse conclusionali debbano essere depositate in cancelleria entro il termine perentorio di 60 giorni dalla rimessione della causa al collegio, e le memorie di replica nei 20 giorni successivi; salva la possibilità per il giudice istruttore di abbreviare fino ad un minimo di venti giorni il solo termine per il deposito delle conclusionali. La scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica rappresenta il momento in cui la causa entra nella fase decisoria vera e propria, da tale data prende a decorrere il termine di 60 giorni entro cui la sentenza collegiale dovrebbe essere depositata in cancelleria (art. 275). Fino alla riforma del '90 il giudice istruttore, nel rimettere la causa al collegio, fissava in ogni caso un'udienza davanti al collegio stesso, destinata alla discussione della causa, che precedeva l'inizio della fase decisoria. Oggi tale udienza viene fissata solo se una delle parti ne fa espressa istanza. L'art. 275 co 2° stabilisce che ciascuna delle parti, al momento della precisazione delle conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente davanti al collegio; tale richiesta deve essere riproposta al presidente del tribunale alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Il presidente provvede con decreto, di cui non è necessaria alcuna comunicazione alle parti, fissando la data dell'udienza di discussione entro 60 giorni. A tale udienza il giudice istruttore tiene la relazione orale della causa agli altri componenti del collegio; dopo di che il presidente ammette le altre parti alla discussione orale. Al termine la causa passa nella fase decisoria e la sentenza deve essere depositata in cancelleria entro i 60 giorni successivi. Oltre alle ipotesi di rimessione totale esistono altre di rimessione parziale, in cui il collegio non viene investito di tutta la causa, ma soltanto della decisione di alcune questioni particolari: • delle questioni concernenti l'ammissione al giuramento decisorio; • delle questioni relative all'ammissibilità dell'intervento, volontario o coatto, che di regola sono decide insieme col merito, salvo che il giudice istruttore disponga a norma dell'art. 187 co 2°; • della decisione sulla querela di falso; • della decisione sull'istanza di verificazione proposta in via incidentale. In questi casi, le parti non sono tenute a proporre le proprie conclusioni di merito né a scambiarsi comparse conclusionali e memorie di replica, e il collegio non potrebbe decidere la causa, o questioni diverse da quella che ha dato luogo alla rimessione. La deliberazione della sentenza avviene in segreto nella camera di consiglio e si conclude con la redazione e la sottoscrizione del solo dispositivo da parte del presidente del collegio. L'art. 101 co 2°, introdotto dalla riforma del 2009, a garanzia dell'effettività del contraddittorio, prevede che il giudice, quando


ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, debba a pena di nullità, nel riservarsi la decisione, assegnare alle parti un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione del provvedimento, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla questione stessa. Il provvedimento che pone fine al processo riveste, di regola, la forma della sentenza. In base all'art. 279 co 2° nn. da 1 a 3, la pronuncia con sentenza è prescritta: • quando viene deciso totalmente il merito, cioè quando vengono accolte o rigettate l'unica domanda oppuòre tutte le domande cumulate nel processo; • quando viene definito il giudizio in seguito alla decisione di una questione di giurisdizione oppuòre di un'altra questione pregiudiziale attinente al processo diversa dalla competenza. In questi casi la sentenza è definitiva perché conclude il processo davanti al giudice adito. La pronuncia con sentenza non definitiva ricorre invece, ai sensi dell'art. 279 co 2° n 4: • quando il collegio si limita a decidere, dichiarandola infondata, una questione pregiudiziale di rito (diversa dalla competenza) oppuòre una questione preliminare di merito; nei quali casi il processo dovrà proseguire per accertare se la domanda sia o no fondata nel merito; • quando il collegio decide parzialmente il merito, accogliendo o rigettando alcune soltanto delle più domande cumulate nel processo. In entrambi i casi la pronuncia della sentenza non definitiva si accompagna inevitabilmente alla pronuncia di distinti provvedimenti, resi con ordinanza, con i quali lo stesso collegio impartisce disposizioni circa l'ulteriore istruzione della causa, che deve tornare necessariamente davanti al giudice istruttore. La pronuncia della sentenza è prescritta, ai sensi dell'art. 279 co 2° n 5, quando il collegio decida alcune soltanto delle cause fino a quel momento riunite e con distinti provvedimenti disponga la separazione e la prosecuzione dell'istruzione per le altre. Si ha una decisione parziale del merito, ma il cumulo di cause viene definitivamente scisso in conseguenza di un'ordinanza di separazione. La decisione con ordinanza è prevista quando il collegio provvede soltanto su questioni relative all'istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide esclusivamente sulla competenza. Il giudice, in alcune situazioni, può dichiarare cessata la materia del contendere, dando atto che la controversia tra le parti è stata sostanzialmente composta, e pronunciare sulle spese in base al criterio della soccombenza meramente virtuale o potenziale, valutando quello che sarebbe stato l'esito del giudizio senza il sopravvenire di quel determinato fatto. Dopo la deliberazione si ha la stesura della motivazione, che consiste nell'esposizione concisa dei fatti rilevanti della causa e delle regioni giuridiche della decisione, eventualmente avvalendosi del riferimento a precedenti conformi (art. 118 disp. att.). Nel caso si tratti di un organo collegiale, la stesura delle motivazioni viene affidata, di regola, allo stesso relatore (cioè al giudice istruttore), a meno che il presidente non ritenga di stenderla egli stesso o affidarla ad altro giudice; questo diventa necessario quando il relatore abbia espresso voto contrario rispetto alla decisione. Una volta approntata la minuta della sentenza, l'estensore la consegna al presidente che, se lo ritenga opportuno, ne dà lettura all'interno del collegio. Successivamente il presidente sottoscrive la minuta insieme con l'estensore e la consegna al cancelliere, che ha la responsabilità di provvedere a far redigere il testo originale della sentenza, provvisto di tutti gli elementi di forma-contenuto richiesti dall'art. 132. Quando l'originale è pronto, il presidente e l'estensore, dopo averne verificato la corrispondenza rispetto alla minuta, vi appongono la propria firma, facendo risultare l'identità del giudice che ha steso la motivazione. Il deposito in cancelleria della sentenza serve a rendere puòbblica la decisione e a conferirle esistenza giuridica, rendendola non più modificabile, se non attraverso gli appositi rimedi previsti dalla legge. Il cancelliere deve dare atto del deposito in calce alla sentenza, apponendovi data e firma (art. 133). Nelle cause attribuite al tribunale in composizione monocratica la pronuncia della sentenza spetta allo stesso giudice monocratico. L'art. 281-quinques prevede la precisazione delle conclusioni e lo scambio di scritti conclusivi, ma il termine concesso al giudice per depositare la sentenza in cancelleria è di 30 giorni, anziché sessanta, decorrenti dalla scadenza del termine per le memorie di replica. L'udienza di discussione viene fissata solamente se una delle parti lo chiede espressamente al momento della precisazione delle conclusioni. L'art. 281-sexies prevede che il giudice, fatte precisare alle parti le conclusioni, possa ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza oppuòre, se taluna delle parti glielo chiede, in un'udienza successiva, senza assegnare i termini per lo scambio delle conclusionali e delle repliche. La decisione viene inserita nel verbale


d'udienza, senza che siano richiesti gli elementi all'art. 132, e si intende puòbblicata con la mera sottoscrizione, da parte del giudice, del verbale stesso. È escluso che possa sorgere un vero e proprio conflitto tra giudice istruttore e collegio circa la composizione dell'organo giudicante. A norma dell'art. 281-septies, se il giudice istruttore ritiene si tratti di una causa che spetta a lui decidere, le parti non hanno alcun modo per investire della questione il collegio; all'opposto, se l'istruttore rimette la causa al collegio e questo ritiene non sussistano le ipotesi dell'art. 50-bis, il collegio restituisce la causa con ordinanza non impuògnabile, al giudice istruttore, il quale non può più esimersi dall'avviare la fase decisoria davanti a sé. può succedere che il giudice istruttore, dopo aver già riservato la causa per la decisione davanti a sé, sia accorga che a decidere deve essere il collegio: in questo caso dovrà riavviare ex novo la fase decisoria, invitando le parti a precisare le proprie conclusioni e assegnandogli nuovi termini per il deposito degli scritti conclusivi (art. 281octies). Le questioni sulla composizione del tribunale non sono assimilabili a quelle di competenza, perché non coinvolgono rapporti fra diversi uffici giudiziari, ma la costituzione dell'organo giudicante, che, secondo l'art. 50-quater, non si considerano attinenti alla costituzione del giudice. L'EFFICACIA E L'ESECUTIVITA' DELLE SENTENZE In base all'art. 2909 c.c. l'accertamento cui tende il processo di cognizione, e quindi l'idoneità della sentenza a fare stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, si consegue esclusivamente col passaggio in giudicato della sentenza stessa, cioè quando questa, non essendo più soggetta alle impuògnazioni ordinarie, diviene relativamente incontrovertibile, potendo essere rimossa solo in seguito al vittorioso esperimento di un'impuògnazione straordinaria. La riforma del 1990 ha reso anche la sentenza di primo grado, e non più solo quella d'appello, provvisoriamente esecutiva per legge, titolo esecutivo fin dal giorno della sua puòbblicazione. L'art. 337 co 1° “L'esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell'impuògnazione di essa, salvo le disposizioni degli articoli 283, 373, 401 e 407”. L'art. 282, con specifico riferimento alla sentenza di primo grado, dispone che essa è provvisoriamente esecutiva tra le parti. Lo stesso principio si trova affermato dall'art. 431 per il rito del lavoro e 447-bis per le controversie in materia di locazione, comodato di immobili urbani o affitto di azienda. L'efficacia esecutiva della sentenza si produce sempre ipso iure e può essere congelata soltanto, in presenza di determinate condizioni, attraverso un esplicito e successivo provvedimento del giudice, l'inibitoria, che presuppone in ogni caso che la sentenza sia già stata impuògnata. L'art. 283 prevede che il giudice d'appello, su istanza della parte impuògnante, possa sospendere in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impuògnata, con o senza cauzione, quando sussistono gravi e fondati motivi, da valutarsi anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti. L'inibitoria può essere parziale, quando l'oggetto della condanna sia in qualche modo frazionabile o comprenda una pluralità di statuizioni. In relazione ai gravi e fondati motivi, si ritiene che riguardino, indifferentemente, tanto il merito dell'impuògnazione, cioè l'esistenza di vizi o nullità della sentenza appellata che facciano apparire la sentenza manifestamente ingiusta, quanto il danno che l'esecuzione potrebbe arrecare al soggetto che la subisce, soprattutto quando essa produrrebbe una modificazione in tutto o in parte irreversibile oppuòre quando le condizioni economiche del creditore facciano temere una sua successiva insolvenza nel caso in cui la sentenza di condanna dovesse essere riformata dal giudice di secondo grado. Per la sospensione dell'efficacia esecutiva di sentenze che non siano di primo grado, la norma di riferimento è l'art. 373 per il ricorso per cassazione, applicabile, in virtù dei richiami agli artt. 401 e 407, alla revocazione e all'opposizione di terzo. In questi casi, l'inibitoria può consistere nella sola sospensione della esecuzione. La sentenza, quale che sia la sua natura, non può fare stato né può essere invocata in un diverso giudizio prima che sia passata in giudicato. Questo non esclude che, all'interno del processo in cui è stata pronunciata, sia di per sé idonea, sebbene non ancora passata in giudicato, a fondare ulteriori provvedimenti che trovino la propria ragion d'essere nel rapporto oggetto del mero accertamento oppuòre nella modificazione sostanziale recata dalla sentenza costitutiva. Per ragioni di economia processuale, la figura della sentenza condizionale (accertamento condizionato al verificarsi di un evento futuro ed incerto) ha trovato frequentemente riconoscimento nella giurisprudenza, particolarmente in relazione alle statuizioni di condanna, la cui efficacia si ammette che possa essere subordinata ad un evento futuro e incerto, oppuòre al sopravvenire di un termine o


all'adempimento di una controprestazione; puòrché si tratti di una circostanza che non richieda ulteriori accertamenti giudiziali e sia invece verificabile, all'occorrenza, in sede di opposizione all'esecuzione. Presupposto è che la condanna, puòr rimanendo subordinata ad un evento futuro, sia almeno compiutamente specificata nel quantum. La sentenza condizionale non sembra configurabile al di fuori della condanna. 9. LA CONCLUSIONE DEL PROCESSO SENZA DECISIONE LA CONCILIAZIONE La conciliazione giudiziale presuppone un accordo, solitamente transattivo, diretto a porre fine alla controversia. Non accade per spesso che le parti, puòr avendo raggiunto un tale accordo, lo formalizzino davanti al giudice per farlo inserire in un apposito verbale, soprattutto per conseguenze di ordine fiscale. Alla conciliazione si ricorre solamente quando le parti abbiano un preciso interesse a munirsi di un titolo esecutivo, giacché il verbale di conciliazione ha tale efficacia, oppuòre a rendere inoppuògnabile l'accordo raggiunto sul piano sostanziale. Su richiesta congiunta delle parti o per iniziativa dello stesso giudice, solitamente all'inizio della trattazione, è esperibile il tentativo di conciliazione, che può essere rinnovato in qualunque momento dell'istruzione (art. 185) e anche in appello (art. 350 co 3°). L'art. 88 disp. att. prevede che la conciliazione possa intervenire, a titolo provvisorio e precario, tra i procuratori delle parti che non siano stati espressamente autorizzati a conciliare: il giudice ne prende atto nel verbale di udienza e fissa un'udienza successiva, in cui potranno comparire le parti al fine di redigere il vero e proprio verbale di conciliazione. Sebbene la legge non lo precisi, è opinione diffusa che la redazione del verbale di conciliazione debba essere seguita d un provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo, che serve a sancire il definitivo esaurimento del giudizio e il conseguente venir meno della litispendenza. L'ESTINZIONE DEL PROCESSO Il codice prevede che l'estinzione possa aversi per rinuncia agli atti del giudizio oppuòre per inattività delle parti. Fino a quando la causa non perviene alla fase decisoria, l'attore può rinunciare agli atti del giudizio, dichiarare di non volerlo proseguire. Perché la rinuncia agli atti possa condurre all'estinzione, è necessario che sia accettata da tutte le parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio (art. 306), in quanto l'estinzione non pone al riparo il convenuto dal rischio di dover affrontare un nuovo processo, laddove la stessa domanda sia successivamente riproposta. L'accettazione è sicuramente necessaria quando il convenuto abbia a sua volta proposto una domanda riconvenzionale. L'accettazione non è richiesta da parte del contumace né da parte del convenuto che abbia già reso palese di non avere interesse ad una pronuncia di merito, ad es. eccependo un difetto di competenza o giurisdizione. Sia la rinuncia che l'accettazione esorbitano i poteri attribuiti al difensore con la procura ad litem, e quindi devono provenire dalle parti personalmente o da un loro procuratore speciale. Le relative dichiarazione possono essere rese verbalmente all'udienza oppuòre possono essere inserite in atti scritti, sottoscritti e notificati alle altre parti. L'accettazione non può contenere, pena l'inefficacia, riserve o condizioni. L'art. 306 co 4° prevede che il rinunciante sia tenuto a rimborsare le spese del processo alle altre parti, salvo il caso di diverso accordo, si deduce che l'efficacia della rinuncia possa essere subordinata all'accettazione di una determinata proposta di ripartizione delle spese. Appuòrato che la rinuncia e l'accettazione siano regolari, il giudice dichiara l'estinzione e liquida le spese con ordinanza non impuògnabile. Dalla rinuncia agli atti del giudizio si distinguono: • la rinuncia al diritto, nei limiti in cui sia consentita dall'ordinamento, è un atto abdicativo unilaterale che opera sul piano sostanziale, senza bisogno di accettazione di soggetti diversi dal titolare da cui promana, e può avere effetti meramente indiretti sul processo, determinando ad es. una pronuncia di cessazione della materia del contendere. • La rinuncia all'azione, investe il diritto d'azione impedendo che la domanda possa essere in futuro riproposta in un altro processo; non esige l'accettazione delle altre parti. • La rinuncia ad una soltanto delle più domande cumulativamente proposte ha effetti meramente endoprocessuali, non esclude che la stessa domanda venga poi riproposta in un nuovo processo, a meno che non trovi ostacolo nel giudicato formatosi nel primo giudizio. Rientra, secondo l'orientamento prevalente, nei consueti poteri del difensore- procuratore, e prescinderebbe dall'accettazione delle altre parti. È per preferibile ritenere che, se la domanda resta impregiudicata, la sua rinuncia per un verso è svincolata dalle prescrizioni dell'art. 306, non richiede l'accettazione espressa delle altre parti, ma dall'altro non può impedire all'avversario, che ne abbia concretamente


interesse, di pretendere egualmente una decisione di merito, cioè l'accertamento negativo del diritto posto a fondamento della domanda rinunciata. Le fattispecie di inattività delle parti sono molteplici; si distinguono in particolare quelle che hanno come conseguenza l'estinzione immediata e quelle che invece determinano una sorta di quiescenza del processo, una situazione intermedia nella quale il processo, puòr non essendo sul ruolo dell'ufficio giudiziario, è ancora giuridicamente pendente e può essere riattivato attraverso la semplice riassunzione. L'art. 307 co 2° prevede che, se dopo una prima riassunzione si verifica nuovamente una delle ipotesi di inattività, il processo si estingue direttamente e immediatamente. La riassunzione è un nuovo atto di impuòlso, destinato a rimettere in moto, previa ricostituzione del contraddittorio, una causa che era entrata in una situazione di quiescenza, dovuta ad es. alla sua cancellazione dal ruolo, alla sospensione o all'interruzione del processo, ad una traslatio iudicii, cioè alla sua rimessione ad un diverso ufficio giudiziario. La riassunzione consente la continuazione del processo e dunque la conservazione degli effetti sostanziali e processuali prodotti dall'atto introduttivo del giudizio. La riassunzione deve essere fatta con una comparsa (da notificare al difensore- procuratore della parte costituita, oppuòre personalmente a quella non costituita), con elementi analoghi a quelli necessari per l'atto di citazione iniziale, tra cui l'indicazione dell'udienza di comparizione, nel rispetto dei termini dell'art. 163-bis, fatte salve alcune peculiarità: non è indispensabile reiterare la formulazione della domanda nei suoi elementi oggettivi, ma è sufficiente il mero richiamo all'atto introduttivo del giudizio, mentre devono essere indicati il provvedimento del giudice da cui deriva la riassunzione, oppuòre quello che ha disposto la cancellazione della causa dal ruolo, o nell'ipotesi in cui si tratti di una causa che non era stata neanche iscritta a ruolo, la data originariamente fissata per l'udienza di prima comparizione. Sarà necessaria una nuova iscrizione a ruolo, ad iniziativa della parte che si costituisce per prima. Una fattispecie che può condurre all'estinzione per inattività è al mancata costituzione di entrambe le parti entro il termine loro rispettivamente assegnato. La causa non viene iscritta a ruolo e neanche presa in carico dall'ufficio giudiziario, resta in una condizione di quiescenza, dalla quale può uscire solamente se una delle parti, entro il termine perentorio di tre mesi dalla scadenza del termine di costituzione del convenuto, provvede a riassumerla davanti allo stesso ufficio giudiziario. In caso contrario, allo spirare del termine, il processo si estingue. può accadere che la parte che per prima si costituisce, iscrivendo la causa a ruolo, lo faccia in ritardo rispetto al termine assegnatole; deve ritenersi che, quando il convenuto non si costituisca, seppuòre in ritardo e magari direttamente all'udienza, il giudice debba disporre la cancellazione della causa dal ruolo (giacché l'iscrizione a ruolo è avvenuta irritualmente) e la causa debba essere riassunta, a pena di estinzione, entro tre mesi dal relativo provvedimento. La cancellazione della causa dal ruolo non fa venir meno la pendenza della causa stessa, ma rappresenta solo un presupposto della successiva estinzione. L'art. 307 fa espressamente salve alcune ipotesi in cui alla cancellazione della causa dal ruolo consegue l'estinzione immediata: • la contumacia dell'attore, allorché il convenuto non chiede che il processo vada avanti egualmente (art. 290); • qualora l'attore, puòr essendosi anteriormente costituito in cancelleria, non compaia alla prima udienza: in questo caso, se il convenuto non chiede che si proceda comunque, il giudice fissa una nuova udienza, di cui il cancelliere dà comunicazione all'attore, e poi, se questo non compare neanche alla nuova udienza ed il convenuto non chiede che si proceda egualmente, ordina la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo (art. 181 co 2°); • in caso di mancata comparizione di tutte le parti all'udienza di prima comparizione, o una qualunque udienza successiva, il giudice fissa una nuova udienza, di cui il cancelliere deve dare comunicazione alle sole parti costituite, e se neppuòre alla nuova udienza alcuna delle parti compare, dispone la cancellazione della causa dal ruolo e la contestuale estinzione del processo. Possono inoltre dar luogo direttamente all'estinzione le fattispecie derivanti dal mancato compimento di determinati atti d'impuòlso del processo nel termine perentorio stabilito dalla legge, oppuòre dallo stesso giudice. Tali atti possono consistere nella riassunzione, nella prosecuzione, nella integrazione del giudizio, nella rinnovazione della citazione o della notificazione della citazione che sia affetta da nullità. In alcune di queste fattispecie, che la dottrina chiama “inattività qualificata”, l'estinzione consegue alla mancata o tardiva realizzazione di sanatorie di vizi concernenti l'instaurazione del contraddittorio, in


particolare per le ipotesi in cui si debba estendere il giudizio ad un litisconsorte necessario pretermesso, oppuòre si debba rinnovare o integrare la citazione nulla, o reiterare la notificazione dell'atto introduttivo, o integrare la domanda riconvenzionale formulata in modo lacunoso. L'art. 307 stabilisce che l'estinzione opera di diritto ed è dichiarata anche d'ufficio, con ordinanza del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio. La giurisprudenza prevalente ritiene che il maturare di una fattispecie estintiva possa essere accertato dal giudice di un diverso processo incidenter tantum, al solo scopo di valutare gli effetti che l'estinzione potrebbe determinare sul processo del quale egli è attualmente investito. Gli artt. 307 e 308 si riferiscono alle sole cause attribuite alla decisione del tribunale in composizione collegiale. È previsto che l'estinzione possa essere pronunciata sia dal giudice istruttore, quando la relativa eccezione sia stata sollevata dinanzi a lui, sia dal collegio, quando la questione sia sorta dopo che la causa gli è stata rimessa. La declaratoria di estinzione proveniente dal giudice istruttore assume la forma dell'ordinanza (non revocabile), contro cui è ammesso, entro dieci giorni dalla pronuncia del provvedimento, se reso in udienza, o dalla sua comunicazione, uno specifico mezzo d'impuògnazione, il “reclamo al collegio”, disciplinato dall'art. 178 co 3°-5°. All'esito di tale impuògnazione il collegio, decidendo in camera di consiglio, pronuncia un'ordinanza non impuògnabile se accoglie il reclamo, ritenendo che l'estinzione non si è verificata e che il giudizio deve pertanto proseguire, oppuòre una sentenza, impuògnabile attraverso le vie ordinarie, allorché rigetti il reclamo confermando l'estinzione. Nelle cause che invece spettano alla decisione del giudice istruttore in funzione di giudice unico la pronuncia di estinzione riveste la forma della sentenza, sia perché egli è qui investito di tutti i poteri del collegio, sia perché, trattandosi di un provvedimento definitivo del processo, alle parti deve esser dato il diritto di impuògnarlo. L'art. 310 disciplina alcuni effetti dell'estinzione del giudizio di primo grado: • l'estinzione del processo non estingue l'azione, non osta alla riproposizione della stessa domanda in un nuovo processo, né può direttamente pregiudicare il diritto che era stato dedotto nel giudizio estinto; • la domanda giudiziale produce un effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione, che riprende a decorrere, di regola, dal momento in cui passa in giudicato la sentenza definitiva del giudizio. Se per il processo non arriva alla sentenza definitiva e si estingue prima, l'effetto sospensivo viene cancellato e sopravvive il solo effetto interruttivo: il nuovo periodo di prescrizione prende a decorrere dalla data in cui quell'effetto interruttivo si era verificato, dal giorno stesso della domanda giudiziale. Non è quindi escluso che l'estinzione del processo provochi, anche solo di riflesso, l'estinzione del diritto che vi era stato fatto valere; • la decadenza invece non può essere interrotta né sospesa, ma solamente impedita mediante il compimento dell'atto previsto dalla legge o dal contratto. L'effetto impeditivo della decadenza, prodotto dalla domanda giudiziale, opera, in linea di principio, solo all'interno del processo in cui la domanda stessa è proposta, restando caducato ogni volta il processo si concluda senza una decisione di merito. Fanno eccezione le ipotesi in cui per evitare la decadenza non sia indispensabile una domanda giudiziale, ma sia sufficiente un atto stragiudiziale. L'art. 310 co 2° prevede che le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la competenza conservino l'efficacia, puòr dopo l'estinzione. Al co 3° stabilisce che l'efficacia delle prove raccolte nel processo estinto, qualora la domanda venga successivamente riproposta, è valutata dal giudice a norma dell'art. 116 co 2° (meri argomenti di prova), con allusione alle sole prove costituende, giacché quelle precostituite mantengono l'efficacia loro propria. Tale declassamento non riguarda la confessione. 10. LE ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA I provvedimenti sommari non cautelari anticipatorii, secondo la dottrina, mirano ad anticipare gli effetti della sentenza di accoglimento della domanda in favore della parte che, nel corso del processo, risulti aver ragione sulla base degli elementi probatori fino a quel momento acquisiti. Le fattispecie più significative sono: • le ordinanze agli arti 186-bis, 264 co 3°, 423 co 1° e 648 che presuppongono la parziale non contestazione del diritto di credito ad una somma di denaro; • l'ordinanza all'art. 423 co 2°, fondata sulla convinzione del giudice che ritenga accertato il diritto nell'an e già raggiunta la prova per una parte della somma richiesta; • l'ordinanza di ingiunzione ex art. 186-ter, fondata sull'esistenza di una prova scritta del credito; • l'ordinanza di rilascio dell'immobile locato, all'art. 665; • l'ordinanza con cui il giudice, in caso di opposizione non fondata su prova scritta o di pronta soluzione, può


concedere l'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo ai sensi art. 648; • l'ordinanza di condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nel caso in cui il giudice, in qualunque momento del giudizio di merito, ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro; • l'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione, all'art. 186-quater. L'art. 186bis prevede che il giudice istruttore, su istanza di parte e fino al momento della precisazione delle conclusioni, possa disporre con ordinanza il pagamento di somme non contestate dalle parti costituite. Tale ordinanza vale come titolo esecutivo, è revocabile e modificabile sia dal giudice istruttore che dal collegio, conserva la propria efficacia anche in caso di estinzione del processo. È un provvedimento anticipatorio avente natura sommaria non cautelare, utilizzabile solamente quando, in relazione ad una domanda avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, il debitore si sia costituito in giudizio e non abbia contestato una parte dell'avversa pretesa. Essendo il provvedimento del giudice esecutivo e quindi idoneo ad arrecare un concreto ed immediato pregiudizio alla parte che lo subisce, e non essendo prevista alcune impuògnazione, la non contestazione deve fondarsi su un comportamento inequivoco dell'obbligato, sul quale il giudice non abbia alcun margine di apprezzamento: l'ordinanza è pronunciabile solo in presenza di un effettivo riconoscimento della fondatezza della domanda, e qualunque contestazione, anche di ordine meramente processuale, è idonea ad escludere la condanna anticipatoria. La peculiarità del provvedimento risiede nella sua provvisorietà: esso è liberamente revocabile e modificabile nel corso del processo, anche indipendentemente dal verificarsi di fatti nuovi, ma è comunque destinato ad essere assorbito dalla sentenza di merito, sia essa di accoglimento o di rigetto. L'art. 186-ter prevede che fino al momento della precisazione delle conclusioni, quando ricorrano i presupposti di cui all'art. 633 co 1° n. 1 e co 2°, e di cui all'art. 634, la parte può richiedere al giudice istruttore, in ogni stato e grado del processo, di pronunciare con ordinanza ingiunzione di pagamento o di consegna. A differenza del decreto ingiuntivo, che viene pronunciato inaudita altera parte, il provvedimento in esame viene chiesto dopo che il contraddittorio fra le parti è già instaurato. Il provvedimento di ingiunzione di pagamento o di consegna è utilizzabile: • per i crediti di una somma liquida di denaro o di una determinata quantità di cose fungibili; • per il diritto alla consegna di una cosa mobile determinata. È necessario che del diritto si fornisca una prova scritta. Il provvedimento in esame può essere concesso anche se il diritto dipende da una controprestazione o da una condizione, puòrché il creditore offra elementi atti a far presumere l'adempimento della controprestazione o l'avveramento della condizione. L'ordinanza appartiene al genus dei provvedimenti sommari sia perché si fonda su una cognizione incompleta, sia perché la prova sulla cui base viene pronunciata potrebbe non essere sufficiente a condurre ad una sentenza di accoglimento della domanda. La presenza in giudizio del preteso debitore consente di contrastare attivamente la domanda di ingiunzione. Il giudice, nonostante la sussistenza di una prova scritta del credito, deve egualmente verificare che alla concessione del provvedimento non ostino ragioni giuridiche, impedimenti processuali o fatti impeditivi, modificativi o estintivi già risultanti dagli atti. Tale ordinanza non costituisce, di per sé, titolo esecutivo, a meno che il giudice, sussistendone i presupposti, non l'abbia dichiarata immediatamente esecutiva. Il debitore ingiunto non ha neanche l'onere di opporre una formale opposizione, essa è già implicita nella sua costituzione. L'unico effetto negativo che il provvedimento determina a suo danno è spostare su di lui l'onere della prosecuzione del giudizio, tenuto conto che l'eventuale estinzione farebbe acquistare efficacia esecutiva all'ordinanza che non ne fosse già munita. La rilevanza pratica dell'ordinanza di ingiunzione dipende essenzialmente dalla circostanza che il giudice la dichiari provvisoriamente esecutiva; ci può avvenire quando ricorrano i presupposti di cui all'art. 642, nonché, ove la controparte non sia rimasta contumace, quelli di cui all'art 648. L'art. 642 sostiene che il decreto ingiuntivo può essere dichiarato esecutivo fin dall'origine, dal momento in cui viene pronunciato, quando il credito è fondato su cambiale, su assegno bancario o circolare, su certificato di liquidazione di borsa ovvero su atto ricevuto da notaio o da altro puòbblico ufficiale autorizzato, quando sussiste pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, o in presenza di documentazione sottoscritta dal debitore, comprovante il diritto fatto valere. L'art. 648 prevede che il decreto, che non sia stato reso provvisoriamente esecutivo al momento della pronuncia, possa diventarlo quando


l'opposizione non sia fondata su prova scritta o di pronta soluzione. L'ordinanza di ingiunzione è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili, di cui agli art. 177 e 178, il che implica che si tratti di un provvedimento tendenzialmente provvisorio, destinato ad essere assorbito dalla sentenza di merito, che dovrà conseguentemente statuire sulla domanda di condanna per la quale era stata pronunciata l'ingiunzione, e inidoneo a pregiudicare in alcun modo tale decisione. Se per il giudizio si estingue, il provvedimento sommario non soltanto sopravvive all'estinzione, ma anzi, qualora non ne sia già munito dall'origine, acquista efficacia esecutiva ai sensi dell'art. 653; per questo l'ordinanza di ingiunzione deve contenere la liquidazione delle spese e delle competenze del giudizio. L'ordinanza di ingiunzione, una volta che sia divenuta immutabile in seguito all'estinzione del processo, preclude, salvi i rimedi straordinari che potrebbero ammettersi attraverso l'applicazione analogica delle norme concernenti il decreto ingiuntivo, qualunque ulteriore azione preordinata a porre in discussione, al di fuori di fatti sopravvenuti, l'esistenza del credito posto a base dell'ingiunzione. Nel caso in cui l'ordinanza d'ingiunzione sia pronunciata nei confronti di una parte contumace, deve essergli notificata, a pena di inefficacia, entro il termine previsto dall'art. 644 (solitamente 60 giorni) e deve contenere l'espresso avvertimento che, ove la parte non si costituisca entro il termine di 20 giorni dalla notifica, diventerà esecutiva ai sensi dell'art. 647. Il persistere della contumacia dell'intimato, alla scadenza del termine di 20 giorni dalla notifica dell'ingiunzione, non soltanto renderebbe esecutiva l'ordinanza che non fosse già tale, ma precluderebbe ogni ulteriore reazione da parte del debitore, facendo divenire l'ordinanza stessa virtualmente immutabile. Prima della scadenza di tale termine l'intimato ha la possibilità, costituendosi in giudizio, di chiedere la modifica o la revoca del provvedimento e/o la revoca della sua provvisoria esecuzione. L'ordinanza di ingiunzione pronunciata a carico del contumace ha una portata tendenzialmente definitiva; quando l'intimato non si costituisca nel termine, il giudice resta privato del potere-dovere di decidere, con l'eventuale sentenza successiva, la domanda di condanna a fronte della quale era stata pronunciata l'ordinanza in esame, quanto meno per la parte in cui tale domanda era stata accolta nel provvedimento anticipatorio. Il debitore ingiunto che abbia omesso di costituirsi nei venti giorni successivi alla notificazione dell'ordinanza, può proporre, entro dieci giorni dal compimento, da parte del creditore, del primo atto dell'esecuzione forzata, un'opposizione tardiva, instaurando all'occorrenza un nuovo e autonomo procedimento davanti al medesimo ufficio giudiziario, a condizione che provi di non aver avuto tempestiva conoscenza dell'ingiunzione per irregolarità della relativa notifica o per caso fortuito o forza maggiore, o comunque di non essersi potuto costituire per caso fortuito o forza maggiore. L'art. 186-quater prevede che il giudice istruttore, una volta esaurita l'istruzione, possa, su istanza di parte, disporre con ordinanza il pagamento di somme oppuòre la consegna o il rilascio di beni, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova, provvedendo puòre sulle spese processuali. L'ordinanza costituisce titolo esecutivo, è revocabile con sentenza che definisce il giudizio e si converte automaticamente in sentenza in due ipotesi: quando la parte intimata non manifesti, entro un breve termine, la volontà che sia pronunciata sentenza, nonché quando, successivamente alla pronuncia, il processo si estingua. È un provvedimento anticipatorio che, puòr essendo normalmente provvisorio, ha in sé l'attitudine a divenire definitivo quando si verifichino i presupposti per la sua trasformazione in sentenza; per questo non dovrebbe essere un provvedimento sommario, essendo pronunciato al termine dell'istruzione, e dunque sulla base di una cognizione piena ed esauriente. L'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione può esser pronunciata a fronte di una domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna di beni mobili o al rilascio di beni immobili. È competente il giudice istruttore, indipendentemente dal fatto che si tratti di una causa che debba essere decisa dal collegio, ai sensi dell'art. 50-bis, o dallo stesso giudice istruttore. Quando la domanda di condanna successiva alla chiusura dell'istruzione sia condizionata dall'accoglimento o dal rigetto di una diversa domanda che non potrebbe essere oggetto di analogo provvedimento anticipatorio, si esclude che sia applicabile l'art. 186-quater, in quanto non è pensabile che il giudice, sovvertendo l'ordine logico delle domande cumulate, pronunci su quella dipendente, con ordinanza, prima di decidere, con sentenza, su quella pregiudiziale; e per altro verso non è possibile ammettere che l'ordinanza decida, implicitamente o esplicitamente, sulla domanda latu sensu


principale o pregiudiziale. Un orientamento più radicale sostiene che tale ordinanza possa utilizzarsi solo quando, in presenza di un cumulo di cause, l'ordinanza sia potenzialmente idonea a definirle tutte. Perché si arrivi alla pronuncia di tale ordinanza è necessario, oltre all'istanza della parte che aveva proposto la domanda di condanna, che sia stata esaurita l'istruzione. Questo implica: • che il provvedimento non potrà aversi prima che il giudice istruttore abbia invitato le parti alla precisazione delle conclusioni; • che esso non dovrebbe aver nessun aspetto di sommarietà. Si deve ritenere che il fatto per cui il pagamento o la consegna possano disporsi nei limiti per cui il giudice ritenga già raggiunta la prova, debba essere inteso nel senso che l'istruzione sia esaurita solo rispetto a taluna di più domande cumulate. Questa ordinanza non può chiedersi dopo la rimessione della causa al collegio o dopo che la stessa, al termine dell'udienza di precisazione delle conclusioni, sia passata nella fase decisoria, sia perché in tale fase non c'è spazio per ulteriori attività delle parti, sia perché questo non consentirebbe all'altra parte alcun contraddittorio. In base all'art. 186-quater co 2°, l'ordinanza in esame costituisce titolo esecutivo ed è revocabile solo con la sentenza che definisce il giudizio. Successivamente alla pronuncia è possibile che l'ordinanza acquisti automaticamente l'efficacia della sentenza impuògnabile sull'oggetto dell'istanza: viene integralmente assimilata, anche per quel che concerne l'idoneità al giudicato, ad una sentenza di accoglimento della domanda, e può quindi essere appellata, nei consueti termini, sia dall'intimato sia dallo stesso attore, la cui domanda sia stata in parte disattesa. Quando la parte intimata, entro i 30 giorni successivi alla pronuncia dell'ordinanza o alla relativa comunicazione, non manifesti espressamente, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la propria volontà che il giudice pronunci sentenza, l'ordinanza verrà assimilata ad una sentenza. Tale conversione si ha anche nel caso in cui l'intimato abbia optato per la pronuncia della sentenza e successivamente il processo si sia estinto. 11. VICENDE PARTICOLARI DEL PROCESSO IL PROCESSO CONTUMACIALE La contumacia di una delle parti non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'altra parte né altera la ripartizione degli oneri probatori dell'art. 2697 c.c.. La contumacia del convenuto non esclude che l'attore, per ottenere l'accoglimento della propria domanda, debba fornire la prova di tutti i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Le uniche particolarità riguardano le notificazioni e le comunicazioni nel corso del procedimento. Di regola, non è necessario che gli atti del processo vengano portati a conoscenza del contumace tramite notificazione o comunicazione. Fanno eccezione alcuni specifici atti per i quali è prevista la notificazione personale, entro un termine fissato dal giudice: • l'ordinanza ammissiva dell'interrogatorio formale; • l'ordinanza che ammetta il giuramento, decisorio o suppletorio; • le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali, da chiunque proposte; • il verbale in cui si dia atto della produzione di una scrittura privata non indicata in altri atti già in precedenza notificati al contumace. Anche per le sentenze è prescritta la notifica personale alla parte contumace, ma l'omissione della notifica avrà come unico effetto l'impossibilità di applicare il termine breve per l'impuògnazione, che resterà conseguentemente esperibile entro 6 mesi dalla puòbblicazione della sentenza. La parte già dichiarata contumace può decidere di costituirsi, seppuòr tardivamente, in qualunque momento nel corso del processo, con modalità analoghe a quelle previste per la costituzione in termini: depositando in cancelleria la comparsa di risposta, la procura e i documenti offerti in comunicazione, oppuòre presentando tutto direttamente all'udienza. L'ex contumace deve accettare il giudizio nello stato in cui si trova, a meno che non sussistano elementi tale da far repuòtare involontaria e scusabile l'iniziale contumacia. L'art. 294 prevede che il contumace possa essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse, oppuòre a svolgere, senza il consenso delle altre parti, attività difensive che ritarderebbero la definizione della causa già matura per la decisione rispetto alle altre parti, solo quando dimostri che la nullità della citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione tempestiva è stata impedita da causa a lui non impuòtabile. Ai fini della rimessione in termini, non basta addurre l'esistenza di un vizio all'atto introduttivo o della sua notifica, ma è necessario provare che da tale vizio è derivata l'impossibilità di avere effettiva conoscenza del processo. Quando ne sussistano i presupposti, la rimessione in termini è concessa dal giudice con ordinanza, previa ammissione, quando occorra, della prova dell'impedimento da cui è dipesa la mancata costituzione.


È sempre assicurata al contumace, senza bisogno di essere rimesso in termini, la possibilità di disconoscere, nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal giudice istruttore, le scritture private che erano state anteriormente prodotte contro di lui. Il contumace, una volta costituitosi, ha l'onere di contestare specificamente i fatti allegati dall'avversario, per evitare che questi si abbiano per provati, ai sensi dell'art. 115 co 1°. LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO La sospensione è un evento anomalo che determina un arresto temporaneo del processo, facendolo entrare in una fase di quiescenza, durante la quale non può compiersi alcun atto del procedimento (art. 298), e da cui può uscirsi una volta che sia venuta meno la ragione che aveva determinato la sospensione, attraverso un nuovo atto di impuòlso ad opera della parte interessata. Dal puònto di vista della fonte è possibile distinguere a seconda che la sospensione derivi direttamente dalla legge ed operi ipso iure, oppuòre, più spesso, discenda da un provvedimento del giudice. In questo caso potrà essere meramente discrezionale, in quanto rimesso a valutazioni di opportunità, oppuòre obbligatorio, allorché sia subordinato esclusivamente alla verifica dei presupposti indicati dal legislatore. Dal puònto di vista della ratio, si possono distinguere più fattispecie di sospensione: • la sospensione obbligatoria si può spiegare con la circostanza che è stata in vario modo contesta la potestas iudicandi del giudice adito, ossia la possibilità che si occupi della controversia a lui sottoposta, ad es. perché è in discussione la sua competenza o giurisdizione, oppuòre perché è stato addirittura ricusato. • Si può avere sospensione obbligatoria quando nel processo sia sorta una questione di merito che la legge, per varie ragioni, sottrae comunque alla cognizione del giudice adito, il quale non potendone prescindere nella decisione della causa, è costretto ad attendere che su di esso si pronunci il diverso organo competente. A volte si tratta di una questione attinente allo stesso rapporto giuridico dedotto in giudizio e priva di qualunque autonomia, giacché non potrebbe costituire l'oggetto di un distinto giudizio; altre volte può essere una vera e propria questione pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato in un diverso processo e per la quale è escluso che il giudice adito possa conoscerne incidenter tantum, ossia con effetti limitati alla decisione della causa a lui sottoposta. • Vi sono casi in cui la sospensione obbligatoria costituisce l'espediente tecnico per evitare un'immediata pronuncia assolutoria in rito, che sarebbe imposta dalla carenza di un presupposto processuale. • In altri casi la sospensione facoltativa e discrezionale si ricollega a valutazioni di mera opportunità, concernenti il coordinamento tra processi diversi, oppuòre tra procedimenti di grado diverso aventi origine dal medesimo processo. L'art. 295 prevede che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. La connessione di cause qui presupposta è rappresentata dalla pregiudizialità-dipendenza di natura sostanziale, ossia da una particolare relazione fra rapporti giuridici caratterizzata da ci che l'esistenza o l'inesistenza di un diverso diritto o status che si profila, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio, quale fatto costitutivo oppuòre, al contrario, quale fatto impeditivo, modificativo o estintivo del primo. La decisione intervenuta sul rapporto pregiudiziale, una volta passata in giudicato, sarebbe idonea a fare stato ad ogni effetto, ai sensi dell'art. 2909 c.c. e sempre che ne ricorrano le ulteriori condizioni (in particolare l'identità dei soggetti titolari dei due rapporti), sull'esistenza o inesistenza di tale rapporto, anche per ci che può interessare il rapporto dipendente. Nell'ordinamento non vi è spazio per fattispecie atipiche di sospensione. Il codice di procedura penale del 1939, ispirato al principio della preminenza della giurisdizione pensale, prevedeva all'art. 3, co 2° la sospensione necessaria del processo civile o amministrativo ogni volta che, essendo stata iniziata l'azione penale, la cognizione del reato fosse potenzialmente influente sulla decisione della causa. Il nuovo codice del 1988 ha modificato tale assetto, realizzando un'ampia autonomia delle relative giurisdizioni. Per quel che riguarda il giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno conseguenti al reato, oggi il legislatore distingue nettamente tra giudicato di condanna e giudicato d'assoluzione: mentre il primo fa stato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'impuòtato l'ha commesso (art. 651 c.p.p.), il secondo fa egualmente stato, in linea di principio, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'impuòtato non l'ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, ma con due importanti limitazioni: l'efficacia del giudicato di assoluzione


presuppone che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale, in secondo luogo essa non si produce allorché il danneggiato dal reato abbia esercitato l'azione in sede civile a norma dell'art. 75 c.p.p.. Se ne può dedurre che l'azione civile risarcitoria, allorché non venga successivamente trasferita nel processo penale o sia promossa quando non è più ammessa in quella sede la costituzione di parte civile, può e deve procedere autonomamente, non essendone consentita la sospensione; in tale situazione, quando l'azione civile sia proseguita autonomamente davanti al giudice civile, la sentenza penale successivamente intervenuta farà stato secundum eventum litis, cioè solo quando sia di condanna, potrà operare solamente a favore del danneggiato e non anche a suo svantaggio. L'unica ipotesi in cui il giudizio civile risarcitorio resta subordinato a quello penale, dovendo essere sospeso in attesa della sua definizione, ricorre quando esso sia stato promosso, nei confronti dell'impuòtato, dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o addirittura dopo che nel processo penale era già stata pronunciata sentenza di primo grado. Negli altri giudizi civili o amministrativi, l'art. 654 c.p.p. prevede che la sentenza penale irrevocabile, tanto di condanna quanto di assoluzione, possa fare stato soltanto nei confronti di chi abbia effettivamente partecipato al relativo processo, allorché nel giudizio civile o amministrativo si controverte intorno a un diritto o un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del processo penale, puòrché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e puòrché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa. La dottrina prevalente ritiene che debba oggi considerarsi un principio generale quello dell'autonomia del processo civile e amministrativo rispetto al processo penale. Deve escludersi che la sospensione del processo civile possa oggi trovar causa nella contemporanea pendenza di un processo penale, al di fuori delle ipotesi in cui essa è espressamente prevista. I soli provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell'art. 295, sono immediatamente e autonomamente impuògnabili in Cassazione, attraverso il regolamento necessario di competenza (art. 42). Tale impuògnazione può utilizzarsi ogniqualvolta il giudice, indipendentemente dalla disposizione normativa richiamata, abbia di fatto sospeso il processo al di fuori delle ipotesi tassative in cui gli è consentito. Indipendentemente dai presupposti, la sospensione produce sempre, come effetti tipici, il divieto di compiere atti del procedimento e la interruzione di tutti i termini processuali in corso, i quali riprendono a decorrere ab initio dal momento in cui il processo viene riattivato (art. 298). Con la sospensione il processo entra in una fase di quiescenza dalla quale può uscire, una volta che sia cessata la causa che l'aveva determinata, solamente attraverso un ulteriore atto d'impuòlso, la riassunzione, proveniente da una qualunque delle parti, a meno che il giudice, trattandosi di una sospensione per un tempo fin dal principio determinabile, non abbia fissato già col provvedimento di sospensione l'udienza di prosecuzione del giudizio. L'art. 297 prevede che ciascuna delle parti, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che ha definito la causa pregiudiziale, possa chiedere con ricorso al giudice istruttore la fissazione di una nuova udienza, provvedendo a notificare alle altre parti il ricorso stesso, insieme al conseguente decreto del giudice, entro il termine che il giudice stesso avrà stabilito. Tale disciplina deve ritenersi applicabile, in assenza di disposizioni ad hoc, a tutte le ipotesi di riassunzione conseguente a sospensione. L'INTERRUZIONE DEL PROCESSO L'interruzione è un istituto preordinato a garantire l'effettività del contraddittorio, prevede che il processo si arresti temporaneamente, fino a quando il contraddittorio non venga ripristinato attraverso un nuovo atto d'impuòlso. Gli eventi da cui può derivare l'interruzione possono riguardare, a seconda dei casi, la parte, il suo legale rappresentate o il difensore con procura (artt. 299 e 301): • la morte della parte, o la mera scomparsa del convenuto, che emerga nel corso del processo; • ogni ipotesi di estinzione di soggetti diversi dalla persona fisica; • la perdita di capacità di stare in giudizio di una delle parti, derivante ad es. da interdizione o inabilitazione ovvero da dichiarazione di fallimento; • la morte o perdita della capacità processuale del rappresentante legale dell'incapace; • la cessazione della rappresentanza legale; • la morte, la radiazione o la sospensione del procuratore; non determinano invece interruzione la revoca della procura, proveniente dalla parte,


né la rinuncia ad essa da parte del procuratore stesso. Se l'evento riguardante la parte o il suo rappresentante legale si verifica dopo l'inizio del processo, ma prima della costituzione della parte stessa e comunque anteriormente all'udienza di prima comparizione, si produce l'interruzione automatica del processo, indipendentemente dalla circostanza che il giudice l'abbia o no dichiarata, a meno che coloro ai quali spetta di proseguirlo, cioè che subentrano alla parte originaria (ad es. gli eredi), non si costituiscano volontariamente entro la prima udienza, o l'altra parte non provveda a citarli in riassunzione osservando i termini minimi di comparizione dell'art. 163-bis. Quando uno degli eventi indicati (diverso dalla dichiarazione di fallimento) colpisce una parte già costituita a mezzo di procuratore, il legislatore fa dipendere l'interruzione del processo dalla volontà del procuratore. Se il procuratore dichiara l'evento interruttivo in udienza o lo notifica alle altre parti, il processo resta interrotto dal momento della dichiarazione o della notificazione, altrimenti il giudizio prosegue regolarmente, come se nulla fosse accaduto. Quando uno degli eventi indicati colpisce una parte già costituita personalmente, si torna alla regola per cui l'interruzione opera ipso iure, dal giorno stesso dell'evento (art. 300 co 3°). Quando uno dei fatti indicati, ad eccezione della dichiarazione di fallimento, si verifica in danno di una parte contumace, l'interruzione si produce solamente se e quando l'evento viene notificato alle altre parti da chi deve subentrare al contumace, ovvero è documentato dall'altra parte, oppuòre quando dovendosi notificare personalmente al contumace uno degli atti di cui all'art. 292, l'ufficiale giudiziario lo certifica nella relazione di notificazione. Quando non si verifichino tali condizioni il processo va avanti regolarmente. Gli eventi riguardanti il difensore con procura determinano sempre l'interruzione automatica, dal giorno stesso stesso in cui si verificano (art. 301). Perché l'interruzione si produca, tali eventi devono avverarsi o essere notificati entro la chiusura della discussione davanti al collegio, e, qualora non sia stata chiesta la discussione orale, entro il termine per il deposito delle memorie di replica. In caso contrario l'interruzione potrebbe tornare ad operare solo nell'ipotesi di riapertura dell'istruzione. Gli effetti dell'interruzione sono, a norma dell'art. 304, il divieto di compiere atti del processo, pena la nullità degli atti stessi; e l'interruzione dei termini processuali in corso, che riprendono a decorrere dal giorno della nuova udienza fissata in seguito alla ripresa del processo. Tali effetti si producono anche quando le parti dovessero essere all'oscuro dell'interruzione. La pausa determinata dall'interruzione è sempre temporanea, e la ripresa del processo può avvenire, a seconda dei casi, tramite la prosecuzione dello stesso, da parte di coloro cui spetti di subentrarvi in luogo della parte colpita dall'interruzione, oppuòre tramite riassunzione, ad opera di una delle altre parti. La prosecuzione può avvenire, a norma dell'art. 302, attraverso la costituzione in cancelleria o direttamente all'udienza, quando l'interruzione non sia stata ancora dichiarata o rilevata dal giudice. In caso contrario la parte deve proporre ricorso al giudice istruttore o al presidente del tribunale, provvedendo successivamente a notificare il ricorso stesso, insieme al decreto di fissazione dell'udienza, alle altre parti. La riassunzione si attua attraverso la richiesta di fissazione dell'udienza e a successiva notifica del ricorso e del decreto a coloro che devono proseguire in luogo della parte originaria, nonché alle altre parti. I ricorso per riassunzione deve contenere il mero richiamo all'atto introduttivo. Se per l'interruzione è dipesa da morte della parte, dovrà contenere anche gli estremi della domanda, la notifica del ricorso e del decreto, entro un anno dalla morte, potrà esser fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi nell'ultimo domicilio del defunto (art. 303). La ripresa del processo deve avvenire entro il termine perentorio di tre mesi dall'interruzione (art. 305), ossia dal momento in cui l'interruzione ha prodotto i propri effetti, pena l'estinzione a norma dell'art. 307 co 3°. In seguito ad un duplice intervento della Corte costituzionale, l'art. 305 va inteso nel senso che, quando l'interruzione si produce automaticamente, il termine per la prosecuzione o la riassunzione decorre non dal momento dell'interruzione stessa, ma dal giorno in cui le parti ne abbiano avuto conoscenza, intesa come conoscenza legale, risultante da una dichiarazione della parte stessa o da una comunicazione o notificazione ad essa diretta. 12. IL PROCESSO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE Il codice di procedura civile mostra di considerare il processo davanti al giudice di pace una variante del processo ordinario, in quanto, per tutto ci che non è disciplinato negli art. 312 ss o in


altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, in quanto applicabili. La domanda deve proporsi con citazione a comparire ad udienza fissa, che può essere formulata anche verbalmente; nel qual caso lo stesso giudice di pace ne fa redigere processo verbale, che deve essere poi notificato al convenuto a cura dell'attore (art. 316 co 2°). Le parti possono farsi rappresentare davanti al giudice di pace da persona munita di mandato scritto in calce alla citazione o in atto separato (mandato che implica sempre il potere di transigere e di conciliare la controversia), salvo che il giudice ordini la comparizione personale (art. 317). Tale rappresentanza non è tecnica, non è l'obbligo di avvalersi del ministero o dell'assistenza di un avvocato, ma riguarda la rappresentanza processuale volontaria, e costituisce una deroga al principio secondo cui tale rappresentanza può essere conferita solo a chi sia puòre investito del potere di rappresentanza sostanziale relativamente al rapporto oggetto del giudizio. L'art. 318 prevede che la citazione abbia un contenuto semplificato rispetto all'art. 163, richiedendo solamente l'indicazione del giudice e delle parti, l'esposizione dei fatti e l'indicazione dell'oggetto, nonché l'assegnazione di un termine libero a comparire, non inferiore a 45 giorni. Non è necessario avvertire il convenuto che la sua tardiva costituzione implicherebbe le decadenze di cui agli art. 38 e 167. L'omessa indicazione dei fatti costituenti le ragioni della domanda deve ritenersi motivo di nullità solamente quando, avendo la domanda ad oggetto un diritto eterodeterminato, ne risulti realmente impedita l'individuazione del diritto stesso. L'eventuale indicazione, nell'atto introduttivo, di un giorno nel quale il giudice designato non tiene udienza fa si che la comparizione sia rinviata d'ufficio, senza che alle parti venga comunicato alcunché dalla cancelleria, all'udienza immediatamente successiva risultante dal calendario annualmente stabilito dal capo dell'ufficio. La costituzione delle parti può avvenire, senza che l'attore ed il convenuto debbano temere conseguenze pregiudizievoli, anche lo stesso giorno dell'udienza indicata nella citazione, attraverso il deposito in cancelleria dell'atto introduttivo, debitamente notificato, e dell'eventuale procura, oppuòre presentando tali documenti direttamente al giudice in udienza (art. 319). Quando la parte stia in giudizio personalmente è necessaria, al momento della costituzione, la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nel comune in cui ha sede l'ufficio del giudice di pace adito; in mancanza delle quali le notificazioni e le comunicazioni potrebbero, di regola, essere indirizzate alla parte inadempiente presso la stessa cancelleria (art. 58 disp. att.). Non è richiesta una formale istanza di iscrizione a ruolo della causa, essendo previsto che il cancelliere, in seguito a costituzione di taluna delle parti, debba senz'altro presentare l'atto introduttivo al capo dell'ufficio, il quale designa il magistrato incaricato dell'istruzione della causa. L'art. 320 stabilisce che il giudice, nella prima udienza, dia corso tanto all'interrogatorio libero delle parti quanto al tentativo di conciliazione, ma non prevede alcun obbligo per le parti di comparire personalmente a tale udienza. Se il tentativo di conciliazione non può aver luogo o fallisce, il giudice di pace, nella stessa prima udienza, invita le parti a precisare definitivamente i fatti che ciascuna pone a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, a produrre i documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere. La fissazione di una nuova udienza è consentita una sola volta, esclusivamente per ulteriori produzioni e richieste di prova e per di più a condizione che il rinvio sia reso necessario dalle attività svolte dalle parti in prima udienza (art. 320, co 4°). In linea di principio è possibile che al termine della prima udienza, allorché in essa non siano intervenute nuove allegazioni tali da giustificare una seconda udienza di trattazione, il giudice di pace dia subito inizio all'attività stricto senso istruttoria, o quando ritenga la causa già matura, l'avvii alla decisione. Mancano riferimenti a termini perentori o a vere e proprie preclusioni. Muovendo da un'interpretazione letterale dell'art. 320, parte della dottrina e la prevalente giurisprudenza sono pervenute al risultato di individuare, nel procedimento davanti al giudice onorario, preclusioni perfino più rigide e drastiche di quelle operate davanti al giudice togato; in particolare, ritenendo che dopo la prima udienza resti comunque preclusa la proposizione di nuove domande e la chiamata in causa di terzi, ma anche la mera allegazione di nuovi fatti principali, dal momento che nella seconda udienza sarebbero consentite esclusivamente ulteriori richieste di prove e produzioni documentali. Tale orientamento deve comunque fare i conti con i principi del giusto processo. L'art. 321 stabilisce che il giudice di pace, quando ritiene la controversia matura per la decisione, invita le parti a precisar le conclusioni


e a discutere la causa. Quando si verifichino le ipotesi dell'art. 187, il giudice di pace potrà invitare le parti all'immediata precisazione delle conclusioni e alla discussione orale della causa, non preceduta dallo scambio di difese scritte (conclusioni e repliche), senza essere obbligato a fissare a tal fine una successiva udienza. La sentenza deve essere depositata in cancelleria entro 15 giorni dalla discussione; al giudice di pace è preclusa di regola la possibilità di avvalersi delle modalità decisorie semplificate, previste all'art. 281- sexies. Il giudice di pace, nelle cause di valore superiore a 1100 euro decide, a norma dell'art. 113 co 2°, secondo equità, seppuòre nel rispetto delle norme costituzionali e comunitarie e dei principi regolatori della materia. L'art. 322 prevede che il giudice di pace possa essere adito esclusivamente per un tentativo di conciliazione in sede non contenziosa, senza che venga investito della risoluzione della controversia insorta tra le parti, ed anzi puòre quando tale controversia esorbiterebbe i limiti della sua competenza per materia o per valore. La competenza per territorio si determina in questo caso in base agli ordinari criteri che troverebbero applicazione nel giudizio di merito (art. 18 ss). La relativa istanza può proporsi con ricorso o anche verbalmente, ed è poi il giudice, tramite il cancelliere, ad invitare le parti a comparire davanti a lui in un giorno e in un'ora determinati. Se il tentativo di conciliazione fallisce, tale procedimento resta privo di qualunque rilevanza. Se invece si perviene ad un verbale di conciliazione, questo costituisce titolo esecutivo allorché la controversia rientri nella competenza del giudice di pace, o altrimenti avrà il valore di una scrittura privata riconosciuta in giudizio. 13. IL GIUDICATO E L'AUTORITA' DELLA SENTENZA Il concetto di giudicato formale, desumibile dall'art. 324, serve a stabilire quando una sentenza si intende passata in giudicato e fa genericamente riferimento a tutte le sentenze che non siano più soggette, per scadenza dei relativi termini o per qualunque altra ragione, alle impuògnazioni ordinarie. Serve quindi ad indicare la stabilità della decisione, impropriamente descritta come immutabilità. Il concetto di giudicato sostanziale, all'art. 2909 c.c., è invece l'idoneità della sentenza a fare stato, per l'accertamento in essa contenuto, nei rapporti sostanziali tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Deve trattarsi di una pronuncia contenente un'accertamento, e quindi di una sentenza che abbia deciso sulla fondatezza della domanda. Qualunque sentenza passa formalmente in giudicato quando non sia più impuògnabile con i mezzi ordinari, mentre il giudicato sostanziale riguarda esclusivamente le sentenze di merito in senso stretto. Il passaggio in giudicato condiziona, in linea di principio, il prodursi di tutti gli effetti della sentenza. Si è soliti distinguere tra giudicato interno ed esterno, a seconda che la sentenza da cui esso deriva sia stata pronunciata nello stesso processo in cui il giudicato viene invocato oppuòre in un diverso giudizio tra le stesse parti. Si è soliti affermare che il giudicato copre il dedotto e il deducibile. La sentenza passata in giudicato rende incontestabile l'esistenza o l'inesistenza del diritto o dello status oggetto della decisione, impedendo che di essa possa tornare a discutersi, in un successivo processo, sulla base di fatti che erano già stati dedotti nel giudizio in cui è stata resa la sentenza, oppuòre che avrebbero potuto esservi fatti valere. Il risultato del processo, assistito dall'autorità della cosa giudicata, non può mai essere vanificato in un nuovo processo, direttamente o indirettamente, dall'allegazione di un fatto che, preesistendo alla formazione del giudicato, avrebbe potuto essere utilmente dedotto nel primo processo. Di regola, salvo diversa previsione di legge, la barriera del giudicato resiste anche allo ius superveniens, nonché alla pronuncia di illegittimità costituzionale, che incida, eventualmente, su taluna delle norme sostanziali poste a base della decisione. In un nuovo processo sono liberamente deducibili, senza trovare ostacolo nel giudicato, tutti i fatti nuovi (costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi) intervenuti in un momento in cui, sebbene non fosse stata ancora pronunciata la sentenza (poi passata in giudicato), i fatti stessi non avrebbero più potuto essere tempestivamente introdotti nel processo. Il giudicato produrrebbe, a seconda dei casi, un effetto negativo (o preclusivo), impedendo al giudice di tornare a decidere sullo stesso diritto di cui è già stata accertata l'esistenza o l'inesistenza (in applicazione del principio ne bis in idem), oppuòre un effetto positivo, di natura sostanziale, facendo solo obbligo al giudice di conformare la propria pronuncia all'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, la quale costituisce la nuova disciplina specifica del rapporto oggetto della decisione e opera come opererebbe una qualunque norma di legge incidente su tale rapporto. Oggi si ammette che la violazione del giudicato, la cui esistenza risulti dagli atti acquisiti al processo,


costituisca un vizio della decisione, deducibile in ogni stato e grado della causa. Potendo l'accertamento giudiziale vertere esclusivamente su diritti o status, mai su meri fatti o sull'interpretazione di norme giuridiche, anche l'autorità del giudicato può riguardare solo l'esistenza, l'inesistenza o il modo di essere di un diritto o di uno status, non anche fatti oppuòre il significato e la portata di una norma di diritto. L'art. 34 sostiene che la decisione con efficacia di giudicato presuppone un'espressa domanda di taluna delle parti e non si estende alle questioni pregiudiziali che il giudice abbia dovuto eventualmente risolvere, esplicitamente o implicitamente, al solo fine di poter decidere sulla domanda. Bisogna distinguere tra pregiudizialità-dipendenza in senso tecnico e quella meramente logica: la prima presuppone rapporti giuridici diversi ed è caratterizzata dalla circostanza che l'esistenza o l'inesistenza di un diritto o di uno status dipende, sul piano sostanziale, dall'esistenza o dall'inesistenza di un altro distinto rapporto giuridico; la seconda attiene invece alle ipotesi in cui non si tratta propriamente di rapporti diversi, ma delle relazioni tra un singolo diritto ed il rapporto giuridico complesso dal quale esso trae origine. La dottrina prevalente ritiene che il principio desumibile dall'art. 34 debba trovare applicazione in entrambe le situazioni e pertanto il giudicato investa, in linea di principio, esclusivamente il singolo diritto dedotto in giudizio con la domanda; senza estendersi, in caso di pregiudizialità logica, al rapporto sottostante. Alcuni autori, invece, circoscrivono l'art. 34 alla sola pregiudizialità tecnica e ne deducono che, nelle ipotesi di pregiudizialità logica, il giudicato copre anche tutte le questioni concernenti l'esistenza, la validità e il modo stesso di essere del rapporto fondamentale, alla duplice condizione che tali questioni siano state effettivamente discusse nel giudizio in cui si è formato il giudicato, e la soluzione delle questioni stesse abbia concretamente costituito un elemento portante della decisione, ossia possa considerarsi in rapporto di causa-effetto rispetto a questa. L'art. 2909 c.c., secondo cui la cosa giudicata fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, non fornisce elementi univoci quanto ai soggetti che subiscono l'autorità della sentenza, discorrendo di parti non chiarisce se tale concetto viene adoperato in senso sostanziale, con riferimento ai soggetti titolari del rapporto oggetto della decisione, oppuòre in senso processuale, alludendo esclusivamente a coloro i quali abbiano partecipato al giudizio. Bisogna preliminarmente distinguere tra l'efficacia diretta della sentenza, che riguarda il diritto o status oggetto immediato della decisione, e l'efficacia riflessa, che invece investe tutti i diversi rapporti giuridici latu sensu dipendenti dal primo, sia quando riguardino le medesime parti, sia quando facciano capo a soggetti in tutto o in parte differenti. Il giudicato possiede un valore tendenzialmente assoluto, imponendosi a tutti come affermazione di obiettiva verità in ordine all'esistenza e al modo di essere del rapporto giuridico oggetto della decisione, anche se non può certamente operare a discapito di coloro che non abbiano partecipato al relativo giudizio. Il terzo contitolare del rapporto giuridico oggetto della decisione può avvantaggiarsi del giudicato intervenuto tra le parti, allorché tale giudicato investa il rapporto nel suo complesso. Hanno invece carattere eccezionale le ipotesi in cui l'efficacia della sentenza possa prodursi indiscriminatamente ultra partes, vincolando soggetti che non siano stati parti del relativo giudizio, ad es. all'art. 111 co 4° riguardo al successore a titolo particolare in ogni caso assoggettato agli effetti della sentenza pronunciata nei confronti dell'alienante o del successore universale. L'efficacia riflessa della sentenza, quando questa investa rapporti che riguardano terzi, può riguardare i soggetti che, in mancanza di un vero collegamento giuridico tra un diritto proprio e quello controverso tra le parti, possono essere interessati esclusivamente in via di fatto alla sentenza resa tra queste. In questo caso si ritiene che il terzo sia semplicemente tenuto a riconoscere il giudicato formatosi tra le parti, come se si trattasse di un qualunque atto giuridico di cui egli deve tenere conto e dal quale potrebbe derivargli un vantaggio o un pregiudizio in via di fatto. L'efficacia riflessa può riguardare anche i terzi che sono titolari di rapporti giuridici connessi a quello oggetto del giudicato. In questo caso esiste un vero e proprio collegamento giuridico tra un diritto del terzo e quello oggetto del giudicato, e si è soliti escludere che il terzo titolare di un diritto autonomo possa risentire alcun pregiudizio dal giudicato, si prospetterà un problema se tale collegamento giuridico sia una dipendenza, nel senso che l'esistenza o l'inesistenza del diritto del terzo annoveri tra i propri fatti costitutivi l'esistenza o l'inesistenza del diritto sul quale si è formato il giudicato tra le parti. La giurisprudenza difficilmente ammette che il giudicato possa vincolare terzi titolari di


situazioni dipendenti, solitamente opta per una soluzione di compromesso, secondo cui la sentenza, non potendo vincolare i terzi per l'accertamento in essa contenuto, sarebbe utilizzabile esclusivamente per il suo valore di prova (documentale ma liberamente valutabile) in ordine all'esistenza o meno del rapporto pregiudiziale inter alios. È possibile che accada che, non essendo stata dedotta nel processo l'esistenza di un anteriore giudicato, venga pronunciata una nuova decisione sul medesimo oggetto, che acquisti a sua volta la stabilità e l'autorità della cosa giudicata. In tale situazione il vizio della seconda decisione non è più rilevabile poiché non esistono impuògnazioni straordinarie attraverso le quali sia possibile dedurre la violazione di un anteriore giudicato. L'art. 395 n. 5 configura tale vizio come possibile motivo di revocazione ordinaria, che può proporsi solamente fino a quando la sentenza non passi a sua volta in giudicato. può aversi tale revocazione quando: • le due decisioni siano di contenuto identico; • la seconda decisione contrasta con quella precedentemente esclusivamente per una questione pregiudiziale che il secondo giudice ha risolto, in applicazione del principio all'art. 34, incidenter tantum: in tal caso il contrasto è meramente logico, in quanto la seconda sentenza ha un oggetto diverso dalla prima, e quindi può materialmente coesistere; • le sentenze divergano sull'esistenza o inesistenza di un diritto sul quale entrambe hanno pronunciato con efficacia di giudicato: qui il contrasto riguarda lo stesso oggetto ed è dunque pratico, sicché non è possibile che le decisioni coesistano. Prevale in questo caso il giudicato posteriore. 14. LA CORREZIONE DEI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE Sebbene i vizi della sentenza siano emendabili, di regola, solo attraverso le impuògnazioni, vi sono casi in cui queste apparirebbero eccessive rispetto allo scopo; in tali casi il legislatore repuòta sufficiente la correzione del provvedimento da parte dello stesso giudice a quo. L'art. 287 prevede che “Le sentenze contro le quali non sia stato proposto appello e le ordinanze non revocabili possono essere corrette, su ricorso di parte, dallo stesso giudice che le ha pronunciate, qualora egli sia incorso in omissioni o in errori materiali o di calcolo”. Il vizio può riguardare sia un elemento formale sia lo stesso contenuto della decisione, in particolare per quel che attiene al dispositivo vero e proprio. Quando l'errore sia formale, perché possa discorresi di omissione o errore materiale, deve trattarsi di una mera svista involontaria nella redazione del provvedimento, che sia riconoscibile con certezza dalla semplice lettura o dal raffronto con altri atti del procedimento. Quando invece il vizio investa il contenuto della decisione, dovrà trattarsi di un errore estraneo all'attività di giudizio e alla volontà del giudice, incidente esclusivamente sul modo in cui tale volontà si è concretamente manifestata, oppuòre riguardante, nel caso di errore di calcolo, le operazioni aritmetiche utilizzate dal giudice per pervenire ad un determinato risultato. Il rimedio della correzione trova applicazione anche rispetto alle sentenze di secondo grado e ai decreti non revocabili, oltre che, per espressa previsione dell'art. 391-bis, nei confronti delle sentenze e delle ordinanze della Cassazione. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 287 per contrasto con l'art. 24 Cost. nella parte in cui fa riferimento alle sole sentenze “contro le quali non sia stato proposto appello”. Poiché si tratta di un rimedio diretto ad estrinsecare e rendere manifesto il contenuto effettivo della decisone, è impensabile che il suo esperimento sia assoggettato ad un limite temporale. Se la correzione viene chiesta concordemente e congiuntamente, è sufficiente che il giudice provveda con decreto; se invece il ricorso è proposta da taluna soltanto delle parti, il giudice fissa un'udienza di comparizione, con decreto che deve essere di regola notificato, unitamente al ricorso, al difensore con procura delle altre parti, e successivamente provvede con ordinanza, notificata alle parti a cura del cancelliere ed annotata sull'originale del provvedimento corretto. L'art. 288 ult. co. stabilisce che le sentenze possono essere impuògnate, relativamente alle parti corrette, entro il consueto termine (30 o 60 giorni) decorrente dalla notificazione dell'ordinanza di correzione. La correzione delle sentenze di cassazione è disciplinata attraverso il rinvio agli artt. 365 ss, ossia alle norme che governano l'ordinario giudizio di cassazione. Una particolare ipotesi di correzione-integrazione è prevista rispetto ai provvedimenti istruttori che non contengano la fissazione dell'udienza successiva o del termine entro il quale le parti debbono compiere determinati atti. L'art. 289 consente a ciascuna delle parti di chiederne l'integrazione, ed al giudice stesso di disporla d'ufficio, entro il termine perentorio di 6 mesi decorrente, a seconda dei casi, dall'udienza in cui il provvedimento è stato reso oppuòre dalla sua notificazione o comunicazione, laddove prescritta. L'integrazione spetta


al presidente del collegio, quando si tratti di un provvedimento collegiale, o allo stesso giudice istruttore negli altri casi, ed è disposta con decreto, da comunicarsi a tutte le parti a cura del cancelliere. L'inutile decorso di tale termine produce l'estinzione del processo a norma dell'art. 307 co 3°. 15. LE IMpuòGNAZIONI IN GENERALE NOZIONI GENERALI Tradizionalmente, i vizi da cui può essere affetto un provvedimento giurisdizionale sono essenzialmente di due categorie, a seconda che discendano dalla violazione delle norme che disciplinano l'attività delle parti e del giudice (errores in procedendo), oppuòre ineriscano al contenuto stesso della decisione, in relazione alle conclusioni cui è pervenuta vuoi in quanto alla ricostruzione dei fatti, vuoi quanto all'individuazione e all'interpretazione delle norme giuridiche ad essa applicate (errores in iudicando). I vizi in procedendo possono determinare l'invalidità del provvedimento, invalidità propria quando sia causata dal difetto di elementi formali o extraformali della stessa decisione (es. sentenza priva di motivazione), invalidità derivata quando sia conseguenza dell'invalidità di un atto pregresso (es. sentenza fondata su una prova invalidamente assunta), oppuòre della circostanza che il giudice ha deciso il merito della causa in assenza di un presupposto processuale. (es. fosse privo di competenza). I vizi in iudicando possono invece determinare la ingiusta decisione, cioè la sua difformità rispetto alle conclusioni che avrebbero dovuto trarsi da una corretta valutazione delle prove e/o dall'esatta applicazione delle norme sostanziali pertinenti alla fattispecie. Gli artt. 3 co 2° e 24 co 1° e 2° Cost. combinati prescrivono un dovere di coerenza interna al sistema positivo: il principio di eguaglianza, letto in relazione al diritto di azione e di difesa, impedisce di discriminare irragionevolmente, dal puònto di vista dell'impuògnazione, situazioni e/o vizi sostanzialmente analoghi. Dagli art. 24 co 2° e 111 co 2° Cost discende il principio del contraddittorio, che impone che la parte, la quale sia stata danneggiata, in qualunque stato e grado del giudizio, da un vizio in procedendo suscettibile di incidere sull'effettività del contraddittorio o comunque di rendere deteriore la posizione processuale della parte stessa, abbia sempre a propria disposizione un rimedio concretamente idoneo a far valere la nullità e ad ottenere una revisione della decisione che ne è affetta. I rimedi consentiti nei confronti dei provvedimenti giurisdizionali hanno natura tipica e nominata, sono ammessi nei soli casi previsti dalla legge. Il legislatore ha previsto un sistema articolato ed organico di impuògnazioni esclusivamente nei confronti delle sentenze, cioè dei provvedimenti muniti di una particolare stabilità e normalmente idonei ad acquisire l'autorità propria del giudicato. Per le ordinanze e i decreti, puòr essendo ammessi rimedi simili o comunque con funzione analoga, il principio è quello della non impuògnabilità, indipendentemente dal contenuto del provvedimento nonché dalla circostanza che esso sia o no revocabile e modificabile. I mezzi di impuògnazione delle sentenze aventi carattere generale, a norma dell'art. 323, sono: • l'appello; • il ricorso per cassazione; • la revocazione; • l'opposizione di terzo; • il regolamento di competenza. A tale elenco va aggiunta, sebbene non si tratti propriamente di un'impuògnazione, poiché da vita ad un processo nuovo ed autonomo, la c.d. actio nullitatis, cioè l'azione di accertamento negativo eccezionalmente ammessa nei confronti della sentenza priva della sottoscrizione del giudice. Le impuògnazioni si possono classificare come: • ordinarie e straordinarie. Sono ordinarie le impuògnazioni che impediscono, finché sono proponibili, che la sentenza passi in giudicato: l'appello, il ricorso per cassazione, il regolamento di competenza e, limitatamente ad alcuni dei motivi per cui è ammessa, la revocazione. Sono straordinarie l'opposizione di terzo e la revocazione per uno dei rimanenti motivi contemplati agli artt. 395 e 397, che non interferiscono col passaggio in giudicato della sentenza e sono esperibili anche contro una sentenza formalmente passata in giudicato. Le impuògnazioni ordinarie sono assoggettate a termini certi nella durata ma anche nella decorrenza (dies a quo); le impuògnazioni straordinarie, essendo consentite per vizi che potrebbero emergere in un momento successivo alla puòbblicazione della sentenza, oppuòre a soggetti che sono estranei al processo, sono esperibili entro termini la cui decorrenza non è determinabile a priori, o senza alcun limite temporale. • Impuògnazione a critica libera e a critica vincolata. Sono impuògnazione a critica libera l'appello, che può fondarsi su qualunque errore attribuito al primo giudice, il regolamento di competenza e l'opposizione di terzo dell'art. 404 co 1°. Sono impuògnazioni a critica vincolata il ricorso per cassazione e la revocazione,


nonché l'opposizione di terzo revocatoria, ammessa quando la sentenza è l'effetto di dolo o collusione delle parti a danno del terzo (art. 404 co 2°). • Impuògnazioni sostitutive o rescindenti. In teoria tutte le impuògnazioni possono condurre alla sostituzione della sentenza impuògnata con una nuova decisione che abbia il medesimo oggetto e dunque pronunci, entro i limiti dell'impuògnazione, sulla stessa domanda che era stata formulata davanti al giudice a quo. Nella maggior parte dei casi per , la fase rescissoria, quella depuòtata alla pronuncia di una nuova decisione, presuppone che si sia positivamente conclusa una prima fase rescindente, destinata alla verifica dei vizi denunciati dall'impuògnate e dunque all'annullamento o alla caducazione del provvedimento impuògnato; tali impuògnazioni si dicono rescindenti, perché hanno come primo obiettivo l'eliminazione del provvedimento impuògnato. Solamente l'appello deroga a tale schema, in quando conduce sempre e comunque alla diretta sostituzione della decisione impuògnata, anche quando si concluda col rigetto dell'impuògnazione e la piena conferma della sentenza di primo grado, che viene anche in questo caso rimpiazzata da quella del giudice ad quem. L'appello appartiene al novero delle impuògnazioni sostitutive. Dal puònto di vista dell'impuògnazione, se il giudice pronuncia sentenza in luogo di un'ordinanza o di un decreto, o viceversa, prevale il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, secondo cui l'elemento determinante, anche in vista dell'individuazione dei rimedi appropriati, sia rappresentato dal contenuto effettivo del provvedimento. Se l'errore conduce alla pronuncia di una sentenza in luogo di un'ordinanza o di un decreto non sorgerà problema, in quanto la parte soccombente ha la possibilità di avvalersi delle impuògnazioni tipiche delle sentenze. Se invece si verifica il caso opposto, l'errore potrebbe avere conseguenze più gravi, traducendosi in una espropriazione del diritto di impuògnare. La giurisprudenza suole in tali casi invocare il principio della prevalenza della sostanza sulla forma (anche se poco pertinente), e su tale base ammettere che l'ordinanza emessa al di fuori di presupposti di legge o comunque viziata, equivalga a sentenza appellabile; oppuòre in altre occasioni, muovendo dal presupposto che si tratti di provvedimenti sommari decisori, repuòta esperibile il ricorso per cassazione straordinario, a norma dell'art. 111 co 7 Cost. Anche il diritto all'impuògnazione è condizionato all'esistenza della legittimazione e dell'interesse ad impuògnare. In linea di principio la legittimazione ad impuògnare, e ad essere destinatari della domanda di impuògnazione, deriva dalla partecipazione al procedimento in cui è stata resa la sentenza impuògnata, e dunque presuppone che in quel processo si sia comunque assunta la qualità di parte, ancorché invalidamente o come conseguenza di un errore del giudice. In caso di rappresentanza volontaria, la legittimazione competerà tanto al rappresentante quanto allo stesso rappresentato. Fanno eccezione le opposizioni di terzo, ordinaria o revocatoria, e la revocazione del puòbblico ministero, che presuppongono proprio la mancata partecipazione dell'impuògnante al processo da cui è scaturita la sentenza; e la legittimazione riconosciuta al successore a titolo particolare, in quanto subisce in prima persona l'efficacia diretta della sentenza, puòr formalmente resa nei confronti dell'alienante o dell'erede. puòr in mancanza di un'espressa previsione, la legittimazione ad impuògnare spetta agli eredi della parte, che subiscono gli effetti del giudicato (art. 2909) e nel contempo subentrano ipso iure in tutti i diritti e i poteri, anche processuali, del loro dante causa. Per proporre un'impuògnazione è necessario che sussista un interesse alla riforma o all'annullamento del provvedimento impuògnato, affinché sia assicurata anche i questa fase del processo la concreta utilità della tutela giurisdizionale. Il requisito dell'interesse ad impuògnare si ricollega direttamente alla soccombenza, alla circostanza che la parte si sia vista rigettare, totalmente o parzialmente, nel merito o anche solo per ragioni processuali, una propria domanda, oppuòre che abbia visto accogliere, totalmente o parzialmente, una domanda che un'altra parte aveva proposto nei suoi confronti. La soccombenza deve essere valutata esclusivamente in relazione alle domande che le parti avevano conclusivamente formulato nel processo in cui è stata resa la sentenza, essendo irrilevante la soluzione eventualmente sfavorevole cui il giudice sia pervenuto in ordine a taluna delle questioni sollevate dalla parte vittoriosa. L'interesse ad impuògnare, puòr mancando originariamente rispetto ad una sentenza che veda la parte totalmente vittoriosa nel merito, potrebbe sopravvenire quando la decisione di merito venisse da altri impuògnata e dunque rimessa in discussione; in questo caso la parte stessa avrebbe interesse ad impuògnare anche la sentenza che


avesse semplicemente deciso in senso a lei sfavorevole una questione, ogniqualvolta tale decisone fosse idonea a vincolare il giudice dell'impuògnazione. Con la sola eccezione dell'opposizione di terzo ordinaria (art. 404), svincolata da qualunque termine, tutte le impuògnazioni sono soggette ad un termine di decadenza piuttosto breve (art. 325): • 60 giorni per il ricorso in cassazione • 30 giorni per ogni altra impuògnazione, incluso il regolamento di competenza. Nel caso delle impuògnazioni ordinarie, fondate su vizi immediatamente percepibili dall'esame della decisione, il dies a quo si identifica solitamente col giorno in cui la sentenza è stata notificata con le modalità dell'art. 285. L'unica deroga riguarda il regolamento di competenza, per il quale è previsto che debba aversi riguardo alla comunicazione della sentenza che ha pronunciato sulla competenza. Perché sia idonea a far decorrere il termine in questione, la notifica della sentenza deve essere eseguita, su istanza di parte, a norma dell'art. 170, al difensore con procura o alla parte stessa, se questa si era costituita di persona nel processo in cui la sentenza è stata resa. Quando invece si tratti di revocazione straordinaria, delle parti o del puòbblico ministero, oppuòre di opposizione di terzo revocatoria, il dies a quo non può determinarsi a priori, ma coincide con il momento in cui l'interessato ha avuto effettiva cognizione del vizio per cui l'impuògnazione è ammessa, oppuòre, nel caso della revocazione del puòbblico ministero, col giorno in cui questi ne ha avuto conoscenza della sentenza. L'art. 326 co 2° prevede, con specifico riferimento all'ipotesi in cui la sentenza sia stata resa nei confronti di più parti in cause scindibili, che l'impuògnazione proposta contro una parte fa decorrere nei confronti dello stesso soccombente il termine per proporla contro le altre parti. La notifica dell'impuògnazione viene equiparata, per colui che l'ha proposta, alla notifica della sentenza. I termini brevi dell'art. 325 restano interrotti quando, durante la loro decorrenza, sopravvenga uno degli eventi contemplati dall'art. 299, cioè morte o perdita della capacità processuale della parte, morte, radiazione o sospensione dall'albo del procuratore costituito. L'art. 328 prevede che il nuovo termine decorra dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata a chi è subentrato alla parte: gli eredi o il rappresentante legale. Le impuògnazioni ordinarie sono soggette anche ad un ulteriore termine di decadenza (termine lungo) che scade inevitabilmente sei mesi dopo la puòbblicazione della sentenza e mira ad evitare che, non essendo questa stata notificata, la strada dell'impuògnazione resti aperta senza limite, impedendo il formarsi del giudicato. Tale termine semestrale concorre con quelli brevi e, quando venga a scadere prima di quelli, fa in ogni caso passare in giudicato la sentenza. L'unica ipotesi in cui tale disposizione non si applica ricorre quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione, e per nullità della notificazione degli atti di cui all'art. 292. E' quindi necessario che sia nulla la citazione introduttiva o la relativa notificazione; che sia nulla anche la notifica degli altri atti eventualmente notificati al contumace, tra cui potrebbe esserci la sentenza; che tali nullità abbiano impedito realmente al contumace di avere conoscenza del processo. Il termine semestrale prende a decorrere dal giorno in cui il contumace acquisisca la conoscenza effettiva del processo o della sentenza stessa, fermo restando che l'altra parte potrebbe puòr sempre notificargli nuovamente la sentenza, con l'effetto di far decorrere il termine breve dell'art. 325. L'art. 330 regola la notificazione dell'atto di impuògnazione: • se nell'atto di notifica della sentenza la parte destinataria dell'impuògnazione aveva dichiarato la propria residenza o eletto domicilio nell'ambito della circoscrizione del giudice da cui la sentenza proviene, l'impuògnazione deve essere notificata alla parte in tali luoghi; • fuori dal caso precedente, si notifica presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Il destinatario effettivo della notificazione può essere, indifferentemente, tanto il procuratore costituito nel precedente grado di giudizio, quanto la parte stessa; • se manca la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio oppuòre è trascorso un anno dalla puòbblicazione della sentenza, la notifica deve eseguirsi personalmente alla parte. L'acquiescenza è una manifestazione di volontà che ha per oggetto l'accettazione della sentenza e come effetto quello di escludere la proponibilità delle impuògnazioni, salvi i casi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395, ossia le ipotesi in cui la parte soccombente venga successivamente a conoscenza di un motivo di revocazione straordinaria. L'acquiescenza opera come una rinuncia al diritto di impuògnare, determinandone l'estinzione, e presuppone che la sentenza sia già venuta giuridicamente in vita, tramite la puòbblicazione, e che


l'impuògnazione non sia stata ancora proposta. può essere espressa, quando si traduca in una dichiarazione ad hoc, unilaterale e non recettizia, oppuòre tacita, quando risulti indirettamente da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impuògnazioni previste dalla legge (art. 329). In base all'art. 329 co 2°, l'impuògnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impuògnate (acquiescenza tacita qualificata), e presuppone che nella sentenza siano individuabili una pluralità di capi e che taluno soltanto di essi sia investito dall'impuògnazione. Correlato con l'art. 336, si evince che tale principio può valere solo per i capi che siano autonomi ed indipendenti da quello impuògnato, se infatti si trattasse di capi da esso dipendenti, l'impuògnazione parziale per un verso non potrebbe considerarsi acquiescenza e dall'altro potrebbe condurre, in caso di accoglimento, alla loro caducazione. Si ha inammissibilità nei casi in cui l'impuògnazione non poteva essere proposta e improcedibilità nei casi in cui l'impuògnazione non può essere proseguita, e deve quindi essere definita con un pronuncia meramente processuale. L'inammissibilità può derivare da svariate ragioni, tutte attinenti alla fase genetica dell'impuògnazione, al momento in cui è stata proposta, ad es. l'impuògnazione era esclusa per legge, difetto di legittimazione o interesse ad impuògnare. Nulla esclude che possa ricollegarsi a vizi di forma-contenuto dell'atto di impuògnazione, ma in questo caso le fattispecie di inammissibilità hanno natura tassativa, perché in assenza di un'esplicita previsione normativa, i vizi di forma-contenuto sono inevitabilmente assoggettati alla disciplina delle nullità. Le ipotesi di improcedibilità invece si collocano in una fase successiva all'instaurazione del processo di impuògnazione, attengono solitamente al mancato compimento di determinate attività di parte e devono considerarsi tassative. La pronuncia di improcedibilità, a differenza di quella di estinzione, investe solo una determinata impuògnazione, mentre l'estinzione riguarda inevitabilmente il processo nella sua interezza. Gli artt. 358 e 387 prevedono, esclusivamente con riguardo all'appello e al ricorso per cassazione, che l'impuògnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non possa essere riproposta, anche se non è ancora decorso il termine previsto dalla legge. La consumazione dell'impuògnazione non deriva solo dall'esercizio del relativo potere, ma dalla circostanza che l'inammissibilità e l'improcedibilità siano già state dichiarate dal giudice, fino a quel momento, nulla impedisce di proporre una nuova impuògnazione, a condizione che ci avvenga nel rispetto dei termini di decadenza previsti dalla legge. La dichiarazione di inammissibilità, quando dipenda dal non essere l'impuògnazione ancora proponibile non può precludere la reiterazione dell'impuògnazione stessa nel momento in cui si verifichino le condizioni richieste dalla legge. Gli effetti della pronuncia del giudice dell'impuògnazione, sostitutiva o rescindente, investono in via diretta le sole parti della sentenza che erano state effettivamente impuògnate. L'art. 336 prevede che tali effetti possano espandersi anche oltre i capi di sentenza immediatamente coinvolti dalla riforma o dalla cassazione: • alle altre parti della sentenza dipendenti da quella riformata o cassata (effetto espansivo interno); • agli altri provvedimenti ed atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata. La sentenza di secondo grado, quando riforma una sentenza di condanna, produce sicuramente effetti immediati su tutti gli atti esecutivi eventualmente posti in essere medio tempore, e impedisce che il processo di esecuzione forzata prosegua. In linea di principio il processo di impuògnazione, ad eccezione del ricorso per cassazione, può estinguersi per le stesse cause che determinerebbero l'estinzione del processo di primo grado. Sia per rinuncia agli atti del relativo giudizio, sia all'inattività delle parti. L'art. 338 prevede che l'estinzione del procedimento di appello o di revocazione ordinaria non determini l'inefficacia della sentenza di primo grado, ma il suo passaggio in giudicato, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento d'impuògnazione estinto. L'IMpuòGNAZIONE NEI PROCESSI CON PLURALITA' DI PARTI L'impuògnazione produce effetti, di regola, esclusivamente tra colui che l'ha proposta e la parte che ne è destinataria. Quando la sentenza sia stata pronunciata fra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, l'impuògnazione dovrebbe sempre proporsi, a pena di inammissibilità, nei confronti di tutte le parti, non potendosi consentire che la sentenza venga riformata per alcune soltanto di esse e passi in giudicato per le altre, dando eventualmente luogo ad un contrasto di giudicati intollerabile. L'art. 331 prevede, se la sentenza non è stata impuògnata nei confronti di tutte le parti, che il giudice non possa immediatamente dichiarare l'inammissibilità dell'impuògnazione, ma debba ordinare,


indipendentemente dalla circostanza che il termine per l'impuògnazione sia nel frattempo scaduto o meno, l'integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro il quale l'impuògnazione deve essere notificata alle parti inizialmente pretermesse, nonché, se necessario, l'udienza di comparizione. La declaratoria di inammissibilità si avrà solamente nel caso in cui l'ordine del giudice rimanga inadempiuto. L'impuògnazione tempestivamente proposta nei confronti di alcuna soltanto delle parti è idonea ad instaurare validamente il giudizio di impuògnazione, evitando il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti di tutte, a condizione che la successiva integrazione del contraddittorio avvenga entro il termine fissato dal giudice. Se invece al litisconsorzio corrisponde una pluralità di cause scindibili, il legislatore impedisce che l'unico processo originario si ramifichi in fase di impuògnazione: non serve che la sentenza venga impuògnata nei confronti di tutte le parti, basta evitare che si abbiano più impuògnazioni separate, ciascuna delle quali darebbe luogo ad un autonomo giudizio di impuògnazione. L'art. 332 prevede che se l'impuògnazione, di cause scindibili, è stata proposta soltanto da alcuna delle parti o nei confronti di alcuna di esse, il giudice ne ordina la notificazione alle altre in confronto delle quali l'impuògnazione non è preclusa o esclusa, fissando il termine entro il quale deve provvedersi alla notifica e, se necessario, l'udienza di comparizione. Rispetto all'art. 331, il giudice non ordina in nessun caso l'integrazione del contraddittorio, di estendere il giudizio alle parti che non erano state coinvolte dall'impuògnazione, ma solo di notificare loro l'impuògnazione, facendo si che la parte che la riceve, se voglia impuògnare a propria volta la sentenza, debba farlo necessariamente nella forma dell'impuògnazione incidentale, facendo salva l'esigenza di unitarietà del giudizio di gravame. Qualora l'ordine del giudice non venga rispettato si avrà la sospensione del processo d'impuògnazione fino al momento in cui scadranno, per tutte le parti soccombenti, i termini di decadenza degli artt. 325 e 327, ossia fino a quando sarà definitivamente esclusa la possibilità di altre impuògnazioni. L'art. 335 prevede che tutte le impuògnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite, anche d'ufficio, in un solo processo. È definita causa inscindibile ogni fattispecie in cui alla pluralità di parti corrisponda un litisconsorzio necessario originario, a norma dell'art. 102, giacché in questi casi, puòr quando si tratti, in realtà di più cause connesse, è lo stesso legislatore ad imporre un accertamento uniforme rispetto a tutti i litisconsorti, come fosse un'unica causa. La giurisprudenza suole estendere lo stesso principio alle ipotesi di litisconsorzio necessario processuale, che ricorrerebbe sia quando, nel corso del processo, la parte fosse morta e fossero subentrati, in suo luogo, più eredi, sia in tutti i casi in cui il giudice avesse disposto l'intervento coatto di un terzo, ex art. 107. Un limite per le cause inscindibili e per quelle tra loro dipendenti si può individuare nell'oggetto dell'impuògnazione concretamente proposta: l'integrazione del contraddittorio si renderà necessaria, ex art. 331, solamente quando l'impuògnazione, da chiunque proposta, verta sull'esistenza o sul modo di essere, rispettivamente, dell'unico rapporto dedotto in giudizio o del rapporto pregiudiziale; non anche quando essa investa esclusivamente la posizione di taluno dei litisconsorti oppuòre il solo rapporto dipendente. L'IMpuòGNAZIONE INCIDENTALE L'impuògnazione può giovare esclusivamente a chi l'ha proposta, quindi, quando vi sono più parti soccombenti oppuòre ricorra una soccombenza parziale reciproca, non è possibile che l'impuògnante veda riformare la sentenza in senso a sé sfavorevole (divieto di reformatio in peius), a meno che tale esito non derivi dall'accoglimento dell'impuògnazione proposta da un'altra parte. L'impuògnazione incidentale serve a far confluire in un unico processo tutte le impuògnazioni proponibili contro la stessa sentenza. Il processo di impuògnazione, come quello di primo grado, viene instaurato, a seconda dei casi, con citazione o con ricorso. La parte che impuògna per prima deve rispettare le forme prescritte per l'impuògnazione principale, che dà inizio al processo. L'art. 333 prescrive invece che le parti che abbiano già ricevuto la notifica di tale impuògnazione principale e vogliano a loro volta impuògnare la sentenza, sul presupposto che siano a loro volta soccombenti, debbono proporre, a pena di decadenza, le loro impuògnazioni in via incidentale nello stesso processo, devono cioè rispettare per la loro impuògnazione, successiva a quella principale, le forme specificamente previste per le


impuògnazioni incidentali. Le sorti dell'impuògnazione incidentale e dell'impuògnazione principale non sono in alcun modo legate. Un nesso tra le due impuògnazioni potrebbe derivare semmai dalla volontà stessa dell'impuògnante incidentale che subordini espressamente la sua impuògnazione all'accoglimento o al rigetto dell'impuògnazione principale. L'onere di utilizzare la forma dell'impuògnazione incidentale sorge solo nel momento in cui si riceve la notifica dell'impuògnazione principale, oppuòre dell'atto di integrazione del contraddittorio che sia stata ordinata dal giudice a norma dell'art. 331, oppuòre dalla litis denuntiatio disposta ex art. 332. può succedere che dopo una prima impuògnazione principale ne venga legittimamente proposta un'altra, anche questa in forma principale, da una parte che non era stata coinvolta dalle prima impuògnazione, o alla quale non era ancora stata notificata l'impuògnazione. La stessa situazione si verifica quando in un giudizio tra due sole parti reciprocamente soccombenti, entrambe proponessero l'impuògnazione simultaneamente, dando vita ad autonomi processi d'impuògnazione aventi ad oggetto la stessa sentenza. In questi casi tutte le impuògnazioni separatamente proposte sono obbligatoriamente riunite, anche d'ufficio, in un solo processo (art. 335). In tutti gli altri casi conseguirebbe la decadenza della parte dal diritto di impuògnare, e dunque l'inammissibilità dell'impuògnazione irritualmente proposta in forma principale. La giurisprudenza tuttavia ammette che la seconda impuògnazione possa convertirsi in un'impuògnazione incidentale e possa poi ricondursi al primo giudizio attraverso un'applicazione estensiva dell'art. 335, tramite la riunione dei due processi, a condizione per che l'impuògnazione proposta in forma erronea abbia almeno rispettato il termine entro cui avrebbe dovuto proporsi l'impuògnazione incidentale. In linea di principio, tanto il termine breve, che decorre dalla notificazione della sentenza, quando quello semestrale, decorrente dalla puòbblicazione, valgono anche per l'impuògnazione incidentale e, quando dovessero scadere prima di quelli dettati per l'impuògnazione incidentale, egualmente ne precluderebbero la proposizione. L'art. 334 apporta un'importante deroga in favore delle parti contro le quali è stata proposta impuògnazione nonché di quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell'art. 331, stabilendo che tali soggetti possono proporre impuògnazione incidentale nonostante l'avvenuta scadenza del termine ordinario o l'intervenuta acquiescenza. L'impuògnazione tardiva deve sempre rispettare i diversi termini specificamente previsti per l'impuògnazione incidentale, si considera ex lege subordinata all'effettiva proponibilità dell'impuògnazione principale da cui trae origine, se questa viene poi dichiarata inammissibile l'impuògnazione incidentale tardiva non ha più ragione d'essere e perde ogni efficacia (art. 334 co 2°). Per ogni altro aspetto è invece autonoma, non risente ad es. dell'eventuale improcedibilità dell'impuògnazione principale né, tanto meno, dell'esito di questa. L'unico limite risultante dall'art. 334 è di origine soggettiva: a poter usufruire dell'impuògnazione tardiva è solo la parte contro la quale sia stata proposta un'altra anteriore impuògnazione, nonché quella nei cui confronti sia stato integrato il contraddittorio a norma dell'art. 331: la notifica dell'impuògnazione, effettuata nelle cause scindibili al solo fine di provocare l'impuògnazione incidentale dei soggetti non coinvolti dall'impuògnazione principale, non consentirebbe a questi ultimi di impuògnare dopo che fossero scaduti i termini ordinari. L'impuògnazione incidentale tardiva non trova alcun ostacolo nell'eventuale acquiescenza anteriormente manifestata, ben potrebbe provenire dalla parte che aveva già proposto un'impuògnazione parziale ed investire, in tali casi, uno dei capi della sentenza che, non essendo stati toccati dalla precedente impuògnazione, erano stati oggetto di acquiescenza tacita ai sensi dell'art. 329 co 2°. L'IMpuòGNAZIONE DELLE SENTENZE NON DEFINITIVE La riserva di impuògnazione è ammessa nei confronti delle sentenze non definitive. Relativamente all'appello, l'art, 340 fa espressamente riferimento alle sentenze di primo grado previste dall'art. 278 e dall'art. 279 co 2° n. 4. La possibilità di scelta tra l'impuògnazione immediata e la riserva è data sia per le sentenze di condanna generica o provvisionale, sia per tutte quelle con le quali il giudice abbia pronunciato su una questione oppuòre su una delle più domande cumulate nel processo, impartendo distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa. Riguardo alle sentenze su domanda, per le quali non è ammessa l'impuògnazione differita, l'art. 340 non richiama le sentenze con cui il


giudice, avvalendosi delle facoltà previste dagli artt. 103 co 2° e 104 co 2°, abbia deciso alcune soltanto delle cause fino a quel momento riunite e, con distinti provvedimenti, abbia disposto la separazione e la prosecuzione dell'istruzione per le altre, provocando in tal modo la definitiva scissione del processo cumulato, fino a quel momento unico (art. 279 co 2°). Riguardo al ricorso per cassazione, l'art. 361 prende in considerazione, accanto alle sentenza previste all'art. 278 di condanna generica o provvisionale, solamente le sentenza che decidono alcune delle domande senza definire l'intero giudizio. L'art. 360 co 3° esclude che siano immediatamente ed autonomamente ricorribili le sentenze (di appello o di unico grado) che decidono di questioni insorte senza definire, neppuòre parzialmente, il giudizio. La riserva d'impuògnazione, necessaria ad evitare la decadenza che altrimenti deriverebbe dallo spirare dei termini ordinari, può essere formulata tanto direttamente all'udienza, attraverso una dichiarazione orale inserita nel relativo verbale oppuòre una dichiarazione scritta su foglio separato, da allegarsi al verbale stesso, quanto mediante atto autonomo, da notificare ai procuratori delle altre parti costituite oppuòre alle parti stesse personalmente, quando siano contumaci (art. 129 e 133 disp. att.). La riserva è ammessa fino alla prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza non definitiva. Devono per tenersi presenti anche i consueti termini previsti, rispettivamente, per l'appello e per il ricorso per cassazione, i quali, specificamente quando la sentenza fosse stata notificata, ben potrebbero scadere prima dell'udienza indicata e, implicando il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva, ne escluderebbero l'impuògnazione. Se invece i termini per appellare o per ricorrere in cassazione scadessero dopo la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza, la conclusione di tale udienza impedirebbe la successiva formulazione della riserva di impuògnazione differita, ma non escluderebbe un'impuògnazione immediata della sentenza non definitiva, nel rispetto dei termini ordinari. La riserva di impuògnazione vincola esclusivamente la parte che l'ha formulata, che non potrà cambiare idea ed optare, in seguito, per l'impuògnazione immediata, mentre non esclude che un'altra parte soccombente impuògni immediatamente; nel qual caso la riserva già fatta rimane priva di efficacia, sicché la parte che l'aveva proposta dovrà, ove lo ritenga, impuògnare a propria volta subito, di regola nella forma dell'impuògnazione incidentale. Qualora nel prosieguo del processo venga pronunciata un'altra sentenza non definitiva, nulla esclude che anche questa sia oggetto di riserva d'impuògnazione differita. Se questa seconda pronuncia non definitiva è invece impuògnata, da qualunque delle parti, nei termini ordinari, nel relativo processo dovrà proporsi anche l'impuògnazione della sentenza anteriormente riservata. Se poi si perviene alla pronuncia della sentenza definitiva, l'eventuale impuògnazione della non definitiva deve essere proposta unitamente a quella contro la sentenza che definisce il giudizio. può avvenire che il giudizio, dopo la pronuncia della sentenza non definitiva oggetto della riserva, si estingua. Bisogna distinguere: se si tratta di una sentenza dal contenuto processuale, essa perde ogni efficacia in seguito all'estinzione, e non si pone il problema della sua impuògnazione; se invece la sentenza è di merito, sicché sopravvive all'estinzione, essa acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui diventa irrevocabile l'ordinanza, o passa in giudicato la sentenza, dichiarativa dell'estinzione, e da questo momento prenderanno a decorrere i consueti termini di decadenza per la sua impuògnazione. 16. L'APPELLO Alcune connotazioni fondamentali dell'appello sono: • è un'impuògnazione dall'effetto almeno potenzialmente devolutivo, sottopone ad un giudice diverso e superiore lo stesso oggetto sul quale ha già pronunciato a quo; • ha natura sostitutiva, il suo obiettivo non è la mera eliminazione della sentenza ma, sempre e direttamente, la pronuncia di una nuova decisione sul merito della causa, la quale prende in ogni caso il posto della sentenza di primo grado, puòr quando il contenuto sia identico; • è utilizzabile a fronte di qualunque vizio della sentenza di primo grado, sia esso in procedendo o in iudicando, indipendentemente dalla circostanza che attenga al giudizio in diritto oppuòre alla ricostruzione dei fatti rilevanti per la decisione. Di regola, tutte le sentenze pronunciate in primo grado, dal giudice di pace o dal tribunale, sono appellabili. Fanno eccezione: • le sentenza pronunciate secondo equità in base ad una concorde richiesta delle parti, nei casi in cui


ci è consentito dall'art. 114; • le sentenze nei cui confronti le parti, anche anteriormente alla pronuncia, si siano accordate per omettere l'appello, al fine di poterle impuògnare direttamente con ricorso per cassazione (art. 360 co 2°); • le sentenze che decidono una controversia di lavoro di valor non superiore a 25, 82 euro (art. 440); • le sentenze rese su un'opposizione agli atti esecutivi, che l'art. 618 definisce non impuògnabili; • le sentenze per le quali la legge preveda, quale rimedio di carattere generale, una opposizione davanti allo stesso ufficio giudiziario dal quale promanano. Competente per il giudizio d'appello è il giudice immediatamente superiore a quello che ha pronunciato la sentenza impuògnata. La competenza per territorio è attribuita all'ufficio giudiziario nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato in primo grado (art 341). Trovano applicazione i principi generali desumibili dall'art. 50, che consente, quando venga adito un giudice incompetente, la conservazione degli effetti dell'atto introduttivo e la continuazione del processo davanti al giudice competente. L'effetto devolutivo dell'appello deve intendersi come la possibilità che l'impuògnazione chiami il giudice ad quem a decidere nuovamente la stessa domanda già sottoposta all'esame del giudice di primo grado, con i medesimi poteri che competevano a quest'ultimo. Il codice del 1940 ha limitato l'automaticità dell'effetto devolutivo: l'art. 342 impone all'appellante di indicare, fin dall'atto introduttivo, i motivi specifici dell'impuògnazione; l'art. 346 stabilisce invece che le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate. L'art. 342 esige la specificazione dei motivi di impuògnazione ma non commina alcuna particolare sanzione per la violazione di tale obbligo. Secondo una prima opinione, i motivi servirebbero essenzialmente a chiarire quali parti della sentenza l'appellante abbia inteso effettivamente impuògnare, la loro omissione resterebbe priva di autonome conseguenze quando dall'atto di appello fosse desumibile la volontà di impuògnare la sentenza nella sua interezza. Una seconda opinione (prevalente) invece ritiene che i motivi d'appello non servano solo ad individuare i capi della sentenza oggetto dell'impuògnazione, ma anche a selezionare le questioni sulle quali il giudice ad quem è chiamato a decidere, nel senso che potrà riesaminare le sole questioni che gli siano state riproposte attraverso specifiche censure. La cognizione del giudice d'appello resta definitivamente circoscritta alle sole questioni sulle quali la pronuncia del primo giudice sia stata oggetto di specifiche censure nell'atto di appello; il grado di specificità richiesto per tali censure dipende essenzialmente dal livello di specificità della motivazione della decisione impuògnata, giacché le critiche dell'appellante devono essere potenzialmente idonee a contrastare l'iter argomentativo seguito dal primo giudice. Derogano a tale sistema: • le questioni, processuali o di merito, rilevabili d'ufficio anche in sede di impuògnazione (ad es. il difetto di giurisdizione) e risultanti dagli atti, a condizione che su di esse non vi sia sta un'espressa decisione del giudice a quo; • tutte le questioni di mero diritto (es. relative all'interpretazione di una norma di legge), per la quale vale il principio iura novit curia, puòrché riguardino dei puònti della decisione che sono stati investiti, seppuòre per un diverso profilo, dalle censure dell'appellante. In entrambi i casi si ammette che il giudice d'appello, all'interno dei capi impuògnati, possa esaminare tali questioni di propria iniziativa, indipendentemente dalla sollecitazione della parte che ha impuògnato. L'art. 342 prevede un onere dell'appellante che, qualora voglia far riesaminare dal giudice di secondo grado una determinata questione già decisa dal primo giudice, è tenuto ad indicare nell'atto d'impuògnazione le ragioni per le quali repuòta erronea la soluzione cui è pervenuto il primo giudice. L'art. 346 fa onere alle parti di riproporre espressamente in appello le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, onde evitare che si intendano rinunciate. Riguardo alle domande deve intendersi solamente nel senso di “non decise”, poiché, quando si trattasse di domande respinte, la parte soccombente non potrebbe limitarsi a riproporle ma dovrebbe impuògnare, in via principale o incidentale il relativo capo di sentenza, formulando le relative censure nello stesso atto d'appello, a norma dell'art. 342. Mentre per l'appellante l'art. 346 troverebbe applicazione solo rispetto alle eccezioni non decise (per quelle respinte varrebbe egualmente l'onere di impuògnare il relativo capo di sentenza), per l'appellato la norma riguarderebbe anche le eccezioni rigettate, con la conseguenza che tali eccezioni potrebbero essere


semplicemente riproposte al giudice ad quem. Si preferisce l'opinione, minoritaria, secondo cui anche per le eccezioni, e non soltanto per le domande, l'espressione “non accolte” può essere intesa esclusivamente nel senso di “non decise”, riconoscendo che se invece si tratta di eccezioni vere e proprie esplicitamente o implicitamente respinte, anche l'appellato vittorioso nel merito deve impuògnare la relativa statuizione, ovviamente in via incidentale, per evitare che sulla questione scenda la barriera del giudicato. Nel giudizio di appello l'intervento di terzi è ammesso in termini più ristretti che nel giudizio di primo grado. L'intervento coatto è in ogni caso escluso, anche quando, essendo stato chiesto al giudice di primo grado, questo l'avesse erroneamente negato. Per il solo intervento volontario, l'art. 334 prevede una deroga limitatamente ai terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell'art. 404, senza per distinguere tra opposizione di terzo ordinaria o revocatoria. La legittimazione all'intervento compete esclusivamente ai litisconsorti necessari pretermessi; a coloro i quali vantino un diritto autonomo ed incompatibile rispetto a quello accertato nella sentenza; ai creditori e agli aventi causa si taluna delle parti. In tali ipotesi l'intervento mira, indipendentemente dall'esito del giudizio di primo grado, a prevenire la pronuncia di una sentenza viziata da parte del giudice d'appello, il quale dovrà comunque decidere nuovamente la causa nel merito. Fuori dalle previsioni dell'art. 344, è pacifico che in appello possa intervenire volontariamente il successore a titolo particolare nel diritto controverso, cui l'art. 111 conferisce il diritto di impuògnare autonomamente la sentenza. Anche nel giudizio di secondo grado potranno aversi modificazioni della parti originarie: l'estromissione di taluna, a norma degli att. 108, 109 a 111; l'intervento dei successori universali di una parte; la sostituzione del rappresentato al rappresentante, in ogni ipotesi in cui la rappresentanza legale venga meno (ad es. con il raggiungimento della maggiore età), oppuòre la rappresentanza volontaria sia revocata dallo stesso rappresentante. L'art. 345 co 1° esclude che nel giudizio di appello possano proporsi domande nuove e prevede, per il caso in cui il divieto sia violato, che le nuove domande siano dichiarate inammissibili anche d'ufficio. Rimarranno liberamente proponibili in un separato giudizio. Tale preclusione ammette deroghe solamente per la richiesta degli interessi, dei frutti e degli accessori maturati dopo la deliberazione della sentenza di primo grado, nonché per la domanda di risarcimento dei danni posteriori alla sentenza stessa (sull'implicito che la domanda di risarcimento fosse già stata avanzata in primo grado). Più che domande nuove si tratta di un ampliamento quantitativo del petitum originario, giustificato da fatti sopravvenuti. Si sottrae al divieto di nuove domande, nonostante la mancanza di una disposizione ad hoc, la richiesta di restituzione di quanto sia stato eventualmente corrisposto in esecuzione della sentenza di primo grado. L'art. 345 mentre esclude la mutatio libelli, prevede implicitamente la modifica (emendatio) quanto, a fortiori, alla semplice precisazione delle domande formulate in primo grado, a tutte le variazioni che non incidano sull'identità delle domande stesse. Ad es. se a domanda riguarda un diritto autodeterminato, non contrasterebbe col divieto di nuove domande la deduzione, in appello, di un fatto costitutivo diverso da quello originariamente prospettato in primo grado, poiché costituirebbe una mera emendatio della stessa domanda. L'art. 345 co 2° esclude le nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d'ufficio. Per le eccezioni processuali, fondate su questioni pregiudiziali di rito o su nullità di cui la legge, esplicitamente o implicitamente, ammette la rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, deve ritenersi che il potere-dovere del giudice d'appello di rilevare l'impedimento alla decisione di merito prescinda dall'iniziativa delle parti, rimanendo subordinato solo all'esistenza di un'impuògnazione idonea ad investirlo del riesame della domanda. Per le eccezioni di merito è invece necessario ulteriormente distinguere, a seconda che la domanda sia stata rigettata o accolta: nel primo caso il giudice d'appello potrebbe sempre porre a base della decisione di conferma, indipendentemente dal rilievo della parte interessata, la questione, rilevabile d'ufficio, che nessuno aveva sollevato in primo grado, e conseguentemente le stesse parti potrebbero introdurre la nuova eccezione per tutto il corso del processo di secondo grado; se la domanda invece è stata accolta, la proposizione della nuova eccezione costituisce esercizio del potere d'impuògnazione e quindi non può non essere compresa nei motivi d'appello, a norma dell'art. 342,


sicché la sua proposizione dovrà avvenire contestualmente all'impuògnazione, principale o incidentale. Le mere difese, puòr quando si traducano nella contestazione di fatti allegati dall'avversario, sfuggono alla preclusione prevista per le eccezioni in senso stretto, e restano proponibili anche in appello. Questo è deducibile in base all'art. 115 co 1° secondo cui il giudice può porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati. L'art. 345 co 3° prevede che di regola non siano ammessi in appello nuovi mezzi di prova, ma esclude da tale divieto: • il giuramento decisorio; • le prove che la parte dimostri di non aver potuto proporre in primo grado per una causa ad essa non impuòtabile; • i mezzi di prova che il giudice d'appello ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa (controverso in quanto l'art. 2697 c.c. impone al giudice di decidere comunque, anche in mancanza di qualsiasi prova). Le opzioni interpretative più plausibili sono due: ricollegare tale deroga alla prova dei fatti nuovi che le parti possono legittimamente introdurre per la prima volta in appello, la prova sarebbe indispensabile allorché avesse ad oggetto uno dei fatti sui quali si fonda una domanda nuova eccezionalmente consentita in appello dall'art.345 co 1°, oppuòre un nuovo fatto costitutivo che determini una mera emendatio della domanda proposta in primo grado, oppuòre un fatto estintivo, impeditivo o modificativo rilevabile anche d'ufficio; ritenere che il concetto di indispensabilità non differisca qualitativamente da quello di rilevanza della prova, ma ne sia specificazione, ovvero un adattamento alla peculiarità del secondo grado: in quanto in appello non può prescindersi dall'accertamento dei fatti già compiuto dal giudice a quo, un nuovo mezzo di prova dovrebbe repuòtarsi indispensabile soltanto quando il giudice d'appello, muovendo dalla valutazione del materiale probatorio già acquisito nel precedente processo, ritenesse di poter attingere dal nuovo mezzo di prova elementi utili a consentirgli un più veritiero accertamento degli stessi fatti. Le Sezioni unite hanno affermato che il divieto dell'art. 345 co 3° non operando alcun distinguo, si riferirebbe sia alle prove costituende sia ai nuovi documenti, che di conseguenza sarebbero ammessi solo se indispensabili ai fini della decisione della causa oppuòre quando la loro tardiva produzione fosse dipesa da causa non impuòtabile alla parte. L'art. 345 si occupa esclusivamente dei mezzi di prova proponibili dalla parte, mentre lascia impregiudicata la possibilità che anche il giudice d'appello utilizzi i poteri istruttori officiosi che la legge gli attribuisce. Le sentenze del giudice di pace secondo equità a norma dell'art. 113 co 2° sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione delle norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia. Si considerano rese secondo equità tutte le sentenze pronunciate in cause di valore non superiore a 1100 euro, ad eccezione di quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari. L'appello in questi casi si baserà: • quanto agli errori di diritto concernenti la disciplina sostanziale del rapporto, sulla violazione di norme di rango superiore (costituzionali o comunitarie) oppuòre dei principi regolatori della materia, da identificare con quelli desumibili dai tratti essenziali della disciplina positiva di un determinato istituto, oltre che dai principi generali dell'ordinamento; • quanto agli errores in procedendo, sui vizi di attività da cui sia derivata la nullità del processo davanti al giudice di pace, nonché su qualunque violazione di norme processuali che abbiano potuto condurre all'erronea soluzione di questioni pregiudiziali attinenti al processo. Non avranno alcuna rilevanza gli errori attinenti alla valutazione di prove o alla ricostruzione dei fatti, al giudice ad quem non potrà chiedersi puòramente e semplicemente un diverso apprezzamento di tali fatti. Ci non esclude la possibilità di un sindacato indiretto degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di pace, dal puònto di vista della congruità della motivazione, tenuto conto che qualunque giudice è obbligato a motivare adeguatamente i propri giudizi di fatto, come puòre non dovrebbe escludere, ove ne sussistano i presupposti, l'ammissibilità dei nova contemplati dall'art. 345. Trattandosi puòr sempre di un'impuògnazione sostitutiva, il giudice di secondo grado non potrà esimersi da una nuova decisione sul merito della causa, neppuòre quando la sussistenza del vizio denunciato dall'appellante dovesse rendere necessarie nuove valutazioni di fatto pretermesse dal giudice di pace oppuòre la rinnovazione di accertamenti di fatto da lui già compiuti. In base all'art. 342 il giudizio di appello inizia con la notifica di un atto di citazione contenente l'esposizione


sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell'impuògnazione, nonché le indicazioni prescritte nell'art. 163. Il co 2° prevede che trovino applicazione anche qui i termini minimi di comparizione dell'art. 163-bis. L'unica differenza rispetto alla vocatio in ius nel processo di primo grado è la difficoltà di applicare l'art. 162 n. 7 nella parte in cui esige a pena di nullità l'avvertimento che la costituzione del convenuto oltre i termini dell'art. 166 implica la decadenza di cui agli artt. 38 e 167. Per tutti i vizi della vocatio in ius trova applicazione la disciplina dell'art. 164 co 2° e 3°, l'eventuale nullità sarà sanata, con effetti retroattivi ed indipendentemente dalla scadenza del termine per l'impuògnazione, dalla spontanea costituzione dell'appellato oppuòre dalla rinnovazione dell'atto introduttivo. Secondo l'opinione preferibile, se l'appellante non ottempera all'onere di specificare le censure rivolte contro la sentenza di primo grado, si avrà il rigetto dell'impuògnazione, dovuto alla circostanza che il giudice d'appello, in mancanza di specifiche censure, non può riesaminare alcuna delle questioni sulle quali si è pronunciato il giudice di primo grado. Circa la costituzione delle parti in appello, l'art. 347 richiama le forme e i termini stabiliti per il procedimento davanti al tribunale, di regola l'appellante deve costituirsi entro 10 giorni dalla notifica dell'atto introduttivo e l'appellante almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di citazione. L'appellante deve inserire nel proprio fascicolo una copia della sentenza impuògnata, puòr non essendo previsto un termine per tale adempimento né una sanzione. Il cancelliere dovrà provvedere, su istanza della parte che si costituisce per prima, all'iscrizione della causa a ruolo e alla formazione del fascicolo d'ufficio, chiedendo al cancelliere del giudice a quo che gli trasmetta il fascicolo del relativo procedimento. L'art. 348 prevede che l'appello debba dichiararsi improcedibile, anche d'ufficio, se l'appellante non si costituisce in termini; è tenuto cioè a rispettare i 10 giorni dalla notifica della citazione e non può evitare l'improcedibilità costituendosi entro la prima udienza. In caso di mancata o tardiva costituzione di tutte le parti trova applicazione l'art. 307 co 1°, con conseguente estinzione del processo d'appello se nessuna delle parti provvedesse a riassumerlo entro 3 mesi. Nel caso in cui l'appellante, puòr essendosi anteriormente e tempestivamente costituito in cancelleria, ometta di comparire alla prima udienza, il giudice, con ordinanza non impuògnabile, è tenuto a rinviare la causa ad altra udienza, della cui data il cancelliere deve dare comunicazione all'appellante. Se poi l'assenza si ripete alla nuova udienza, la sanzione non sarà l'estinzione, ma la dichiarazione di improcedibilità dell'appello, da pronunciare anche d'ufficio. Questa disciplina si applica anche all'appellante incidentale che ometta di comparire alla prima udienza, fermo restando che l'improcedibilità dell'impuògnazione principale non si estende a quella incidentale e viceversa. L'art. 343 prevede che l'appello incidentale deve essere di regola proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all'atto di costituzione in cancelleria ai sensi dell'art. 166; la costituzione ritardata alla prima udienza preclude la possibilità dell'impuògnazione incidentale. Fa eccezione l'ipotesi in cui l'interesse alla proposizione dell'appello incidentale sorga dall'impuògnazione proposta da altra parte che non sia l'appellante principale e possa considerarsi quindi dipendente da un'altra impuògnazione incidentale; in questo caso l'appello incidentale è consentito fino alla prima udienza successiva alla proposizione dell'impuògnazione cui si ricollega (art. 343 co 2°). L'appello incidentale può essere proposto in via condizionata, la richiesta di riforma di un capo della sentenza può essere subordinata all'accoglimento di un'altra impuògnazione, principale o incidentale. Solitamente l'attività del giudice d'appello si riduce alla trattazione, che può spesso esaurirsi in un'unica udienza, seguita dalla precisazione delle conclusioni e dallo scambio di difese scritte conclusive. Quando il processo si svolge davanti alla corte d'appello, ogni attività viene svolta dal collegio nella sua interezza (art. 350), e la stessa composizione del collegio ben potrebbe cambiare tra l'una e l'altra udienza, non essendo applicabile il principio di immutabilità previsto per il giudice istruttore (art. 274). Nella prima udienza il giudice deve verificare la regolare costituzione del giudizio e delle stesse parti e pronunciare con ordinanza, quando ne ricorrano i presupposti, i provvedimenti occorrenti per porre rimedio ad eventuali vizi del contraddittorio, oppuòre diretti a salvaguardare l'unità del processo d'appello. Nella stessa udienza è previsto che venga dichiarata l'eventuale contumacia dell'appellato (non quella dell'appellante che implica improcedibilità e può


pronunciarsi solo con sentenza) e si proceda al tentativo di conciliazione ordinando la comparizione personale delle parti (art. 350). Di regola, anche la decisione sull'istanza di inibitoria è attribuita al collegio che provvede con ordinanza non impuògnabile nella prima udienza (art. 351); il soccombente ha per diritto di chiedere, con ricorso al giudice monocratico o al presidente del collegio, che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima dell'udienza di comparizione. In questo caso si apre un procedimento incidentale autonomo e distinto da quello concernente il merito dell'appello, e al giudice o al presidente, col medesimo decreto con cui fissa la comparizione delle parti in camera di consiglio, è consentito disporre provvisoriamente, quando ne sia stato richiesto e sussistano giusti motivi d'urgenza, la sospensione immediata dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza, fermo restando che all'udienza in camera di consiglio tale decreto dovrà essere confermato, modificato o revocato con ordinanza non impuògnabile. Quando vengano eccezionalmente ammesse nuove prove, oppuòre sia disposta la rinnovazione totale o parziale dell'assunzione già avvenuta in primo grado, lo stesso collegio procede alla nuova fase istruttoria. Anche in appello è espressamente prevista l'applicabilità dell'art. 279 co 2°, ossia la possibilità di pronunciare sentenza non definitiva su domanda o su questione, nelle stesse ipotesi in cui è consentita al giudice di primo grado. La decisione è regolata dall'art. 352: precisazione delle conclusioni, scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, eventuale fissazione dell'udienza per la discussione orale della causa quando una parte lo chieda. Il termine della decisione è sempre di 60 giorni, anche quando la decisione spetti al tribunale, rispettivamente decorrenti, a seconda dei casi, dalla scadenza del termine per le memorie di replica o dall'udienza di discussione. Fa eccezione l'ipotesi in cui oggetto dell'appello sia una sentenza che ha dichiarato l'estinzione del processo a norma dell'art. 308, ossia la sentenza del collegio che ha respinto il reclamo proposto contro l'ordinanza di estinzione resa dal giudice istruttore: l'art. 130 disp. att. prevede che l'appello sia deciso con sentenza in camera di consiglio, escludendo sia lo scambio di comparse conclusionali e delle repliche sia la fissazione di un'udienza di discussione, salva la possibilità che il collegio, quando è necessario, autorizzi le parti a presentare delle memorie, fissando i relativi termini. Se viene impuògnata una sentenza definitiva, l'appello deve condurre, indipendentemente da quali siano i vizi della pronuncia impuògnata, ad una nuova decisione definitiva del giudizio, di rito o di merito. Gli artt. 353 e 354 prevedono ipotesi in cui il giudice di secondo grado deve limitarsi a riformare o ad annullare, a seconda dei casi, la sentenza impuògnata e a restituire la causa al giudice di prima istanza, affinché questi decida nuovamente. L'art. 353 e l'art. 354 co 2° considerano i casi in cui il giudice di primo grado abbia erroneamente dichiarato il proprio difetto di giurisdizione oppuòre l'estinzione del processo a norma e nelle forme dell'art. 308, cioè con sentenza pronunciata a seguito di reclamo contro l'ordinanza di estinzione resa dal giudice istruttore. Il giudice d'appello non può , nel riformare l'erronea pronuncia processuale, decidere la causa nel merito, ma deve rimetterla al giudice a quo, davanti al quale le parti sono tenute a riassumerla entro 3 mesi dalla notificazione della sentenza, termine che viene interrotto quando la sentenza di appello sia a sua volta impuògnata con ricorso per cassazione. L'art. 354 co 1° contempla quattro ipotesi di nullità del processo: • nullità della notificazione della citazione introduttiva: si presuppone che il vizio non sia stato sanato in primo grado, tramite la rinnovazione della notifica o spontanea costituzione del convenuto, e che, conseguentemente, tutti gli atti compiuti siano nulli. • Omessa integrazione del contraddittorio: il giudice omette di rilevare la violazione dell'art. 102, la mancata partecipazione al giudizio di alcuni litisconsorti necessari, e conseguentemente di ordinare la citazione di questi. La sentenza è da considerarsi nulla o inutiler data, e la causa deve tornare in primo grado affinché possa regolarizzarsi il contraddittorio in quella sede. Si ammette tuttavia che i litisconsorti pretermessi, puòr non potendo essere costretti a partecipare al solo giudizio di appello, possano intervenire volontariamente, dichiarando di rinunciare all'annullamento della sentenza o ala rimessione della causa al giudice a quo. • Indebita estromissione di una parte. • Omessa sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, sopravvive al passaggio in giudicato della sentenza. Tali fattispecie sono tassative, derogando al carattere normalmente sostitutivo dell'appello. Sono sorti dubbi relativamente all'ipotesi in cui sia nulla non


la notifica della citazione, ma, ai sensi dell'art. 164, lo stesso atto introduttivo del giudizio di primo grado. La tesi prevalente distingue a seconda che si tratti di vizi della vocatio in ius o della editio actionis: nel primo caso il giudice ad quem può decidere a sua volta il merito della causa, previa rinnovazione degli atti istruttorii cui la nullità si estende e rimessione in termini del convenuto, affinché possa compiere in appello ci che avrebbe potuto fare in primo grado; nel secondo caso la soluzione è dubbia, il divieto di domande nuove in appello parrebbe impedire che la domanda originariamente viziata venga integrata direttamente davanti al giudice ad quem. Riguardo alle sentenze non definitive, relativamente alle quali il processo di primo grado non si è ancora esaurito, il giudice d'appello non può sovrapporsi all'istruttoria tuttora pendente in primo grado, e quindi non può disporre nuove prove riguardo alle domande e alle questioni per cui il giudice a quo aveva disposto la prosecuzione dell'istruzione (art. 356 co 2°). 17. IL RICORSO PER CASSAZIONE LE CARATTERISTICHE DELL'IMpuòGNAZIONE E IL RELATIVO PROCEDIMENTO La Cassazione è giudice di legittimità, il suo compito resta quello di verificare la rispondenza della sentenza impuògnata alle norme sostanziali e processuali, senza mai poter direttamente conoscere e valutare i fatti rilevanti per la decisione. L'art. 65 ord. giud attribuisce alla Corte il compito di assicurare, tra l'altro, l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, e molti ne deducono che la funzione essenziale e prevalente della Cassazione dovrebbe identificarsi con la c.d. nomofiliachia, ossia con lo scopo di garantire l'esatta e fedele interpretazione ed applicazione del diritto da parte dei giudici di merito, sia nell'interesse del ricorrente che adduca un errore di merito, sia nell'interesse puòbblico sotteso al valore esemplare e didattico che compete alle decisioni della Corte suprema. Tale interpretazione del ruolo della Corte appare tuttavia riduttivo rispetto ad altre indicazioni che puòre emergono dal diritto positivo, in particolare dalla Costituzione: l'art. 111 co. 7°, Cost. ha accordato un rilievo preminente alla prospettazione soggettiva, elevando il ricorso per cassazione ad un vero e proprio diritto del soccombente nei confronti delle sentenze non altrimenti impuògnabili, esaltandone la funzione garantistica quale controllo di legalità del caso singolo. A norma dell'art. 360 il ricorso per cassazione è ammesso contro tutte le sentenze rese in appello o in unico grado; con la sola eccezione delle sentenze non definitive su questioni che sono impuògnabili unitamente alla sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio. può essere proposta direttamente nei confronti della sentenza di primo grado allorché le parti siano tra loro d'accordo per omettere l'appello. L'art. 360 enuncia i motivi tassativi per i quali il ricorso è esperibile: • violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3). Si ha violazione quando il legislatore a quo omette di applicare la norma oppuòre ne fraintende il significato, interpretandola in maniera errata; si ha falsa applicazione quando una determinata norma, puòr correttamente intesa, è utilizzata per una ipotesi ad essa estranea. Deve aversi riguardo sia alle leggi e agli altri atti normativi ad essa equiparati, sia a tutte le fonti del diritto, e dunque anche ai regolamenti e agli usi. • Violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (art. 360 n. 3). Si tratta essenzialmente di ricostruire la volontà dei contraenti, rispetto ad essi il sindacato della Corte può essere solamente indiretto, rimanendo circoscritto alla congruenza della motivazione fornita dal giudice di merito. • Motivi attinenti alla giurisdizione (art. 360 n. 1). Vi rientrano tutte e solo le questioni per le quali sarebbe anche esperibile, a norma dell'art. 41, il regolamento preventivo di giurisdizione; il ricorso è ammesso sia quando il giudice si sia occupato di una causa sulla quale era privo di giurisdizione, sia quando si sia dichiarato erroneamente privo di giurisdizione. • Violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza (art. 360 n. 2). Il ricorso è consentito solamente quando il giudice ha deciso sulla competenza unitamente al merito, affermando la propria competenza; in caso contrario la decisione sulla competenza sarebbe resa in forma ordinaria e l'unica impuògnazione possibile sarebbe il regolamento di competenza, che egualmente investe della questione la Cassazione, ma è soggetto ad una disciplina parzialmente diversa da quella del ricorso ordinario e può avere ad oggetto esclusivamente la questione di competenza. • Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 n. 4). Deve trattarsi di errores in procedendo, dai quali sia derivata la nullità della sentenza: per vizi propri oppuòre per estensione


dell'invalidità formale degli atti del procedimento, oppuòre per il difetto di presupposti processuali, diversi dalla giurisdizione e dalla competenza. • Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5). Il vizio di motivazione deve riguardare una questione di fatto e non di diritto. Deve trattarsi di fatti extraprocessuali, che di regola sono sottratti alla cognizione della Cassazione: al contrario, tutto ci che è accaduto nel processo, di primo grado o d'appello, può essere oggetto di accertamento diretto ad opera della Corte. Dai poteri della Cassazione esulano l'accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti per la decisione delle causa, per la cui ricostruzione essa non può che rifarsi ai risultati cui è pervenuto il giudice di merito. La Corte non può mai accertare direttamente i fatti, e neppuòre potrebbe arrivare ad affermare che il giudice a quo ha sbagliato nel ricostruire i fatti in un certo modo, ma potrebbe ritenere che la motivazione da lui adottata, circa un fatto decisivo e controverso tra le parti, non è idonea a giustificare, sul piano logico e argomentativo, le conclusioni recepite nella sentenza, vuoi perché del tutto omessa, vuoi perché insufficiente, vuoi perché contraddittoria, ossia contenente una pluralità di argomenti tra loro inconciliabili. La Cassazione non può sostituire direttamente l'accertamento cui era pervenuto il giudice di merito, ma deve limitarsi ad annullare la decisione, affinché quell'accertamento possa essere autonomamente reiterato da un nuovo e diverso giudice di merito. L'art. 111, co. 7° Cost. prevede il ricorso straordinario, secondo il quale “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”, con le sole eccezioni, quanto ai giudici speciali, dei tribunali militari in tempo di guerra; nonché del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, le cui decisioni sono ricorribili per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Per “sentenza”, ai sensi dell'art. 111 Cost., deve intendersi non solamente il provvedimento per il quale il legislatore ha previsto la forma della sentenza, ma ogni altro diverso provvedimento che possieda comunque la natura, la sostanza della sentenza. Si considera quindi sentenza ogni provvedimento che abbia natura decisoria, cioè statuisca su diritti o status, e nel contempo sia definitivo, non essendo soggetto ad alcuna diversa impuògnazione né ad un'eventuale revoca o modifica da parte del giudice che l'ha pronunciato. Le decisioni in grado d'appello o in unico grado rese da giudici speciali sono ricorribili in cassazione, nel consueto termine di 60 giorni dalla notificazione, esclusivamente per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso (art. 362, co. 1°). Tale disposizione è superata dall'art. 111 Cost. che ammette il ricorso per violazione di legge contro tutte le sentenze di qualunque giudice, ordinario o speciale, e lo limita ai motivi inerenti alla giurisdizione esclusivamente nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti (co. 8°). L'art. 362 co. 2° consente di adire la Corte suprema, in ogni tempo, per denunciare: • conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra diversi giudici speciali, oppuòre tra giudice speciale e giudice ordinario. Ricorre quando più giudici abbiano tutti affermato o negato la propria giurisdizione sulla medesima controversia. • Conflitti negativi di attribuzione tra la puòbblica amministrazione e il giudice ordinario. In questi casi il ricorso per cassazione è straordinario, dirigendosi nei confronti di una sentenza già passata in giudicato. L'art. 363 attribuisce al solo procuratore generale presso la Corte di cassazione la possibilità di chiedere che questa, eventualmente anche a sezioni unite, enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. La relativa istanza presuppone che le parti non abbiano proposto impuògnazione oppuòre vi abbiano successivamente rinunciato, ovvero che si tratti di un provvedimento non ricorribile e non altrimenti impuògnabile. Il procedimento di cassazione inizia con un ricorso, notificato all'altra parte (detta resistente) e poi depositato, nei successivi 20 giorni, nella cancelleria della Corte. Gli artt. 365 e 366 esigono, a pena di inammissibilità: • l'indicazione delle parti; • l'indicazione della sentenza o del provvedimento impuògnato; • l'esposizione sommaria dei fatti, dello svolgimento della causa; • i motivi per cui si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui essi si fondano; • la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda. Tale requisito è stato introdotto con il d.lgs. 40/2006, che elabora


il principio di autosufficienza del ricorso, secondo cui il ricorso deve contenere tutti gli elementi necessari e sufficienti per illustrare specificamente le censure rivolte alla decisione impuògnata, affinché la Corte possa valutare compiutamente la fondatezza dell'impuògnazione senza essere costretta ad esaminare direttamente altri atti o documenti dei precedenti gradi di giudizio. • La sottoscrizione di un difensore iscritto nell'apposito albo degli avvocati abilitati al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, il quale deve essere munito di una procura speciale, e l'indicazione della procura stessa, allorché sia conferita con un atto separato, oppuòre dall'eventuale decreto di ammissione al patrocinio gratuito. Un ulteriore elemento non prescritto sotto sanzione di inammissibilità è l'elezione di domicilio in Roma; qualora questa manchi o sia venuta meno, tutte le notificazioni dirette al ricorrente e/o al suo difensore gli sono fatte presso la cancelleria della corte di cassazione. Nel caso si tratti di un ricorso per saltum a norma dell'art. 360 co. 2°, è necessario che l'accordo delle parti, diretto ad omettere l'appello, risulti da un visto apposto su di esso dalle altre parti o dai loro difensori muniti di procura ad hoc, oppuòre da un atto separato che dovrà unirsi al ricorso. Il ricorso deve essere depositato in cancelleria, a pena di improcedibilità, entro i 20 giorni successivi alla notificazione. Unitamente ad esso il ricorrente deve anche depositare, sempre sotto comminatoria di improcedibilità dell'impuògnazione (art. 369): • l'eventuale decreto di ammissione al patrocinio gratuito; • una copia autentica del provvedimento impuògnato, con la relazione di notificazione, oppuòre, nelle ipotesi previste dall'art. 362, dei provvedimenti da cui risulta il conflitto di giurisdizione o di attribuzione; • la procura speciale, quando sia stata conferita con un atto separato; • gli atti processuali, i documenti ed i contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso. È il ricorrente a sopportare le conseguenze dell'eventuale mancanza di tali atti e documenti nel fascicolo della causa. Lo stesso ricorrente è tenuto a chiedere la trasmissione del fascicolo d'ufficio del giudizio di merito dalla cancelleria del giudice a quo a quella della Corte di cassazione, e quindi a depositare una copia della relativa richiesta, vistata dalla cancelleria a conferma dell'avvenuta presentazione, insieme al ricorso. Per l'omissione o la tardività di tale formalità non è per prevista alcuna sanzione. Il deposito del ricorso e degli altri documenti può avvenire anche a mezzo posta, tramite raccomandata. La parte resistente, qualora voglia rispondere e contrastare l'impuògnazione, deve farlo mediante un controricorso che va prima notificato al ricorrente, nel suo domicilio eletto, entro 20 giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso (quindi entro 40 giorni dall'ultima notifica del ricorso stesso), e poi depositato in cancelleria, entro i successivi 20 giorni, unitamente agli atti e ai documenti in esso indicati, nonché alla procura speciale, se conferita con un atto separato (art. 370). L'omessa notificazione o deposito del controricorso, nei termini indicati, non determina una situazione propriamente assimilabile alla contumacia, ma limita le successive attività difensive del resistente, che potrà solo partecipare alla eventuale discussione orale, e non presentare memorie ex art. 378. In linea di principio la Corte suprema può essere investita delle sole questioni sulle quali il giudice a quo ha effettivamente pronunciato o avrebbe dovuto pronunciare; questo è confermato dall'assenza di una disposizione analoga all'art. 346, che attiene all'onere di riproposizione in appello delle domande e delle eccezioni non accolte, e dalla mancata previsione di qualunque ius novorum, ancorché limitato alle nuove eccezioni che sarebbero rilevabili d'ufficio. La parte resistente, quando sia rimasta a sua volta soccombente in relazione ad una propria domanda o eccezione e voglia sperare nell'annullamento del relativo capo della sentenza, non può fare a meno di proporre un ricorso incidentale; di regola a pena di decadenza, con lo stesso atto contenente il controricorso e comunque nel termine previsto per questo (art. 371). Le parti che siano state destinatarie delle notificazioni previste dagli artt. 331 e 332 possono invece proporre l'impuògnazione incidentale entro 40 giorni dalla notificazione stessa, attraverso un atto notificato al ricorrente principale e a tutte le altre parti. Il controricorso deve contenere tutti gli elementi prescritti per il ricorso principale, e deve essere depositato in cancelleria, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall'ultima notifica, unitamente ai documenti indicati nell'art. 369, eccezion fatta per la copia autentica del provvedimento impuògnato qualora al relativo deposito abbia giù provveduto il ricorrente principale. Il destinatario del ricorso incidentale può replicare a propria volta con un


controricorso, nello stesso termine di 20 giorni dallo scadere del termine previsto per il deposito in cancelleria del ricorso incidentale. È pacifico che la parte soccombente in via meramente teorica sia tenuta a servirsi dell'impuògnazione incidentale per ottenere che la Corte riesamini le questioni rivolte in senso a lei sfavorevole. Nel giudizio di cassazione non è prevista, neppuòre eccezionalmente, alcuna fase istruttoria, sono esclusi in linea di principio sia le nuove prove costituende che tutti gli atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo (art. 372). Le uniche eccezioni sono rappresentate dai documenti riguardanti la nullità della sentenza impuògnata e l'ammissibilità del ricorso e del controricorso. I documenti nuovi dovranno essere depositati unitamente al ricorso o al controricorso, a meno che non riguardino l'ammissibilità di questi ultimi, nel qual caso il loro deposito può avvenire anche autonomamente e in un momento successivo, fino all'inizio dell'udienza di discussione, a condizione che ne sia data notizia, tramite la notificazione del relativo elenco, alle altre parti. L'istanza di inibitoria della sentenza impuògnata con ricorso per cassazione si propone con ricorso, in calce al quale il giudice adito, o il presidente del collegio, fissa con decreto la data della comparizione delle parti, davanti a sé o davanti al collegio. Copia del ricorso e del decreto deve essere notificata, a cura del ricorrente, al difensore che aveva rappresentato l'altra parte nel giudizio definito con la sentenza impuògnata, ovvero alla parte stessa personalmente, qualora essa sia rimasta contumace in quel giudizio o non si sia avvalsa del ministero di un difensore. Di norma la decisione sull'istanza presuppone l'instaurazione del contraddittorio ed assume le forme dell'ordinanza non impuògnabile. È possibile, in caso di eccezionale urgenza, che la sospensione dell'esecuzione venga concessa col decreto di fissazione dell'udienza; fermo restando che in tale udienza il decreto dovrà essere confermato o revocato con ordinanza. La concessione dell'inibitoria presuppone, da parte dell'istante, la prova di aver già impuògnato in Cassazione la sentenza e di non aver soltanto notificato, ma puòre depositato il relativo ricorso. La decisione sul ricorso spetta ad una delle cinque sezioni semplici della Corte, il cui collegio giudicante è composto da cinque magistrati. In alcune ipotesi, contemplate dall'art. 374, è previsto che a decidere debbano o possano essere le sezioni unite, ossia un collegio formato da nove magistrati in organico alle varie sezioni. La pronuncia spetta alle sezioni unite in alcuni casi previsti espressamente dalla legge, nonché quando il ricorso riguardi una questione di giurisdizione oppuòre una delle questioni all'art. 362. Fuori da tali fattispecie, possono attribuirsi alle sezioni unite i ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici oppuòre una questione di massima di particolare importanza. Se la causa è assegnata ad una sezione semplice, ciascuna delle parti, che ritenga il ricorso di competenza delle sezioni unite, può , fino a 10 giorni prima dell'udienza di discussione, sollecitarne allo stesso primo presidente la rimessione alle sezioni unite. All'udienza tale rimessione può sempre essere disposta dalla sezione semplice, d'ufficio o su richiesta del puòbblico ministero (art. 376). La riforma del 2006 ha previsto che la sezione semplice, quando ritenga di non condividere un principio di diritto precedentemente enunciato dalle sezioni unite, sia tenuta a rimettere a queste, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso (art. 374 co. 3°). Alle sezioni unite, quando sono investite di un ricorso contenente anche motivi di competenza delle sezioni semplici, è consentito, ove lo ritengano opportuno, di decidere su tutti i motivi, oppuòre di limitare la pronuncia ai motivi di propria competenza, rimettendo la decisione degli altri ad una sezione semplice. Il ricorso deve essere deciso con sentenza in seguito ad una puòbblica udienza in cui le parti hanno la possibilità, qualora lo vogliano, di discutere oralmente la causa. In alcune ipotesi è previsto che la Corte pronunci in camera di consiglio con ordinanza e possa definire il giudizio senza la fissazione dell'udienza. Si ritiene che la disciplina dell'estinzione per inattività delle parti non possa trovare applicazione in Cassazione, al pari di quella concernente l'interruzione. Le parti invece possono determinare l'estinzione del giudizio di legittimità tramite la rinuncia al ricorso, ammessa fino all'inizio dell'udienza di discussione, finché non sia iniziata la relazione. La rinuncia può riguardare sia il ricorso principale che quello incidentale, e deve essere sottoscritta dalla parte e dal suo avvocato e deve essere notificata direttamente alle altre parti costituite, o semplicemente comunicata ai rispettivi avvocati, che vi appongono il proprio visto (art. 390). Non è richiesta


l'accettazione delle altre parti e quindi, qualora investa tutte le impuògnazioni, determina l'estinzione del giudizio, dichiarata dal presidente con decreto. In caso contrario sarà la Corte a provvedere con la sentenza con cui decide i ricorsi residui (art. 391). Il decreto o la sentenza dichiarativi dell'estinzione possono condannare il rinunciante, o la parte che ha dato causa all'estinzione, alle spese, a meno che alla rinuncia non abbiano aderito le altre parti personalmente oppuòre i relativi difensori, debitamente autorizzati con mandato speciale. Qualora la condanna sia pronunciata con decreto, questo acquista efficacia di titolo esecutivo se nessuna delle parti chiede la fissazione dell'udienza entro 10 giorni dalla relativa comunicazione. L'art. 375 prevede una serie di ipotesi in cui la Corte, anziché decidere con sentenza previa fissazione di un'udienza puòbblica per la discussione orale della causa, provvede, ed eventualmente definisce il giudizio, in camera di consiglio con ordinanza. La riforma del 2009 volendo creare una sorta di filtro dei ricorsi che si prestano ad una definizione immediata, ha previsto l'istituzione di un'apposita sezione, composta di regola da magistrati appartenenti alle altre sezioni, che esamina preliminarmente tutti i ricorsi, ad eccezione di quelli che il primo presidente ritenga di assegnare alle sezioni unite e di quelli per regolamento di giurisdizione o di competenza, al fine di valutare se sussistano i presupposti per la decisione in camera di consiglio ai sensi dell'art. 375 co. 1° nn. 1 e 5. Tale sezione filtro è chiamata a verificare se: • siano inammissibili o improcedibili tanto il ricorso principale quanto l'eventuale ricorso incidentale, anche per mancanza dei motivi previsti dall'art. 360; • tutte le impuògnazioni, principali ed incidentali, sono manifestamente fondate o manifestamente infondate. L'art. 360-bis prevede che il ricorso per cassazione sia inammissibile in due ipotesi: • quando il provvedimento impuògnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa; • quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo. L'art. 380-bis prevede che la valutazione circa la possibilità di definire il giudizio in camera di consiglio compete al relatore della sezione-filtro, il quale, quando ritenga sussistere una delle ipotesi, deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che giustificano, a suo avviso, un'ordinanza di ammissibilità ovvero di manifesta infondatezza o infondatezza del ricorso. Il presidente quindi fissa l'adunanza della Corte in camera di consiglio con decreto che, unitamente alla relazione, deve essere comunicato al puòbblico ministero e notificato ai difensori delle parti almeno 20 giorni prima della data stabilita. puòbblico ministero e difensori possono presentare, rispettivamente, conclusioni scritte e memorie fino a 5 giorni prima dell'adunanza, nonché comparire e chiedere di essere sentiti in quell'occasione. Ogniqualvolta la sezione-filtro non definisca il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, il quale procede ad assegnare la causa ad una delle sezioni semplici (art. 376 co. 1). Passato il vaglio preliminare della sezione-filtro ed essendo stata assegnata la causa ad una delle sezioni semplici, alla sezione spetta verificare se eventualmente sussista una delle altre ipotesi in cui è egualmente prevista la pronuncia con ordinanza in camera di consiglio: • quando deve disporsi semplicemente l'integrazione del contraddittorio, a norma dell'art. 331, oppuòre la notificazione dell'impuògnazione, ai sensi dell'art. 332, ovvero la rinnovazione della notificazione stessa; • quando deve provvedersi in ordine all'estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia; • quando si deve decidere sulle istanze di regolamento di competenza o di giurisdizione. Circa l'iter della decisione, è necessario distinguere a seconda che si tratti di ricorso ordinario (art. 380- bis) oppuòre di un regolamento di giurisdizione o di competenza (art. 380-ter): • nel primo caso l'opzione per la pronuncia in camera di consiglio presuppone un esame approfondito del ricorso, che compete al relatore designato dal presidente della sezione; questo, ove ritenga sussistere una delle ipotesi viste, deposita in cancelleria una relazione contenente la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto in base ai quali ritiene che il ricorso debba essere deciso in camera di consiglio. Il presidente fissa l'adunanza della Corte in camera di consiglio con decreto, e questo, con la relazione, deve essere comunicato al puòbblico ministero e notificato ai difensori delle parti almeno 20 giorni prima della data stabilita. puòbblico ministero e difensori possono poi presentare,


rispettivamente, conclusioni scritte e memorie fino a 5 giorni prima dell'adunanza, nonché comparire e chiedere di essere sentiti in quell'occasione. • Quando si tratti di regolamento di giurisdizione o di competenza, il presidente, se non provvede ai sensi dell'art. 380-bis, fissa la data dell'adunanza e chiede al puòbblico ministero le sue conclusioni scritte, che poi devono essere notificate agli avvocati delle parti, insieme al decreto presidenziale, almeno 20 giorni prima dell'adunanza, con facoltà degli avvocati stessi di depositare memorie fino a 5 giorni prima e di essere sentiti, se comparsi, nel solo caso di regolamento di giurisdizione. Quando non sussistano i presupposti per decidere in camera di consiglio con ordinanza, il giudizio di cassazione deve essere definito con sentenza, previa discussione della causa in puòbblica udienza. L'art. 377 prevede che l'udienza di discussione venga fissata direttamente dal primo presidente, contestualmente alla nomina del magistrato incaricato della relazione, per i ricorsi assegnati alle Sezioni unite, oppuòre al presidente della singola sezione designata. La relativa data deve essere comunicata agli avvocati delle parti almeno 20 giorni prima dell'udienza, e le parti hanno la facoltà di depositare in cancelleria delle memorie fino a 5 giorni prima dell'udienza (art. 378). A tale udienza il relatore riferisce al collegio i fatti rilevanti per la decisione ed il contenuto del provvedimento impuògnato e, quando non vi sia discussione delle parti, illustra sinteticamente i motivi del ricorso e del controricorso (art. 379). Dopo la relazione ha luogo l'eventuale discussione, con lo svolgimento delle difese di ciascuna parte, seguite dall'esposizione orale delle motivate conclusioni del puòbblico ministero; il quale parla per ultimo, senza che siano ammesse repliche. L'unica possibilità, qualora le parti intendano contrastare le sue conclusioni, è quella di presentare alla Corte delle brevi osservazioni per iscritto entro la stessa udienza. Al termine della discussione segue, nella stessa seduta, la deliberazione della sentenza in camera di consiglio. L'art. 384 co. 3°, a garanzia dell'effettività del contraddittorio, fa obbligo alla Corte, quando essa ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, di soprassedere momentaneamente dalla decisione stessa, assegnando con ordinanza, al puòbblico ministero e alle parti, un termine non inferiore a 20 e non superiore a 60 giorni per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla questione stessa. I POSSIBILI ESITI DEL PROCESSO E L'EVENTUALE GIUDIZIO DI RINVIO Il ricorso per cassazione, principale o incidentale, può condurre ad una pronuncia di accoglimento o di rigetto. Il rigetto determina il passaggio in giudicato della sentenza impuògnata e può dipendere da ragioni processuali (inammissibilità, improcedibilità o nullità del ricorso) o semplicemente dall'infondatezza dell'impuògnazione. In base all'art. 385 il rigetto dovrebbe implicare sempre la condanna del ricorrente alle spese del processo. Un'ipotesi di rigetto particolare è quella che si accompagna alla correzione della motivazione in diritto della sentenza impuògnata; la Corte non incontra alcun limite nel valutare autonomamente, entro i confini tracciati dai motivi di ricorso, l'esatta soluzione delle questioni giuridiche affrontate nella sentenza impuògnata; se ritiene che il dispositivo sia conforme al diritto, le è consentito correggere direttamente l'erronea o lacunosa motivazione in iure che a tali questioni abbia dato il giudice a quo (art. 384 co. 4°); in linea di principio l'errore di diritto porta all'annullamento della sentenza solamente quando abbia concretamente inciso sul dispositivo, determinando una decisione contra ius. La riforma del 2006 ha stabilito che il principio di diritto debba essere enunciato dalla Corte anche in caso di rigetto dell'impuògnazione, se il ricorso era stato proposto per i motivi di cui all'art. 360 n. 3, e comunque ogniqualvolta sia stata risolta una questione di diritto di particolare importanza. Il principio di diritto può essere pronunciato, anche d'ufficio, anche in caso si inammissibilità dell'impuògnazione (art. 363 co. 3°). L'accoglimento del ricorso può condurre alla mera eliminazione della sentenza impuògnata e porre fine all'intero giudizio, escludendo definitivamente la pronuncia di una decisione di merito che prenda il posto di quella cassata. L'art. 382 co. 3° prevede la cassazione senza rinvio in due ipotesi: • quando sia dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice del quale si impuògna il provvedimento e di ogni altro giudice; • in ogni altro caso in cui la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito. Dopo la cassazione senza rinvio non residua alcuna sentenza che possa passare in giudicato, poiché, anche se oggetto diretto di annullamento è la sentenza di secondo grado, ci non può determinare la reviviscenza della sentenza di primo grado,


già sostituita da quella d'appello. Fanno eccezione le fattispecie in cui l'improponibilità o l'improseguibilità riguardano il solo giudizio di secondo grado. Quando cassa senza rinvio, la Corte è tenuta a provvedere sia sulle spese del procedimento svoltosi davanti a sé, sia su quelle dei precedenti gradi, potendo al più rimetterne al giudice a quo la sola liquidazione, ossia la quantificazione (art. 385 co. 2°). Nulla esclude che anche la cassazione senza rinvio si accompagni all'enunciazione di un principio di diritto, quando si fonda sulla risoluzione di una questione di diritto di particolare importanza (art. 384). L'ipotesi più comune è la cassazione con rinvio, ossia l'annullamento con rimessione della causa ad un altro giudice di merito, il quale provvederà alla pronuncia di una nuova sentenza destinata a sostituire quella cassata. La Cassazione, ogni volta che l'annullamento sia dipeso da uno degli errores in iudicando al n. 3 dell'art. 360 o abbia implicato la risoluzione di una questione di diritto di particolare importanza, è tenuta ad enunciare espressamente il principio di diritto cui il giudice di rinvio dovrà uniformarsi. Il giudice di rinvio è di regola un giudice diverso ma di pari grado a quello che aveva pronunciato la sentenza impuògnata (art. 383). Sono previste due eccezioni: • quando il ricorso sia stato proposto per saltum, a norma dell'art. 360 co. 2, ossia omettendo concordemente il secondo grado di giudizio, giacché la causa va allora rinviata allo stesso ufficio giudiziario che sarebbe stato competente per l'appello cui le parti avevano rinunciato; • quando la Corte riscontri una nullità del giudizio di primo grado per la quale il giudice d'appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice. Il giudizio di rinvio è una sorta di prosecuzione del giudizio in cui era stata pronunciata la sentenza cassata, il legislatore discorre di riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio, cui ciascuna delle parti può provvedere entro 3 mesi dalla puòbblicazione della sentenza di cassazione. L'art. 392 prescrive la forma della citazione, da notificarsi personalmente alle altre parti, non ai rispettivi difensori. L'art. 394 richiama le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la corte ha rinviato la causa ed esige la produzione di una copia autentica della sentenza di cassazione. Il processo di rinvio è destinato a concludersi, naturalmente, con una nuova sentenza di merito, che dovrà rimpiazzare quella cassata, a sua volta impuògnabile con i mezzi ordinari, eventualmente con ricorso per cassazione, se la causa era stata rinviata ad un giudice di secondo grado. Possono comunque verificarsi le fattispecie dell'art. 307, in tal caso, in base all'art. 393, l'estinzione coinvolge l'intero processo, lasciando sopravvivere esclusivamente la sentenza della Cassazione, la quale conserva il suo effetto vincolante nell'eventuale nuovo processo che dovesse essere successivamente instaurato con la riproposizione della stessa domanda. Nel giudizio di rinvio le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata e non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la necessità di nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione (art. 394 co. 2° e 3°); il giudice di rinvio deve uniformarsi al principio di diritto e a quanto statuito dalla Corte (art. 384 co. 2). Il giudizio di rinvio è quindi tendenzialmente un processo ad istruttoria chiusa, nel quale sono escluse sia le nuove domande sia nuove eccezioni ed allegazioni in genere, nuovi documenti e nuove prove, diverse dal giuramento decisorio, e anche nuove questioni, di rito o di merito, normalmente rilevabili d'ufficio. Quando la sentenza sia stata cassata per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell'art. 360 n. 3, il giudice di rinvio è vincolato, in linea di massima, al rispetto del principio di diritto enunciato dalla Corte e a tutte le valutazioni di fatto e di diritto già compiute dal giudice a quo, che hanno rappresentato il necessario presupposto della sentenza di cassazione. In ipotesi di cassazione per errores in procedendo, in particolare per i motivi ai nn. 4 e 5 dell'art. 360, il vizio riscontrato dalla Corte si ripercuote sugli accertamenti di fatto contenuti nella sentenza cassata, rendendo necessaria, a seconda dei casi, la rinnovazione, totale o parziale, del precedente grado di giudizio o una nuova ed autonoma valutazione dei fatti già accertati dal giudice a quo. In caso di violazione o falsa applicazione di norme di diritto è possibile che la stessa sentenza di cassazione apra la strada a nuove indagini di fatto e a nuove conclusioni delle parti. In ogni caso, indipendentemente dal motivo che ha determinato la cassazione della precedente sentenza, possono trovare ingresso nel giudizio di rinvio le nuove allegazioni e le nuove richieste istruttorie ad esse collegate, che traggano rilievo da un mutamento della disciplina sostanziale, oppuòre che abbiano ad oggetto fatti


sopravvenuti dopo la conclusione del precedente giudizio di merito, oppuòre fatti che integrerebbero motivi di revocazione della sentenza, a norma dell'art. 395. L'art. 384 co. 2° prevede che la Corte, nell'accogliere il ricorso, possa decidere essa stessa la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto. È un'ipotesi di cassazione senza rinvio detta “sostitutiva di merito”, poiché implica appuònto una decisione di accoglimento o di rigetto della domanda. Quando ricorrano tali presupposti la Corte è tenuta a decidere direttamente il merito, anche prescindendo da una sollecitazione delle parti in tal senso. L'art. 391-bis prevede che anche per i provvedimenti della Corte suprema, affetti da errore materiale o di calcolo ai sensi dell'art. 287, sia esperibile la procedura di correzione. L'istanza di correzione è assoggettata ad un termine perentorio di 60 giorni dalla notificazione o un anno dalla puòbblicazione della sentenza, identico a quello previsto per la revocazione delle decisioni della Cassazione; il procedimento richiama gli artt. 365 ss, il procedimento ordinario di ricorso per cassazione, con la sola precisazione che la Corte pronuncia sempre in camera di consiglio con ordinanza, nell'osservanza delle disposizioni di cui all'art. 380-bis, cioè previa nomina di un relatore. La Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo, in parte, l'art. 391-bis, svincolando l'istanza di correzione a qualunque termine. Il richiamo all'art. 365 deve essere limitato alle disposizioni ordinarie compatibili con le caratteristiche dell'istituto della correzione, che non è una impuògnazione. 18. IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA Il giudice dinanzi al quale la causa viene riassunta dopo che un altro giudice ha declinato la propria competenza, può in certi casi, chiedere d'ufficio alla Corte di cassazione il regolamento di competenza. Non si tratta di un'impuògnazione, serve solo a dirimere un conflitto di competenza negativo venutosi a determinare tra due diversi uffici giudiziari. Il codice all'art. 323 prevede anche un regolamento di competenza su istanza di parte, che è invece una vera e propria impuògnazione ordinaria con natura sostitutiva, poiché conduce ad una nuova pronuncia da parte della Corte destinata a risolvere in via definitiva la questione, ed è ammessa per qualunque motivo che possa rendere erronea la decisione impuògnata. Il regolamento di competenza può avere ad oggetto solo una decisione sulla competenza o su altre questioni specifiche che indirettamente possono coinvolgere la competenza del giudice adito. Gli artt. 42 e 43 prendono in considerazione due ipotesi: • il provvedimento, pronunciando sulla competenza anche ai sensi degli artt. 39 e 40 (litispendenza interna, continenza o connessione), non decide il merito della causa; ci avviene quando il giudice si sia limitato ad affermare la propria competenza senza pronunciare sulla fondatezza della domanda, o quando si è ritenuto incompetente e dunque ha definito il giudizio senza poter decidere il merito. Il provvedimento assume la forma dell'ordinanza, dichiarativa o declinatoria della competenza, e può essere impuògnato solo in via immediata con l'istanza di regolamento di competenza necessario; • il provvedimento ha pronunciato sulla competenza insieme col merito, il giudice a quo ha affermato la propria competenza. La decisione può essere impuògnata sia con l'istanza di regolamento di competenza, sia nei modi ordinari quando insieme con la pronuncia sulla competenza si impuògna quella sul merito. Il regolamento si definisce facoltativo, concorre con l'impuògnazione ordinaria. Si ritiene che la pronuncia sulla competenza possa essere implicita: ad es. quando il giudice abbia deciso nel merito omettendo di pronunciare su un'eccezione di incompetenza che era stata sollevata dalle parti, o che egli stesso avrebbe potuto o dovuto sollevare d'uffici. Il regolamento, essendo un'impuògnazione, presuppone che l'istante sia realmente soccombente rispetto alla decisione sulla competenza. La pronuncia dichiarativa della competenza sarà quindi impuògnabile solamente dal convenuto, mentre viceversa, l'attore sarà il solo interessato ad impuògnare la pronuncia declinatoria della competenza, a meno che il convenuto non intenda contestare la competenza dell'ufficio giudiziario cui sia stata rimessa la causa, diversa da quella che egli aveva prospettato nella propria eccezione di incompetenza. L'art. 46 esclude che gli artt. 42 e 43 trovino applicazione nei giudizi davanti al giudice di pace, che sono quindi impuògnabili solo con l'appello. Il regolamento necessario è stato invece ammesso nei confronti del provvedimento del giudice di pace che disponga la sospensione del processo. Il giudice di pace può anche avvalersi del regolamento d'ufficio previsto dall'art. 45. La stessa sentenza può essere impuògnata, magari da parti diverse,


tanto col regolamento di competenza, per il solo capo concernente la competenza, quanto con l'impuògnazione ordinaria, che potrebbe avere ad oggetto solamente il merito della causa oppuòre anche la pronuncia sulla competenza. Tale concorso vede il regolamento privilegiato: se esso viene proposto prima dell'impuògnazione ordinaria, i termini per proporre questa restano sospesi e riprendono a decorrere dalla comunicazione della sentenza di regolamento. Se invece una delle parti propone prima l'impuògnazione ordinaria, le altre parti conservano la facoltà di proporre egualmente il regolamento, con l'effetto di determinare la sospensione automatica del procedimento avviato dalla precedente impuògnazione; questo riprenderà, tramite riassunzione, nella sola ipotesi in cui la decisione della Corte suprema, resa in sede di regolamento, confermi la competenza del giudice adito. L'istanza di regolamento va proposta entro 30 giorni, che decorrono, rispettivamente, dalla comunicazione della sentenza che ha pronunciato sulla competenza oppuòre, quando si tratti di regolamento facoltativo, dalla notifica dell'impuògnazione ordinaria proposta contro la sentenza che ha deciso sulla competenza e sul merito (art. 47 co 2°). In mancanza di notificazione o comunicazione si applica il termine lungo di 6 mesi dalla puòbblicazione, a norma dell'art. 327. Il procedimento per regolamento inizia con la notifica di un ricorso, per il quale non sono prescritti particolari elementi di forma-contenuto. L'atto introduttivo può essere sottoscritto, senza bisogno di una nuova procura ad hoc, dallo stesso difensore che aveva rappresentato il ricorrente nel giudizio di merito, ovvero direttamente dalla parte, se questa si era costituita personalmente in quella sede. La notifica del ricorso non è necessaria rispetto alle parti che vi abbiano aderito, anche attraverso la semplice sottoscrizione del ricorso medesimo. Entro 5 giorni dall'ultima notifica, il ricorrente deve chiedere ai cancellieri degli uffici davanti ai quali pendono i processi che i relativi fascicoli vengano trasmessi alla cancelleria della Corte di cassazione; dal giorno di tale richiesta tali processi restano ipso iure sospesi, salva la sola possibilità per il giudice di autorizzare in essi il compimento degli atti che ritiene urgenti (art. 48 co 2°). Nel termine perentorio di 20 giorni dall'ultima notifica, l'istante deve depositare in cancelleria il ricorso ed i documenti necessari. Le altre parti, destinatarie della notifica dell'istanza di regolamento, non sono invece tenute a notificare un controricorso, ma possono semplicemente, entro i successivi 20 giorni, depositare nella cancelleria della Corte le proprie scritture difensive e i relativi documenti (art. 47). L'art. 49 prevede che il regolamento sia pronunciato con ordinanza in camera di consiglio, entro i 20 giorni successivi alla scadenza dell'ultimo termine. L'art. 380-ter stabilisce che le parti hanno il diritto di ricevere, almeno 20 giorni prima dell'adunanza della Corte in camera di consiglio, la notifica delle conclusioni del puòbblico ministero, nonché di depositare delle memorie non oltre 5 giorni prima dell'adunanza stessa. Tale disciplina si applica anche al regolamento di competenza chiesto d'ufficio dal giudice, ai sensi dell'art. 45. E' lo stesso giudice a disporre, con l'ordinanza che richiede il regolamento, la trasmissione del fascicolo della causa alla cancelleria della Corte suprema, e la sospensione del processo si produce fin dal giorno della pronuncia di tale ordinanza. 19. LA REVOCAZIONE La revocazione è un'impuògnazione a critica vincolata, ammessa per i soli motivi tassativamente indicati nell'art. 395. Ha carattere essenzialmente rescindente, è idonea a condurre ad una nuova decisione del merito della causa, ma soltanto se ed in quanto il giudice abbia previamente accertato la sussistenza del vizio denunciato ed abbia conseguentemente revocato la prima sentenza. È utilizzabile in due situazioni: • quando, puòr essendo la sentenza soggetta a una diversa impuògnazione ordinaria a critica vincolata, e cioè al ricorso per cassazione, si tratti di vizi che non potrebbero trovare rimedio attraverso tale impuògnazione; • nei confronti di sentenze non più impuògnabili in via ordinaria, quando, successivamente al passaggio in giudicato, vengano scoperti dei fatti ovvero dei nuovi elementi probatori che rendono evidente l'ingiustizia della decisione. A tali ipotesi corrispondono due rimedi: • la revocazione ordinaria, esperibile contro sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado non ancora passate in giudicato; • la revocazione straordinaria, ammessa, oltre che nei confronti delle sentenze di secondo o di unico grado, anche contro quelle di primo grado, quando per queste ultime il termine per l'appello sia già scaduto ed esse siano già passate in giudicato.


La revocazione ordinaria è esperibile per i motivi di cui ai nn. 4 e 5 dell'art. 395, cioè per vizi palesi, dei quali la parte soccombente può rendersi conto fin dalla lettura del provvedimento; i termini decorrono dalla notifica o dalla puòbblicazione della sentenza. La revocazione straordinaria invece è ammessa per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395, che potrebbero emergere o essere conosciuti dal soccombente anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della sentenza; i termini decorrono dal giorno in cui la parte viene concretamente a conoscenza del vizio. La sola revocazione straordinaria è ammessa nei confronti delle sentenze di primo grado, a condizione che il termine per l'appello, nel momento in cui il vizio revocatorio viene scoperto, sia già scaduto (art. 396 co 1°). La revocazione può concorrere con il ricorso per cassazione (inidoneo a fornire tutela ai vizi revocatori, che attengono sempre all'accertamento dei fatti e che esorbitano dai poteri della Corte suprema), mentre non può mai concorrere con l'appello. La revocazione ordinaria è ammessa nelle sole ipotesi previste dai nn. 4 e 5 dell'art. 395: • quando la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Presuppone che la decisione si sia basata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, o, viceversa, sull'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita. Il giudice deve essere incorso non in un errore di valutazione delle prove e nella conseguente ricostruzione dei fatti rilevanti per la decisione, ma in una mera svista ovvero in un errore di percezione circa i fatti che emergono, in positivo o in negativo, dalla semplice lettura degli atti e dei documenti della causa. Questo errore deve essere risultato concretamente determinante per la decisione. Non deve trattarsi di un errore di giudizio, la revocazione viene esclusa quando il fatto cui l'errore si riferisce ha costituito un puònto controverso sul quale la sentenza si pronuncia. • Quando la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, puòrché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. È pacifico che, ogni volta che il giudice di merito abbia pronunciato espressamente, d'ufficio o su eccezione di parte, sull'esistenza di un anteriore giudicato, la revocazione sia esclusa e sia ammissibile, invece, esclusivamente il ricorso per cassazione, vuoi per violazione dell'art. 2909 c.c., vuoi, eventualmente, per difetto di motivazione ai sensi dell'art. 360 n 5. Se la revocazione esaminata non viene proposta, la sentenza passa a sua volta in giudicato ed il vizio diviene irreparabile, salva la prevalenza di tale seconda sentenza allorché si tratti di un conflitto pratico di giudicati. La revocazione straordinaria è esperibile quando: • la sentenza sia l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra (art. 395 n. 1). Deve trattarsi di atti o comportamenti processuali fraudolenti, concretatisi in artifici o raggiri, che abbiano avuto efficacia causale sulla decisione, limitando notevolmente l'attività difensiva dell'avversario oppuòre l'accertamento della verità da parte del giudice. • La pronuncia impuògnata sia fondata su prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza oppuòre che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; si presuppone che tali prove siano state determinanti per la decisione (art. 395 n. 2). Il riconoscimento della falsità deve provenire direttamente dalla parte che si è avvantaggiata della prova e la dichiarazione deve sempre aversi con sentenza, passata in giudicato, che non contenga semplicemente degli accertamenti di fatto difformi dalle risultanze della prova assunta nel primo processo, ma verta direttamente sulla falsità della prova stessa. A tale ipotesi di revocazione resta sottratto il giuramento, decisorio o suppletorio, la cui falsità può dar luogo esclusivamente al risarcimento del danno. • Quando, successivamente alla decisione, sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario (art. 395 n. 3). Deve trattarsi di un documento preesistente alla sentenza impuògnata per revocazione, e la sua mancata produzione deve essere dipesa da una causa che non possa comunque ascriversi ad un difetto di diligenza della parte. • La sentenza sia l'effetto del dolo del giudice accertato (con giudizio penale) con sentenza passata in giudicato (art. 395 n. 6). L'art. 397 prevede due particolari fattispecie di revocazione straordinaria, proponibile solamente dal puòbblico ministero, sul presupposto che si tratti di cause nelle quali è obbligatorio il suo intervento, a norma dell'art. 70 co 1°: • quando la sentenza è stata pronunciata senza che il puòbblico ministero sia stato sentito, non avendo ricevuto la comunicazione degli atti prescritta dall'art. 71, sicché è nulla ai sensi dell'art. 158; • quando la


sentenza è l'effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge. La domanda di revocazione si propone allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impuògnata (art. 398) e il relativo giudizio è retto dalle medesime norme stabilite per il procedimento davanti a lui. Il processo inizia con un atto di citazione che deve essere sottoscritto da un avvocato munito di procura speciale e deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione del motivo sul quale si fonda la domanda di revocazione nonché, quando si tratti di revocazione straordinaria, delle prove relative ai fatti previsti ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395, e del giorno in cui è stato scoperto o accertato, a seconda dei casi, il dolo o la falsità, oppuòre di quello in cui è stato ritrovato il nuovo documento decisivo. Se la revocazione è proposta davanti ad un giudice togato, l'impuògnante deve poi costituirsi, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dalla notifica della citazione, depositando in cancelleria la citazione stessa con una copia autentica della sentenza impuògnata. Lo stesso termine vale per la costituzione delle altre parti, che devono provvedervi tramite il deposito in cancelleria di una comparsa contenente le loro conclusioni. Se la revocazione è proposta davanti al giudice di pace, il deposito e la costituzione possono avvenire, a norma dell'art. 319, fino al giorno dell'udienza indicata nell'atto introduttivo. È prevista la possibilità che il giudice, su istanza dell'impuògnante inserita nell'atto di citazione, disponga la sospensione dell'esecuzione della sentenza, oppuòre la prestazione di una cauzione, quando sussistano i presupposti previsti dall'art. 373. Nel giudizio di revocazione si avrà una fase istruttoria, destinata all'assunzione delle prove dirette a dimostrare, quando occorra, la fondatezza del motivo di revocazione allegato all'impuògnante, e in un secondo momento, eventualmente, di quelle ulteriormente occorrenti per la nuova decisione del merito della causa, nei limiti in cui queste siano giustificate dall'accertato vizio della sentenza impuògnata. Riguardo alla fase decisoria, qualora la domanda di revocazione sia accolta, si avrà una contestuale pronuncia della nuova sentenza di merito, accompagnata dall'eventuale condanna alla restituzione di quanto la parte vittoriosa aveva ottenuto grazie all'esecuzione della sentenza revocata. Se a tal fine è necessaria l'assunzione di nuovi mezzi di prova, è possibile che il giudice pronunci la revocazione con una sentenza non definitiva, disponendo con ordinanza che il giudizio prosegua per l'ulteriore istruttoria (art. 402). La sentenza resa nel giudizio di revocazione è soggetta agli stessi mezzi di impuògnazione che avrebbero potuto esperirsi contro la sentenza revocata: all'appello o al ricorso per cassazione. L'art. 398 co. 4 prevede che la revocazione e il ricorso per cassazione possano proseguire autonomamente, ed esclude che la mera proposizione dell'istanza di revocazione determini la sospensione del termine per proporre il ricorso per cassazione oppuòre il relativo procedimento, lasciando che sia il giudice della revocazione, quando ritenga la domanda di revocazione non manifestamente infondata, o inammissibile o improcedibile, a poter sospendere, su istanza di parte, il termine o il procedimento, fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione. È una sospensione discrezionale, che viene disposta con ordinanza, soggetta a revocabilità e modificabilità. La sospensione implicitamente presuppone, quando la sentenza impuògnata consti di una pluralità di capi, che quelli oggetto del ricorso per cassazione siano gli stessi impuògnati con revocazione, oppuòre ne siano dipendenti, sicché l'accoglimento della revocazione possa rendere di fatto inutile la decisione dell'altra impuògnazione. In linea di principio le sentenze della Cassazione, al pari delle ordinanze pronunciate in camera di consiglio ai sensi dell'art. 375, nn. 1, 4 e 5, che hanno contenuto decisorio, sono impuògnabili per revocazione, in base all'art. 391-bis, esclusivamente per il particolare errore di fatto contemplato all'art. 395 n. 4, quando cioè siano fondate sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa o sull'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, a condizione che l'errore risulti dagli atti o documenti della causa e che il fatto non abbia costituito un puònto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare. La revocazione sarà esperibile quando la svista riguardi atti che vengono comunque in rilievo per la decisione circa l'ammissibilità o la procedibilità o la fondatezza del ricorso, sia quando, trattandosi di fatti extraprocessuali per i quali la Corte è vincolata alla ricostruzione contenuta nella sentenza impuògnata, l'errore di percezione investa tale ricostruzione. Potrà porre rimedio, in qualche caso, alle ipotesi in cui la Cassazione abbia erroneamente pronunciato una sentenza sostitutiva di merito in assenza dei relativi presupposti, o abbia semplicemente omesso di pronunciare su taluna delle


impuògnazioni oppuòre su uno dei motivi di impuògnazione. Se per la sentenza della Corte ha deciso essa stessa il merito della causa, la revocazione è ammessa, ex art. 391-ter, anche per i motivi di cui all'art. 395 nn. 1, 2, 3 e 6, ossia per i vizi che solitamente giustificano la revocazione straordinaria. L'unico vizio per cui la revocazione resta esclusa è il contrasto con un anteriore giudicato, ex art. 395 n. 5. La revocazione delle decisioni della Cassazione è soggetta ad un duplice termine perentorio, quello breve di 60 giorni dall'eventuale notificazione della sentenza, e quello lungo di un anno dalla puòbblicazione. L'art. 391-bis prevede che l'impuògnazione si proponga alla stessa Corte con ricorso. La decisione è presa sempre in camera di consiglio con ordinanza, nell'osservanza delle disposizioni di cui all'art. 380-bis; se per il ricorso è dichiarato ammissibile, la causa viene rinviata alla puòbblica udienza ed è definita con sentenza. La Corte, se accoglie la revocazione, decide nuovamente la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, o altrimenti rinvia la causa allo stesso giudice che aveva pronunciato la sentenza cassata. Questo significa che la fase rescindente della revocazione compete comunque alla Cassazione, davanti alla quale dovranno ammettersi i nuovi documenti occorrenti per la prova del vizio revocatorio, in deroga all'art. 372. La revocazione proponibile nei confronti della sentenza di appello o di unico grado può essere, a seconda dei motivi, un'impuògnazione ordinaria o straordinaria; quella esperibile contro le sentenze o le ordinanze della Cassazione sono in ogni caso configurate come un'impuògnazione straordinaria. La pendenza del termine per tale revocazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impuògnata con ricorso per cassazione respinto; qualora tale revocazione sia proposta, non è ammessa la sospensione dell'esecuzione della sentenza passata in giudicato, né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per riassumerlo. 20. L'OPPOSIZIONE DI TERZO L'opposizione di terzo si caratterizza per essere esperibile soltanto da chi non ha assunto la qualità di parte nel processo in cui la sentenza è stata resa. L'art. 404 configura due rimedi eterogenei: • l'opposizione ordinaria, che il terzo può utilizzare quando una sentenza pronunciata tra altre persone pregiudica i suoi diritti; • l'opposizione revocatoria, consentita specificamente agli aventi causa e i creditori di una delle parti, quando la sentenza è effetto di dolo o collusione a loro danno. In entrambi i casi si tratta di un'impuògnazione straordinaria, ammessa anche nei confronti di sentenze già passate in giudicato. Nel caso di opposizione di terzo ordinaria non è previsto nessun termine di decadenza. Oggetto dell'impuògnazione, per la quale è competente lo stesso ufficio giudiziario da cui proviene la decisione impuògnata, può essere, indifferentemente, una sentenza di primo o di unico grado o di appello, e anche una decisione della Corte suprema, limitatamente alle ipotesi in cui questa abbia accolto il ricorso e deciso direttamente il merito della causa (art. 391-ter). In base all'art. 404 co 1° l'opposizione è consentita nei confronti di qualunque sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva che pregiudica i diritti di un terzo. È legittimato il soggetto che non è stato parte nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza impuògnata; è sufficiente che il terzo riceva un pregiudizio dalla decisione resa inter alios. Non può essere utilizzata da chi, puòr essendo rimasto formalmente estraneo al precedente grado di giudizio, sia direttamente soggetto agli effetti della sentenza o all'autorità del giudicato, essendo succeduto a taluna delle parti dopo l'inizio del processo. Il successore è legittimato, poiché subisce l'efficacia diretta della sentenza, ad avvalersi delle impuògnazioni ordinarie, nei limiti loro propri; potrà avvalersi dell'opposizione di terzo solamente quando voglia dimostrare che la successione si era verificata prima dell'inizio del processo, che questo avrebbe dovuto promuoversi nei suoi confronti e che non sussistono i presupposti per l'estensione degli effetti della decisione in suo danno; oppuòre quando, trattandosi di successione nel diritto controverso, possa vantare un titolo di acquisto che lo sottrae agli effetti della sentenza resa contro il proprio dante causa. L'ambito di applicazione dell'opposizione non può essere più ampio rispetto alle ipotesi in cui al terzo è consentito intervenire volontariamente in un processo inter alios. Il terzo non può essere di regola assoggettato agli effetti, diretti o riflessi, di un giudicato formatosi inter alios ed avente ad oggetto un diritto giuridicamente connesso a quello di cui egli sia titolare. Vi è un rapporto di reciproca esclusione tra l'opposizione ordinaria e le ipotesi in cui la sentenza può eccezionalmente vincolare un terzo, in tali ipotesi sarebbe contraddittorio riconoscere al terzo un rimedio svincolato da particolare presupposti e da qualunque termine di decadenza. L'opposizione di terzo serve


essenzialmente a porre nel nulla la decisione impuògnata, quanto meno nella parte in cui risulta inconciliabile col diritto del terzo, e ad impedirne l'attuazione, anche attraverso la richiesta di inibitoria prevista all'art. 407. Il pregiudizio cui allude l'art. 404 si identifica col danno, anche solo potenziale, che potrebbe derivare al terzo qualora la sentenza fosse eseguita fra le parti, sia nelle forme dell'esecuzione forzata, sia in seguito allo spontaneo adeguamento della parte soccombente alle statuizioni in essa contenute. La legittimazione a proporre l'opposizione ordinaria deve riconoscersi: • ai terzi titolari di diritti autonomi ed incompatibili rispetto a quello accertato dalla sentenza, ossia a coloro i quali avrebbero potuto spiegare intervento volontario principale nel processo instauratosi fra le parti. Es. terzo che si affermi proprietario, in base a titolo autonomo, dello stesso bene i cui la sentenza ha riconosciuto proprietaria una delle parti. • Al successore che sia rimasto estraneo al giudizio ed alleghi che la successione si era verificata anteriormente all'inizio del processo, sicché questo avrebbe dovuto instaurarsi nei suoi confronti. • Ai terzi contitolari dello stesso rapporto giuridico plurisoggettivo accertato dalla sentenza, che avrebbero dovuto partecipare, in qualità di litisconsorti necessari ex art. 102, al relativo giudizio. Ad es. il comproprietario del fondo sul quale la sentenza ha affermato gravare una servitù di passaggio. • Al terzo che sia l'unico titolare del diritto accertato nella sentenza e sia rimasto estraneo al relativo giudizio, promosso da un altro soggetto in virtù di una legittimazione straordinaria ad agire: in tali ipotesi di sostituzione processuale si ritiene che il sostituito debba comunque partecipare al processo in qualità di litisconsorte necessario, sicché l'opposizione di terzo si ricollegherebbe ad un vizio del contraddittorio. • Al soggetto che sia stato rappresentato nel giudizio da un falsus procurator, ossi da un soggetto privo di poteri rappresentativi. Si esclude che l'opposizione possa essere utilizzata dai terzi titolari di rapporti giuridici latu sensu dipendenti da quello su cui ha pronunciato la sentenza. Per tali soggetti possono prospettarsi due ipotesi, a seconda che subiscano o no l'efficacia riflessa del giudicato intervenuto fra le parti: quando il terzo è soggetto all'efficacia riflessa l'unico rimedio esperibile è l'opposizione revocatoria, sempre che ne sussistano i presupposti. Non è necessario che il pregiudizio lamentato dal terzo, cui l'art. 404 subordina l'esperibilità dell'opposizione, sia già attuale. L'opposizione revocatoria presuppone che il pregiudizio derivato dalla sentenza sia effetto di dolo di una parte o di collusione (accordo fraudolento delle parti) in suo danno. La funzione è proteggere il creditore dagli atti dolosi con cui il debitore potrebbe di fatto vanificare la garanzia che il proprio patrimonio offre al creditore stesso. Tale impuògnazione è soggetta ad un termine breve di decadenza, 30 giorni, che decorre dal giorno in cui il creditore o l'avente causa ha avuto conoscenza del dolo o della collusione in suo danno (art. 326 co 1°). È competente lo stesso giudice a quo, dinanzi al quale si applicano le norme stabilite per il processo davanti a lui, salvo che non siano derogate da quelle più specifiche risultanti dagli artt. 405 ss. Il giudizio deve instaurarsi, di regola, con una citazione. L'unica particolarità dell'atto introduttivo è la necessità di indicare, oltre ai consueti elementi dell'art. 163, la sentenza che si impuògna e, nel caso di opposizione revocatoria, il giorno in cui l'opponente è venuto a conoscenza del dolo o della collusione delle parti in suo danno, nonché la prova offerta a tale riguardo. L'art. 407 prevede che possa chiedersi inibitoria con un'istanza inserita nell'atto di impuògnazione e rinvia all'art. 373, che richiede il pericolo di un grave ed irreparabile danno. Se l'opposizione viene accolta, il momento rescindente coinciderà con quello rescissorio, ossia con la pronuncia di una nuova decisione sul merito della causa, sempre che ne sussistano i presupposti. A volte per la natura del vizio è tale da escludere la pronuncia di una nuova sentenza di merito, in particolare quando l'opposizione si fonda su una lesione del contraddittorio oppuòre sulla violazione dell'art. 102. Nel primo caso il vizio è insanabile e neppuòre il giudice a quo avrebbe potuto porvi rimedio, sicché è inevitabile che l'opposizione si concluda con il mero annullamento della decisione. Nel secondo caso invece è necessario distinguere: se l'opposizione si dirige contro una sentenza di primo grado, lo stesso art. 102 consente di pervenire direttamente ad una nuova pronuncia sul merito; se invece viene impuògnata una sentenza di appello, l'applicazione dell'art. 354 fa si che il giudice dell'opposizione debba limitarsi ad una pronuncia rescindente, rimettendo la causa al giudice di primo grado. Deve ritenersi che l'eliminazione della sentenza impuògnata e la decisione che ad essa si sostituisce debba valere, in ogni caso, sia per l'opponente vittorioso che per le parti originarie.


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