La perfetta intraducibilità. L'autoriflessività nelle opere di David Mazzucchelli e Michele Mari.

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ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI Corso di laurea magistrale in Italianistica, Culture letterarie europee, Scienze linguistiche La perfetta intraducibilità. L’autoriflessività nelle opere di David Mazzucchelli e Michele Mari. Tesi di laurea in Prosa e generi narrativi del Novecento

Relatore

Presentata da

Prof. Alberto Bertoni

Emanuele Rosso

Correlatore Prof. Lucia Corrain

III sessione Anno Accademico 2012/2013


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Indice

Introduzione 1.

2.

Traduzione, narrazione e autoriflessività 1.1 La traduzione come comparabilità e negoziazione 1.2 Espressione e contenuto, forma e sostanza 1.3

I segni e gli spazi bianchi

1.4

Il ruolo dell’autoriflessività

1.5

Storie e narrazione

Asterios Polyp di David Mazzucchelli 2.1

David Mazzucchelli

2.2

Il non casuale caso di Città di vetro

2.3 2.4

Asterios Polyp! Chi era costui? 100% fumetto, e forse qualcosa di più 2.4.1 L’opera come oggetto 2.4.2 Costanti visive di autoriflessività

2.5 3.

2.4.3 Tertium non datur: il senso dell’opera e i livelli di lettura Una pagina alla volta

Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari 3.1 3.2

Michele Mari Letteratura come filtro, memoria e realtà

3.3 3.4

Cento poesie, ma una storia sola Una poetica poetica 3.4.1 La poesia come crittografia del sentimento 3.4.2 Epigrammatica schizofrenia

3.5

3.4.3 Ritmi e contrappunti visivi Verso per verso 3


Conclusione Riferimenti bibliografici e sitografici Appendice

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Introduzione

Questo studio vuole approfondire un argomento che mi sta a cuore da quando ho acquisito una consapevolezza critica da fruitore di narrativa. Con narrativa intendo la capacità forse innata dell’uomo di organizzare conoscenze in un discorso coerente e raccontare storie attraverso personaggi, avvenimenti e trasformazioni. L’uomo, nel corso dei secoli, ha sviluppato numerosi linguaggi attraverso cui trasmettere informazioni e comunicare (non a caso, come diceva Aristotele, siamo “animali sociali”), partendo dal disegno e dall’oralità, e giungendo fino al fumetto e al cinema, tra i più recenti linguaggi dotati però di un corpus di opere e studi tali da rivaleggiare con i più longevi predecessori. Linguaggi che hanno l’ampiezza e le potenzialità per raccontare qualsiasi tipo di storia, specie quelli che si articolano preminentemente su una dimensione temporale, più consoni a presentare un andamento del discorso che preveda dei cambiamenti e dei progressi rispetto a una situazione iniziale data. All’interno dell’universo delle storie possibili (oltre a quelle esistenti), voglio concentrarmi su alcune narrazioni dotate di uno statuto speciale. La specialità risiede nell’essere intimamente connesse al linguaggio che il loro autore ha scelto per trasmetterle al mondo, così intimamente connesse da essere forse intraducibili in un qualsiasi altro linguaggio, ancor più che in un’altra lingua. Come si usa dire con un’affascinante paronomasia, tradurre è sempre un po’ tradire, ma mentre in buona parte dei casi il compito è agevolato da un utilizzo abbastanza neutro del linguaggio originario (dando per scontato che una traduzione perfetta è impossibile, specie in opere in cui la forma assume per l’autore un significato specifico), nei pochi altri, che sono poi quelli realmente interessanti, la missione

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diventa quasi impossibile, anzi, perfettamente impossibile, a meno che non si rinunci ad alcune caratteristiche fondanti, semplificando oltre il lecito la portata dell’opera. In altre parole si potrebbero definire opere metanarrative, senza che però venga fatto esplicito ricorso alla metanarratività. Senza bisogno di riflessioni e pretesti che mettano palesemente in mostra la natura del costrutto semiotico, è possibile adoperare la forma, ossia i codici del linguaggio, in modo che si faccia essa stessa contenuto, spingendoci a valutare consapevolmente l’aspetto stesso della storia, intendendo con aspetto ciò che percepiamo con i nostri sensi, il livello espressivo. Forma e contenuto si saldano quindi in un tutt’uno in cui le dimensioni si amplificano a vicenda, rendendo di fatto l’opera intraducibile. Ribadisco che le (im)possibili traduzioni in oggetto non riguardano il passaggio da una lingua all’altra, ma da linguaggio narrativo a linguaggio narrativo. Non si vogliono in questa sede descrivere e analizzare sterili esercizi di stile, o opere che giocano apertamente con una componente metanarrativa, bensì portare a esempio opere che sfruttano una piena consapevolezza del piano formale per proporre una narrazione ricca, colta e stratificata, oltre che appassionante. L’analisi potrebbe includere tutti i campi della comunicazione adottati dall’uomo, ma ho deciso di proporre un confronto tra fumetto e letteratura, due linguaggi ben distinti ma comunque accomunati da alcune caratteristiche che li rendono facilmente raffrontabili. La principale (altre verranno trattate nel prosieguo dello studio) è che entrambi i linguaggi si dibattono tra una natura spaziale e una temporale: da un lato l’essere costruiti come successione di unità poste in sequenza (vignette in un caso, fonemi/parole nell’altro), dall’altro la presenza simultanea di dette unità in un unico spazio, con lo scopo di costruire sequenze, per il fumetto, e periodi, per quanto riguarda la scrittura. In entrambi i casi le unità minime da sole non significano, o,

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perlomeno, si limitano a denotare. In tutti i linguaggi narrativi è necessario esprimere la sequenzialità, perché senza di essa è impossibile pensare alla trasformazione e di conseguenza alla narrazione stessa. L’idea stessa di questo lavoro nasce in seguito alla lettura di Asterios Polyp, romanzo a fumetti scritto e disegnato da David Mazzucchelli, pubblicato negli Stati Uniti da Pantheon Books nel 2009, e tradotto in Italia da Coconino Press nel 2011. Dell’opera e dell’autore si avrà modo di parlare approfonditamente in seguito, per ora basti sapere che raramente si è avuto nel mondo del fumetto un graphic novel dotato di così ampia stratificazione, di citazioni e livelli multipli di lettura, e soprattutto di una ricchezza di soluzioni visive che mettono alla prova il linguaggio stesso, spingendolo forse oltre i propri attuali limiti. Avendo ben chiaro da subito solo il versante fumettistico della presente trattazione, la difficoltà è stata quindi trovare un lavoro letterario da abbinare in modo coerente e giustificato ad Asterios Polyp. La scelta è ricaduta su di un’opera italiana. Ho condotto la mia ricerca sulla letteratura del nostro Paese perché dovendo valutare una narrazione portata avanti unicamente attraverso il linguaggio scritto è parso preferibile rivolgersi a testi scritti nella propria lingua madre, in cui fosse possibile comprendere al meglio il lessico e riconoscere costrutti e figure retoriche. Nel caso di David Mazzucchelli ci si è basati sull’edizione in lingua inglese, sia per garantire che l’analisi fosse condotta comunque sui testi originali, sia perché nel fumetto la pura questione della lingua ha una rilevanza parziale rispetto all’insieme dei codici del linguaggio (e quindi, pur non essendo madrelingua inglese, mi sono sentito sufficientemente preparato per valutare l’originale).

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Un ulteriore criterio di selezione è stata una stretta contemporaneità delle opere in esame, per garantire una consonanza temporale con il sopraccitato romanzo a fumetti. Una consonanza temporale in termini di creazione e pubblicazione che però può riflettere anche il riferirsi a un comune spirito del tempo: universi culturali e tradizioni letterarie affini, vissuti e sentiti dagli autori, e che hanno sicuramente influito anche sul loro lavoro. Non sono molti gli scrittori italiani a rispondere a detti requisiti, o che facciano comunque uso della strumento-lingua a questo livello di consapevolezza, per questo la scelta è ricaduta in maniera abbastanza univoca su Michele Mari e sul suo Cento poesie d’amore a Ladyhawke (Einaudi, 2007). Se sull’autore ci sarà modo di discutere successivamente, occorre qualche puntualizzazione sulla scelta dell’opera. Non si tratta infatti di un romanzo, bensì di una raccolta di poesie. Una raccolta di poesie atipica, e questo è il motivo per cui può essere presa in considerazione nel qui presente studio. Atipica perché costruita come un racconto unitario, con una narrazione che lega le poesie l’una all’altra e si dipana attraverso di esse, proponendo nel corso del testo un’evoluzione della storia presentata dal protagonista già nelle prime righe. In altre parole una specie di romanzo in versi, in cui il livello narrativo riveste un ruolo importante tanto quanto quello poetico. Lingua scritta di stampo poetico e fumetto sono forse i due linguaggi che più elementi hanno in comune, come vedremo nel corso della trattazione. Un’ultima notazione, dedicata al confronto tra le due storie prese in esame, fin qui descritte solo da un punto di vista formale: entrambe raccontano le vicende di due uomini maturi (in qualche maniera alter ego dei rispettivi autori), alle prese con una relazione sentimentale forse irrimediabilmente compromessa. Le storie mettono in scena la

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presa di consapevolezza dei protagonisti rispetto al proprio percorso amoroso, tra ricordi e rimpianti. Lo sviluppo e gli esiti sono diversi, ma simile è lo sguardo e l’attenzione verso i piccoli dettagli e le situazioni che connotano un’importante e duratura storia d’amore. È per questo che entrambe le opere, dopo avermi colpito alla prima lettura, hanno continuato a scavarmi dentro e mi hanno spinto a proporre questa analisi.

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1. Traduzione, narrazione e autoriflessività

Quanto è stato accennato nell’introduzione necessita ora di essere approfondito, delimitato, e forse anche negato. A partire dal titolo di questo studio. Ha senso parlare di perfetta intraducibilità? Ammettendo anche che la scelta sia stata dettata dal gusto per il gioco di parole, per l’abbinamento che risulta paradossale già a una prima lettura, ci si para comunque innanzi un quesito sottointeso ma fondamentale: può una traduzione essere perfetta? E di conseguenza, può un’opera al contrario essere perfettamente intraducibile? Per rispondere a queste domande, si deve definire meglio il campo di gioco: partire da una riflessione sul concetto (e sulla pratica) di traduzione, e da lì giungere a una definizione dell’idea di autoriflessività, e di come essa sia analizzabile nei differenti sistemi semiotici che si sfruttano per creare storie e trasmettere narrazioni.

1.1 La traduzione come comparabilità e negoziazione Parto da una citazione che ho sentito fare qualche anno fa a Carlo Lucarelli durante un incontro pubblico, che, per quanto sembri poco attinente all’argomento trattato, metaforizza bene il problema: “Non esiste il delitto perfetto perché non esiste l’indagine perfetta. Ogni delitto non risolto è un delitto perfetto”. Umberto Eco pone il problema subito in apertura del suo saggio Dire quasi la stessa cosa: Che cosa vuol dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire che cosa significhi “dire la stessa cosa” (…). In secondo luogo perché, davanti a un testo da tradurre, non sappiamo

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quale sia la cosa. Infine, in certi casi, è persino dubbio che cosa voglia dire dire1.

Giungendo a stigmatizzare la deriva tautologica intrapresa da molte teorie della traduzione: La sfortuna di ogni teoria della traduzione è che dovrebbe partire da una nozione comprensibile (e ferrea) di “equivalenza di significato” mentre non raramente accade che in molte pagine di semantica e filosofia del linguaggio si definisce il significato come ciò che rimane immutato (o equivalente) nei processi di traduzione2.

Tradurre, stando alla definizione del dizionario, significherebbe “trasferire un testo da una lingua in un’altra, darne un equivalente”. Chiaramente, come rileva Eco, il problema è se si possa definire o meno, (ed eventualmente come) questa equivalenza. Anche se nel caso del presente studio non ci si vuole occupare di traduzione da lingua naturale a lingua naturale, ma di passaggi tra sistemi semiotici diversi, molti dei quesiti sollevati dalla traduzione propriamente detta possono essere considerati validi anche quando ci si occupa di traduzione intersemiotica o trasmutazione/transduzione, come da definizione di Jakobson3. Partendo da una considerazione generale si potrebbe addirittura ribaltare il paradigma, e dire, seguendo le ricerche più contemporanee che “viviamo nelle transduzioni, e che una parte di queste è la traduzione linguistica con la sua sintassi”4. Ogni lingua, ma più in generale ogni sistema semiotico, analizza e segmenta la realtà in modo differente, per poi riuscire a comunicarla e 1

Eco, U., Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2003, p. 9. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 26. Abbiamo fatto spesso riferimento a Dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco in questa prima parte dello studio, perché il saggio, pur occupandosi prevalentemente di testi scritti, propone un’ampia panoramica sulle problematiche legate alla traduzione, e suggerisce numerosi spunti che ben supportano la nostra indagine. 3 Jakobson, R., “On linguistic aspects of translation”, in R. Brower (ed.), On translation, 1959, pp. 232-239; (tr. it., “Gli aspetti linguistici della traduzione”, in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966). 4 Fabbri, P., “Due parole sul trasporre (intervista a cura di Nicola Dusi)”, in Versus – Quaderni di studi semiotici, voll. 85-87, Bompiani, Milano 2000, p. 275. 2

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trasmettere informazioni, e, come dice il semiologo Paolo Fabbri ne La svolta semiotica, “non ci sono categorie e parti di significato prima della comunicazione”. Fabbri aggiunge che “la comunicazione è un ritaglio formale della materia (dell’espressione e del contenuto) che, come diceva Hjelmslev, produce una sostanza (dell’espressione e del contenuto)”5, e di conseguenza ogni sistema semiotico produce una propria visione del mondo. Questi diversi sistemi/sostanze/visioni possono essere messe a confronto? È possibile creare dei ponti, dei parallelismi, delle analogie che giustifichino e motivino una traduzione? In apparenza sembrerebbe di no. Le differenze di segmentazione risultano tali che, come afferma sempre Eco, “due sistemi del contenuto sono mutualmente inaccessibili, ovvero incommensurabili, e che pertanto le differenze nell’organizzazione del contenuto rendono la traduzione teoricamente impossibile”6. Se questo vale già in un discorso che riguarda principalmente la traduzione tra lingue naturali, figuriamoci quando si parla a esempio di pittura e musica, o scultura e cinema. Traduzione teoricamente impossibile, ma continuamente esercitata nella storia dell’uomo. Come spiega Franco Nasi, traduttologo e professore di letteratura italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia: C’è invece una sorta di diffusa insoddisfazione per quella che Ladmiral ha definito il “paradoxe bien étrange” della “objection préjudicielle”, per cui viene ritenuta impossibile una delle attività umane più diffuse. Una tale obiezione pregiudiziale secondo Emilio Mattioli “proviene più dalla rigidità dei sistemi che dalla verifica empirica”. Se una traduzione può essere considerata come una riformulazione, a un tempo omologa e autonoma, di un testo in un diverso sistema linguistico-stilistico e in un mutato orizzonte di ricezione, allora “pensare che una traduzione debba essere identica all’originale è 5 6

Fabbri, P., La svolta semiotica, Editori Laterza, Bari 1998, pp. 22-23. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 40.

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contraddittorio”, proprio perché “la traduzione è per definizione spostamento, passaggio, non rispecchiamento, l’immagine che la traduzione dà è asintotica non speculare”. Al criterio guida della specularità o mimesi si sostituisce quello della funzionalità del testo in un diverso orizzonte di ricezione7.

Un paradosso risolto (ammesso che un paradosso sia risolvibile) spostando l’attenzione dal concetto di incommensurabilità a quello di comparabilità e all’idea che: forse la teoria aspira a una purezza di cui l’esperienza può fare a meno (…). Di qui l’idea che la traduzione si fondi su alcuni processi di negoziazione, la negoziazione essendo appunto un processo in base al quale, per ottenere qualcosa, si rinuncia a qualcosa d’altro8.

Una negoziazione è sempre possibile, una volta che il traduttore abbia deciso cosa voglia ottenere nel processo di traslazione e adattamento: “definire la propria posizione traduttiva è un atto di lealtà nei confronti del testo di partenza e del lettore”9. Lettore o, parlando di altri sistemi semiotici, si potrebbe ampliare la definizione a fruitore. Lealtà che acquisisce molto più valore del mito della fedeltà della traduzione: La fedeltà è piuttosto la tendenza a credere che la traduzione sia sempre possibile se il testo fonte è stato interpretato con appassionata complicità, è l’impegno a identificare quello che per noi è il senso profondo del testo, e la capacità di negoziare a ogni istante la soluzione che ci pare più giusta10.

Stante l’incommensurabilità dei sistemi, ma al contempo la loro comparabilità, ci si gioca tutto sull’interpretazione: “interpretare significare fare una scommessa sul senso di un testo. (…) Il traduttore 7

Nasi, F., Poetiche in transito. Sisifo e le fatiche del tradurre, Medusa Editrice, San Giorgio a Cremano (Na) 2004, p. 84 8 Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 18. 9 Nasi, F., Op. Cit, (2004), p. 56. 10 Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 364.

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deve decidere quale sia il livello (o i livelli) di contenuto che la traduzione deve trasmettere”11. Ma se le lingue naturali paiono sempre comparabili, anche se già da queste premesse è evidente che ogni testo è perfettamente intraducibile, forse lo stesso non si può dire dei diversi sistemi semiotici. Per rimanere all’analisi di Eco, che si sviluppa prevalentemente a partire da testi verbali: Né la forma né la sostanza dell’espressione verbale possono essere mappate una a una su altra materia. Nel passaggio da un linguaggio verbale a un linguaggio, poniamo, visivo, si confrontano due forme dell’espressione le cui “equivalenze” non sono determinabili12.

Sempre secondo Eco, una traduzione, per essere considerata tale, dovrebbe garantire anche la reversibilità: “una traduzione, anche se sbagliata, permettere di tornare in qualche modo al testo di partenza. (…) Il qualche modo non riguarda forse valori estetici ma almeno una riconoscibilità ‘anagrafica’”13. Alla luce di tutto questo, si può quindi ancora parlare di traduzione, benché intersemiotica, o forse ci si dovrebbe spostare verso l’idea di adattamento di un’opera come opera nuova, che chiaramente ha un debito nei confronti dell’opera fonte, ma che non può che limitarsi a trasmigrare determinati temi, a usarli per dare vita a qualcosa di necessariamente diverso? Il punto di vista di Eco è sicuramente parziale e sbilanciato verso un’interpretazione ristretta del processo traduttivo propriamente detto, ma il problema sembra ruotare di più intorno a una scelta terminologica e alle definizioni da abbinarvi, che a una questione concettuale. Se la traduzione deve in qualche modo garantire una forma di identità tra testo di partenza e di arrivo (identità intesa in senso lato, visto che una sinonimia assoluta è impossibile), è chiaro 11

Eco, U., Op. Cit. (2003), pp. 154-155. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 325. 13 Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 58. 12

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che tutte le forme di trasposizione tra linguaggi non rientrano nella definizione, ma se la focalizzazione si sposta nel campo delle potenziali equivalenze tra sistemi, allora si potrà considerare la traduzione come un ampio processo interpretativo volto a comprendere i diversi livelli di lettura di un testo, e a cercare nuove vie per rendere questi livelli nel sistema linguistico di destinazione. Una ricerca che porta necessariamente a un accrescimento di senso rispetto al testo di partenza e allo svilupparsi di nuovi percorsi e strumenti del comunicare, di cui è difficile valutare le implicazioni future: “La traduzione intersemiotica sembra sganciarsi dal valore identità e alle strategie di compensazione sembrano sostituirsi strategie di intensificazione, diffusione, trasformazione”14. Che si parli di lingue naturali o altri sistemi semiotici, la traduzione resta comunque un processo aperto, che si modifica con il progredire dell’uomo e delle culture, un fine rispetto al quale sono più interessanti i mezzi impiegati per raggiungerlo, l’elemento fondante di un dialogo ermeneutico che porta a interrogarsi sulla natura e sull’origine dei nostri meccanismi di comunicazione. Anzi, non solo a interrogarsi, ma anche a far evolvere la lingua o il sistema semiotico scelto come linguaggio di destinazione, che dovrà adattarsi e/o sviluppare nuovi strumenti per rendere nella maniera scelta (la più efficace possibile, o comunque quella decisa dal traduttore) l’opera di partenza: “L’incompiutezza della traduzione non è che la sua qualità maggiore, la base stessa del dinamismo dei linguaggi e dei sistemi culturali”15. E in effetti, come sostiene la traduttrice e studiosa Barbara Godard: No final version of a text is ever realizable. There are only approximations to be actualized within the conditions of different enunciative exchanges. As such, translation is concerned not with ‘target language’ and the condition of 14

Basso, P., “Fenomenologia della traduzione intersemiotica”, in Versus – Quaderni di studi semiotici, voll. 85-87, Bompiani, Milano 2000, p.210. 15 Basso, P., Op. Cit. (2000), p.213.

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‘arrival’ but with the ways of ordering relations between languages and 16

cultures. Translation is an art of approach .

Al di là delle definizioni, e basandoci sulla riflessione della Godard, credo che possano esistere vari gradi di traducibilità, a seconda dell’attinenza e della vicinanza (o lontananza) dei vari sistemi semiotici tra di loro. Non si possono in questa sede trattare tutti e sperimentare ogni possibile combinazione, anche perché resta l’impossibilità di stabilire una metodologia astratta a priori: a. la traduzione è un fenomeno strettamente testuale, che concerne sostanze e non forme dell’espressione; b. la traduzione è un fenomeno individuale, come lo stile, di cui si possono forse dare descrizioni semiotiche, ma non una teoria complessiva; c. la traduzione è, al massimo, teorizzabile localmente e non globalmente, nel senso che se ne possono generalizzare delle regole solo a partire da serie limitate di fenomeni comparabili fra loro17.

Ci si limiterà a instaurare un confronto tra i due sistemi ai quali le opere successivamente analizzate appartengono, cioè il fumetto e la scrittura (anche se per quest’ultima verrà considerato solo, e non a caso, il sottoinsieme della poesia), e a valutare le tattiche locali di equivalenza18 instaurabili tra di essi.

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“Una versione definitiva di un testo non è mai realizzabile. Ci sono solo approssimazioni che possono essere attualizzate in determinate condizioni all’interno di differenti scambi enunciativi. Per cui la traduzione non si dovrebbe preoccupare tanto della lingua di destinazione e delle condizioni che permettono questo passaggio, quanto dei modi per stabilire relazioni tra lingue e culture. La traduzione è un’arte dell’avvicinamento”. Godard, B., “A translator’s diary”, in Simon, S., Culture in transit. Translation and the Changing Identities of Québec Literature, Vehicule Press, Montréal 1995, p. 81. 17 Calabrese, O., “Lo strano caso dell’equivalenza imperfetta”, in Versus – Quaderni di studi semiotici, voll. 85-87, Bompiani, Milano 2000, p.102. 18 Come da definizione di Nicola Dusi.

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1.2 Espressione e contenuto, forma e sostanza C’è pero un altro elemento che va considerato, a complicare un quadro dai contorni già a dir poco sfumati. Perché, in astratto, confrontare sistemi semiotici diversi potrebbe apparire anche facile, o per lo meno possibile (in un’ottica di potenziale traduzione intersemiotica), ma il punto è che tali sistemi in astratto non esistono, esistono solo attraverso le opere che ne fanno uso, li pongono in essere e li mettono in pratica. Come la langue di Saussure, sono insiemi sovraindividuali, gestalt ricostruibili solo a posteriori, e ogni opera ne esprime solo una parte, per quanto possa o voglia tendere alla totalità. Se, come riportato da Fabbri ma anche da Eco19, in linea con quanto afferma il linguista Hjelmslev, ogni sistema semiotico si divide in piano dell’espressione e piano del contenuto, e ciascuno dei due piani consiste di forma e sostanza ed entrambi sono il risultato della segmentazione del continuum della realtà, è pur vero che ogni singolo testo/opera/atto comunicativo a sua volta seleziona parte di quel continuum (ciò che vuol esprimere) e stabilisce come esprimerlo. Può esserci un cosa senza un come? Ossia un atto comunicativo che non tenga conto del modo attraverso cui si esprime? Non potendo esistere piano del contenuto senza piano dell’espressione, dobbiamo chiederci quale sia il ruolo del piano dell’espressione quando ci si trova di fronte a problematiche legate alla traduzione. Come si è precedentemente visto, la traducibilità perfetta è resa impossibile proprio dal fatto che ogni linguaggio segmenta la realtà in modo diverso, rendendosi incommensurabile e irriducibile rispetto a tutti gli altri. La comparabilità invece è attuabile perché il confronto è sempre realizzabile. Non tra interi sistemi – incommensurabili – bensì tra singole opere, come sottolinea Eco: “La traduzione non avviene tra 19

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 39, che riprende: Eco, U., Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984, p. 52.

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sistemi, bensì tra testi”20. La difficoltà di questa comparabilità dipende da come ogni sistema semiotico applicato struttura il piano dell’espressione, e non solo sul livello della forma, quanto su quello della sostanza. In realtà non è il sistema semiotico in sé a strutturare la sostanza dell’espressione, quanto l’enunciatore, che decide quale senso attribuire a una data opera. Come spiega Eco: In un testo – che è già sostanza attuata – noi abbiamo una Manifestazione Lineare (quello che si percepisce, o leggendo o ascoltando) e il senso o i sensi di quel dato testo. Quando io mi trovo a interpretare una Manifestazione Lineare faccio ricorso a tutte le mie conoscenze linguistiche, mentre un processo assai più complicato avviene nel momento in cui cerco di individuare il senso di ciò che mi viene detto21.

Si può allargare questa definizione anche agli altri linguaggi, se invece di manifestazione lineare ci si spinge a identificarla come manifestazione tout court (che quindi mette in gioco anche elementi spaziali, in cui la percezione non avviene sono in successione ma anche in contemporanea). Il senso però non è mai univoco, sia perché dipende dall’enunciatore quanto dalla capacità dell’enunciatario di interpretarlo, sia perché il senso spesso contiene più sensi. Più sensi e quindi più sostanze dell’espressione, che non solo si influenzano reciprocamente, ma determinano anche le forme del contenuto che si vuole trasmettere. Chi interpreta, e chi traduce, deve essere in grado innanzitutto di cogliere tutte queste sfumature, e poi cercare un modo per trasmetterle nel linguaggio di destinazione. E se non è possibile tradurle tutte, resta la scommessa del traduttore su quale sia la dominante, o le dominanti, di un’opera, e su cosa sia disposto a sacrificare di quell’opera per riuscire a tradurre quella dominante in un altro linguaggio. 20 21

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 37. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 50.

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Curioso comunque come non esistano opere che si definiscano traduzioni intersemiotiche: Innanzitutto dobbiamo osservare che la denominazione teorica jakobsiana non trova pressoché riscontro nella auto qualificazione di opere artistiche. Per intenderci, sono rarissimi i casi, almeno da noi conosciuti, di opere che si autodefiniscono alla lettera come traduzione di un testo di diverso linguaggio artistico. (…) In tutti i casi la tendenza è quella di evitare la parola traduzione. (…) La traduzione intersemiotica non ha, né potrebbe avere nella nostra cultura, lo statuto di “testo di servizio”22.

Quindi tornando alla domanda che ha aperto quest’ultima digressione, si può pensare a un’opera che a livello di sostanza del piano dell’espressione non esprima una scelta consapevole? E ogni scelta non è già per sua natura una decisione di carattere estetico? Possono esserci atti enunciativi che prescindono da una funzione estetica (che richiama l’attenzione sul come dell’atto stesso)? Non si può rispondere in questa sede a un quesito che è in effetti ancora aperto, rispetto al quale forse non è neppure possibile raggiungere una risposta definitiva (si pensi a tutto il dibattito tra linguisti su norma e scarto nelle lingue naturali23), ci si può però interrogare sul ruolo che riveste la funzione estetica non tanto nei differenti sistemi semiotici, quanto nelle singole opere. Se in atti enunciativi di stampo prettamente funzionale si può supporre che una finalità estetica sia assente o quasi (dove la natura dell’atto è tesa principalmente verso la trasmissione di un contenuto), nel caso di opere concepite dal proprio autore come appunto opere (frutto quindi di un percorso artistico e intellettuale, circoscritte nei propri confini, destinate a un pubblico…) la funzione estetica diventa un aspetto determinante nella valutazione complessiva, ancora prima che si consideri la possibilità della traduzione: 22

Basso, P., Op. Cit. (2000), p.203. Ben presentato nel testo di Silvana Ghiazza: Ghiazza, S., La metafora tra scienza e letteratura, Le Monnier, Firenze 2005. 23

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Siccome in un testo a finalità estetica si pongono sottili relazioni tra i vari livelli dell’espressione e quelli del contenuto, sulla capacità di individuare questi livelli, di rendere l’uno o l’altro (o tutti, o nessuno), e saperli porre nella stessa relazione in cui stavano nel testo originale (quando possibile), si gioca la sfida della traduzione24.

Come corollario a quanto sopra citato, si aggiunga che questi livelli sia dell’espressione che del contenuto non sono mai indipendenti gli uni dagli altri, ma si influenzano e determinano a vicenda, convivono, impedendoci di trattarli separatamente: questo fa sì che piani e livelli siano dimensioni sempre relative e mai assolute, in rapporto dinamico tra di loro e dipendenti dall’arbitrarietà dell’atto semiotico. Nasi ne discorre a proposito della poesia (ma come nelle citazioni precedenti, credo che sia un discorso riferibile a tutti i sistemi semiotici, e soprattutto al fumetto, di cui voglio occuparmi nello specifico): C’è senza dubbio un testo, ma questo testo è formato e tenuto insieme da molti fili diversi, annodati e intrecciati in modi complessi. Non c’è nessuna trama o intreccio che sia più “essenziale” di altri. Roland Barthes una volta usò un’immagine molto simpatica per parlare di un’opera letteraria. Si è soliti paragonare la poesia a un frutto che ha un nòcciolo, un centro vitale; secondo Barthes la similitudine più pertinente è invece con la cipolla, che è formata da strati tutti ugualmente importanti e necessari. In una poesia ci sono vari strati o livelli che si sovrappongono: fonologico, metrico, ritmico, figurale, dei significati denotati, connotati, ecc., ma nessuno strato la esaurisce, nessuno ne costituisce il nucleo: essa appare piuttosto come una complementarità complessa, non riducibile neppure alla mera sommatoria dei vari strati25.

Prima di procedere, si vuole però ribaltare un’altra volta l’assunto appena presentato, e chiedersi se avrebbe senso interrogare la traducibilità dei linguaggi quando si tratta di adattare atti enunciativi 24 25

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 56. Nasi, F., Op. Cit. (2004), p. 42.

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considerati prettamente funzionali, in cui a prevalere è la presunta norma, e se poi addirittura possiamo parlare di scarto per esempio a proposito di poesia, secondo l’idea, già in Jakobson, che “la poesia non è ‘scarto’ dalla norma, anzi, la poesia è la realizzazione massima di tutte le risorse linguistiche possibili”26: Dovremmo rovesciare l’ipotesi. A noi interessa la traduzione al massimo livello di tutti gli usi possibili, quindi la traduzione poetica è più interessante della traduzione quotidiana. La traduzione poetica sfrutta tutte le possibilità del significato e del significante, mentre la traduzione linguistica del linguaggio cosiddetto “normale”, “quotidiano” o “tecnico” presenta delle restrizioni specifiche rispetto alle vaste possibilità della traduzione27.

A questo punto il discorso porta a dover tentare di giustificare questa stretta relazione tra fumetto e poesia che si è inizialmente posta come assiomatica.

1.3 I segni e gli spazi bianchi Fumetto e letteratura, arti del tempo o arti dello spazio? Dico letteratura e non specificamente poesia perché prima di scendere nello specifico si deve cercare di stabilire delle linee guida generali. Se per arti del tempo ci si limita ad affermare che si intende quelle in cui la dominante è data dalla dimensione temporale, rimane il dubbio. Sia nella letteratura che nel fumetto infatti la dimensione narrativa appare fondamentale, se non fondante. Se però ci si spinge a definire arti del tempo i linguaggi che impongono il proprio tempo di fruizione, allora si possono porre dei paletti più precisi: cinema, musica e teatro, a esempio, definiscono la propria esistenza attraverso il tempo, e obbligano il fruitore a subire passivamente l’atto enunciativo, senza 26 27

Fabbri, P., Op. Cit. (2000), p. 280. Fabbri, P., Op. Cit. (2000), p. 280.

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poter alterare in alcun modo la temporalità (modo lecito, si potrebbe aggiungere, visto che un regista o un musicista non concepiscono in fase creativa che la visione/ascolto dell’opera possa essere momentaneamente interrotta, concedetemi la battuta, dal tasto pausa, a meno di eccezioni che sono comunque volte a cercare di negare esplicitamente la dominante del tempo). Arti insomma in cui il tempo rilevante non è il tempo della narrazione, quanto il tempo fisico, reale, della fruizione. Si definiranno quindi arti dello spazio quelle che non sottostanno alla regola appena menzionata, arti che concedono al fruitore di decidere come – e in quanto tempo – svolgere la ricezione dell’atto comunicativo. Arti che inoltre permettono di variare la propria spazialità (dal molto piccolo al monumentale, a due o tre dimensioni, sui supporti fisici più vari), senza essere costrette a sottostare a una gabbia che impone un determinato schema ricettivo. Esistono però molte sfumature, ed è impossibile ritrovare un sistema semiotico puro, schierato a favore o del tempo o della spazio. Questo perché entrambe le dimensioni sono coinvolte in qualsiasi tipo di enunciazione/ricezione, e ogni tipo di nostra esperienza è polisensoriale e specificabile solo nel cervello, secondo la teoria dell’enactment28 della semantica cognitiva, per cui la distinzione tra sensi e dimensioni avviene solo successivamente all’esperienza ricettiva stessa. Si prenda quindi questo tentativo di definire e distinguere le arti più come una terminologia di comodo, utile all’analisi, che come un precetto definitivo. Detto ciò si può stabilire che sia il fumetto che la letteratura appartengono alle arti dello spazio, anche se questa divisione ha spesso generato dei contrasti di opinione, tanto che a esempio Nasi, citando Lessing a proposito della poesia, si limita a dire: “Come scriveva Lessing nel Laocoonte, in un modo forse un po’ rigido e 28

Lakoff, G., Johnson, M., Philosophy in the Flesh. The Embodied Mind and its Challenge to Western Thought, Basic Books, New York 1999.

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riduttivo, la poesia ha come soggetto precipuo le azioni ed è arte del tempo”29. Ma è anche vero che rispetto ad altri linguaggi i due sopraccitati si pongono più che mai in una posizione intermedia tra i due poli. Intermedia perché da una parte dipendono in maniera determinante dal concetto di sequenza. Come anticipato già nell’introduzione, entrambi i sistemi semiotici sono costruiti da unità giustapposte in successione, ma le singole unità, estrapolate dal proprio contesto, pur non smettendo di significare, non riescono più a raccontare. Di sicuro la vignetta, unità minima del fumetto, può raccontare molto di più della parola (che consideriamo come unità minima del testo letterario, non essendo i fonemi che la compongono in grado di denotare un significato, ponendosi quindi al livello di forma dell’espressione e non di sostanza), e possono esserci casi particolari di vignette che riescono a inglobare più momenti del racconto in un unico riquadro, ma la natura del linguaggio del fumetto prevede la costruzione della narratività attraverso il posizionamento in successione di più unità, chiedendo al lettore di ricostruire per inferenza quanto avviene tra una vignetta e l’altra. Ciò che Scott McCloud, fumettista americano da sempre impegnato nell’insegnamento e nella divulgazione del linguaggio, chiama closure: Tra due vignette non vediamo nulla, ma l’esperienza ci dice che deve esserci qualcosa. Le vignette dei fumetti frammentano sia il tempo che lo spazio, offrendo un ritmo staccato e frastagliato di momenti scollegati. Ma la closure ci permette di collegare questi momenti e di costruire mentalmente una realtà continua e unificata. Se l’iconografia visiva è il vocabolario del fumetto, la closure è la sua grammatica. E dato che la nostra definizione di fumetti è imperniata sulla disposizione degli elementi, allora possiamo proprio dire che il fumetto è la closure30. 29

Nasi, F., Op. Cit. (2004), p. 178. McCloud, S., Understanding Comics, Kitchen Sink Press, USA 1993; (tr. it., Capire il fumetto, Vittorio Pavesio Productions, Torino, 1999), p. 75. 30

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Anche la lettura di un testo prevede un meccanismo ricettivo simile: i nostri occhi scorrono le parole riga per riga, da sinistra verso destra (almeno secondo il sistema occidentale), e ricostruiscono a processo in corso il senso delle frasi. Anzi, sarebbe più corretto affermare il contrario, cioè che il fumetto mutua il meccanismo mentale alla base della lettura tout court, e lo applica alle immagini, giocando sull’approccio inferenziale del pensiero umano. Il concetto stesso di sequenza, come successione ordinata di elementi omogenei, richiama una dimensione temporale, temporalità interna data dalla giustapposizione di elementi che si svolgono in momenti successivi, ma soprattutto temporalità esterna, visto che tali elementi vengono fruiti in momenti successivi. Dall’altra parte però fumetto e letteratura sviluppano la temporalità della sequenza in una dimensione spaziale aperta che prevede e pretende la coesistenza di più unità significanti affiancate e, verrebbe da dire, nello stesso momento (a differenza di quanto fanno musica e cinema, o anche la stessa lingua orale, in cui ogni unità prende il posto e sostituisce quella che l’ha preceduta). In entrambi i casi, la spazialità riveste un ruolo strumentale e nel contempo determinante (affinché esista uno spazio bianco tra due vignette – e quindi il fumetto – occorrono due vignette mostrate contemporaneamente, e lo stesso potrebbe dirsi per la lingua scritta, in cui il materiale significante è presente come flusso spezzettato di simboli alfabetici), molto più determinante dell’aspetto temporale. E si aggiunga che il tempo di fruizione rimane libera scelta del lettore, che può soffermarsi su un singolo elemento, procedere, o perfino tornare indietro a piacere. A questo punto del discorso bisogna però specificare come la spazialità prenda corpo, come venga applicata, quale sia il suo ruolo nei linguaggi che sono qui presi in considerazione, perché non è solo una questione di più unità compresenti nello stesso spazio fisico, ma di come sono percepite quelle unità:

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Ogni rappresentazione, ogni segno rappresentativo, ogni processo di significazione implica quindi due dimensioni, che generalmente definisco riflessiva – presentarsi – e transitiva – rappresentare qualcosa. Queste due dimensioni non si discostano affatto dai concetti di opacità e trasparenza del segno rappresentativo formulati dalla semantica e dalla pragmatica contemporanee31.

Il fumetto è un sistema semiotico misto, o per meglio dire sincretico, composto da più sistemi: c’è il testo e ci sono le immagini, quindi simboli e icone, e poi ci sono gli elementi del codice, come balloon e riquadri, che sono metafore visive catacresizzate, icone divenute simboli. Tutti questi elementi sono compresenti e convivono nella tavola, spartendosi lo spazio e l’attenzione del lettore, quindi il fumetto giunge a “funzionare simultaneamente come sistema (significante) e come natura (significato)”32, a trasmettere dei contenuti che, pur mutando di volta in volta, dipendono e convivono con i codici del linguaggio che obbligano il lettore a mantenersi sulla superficie della narrazione, perché “il fumetto è condannato a mostrare i suoi codici”33. C’è un’opacità propria del fumetto, dovuta sia ai codici che allo stile con cui l’autore realizza i segni che andranno a comporre le immagini, che in un normale testo scritto sembra assente: Leggere, si sa, significa attraversare i segni scritti o stampati – come se fossero assenti – verso il senso. La loro presenza tuttavia è necessaria, altrimenti si vedrebbe solo una pagina bianca, una superficie vuota, un supporto neutro. Nonostante ciò i segni devono come scomparire – diventare diafani – sotto lo sguardo del lettore, altrimenti questi si fermerebbe e si concentrerebbe solo sui segni significanti, mentre i significati sparirebbero. La trasparenza della

31

Marin, L., Della rappresentazione, a cura di L. Corrain, Meltemi, Roma 2001, p. 197. Fresnault-Deruelle, P., Récits et discours par la bande, Libraire Hachette, Paris 1977; (tr. it., I fumetti: libri a strisce, Sellerio, Palermo, 1990), p. 52. 33 Fresnault-Deruelle, P., Op. Cit. (1977), p. 84. 32

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significazione si opacizza nel momento in cui i segni si manifestano come significanti34.

Per trovare dei testi in cui possa reggere questo parallelo con il fumetto, ci si deve necessariamente rivolgere a quelle opere in cui il piano dell’espressione attiva una funzione poetica. Una funzione che miri quindi a produrre un effetto estetico, riportandoci alla superficie, opacizzando i segni, costringendoci a soffermarci su di loro. Anzi, sono proprio i segni, l’espressione, a dettare legge al contenuto, e a farsi contenuto: “Il contenuto deve per così dire adattarsi a questo ostacolo espressivo. Il principio della prosa è rem tene, verba sequentur, mentre il principio della poesia è verba tene, res sequentur”35. Sebbene nella totalità o quasi delle opere letterarie in prosa sia attiva una funzione estetica (dalla scelta delle parole, passando per il ritmo e la musicalità della frase, all’uso di figure retoriche, dialetti e neologismi…), è nel linguaggio poetico che questa funzione viene sollecitata al massimo grado possibile. La sostanza verbale (cioè il piano dell’espressione) è dispiegata in tutte le proprie potenzialità: il metro dei versi, le rime e assonanze (e tutte le altre figure retoriche definite “di parola”), il lessico (dove la scelta della parola più adatta dipende da criteri sicuramente contestuali, ma in cui il valore fonosimbolico della lingua risalta, è cercato ed esaltato). Il rimando alla superficie, e perciò anche al fumetto, è inoltre sottolineato dal ruolo che assume l’aspetto visivo, in una poesia. Un problema (quando si tratta di pratica della traduzione), raccontato dal poeta e giornalista Giovanni Giudici36: Forse per un istintivo timor reverentiae di fronte al testo di un poeta famoso, non mi permisi, nemmeno nella grezza stesura, di alterare quella che (…) è 34

Marin, L., Op. Cit. (2001), p. 230. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 56. 36 Riportiamo la citazione presente in Nasi, F., Op. Cit. (2004), p. 100. 35

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l’unità di base della lingua della poesia, cioè il verso: tanto che rimasi un poco meravigliato quando, a lavoro finito, Giulio Einaudi ebbe a lodarmi perché le traduzioni contavano lo stesso numero di versi che gli originali. E come altrimenti avrebbe dovuto essere? È vero che non poche traduzioni poetiche del passato (dette talvolta anche “imitazioni”) trasgredivano tranquillamente a quella che per me sembrava una norma irrinunciabile. Del resto, avrei in seguito riflettuto che della “lingua poetica” di un certo testo è parte e fattore anche il suo aspetto esterno, grafico.

Un ruolo che diventa determinante nelle avanguardie del Novecento, a esempio per i futuristi, con la proposizione del verso libero, non tanto in chiave metrica quanto per l’appunto visiva, che sfociava nella creazione di metagrafi che giocavano con l’impaginazione dei testi, la dimensione e la tipologia dei caratteri di stampa. Un processo che però ha avuto i propri natali già con l’avvento della stampa e la massiccia diffusione del libro: Ma è altrettanto certa che tale diffusione e quella della pratica della lettura e della scrittura dovevano alla lunga far scadere il modo auditivo di percezione dei testi a favore d’un modo visivo, e quindi il loro modo d’esistenza fonica a vantaggio d’un modo grafico (…) e soprattutto, e in quell’occasione, mettere in evidenza altri caratteri del linguaggio poetico, che possiamo definire formali in senso hjelmsleviano, in quanto non dipendono dal modo di realizzazione, o “sostanza” (fonica o grafica) del significante, ma dall’articolazione stessa del significante e del significato considerati nella loro idealità37.

Nel saggio The Necessary Angel del poeta Wallace Stevens, citato da Nasi, il primo propone di associare poesia e pittura sulla base della Imagination, “la facoltà poetica per eccellenza nella tradizione anglosassone” 38. Credo che questa associazione possa valere anche per poesia e fumetto, forse in maniera anche più radicale: 37

Genette, G., Figures II, Editions du Seuil, Paris 1969; (tr. it., Figure II. La parola letteraria, Einaudi, Torino, 1972), pp. 94-95. 38 Nasi, F., Op. Cit. (2004), p. 208.

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La forza della Imagination, che “usa sempre ciò che è familiare per produrre ciò che non lo è” si concretizza nella composizione, nella coerenza formale che deve presiedere sia all’attività del poeta che a quella del pittore: “Sia la poesia che la pittura creano attraverso la composizione”39.

La somiglianza è ora servita: entrambi i linguaggi si presentano ancora prima di rappresentare, combattendo una battaglia tra segni significanti e spazi bianchi sulla superficie della pagina. Una battaglia (la metafora bellica può sembrare un po’ sopra le righe, ma credo renda conto della tensione a significare che assume ogni elemento messo in gioco dall’autore nella realizzazione di opere attraverso questi linguaggi) possibile solo data la presenza simultanea delle singole unità significanti all’interno del medesimo spazio. La differenza fondamentale sta nel fatto che il linguaggio poetico si limita a usare la lingua scritta per significare (anche se come si è appena visto può recuperare una dimensione visiva grazie alle figure retoriche e alla disposizione del testo nella pagina), mentre il fumetto, oltre a inglobare il linguaggio verbale, sfrutta tutto il potere delle immagini, siano esse icone o simboli. Non è una differenza da poco, perché, come diceva il pittore Sol Worth, “pictures can’t say ain’t”40, cioè le immagini non possono affermare di non essere ciò che sono, mentre le parole, in quanto parte di un sistema puramente simbolico e arbitrario, hanno la potenzialità di autonegarsi, giocando sulla natura stessa del significante (un concetto magistralmente rappresentato dal pittore surrealista René Magritte nel famoso quadro con la pipa). Ma è anche sul piano dell’ambiguità dei segni, e del rapporto tra icone e simboli, che si gioca la feconda relazione tra questi due sistemi semiotici.

39 40

Nasi, F., Op. Cit. (2004), p. 208. Ripreso in Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 334.

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1.4 Il ruolo dell’autoriflessività Si deve ora considerare un punto già accennato fugacemente in precedenza, sia nell’introduzione che nel titolo del presente capitolo, che assume una maggiore consistenza, alla luce di quanto si è appena approfondito, e chiudere il cerchio rispetto alla domanda che ci si è posti all’inizio. Visto che l’opacità (come teorizzata da Marin) è una conseguenza della funzione estetica di un atto comunicativo, “dovremmo allora dire che in certi testi a cui riconosciamo finalità estetiche le differenze di sostanza diventano estremamente rilevanti”41. E quali sono le conseguenze di queste differenze di sostanza? Sempre Eco: Diciamo allora che vi sono testi a cui riconosciamo una qualità estetica perché rendono particolarmente pertinente non solo la sostanza linguistica ma anche quella extralinguistica – e proprio perché esibiscono tali caratteristiche, come diceva Jakobson, sono autoriflessivi42.

È l’autoriflessività che rende il procedimento della traduzione così complicato, per non dire teoricamente impossibile. Le opere si mostrano, anzi rendono evidente e non tralasciabile il proprio mostrarsi, parlano di sé stesse e della propria natura, trasmettono un contenuto e allo stesso tempo ci sottopongono la natura di questa trasmissione. Mai come in questo caso, sono valide le parole di Fabbri: Nel linguaggio c’è l’intervento di un’istanza di enunciazione molto variabile, iscritta nel testo, che porta a trasformare i racconti in discorsi, laddove per discorso intendiamo quel testo – di qualunque sostanza espressiva – che, oltre a

41 42

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 260. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 266.

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rappresentare qualcosa, rappresenta e iscrive al suo interno la forma della propria soggettività e intersoggettività43.

È ciò che già sosteneva Todorov: “Il testo contiene sempre, in sé, un’informazione sul modo di utilizzarlo”44. Solo che in questo caso l’informazione acquista un ruolo diverso, di primo piano, diventa essa stessa contenuto. Sono attive insomma delle strategie discorsive che si creano per la prima volta e che acquisiscono senso proprio nel loro essere in reciproca relazione (in pratica – perché solo di pratica si può parlare, cioè di combinazione in atto – hanno un certo senso solo nel contesto dell’opera che le genera), e come tali vanno interpretate: “esistono processi che sono contemporaneamente sistemi di se stessi”45. Come riproporre questo meccanismo linguistico in un altro sistema di segni? È chiaro che il paradosso “tradurre è impossibile, ma necessario; tradurre è inutile, ma non se ne può fare a meno”46 acquista qui ulteriore senso e forza: l’autoriflessività parla del linguaggio stesso che sfrutta per significare, e ogni passaggio e cambio di segno e sostanza sembra non portare in alcun luogo. Ecco (di)spiegato il titolo di questo studio, cioè la ricerca e l’analisi di alcune opere che provano a sollecitare l’autoriflessività del linguaggio in tutti i suoi aspetti, al punto che riescono forse anche a far evolvere il proprio sistema semiotico d’adozione. Ritorna allora prepotentemente in primo piano la follia del traduttore (ancor più folle se si parla di un trasmutatore): “Il compito del traduttore ricorda quello di Sisifo costretto per l’eternità a spingere un masso sulla cima di un monte per vederlo subito dopo rotolare a valle. Tradurre è un’impresa destinata all’insuccesso”47. E allora 43

Fabbri, P., Op. Cit. (1998), p. 57. Todorov, T., The poetics of prose, Cornell University Press, USA 1978; (tr. it., Poetica della prosa, Theoria, Roma 1989), p, 198. 45 Calabrese, O., Op. Cit. (2000), p. 103. 46 Nasi, F., Op. Cit. (2004), p. 11. 47 Nasi, F., Op. Cit. (2004), p. 9. 44

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perché imbarcarsi in questa missione apparentemente fallimentare? E come farlo? Si è già parlato della negoziazione in atto in ogni impresa di traduzione e si aggiunga ora che: Una buona traduzione è sempre un contributo critico alla comprensione dell’opera tradotta. Una traduzione indirizza sempre a un certo tipo di lettura dell’opera, come fa la critica propriamente detta perché, se il traduttore ha negoziato scegliendo di porre attenzione a certi livelli del testo, ha in tal modo automaticamente focalizzato su quelli l’attenzione del lettore48.

Quando si tratta di traduzioni intersemiotiche, specie nel caso di lavori dalla forte componente estetica, l’impresa, critica prima e operativa poi, si fa assai più ardua, perché, come precedentemente anticipato, la scommessa del traduttore coinvolge più livelli dell’opera: Si potrebbe osservare che molte trasmutazioni sono traduzioni nel senso che isolano solo uno dei livelli del testo fonte – e pertanto scommettono che quel livello sia l’unico che veramente conti per rendere il senso dell’opera originale49.

Nel caso di opere autoriflessive, si potrebbe dire che il senso profondo risieda proprio nel linguaggio stesso d’appartenenza, e la missione sembra risultare vana già in partenza, tanto più se, per aggiungere la ciliegina sulla torta (o piantare l’ultimo chiodo nella bara, proponendo una metafora più vicina al tono sfiduciato del paragrafo), le opere in questione presentassero un racconto di argomento metanarrativo, e quindi doppiamente legate al linguaggio attraverso cui le fruiamo. Per fare un esempio basilare ma molto efficace: potrebbe un manuale di fumetti a fumetti diventare mai un

48 49

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 247. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 334.

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film, o anche solo un romanzo? Ma soprattutto a chi verrebbe mai in mente di tentare un’operazione del genere? E in effetti a questo punto entra in gioco la finalità della traduzione. Se un’opera è legata a un dato momento storico e a un contesto culturale, sociale e geografico, per lo stesso motivo lo è una traduzione. Momento e contesto indirizzano, se non determinano, le mosse del traduttore, a partire dalla dicotomia source oriented/target oriented translations: traduzioni volte a preservare il più possibile l’opera originale, o portatrici di un cambiamento più vistoso, necessario per raggiungere un particolare scopo comunicativo o un certo pubblico? La domanda è lecita, in particolare quando si affronta una trasmutazione, e l’opera originale non può essere affiancata da una che ne replichi in qualche modo l’apparenza. Eco riprende Fabbri, che avverte: “Il vero limite della traduzione starebbe nella diversità delle materie dell’espressione”50, e aggiunge: “La diversità di materia è problema fondamentale per ogni teoria semiotica”51. Un problema che si fa pressante quando entrano in gioco funzioni estetiche che sottolineano e raccontano la natura della materia. Abbiamo visto come ogni linguaggio segmenti la realtà in maniera differente, ma nessuno di questi può dire tutto e in tutti i modi, neanche la parola, considerata “sistema modellizzante primario”52. Insomma ogni sistema semiotico “può dire sia meno che più di un altro sistema semiotico, ma non si può dire che entrambi siano in grado di esprimere le stesse cose”53. Partendo da questa considerazione, quando si affronta una traduzione, il primo lavoro sarà identificare tutti gli strati della cipolla, cioè i diversi livelli del piano dell’espressione (ma anche del contenuto), e interrogarsi su quali inneschino l’autoriflessività. La questione allora sarà che “nel passaggio da materia a materia si è 50

Fabbri, P., Op. Cit. (1998), p. 117. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 321. 52 Come teorizzato da Lotman, e ripreso da: Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 321. 53 Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 321. 51

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costretti a esplicitare degli aspetti che una traduzione lascerebbe indeterminati”54. Questo perché vengono messi a confronto sistemi linguistici non solo incommensurabili, ma nello specifico delle opere, entità neppure comparabili. Ci si troverà insomma a dover interpretare l’opera fonte e a scegliere quali aspetti trasportare nel sistema di destinazione, tenendo presente che sarà impossibile rispettare le reticenze (i non detti, per volontà dell’autore o per caratteristiche proprie del linguaggio) dell’originale, adottando delle scelte immaginative (estetiche ma non solo) che sarebbero compito puro del fruitore: e in fondo il traduttore è il primo fruitore, ma, in quanto filtro necessario, impone la propria idea interpretativa a tutti quelli che vengono successivamente. Sarà sempre e comunque una scommessa non solo sul senso dell’opera, ma anche sul peso e il ruolo delle equivalenze tra sistemi, finendo per risemantizzare le relazioni e far entrare in risonanza paradigmatica55 le opere. Ultimo (ma non è mai detto) elemento da valutare riguarda l’intertestualità, da considerarsi come parte delle funzioni estetiche che un’opera può esprimere. Visto che ogni autore esercita il proprio ruolo all’interno di un definito orizzonte culturale, quasi inevitabilmente si farà influenzare dai prodotti della cultura che lo circonda e di cui è figlio. Può essere che decida di citare più o meno apertamente altre opere all’interno della propria, e questo gioco sollecita sia il lettore (che vivrà il piacere di riconoscere la citazione) che il traduttore (che oltre al piacere, dovrà prestare attenzione a non farsene sfuggire nessuna, e trovare poi il modo di tradurle, laddove sia possibile): Una traduzione non riguarda solo un passaggio tra due lingue, ma tra due culture, o due enciclopedie. Un traduttore non deve solo tenere conto di regole 54

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 322. Dusi, N., “Introduzione. Per una ridefinizione della traduzione intersemiotica”, in Versus – Quaderni di studi semiotici, Voll. 85-87, Bompiani, Milano 2000, p. 44. 55

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strettamente linguistiche, ma anche di elementi culturali, nel senso più ampio del termine56.

In questo senso il nostro universo culturale risulta simile a una ragnatela che è anche un domino: ogni nuova opera entra a far parte di un insieme di pezzi già collegati tra loro da innumerevoli fili, e il proprio ingresso in questo schema lo modifica, portando ogni volta a una diversa riconfigurazione, a un effetto a catena, dove anche i classici possono essere spostati e ricollocati, quando vengono agganciati da uno o più fili che l’opera appena introdotta getta verso di loro. E i citati fili fanno a tutti gli effetti parte dell’opera, e chi traduce non può non tenerne conto, nel tentativo di rispettare gli atti di riferimento che questa crea al proprio interno e che rivolge all’esterno. Si potrebbe addirittura considerare la traduzione come un’opera che tesse rapporti intertestuali così fitti con l’originale da esserne specchio: Observing intertextual relationships is perhaps the best way to identify a text as a translation (…). All texts show intertextual relations that point to other texts and signs outside of themselves (…). A translation has such a large part of its intertextual field filled by another text called “original” which also acts as a mirror for other semiotic entities (…). Unlike fields of force, though, intertextual fields cannot be measured and they exist only in relation to a competence, an enciclopedia, and certain reception settings57.

Al netto di tutte queste problematiche, si avrà pertanto a che fare, più che con un’interpretazione dell’opera fonte, con un suo uso più o meno smaliziato in funzione dell’effetto che si vuole ottenere, tanto 56

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 162. “Osservare le relazioni intertestuali è forse la migliore via per identificare un testo come traduzione. Tutti i testi mostrano relazioni intertestuali che puntano ad altri testi e segni esterni a loro stessi. Una traduzione ha così tanti tanti campi intertestuali riempiti da un altro singolo testo denominato originale che si comporta anche da specchio per altre entità semiotiche. A differenza dei campi di forza, i campi intertestuali non possono essere misurati, ed esistono sono in relazione a una competenza, un’enciclopedia, e certe condizioni di ricezione”. Proni, G., Stecconi, U., “Semiotics Meets Translation: a Dialogue”, in Versus – Quaderni di studi semiotici, Vol. 82, Bompiani, Milano 1999, p. 140. 57

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che il riferimento all’originale spesso sarà possibile solo grazie a elementi paratestuali che rendono evidenti il collegamento (come la dicitura “Tratto dal romanzo di…” nei titoli di testa di molte pellicole cinematografiche). E se la traduzione è trasformazione, e la trasformazione si pone come elemento base della narrazione, non si può non concludere il sillogismo affermando che la traduzione stessa è una narrazione, anzi un processo metanarrativo in cui un’opera data viene trasformata da un agente (l’adattatore/traduttore/interprete) in un’opera altra, e che tale narrazione, ancorché implicita, risiede proprio nel paratesto inglobato dal testo di arrivo. Opera originale che è quindi pretesto (stimolo iniziale da cui è nata la volontà traduttoria) e pre-testo (termine di paragone irrinunciabile per valutare l’adattamento, considerando che se una traduzione intrasemiotica può sostituire l’opera fonte – o comunque prova a farne in toto le veci –, nel caso di passaggio tra sistemi può avvenire al massimo un affiancamento tra una fonte e un’opera che ne riprende certe caratteristiche). Questa operazione comporterà infatti sempre una riduzione della complessità dell’opera, che non è detto non possa essere altrettanto complessa una volta tradotta (in senso lato), ma senz’altro complessa in un modo diverso: Il problema del quasi diventa ovviamente centrale nella traduzione poetica [e nella traduzione di qualsiasi altra opera autoriflessiva, e anche nelle trasmutazioni], sino al limite della ricreazione così geniale che dal quasi si passa a una cosa assolutamente altra, un’altra cosa, che con l’originale ha solo un debito, vorrei dire, morale58.

C’è sicuramente un livello che è alla base del piano del contenuto (anche se non escludiamo che possa essere influenzato da quello dell’espressione) che può provare a essere tradotto, ed è poi ciò che

58

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 277.

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avviene normalmente, a esempio quando si adatta un romanzo per il cinema.

1.5 Storie e narrazione Ogni opera dice qualcosa. E come si è già visto, linguaggi diversi dicono cose diverse. Come dichiarato già nell’introduzione, mi interessano nello specifico i linguaggi che sono in grado di raccontare delle storie, e quindi permettono che ci sia una trasformazione, un mutamento rispetto a una situazione iniziale prestabilita. Affinché questo sia possibile la scelta deve per forza ricadere su linguaggi che possano rappresentare ed esprimere una dimensione temporale (non può esserci trasformazione se non all’interno del tempo, anche se alcune arti rigorosamente dello spazio come fotografia e pittura possono spingersi a suggerirla, a conferma di quanto si affermava sulla difficoltà di collocare in maniera netta e definitiva i linguaggi all’interno di uno o dell’altro insieme): “la narrazione s’interessa d’azioni o d’eventi considerati come puri processi, e perciò pone l’accento sull’aspetto temporale e drammatico del racconto”59. Per quanto riguarda le definizioni, cercheremo innanzitutto di attenerci alla tripartizione proposta sempre da Gérard Genette: Propongo (…) di chiamare storia il significato o contenuto narrativo (anche se tale contenuto può risultare all’occorrenza di debole intensità drammatica o tenore evenemenziale), racconto propriamente detto il significante, enunciato, discorso o testo narrativo stesso, e narrazione l’atto narrativo produttore e, per estensione, l’insieme della situazione reale o fittizia in cui esso si colloca60.

59

Genette, G., Op. Cit. (1969), p. 33. Genette, G., Figures III, Editions du Seuil, Paris 1972; (tr. it., Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino, 1976), p. 75. 60

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Quando viene posta la domanda su quale sia il senso di un’opera, la prima cosa che si cerca di fare è raccontare cosa questa rappresenta, che cosa dice, come si mostra. Le interpretazioni accessorie, che siano rimandi intertestuali, metafore, significati alternativi, riflessioni sulle finalità produttive, vengono sempre dopo. Nel caso poi di un’opera narrativa, la prima cosa è senz’altro la storia. Le storie hanno il potere e la forza di configurare una narrazione, che verrà espressa attraverso un determinato linguaggio: L’idea è che la narratività è una maniera di mettere in movimento la significazione combinando in maniera specifica non soltanto parole, e neanche frasi e proposizione, ma speciali “attanti” sintattico-semantici che poi semanticamente investiti a livello discorsivo diventano attori, personaggi e così via. La narratività ha una funzione configurante, rispetto a un racconto dato, rinviando d’acchito a un significato d’insieme61.

Sempre Fabbri aggiunge che: La narratività è radicalmente un atto di configurazione del senso tramite azioni e passioni; queste possono essere organizzate dal punto di vista della forma del loro contenuto, ossia della loro semantica, e possono essere manifestate da forme espressive diverse (verbale, gestuale, musicale, ecc.)62.

Quindi si potrebbe dire che anche l’autoriflessività di un racconto è una funzione della narratività, e dipende da essa. Qualcosa di più di una scelta dell’autore: l’esigenza di sfruttare la funzione estetica per comunicare, attraverso uno scarto (dalla presunta norma linguistica), un contenuto che non è accessorio ma rilevante ai fini della presentazione della storia. Certo è che quando si pensa alla traduzione (intersemiotica e non), quello che preme in primo luogo è riuscire a trasmettere il piano del contenuto nel linguaggio di destinazione. Si 61 62

Fabbri, P., Op. Cit. (1998), p. 24. Fabbri, P., Op. Cit. (1998), p. 33.

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vorrebbe poter trasmettere lo stesso messaggio che l’opera ha inizialmente comunicato, e questo è possibile solo raccontando di nuovo una storia, la storia, perché in un certo senso lo si ritiene l’effetto più importante, o comunque più comunicativo. Se si vuole preservare la storia e l’effetto che ha prodotto nei fruitori, nella negoziazione qualcos’altro andrà perduto: Molti autori, ormai, invece di equivalenza di significato parlano di equivalenza funzionale o di skopos theory: una traduzione (specie nel caso di testi a finalità estetica) deve produrre lo stesso effetto a cui mirava l’originale. In tal caso si parla di uguaglianza del valore di scambio, che diventa un’entità negoziabile63.

Certo, produrre lo stesso effetto attraverso sistemi semiotici diversi è impossibile, anche solo a livello percettivo (si ha a che fare con sistemi incommensurabile e difficilmente comparabili sul piano dell’espressione), e allora il traduttore deve decidere “se per trasmettere una ‘fabula profonda’ si possa alterare la ‘fabula di superficie’”64. Nel caso di storie di natura metanarrativa, in cui la significazione stessa è messa in gioco a livello di contenuto, ciò sarebbe impossibile. Ma l’autoriflessività non è metanarratività, anzi lo è dal momento che mantiene la nostra attenzione sui segni, ma non necessariamente in modo manifesto e dichiarato (se si intende metanarratività in un’accezione ampia, che comprende tutti i modi con cui un’opera porta l’attenzione del fruitore sull’atto di significazione stesso). Non è neanche detto che la storia coincida per forza con la fabula profonda, o che sia lo strato più interno della cipolla, ma è senz’altro vero che, tra i vari livelli, sia quello più facilmente riducibile a una sorta di essenza, di scheletro, e si presti a essere adattato a più linguaggi narrativi. Questo vuol dire che ogni storia è raccontabile in più sistemi semiotici (a patto che siano in grado di rispettare uno sviluppo 63 64

Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 80. Eco, U., Op. Cit. (2003), p. 155.

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temporale)? Non si può affermare con certezza. Per certi versi rientra in gioco il paradosso della traduzione, fatto di impossibilità teorica e costante pratica, e resta il fatto che probabilmente una storia raccontata in modo diverso non è più la stessa storia. Fedeli al paradosso, ora che si sono smontate tutte le premesse poste nell’introduzione, ci si può occupare delle opere, unici oggetti su cui si può condurre davvero un’indagine, al fine di valutarne l’eventuale (non-)potenziale di traducibilità: “la traducibilità non è a disposizione. In altri termini, non possiamo stabilire a priori dove stanno i limiti e dove stanno le possibilità del traducibile, ma sono appunto i testi stessi a rivelarcelo”65 (Nergaard 2000, p. 286). Unico elemento certo (se non altro perché posto come punto di partenza di questo studio) è l’aver scelto due opere narrative le cui fabule sono quanto di più raccontabile ci sia, per non nascondersi dietro le barricate di una metanarratività esplicita, ma riflettere su come l’autoriflessività possa essere il ponte tra espressione e contenuto, possa far dialogare queste due dimensioni, spingendole a contaminarsi, e come comunichi essa stessa una parta di contenuto. Forse si scoprirà che non sono poi opere perfettamente intraducibili, come si è detto, ma di certo neanche quasi il contrario (anche se indubbiamente pongono molti e rilevanti problemi rispetto al fare dell’agente traduttore). Perché voler affermare che niente è traducibile, è come dire che tutto è traducibile, e tutto necessita di essere tradotto per essere interpretato e compreso, e messo in circolo attraverso linguaggi e culture, e far crescere questi ultimi. Laddove ci sarà una resa, un’apparente impossibilità a procedere, è probabile che sarà solo temporanea, perché, come sostiene Fabbri: L’intraducibile è una riserva per traduzione future (…), si tratta di ricostruire in un secondo tempo nuovi tipi di livello che permettono nuovi tipi di 65

Nergaard, S., “Conclusioni. Intorno all’ipotesi della traduzione intersemiotica. Riflessioni a margine”, in Versus – Quaderni di studi semiotici, Voll. 85-87, Bompiani, Milano 2000, p. 286.

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traducibilità. (…) L’idea importante è che l’evoluzione della traducibilità avviene perché nel frattempo c’è un’evoluzione generale di tutti i sistemi simbolici: storicamente si ritraduce sempre66.

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Fabbri, P., Op. Cit. (2000), p. 271.

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2. Asterios Polyp di David Mazzucchelli

Saranno presentate ora le analisi dei testi, per saggiarne le caratteristiche e le proprietà, e valutare appunto il coefficiente di opacità che possiedono (e che, per quanto detto nel primo capitolo, dovrebbe per certi versi essere inversamente proporzionale alla traducibilità). Si è deciso di partire dall’opera a fumetti, piuttosto che dalla raccolta di poesie, puramente per rispettare un ordine cronologico di personale scoperta dei testi in esame. Un ordine quindi assolutamente autobiografico, e che non implica giudizi di merito. Si deve anche aggiungere una nota metodologica riguardo ai tentativi di analisi che seguono. Sia in questo capitolo, che nel seguente (dedicato appunto a Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari), si è scelto di partire con un breve profilo biografico dell’autore, seguito da alcuni cenni alle altre opere prodotte nel corso della carriera che possono innescare delle riflessioni inerenti all’argomento di questo studio, oltre che a far emergere tematiche ben radicate nella poetica dell’autore stesso. Si è poi proseguito con una sinossi della storia narrata, cercando di presentare la fabula nella maniera più chiara e lineare possibile. Per quanto riguarda poi temi, messa in atto, stile, e tutte le componenti del piano dell’espressione, si è optato in primis per una ricognizione delle caratteristiche generali che sono espresse nell’opera, per passare poi a un’analisi puntuale, pagina per pagina, delle ulteriori specificità.

2.1 David Mazzucchelli David Mazzucchelli nasce il 21 settembre 1960 nel Rhode Island, Stati Uniti. Si diploma alla Rhode Island School of design, e inizia 43


presto a lavorare nel mondo dei fumetti, collaborando prima con la Marvel Comics, e poi con la storica concorrente DC Comics, non come autore unico ma solo come disegnatore67. Le prime collaborazioni professionali risalgono al 1983, ma già dal 1984 è il disegnatore ufficiale del mensile dedicato al supereroe Daredevil. Il successo arriva però nel 1986, sempre sullo stesso mensile, con il ciclo di storie scritto da Frank Miller e intitolato Daredevil: Born again68. L’anno successivo, sempre in coppia con Miller, realizza un ciclo di storie che rivisita le origini del supereroe Batman (Year One69), che lo consacra definitivamente come uno degli autori più amati della scena mainstream americana. Già nel 1988 però abbandona i supereroi e le major americane per dedicarsi a fumetti autoprodotti (l’antologia Rubber Blanket) e a storie brevi pubblicate su riviste per diversi editori indipendenti, sperimentando un nuovo approccio stilistico più espressionistico e grottesco, che gioca con l’uso di forme e colori, e cerca nuovi ritmi narrativi. L’apice di questa seconda fase della carriera di Mazzucchelli viene raggiunto però con la pubblicazione nel 1994 di Città di vetro, trasposizione a fumetti dell’omonimo romanzo di Paul Auster (realizzata in collaborazione con il cartoonist Paul Karasik, per una collana di graphic novel curata dal celebre fumettista Art Spiegelman, autore di Maus). Su Città di vetro torneremo tra poco, intanto basti sapere che già in quel periodo Mazzucchelli inizia a lavorare su una storia breve, che inizialmente avrebbe dovuto essere pubblicata sul numero 4 di Rubber Blanket (mai andato in stampa), ma che va via via espandendosi, al punto che ci vorranno più di dieci anni all’autore per completare l’opera che poi è diventata Asterios Polyp, pubblicata nel 2009. Dalla fine degli anni 67

Le note biografiche relative a Mazzucchelli sono state ricostruite a partire dalle schede presenti nei suoi libri, integrate e verificate poi grazie alle informazioni reperite su internet. 68 Mazzucchelli, D., Miller, F., Daredevil: Born again, Marvel Comics, USA 1986; (tr.it., Daredevil: Rinascita, Panini Comics, Modena, 2009). 69 Mazzucchelli, D., Miller, F., Batman: Year One, DC Comics, USA 1987; (tr.it., Batman: Anno Uno, Planeta DeAgostini, Barcellona, 2008).

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Novanta Mazzucchelli insegna anche nel corso di “Cartooning” della prestigiosa School of Visual Arts di New York.

2.2 Il non casuale caso di Città di vetro Si è appena accennato al fatto che nel 1994 la casa editrice americana Avon Books pubblica l’adattamento a fumetti del romanzo Città di vetro di Paul Auster (facente parte della famosa trilogia di New York), realizzato da Mazzucchelli con il fondamentale apporto di Paul Karasik. A quest’opera è dedicato un paragrafo indipendente, nonostante non sia il centro focale di questa analisi, perché riguarda numerosi spunti di discussione emersi nel primo capitolo, e perché si può affermare che il lavoro svolto da Mazzucchelli su questo graphic novel abbia rappresentato una svolta importante nel suo percorso di narratore per immagini, accrescendone la consapevolezza nell’uso degli strumenti del linguaggio del fumetto e permettendogli di sperimentare le nuove soluzioni elaborate nel successivo Asterios Polyp. Data la complessità narrativa sia dell’opera fonte che di quella di destinazione, sarebbe necessario un approfondimento a parte, che in questa sede non può chiaramente essere svolto. Ci si limiterà pertanto a suggerire alcune linee guida interpretative. Innanzitutto è assai difficile descrivere Città di vetro: si potrebbe definire una sorta di giallo metafisico, ma è ancora prima, e più di tutto, un libro sulle parole, sui libri e sulla scrittura, che crea un cortocircuito narrativo tra il protagonista (uno scrittore chiamato Daniel Quinn), la sua indagine (la ricerca di un professore che ha scritto un testo sull’origine del linguaggio), il Paul Auster interno alla storia (proiezione dell’autore reale, a cui il protagonista prima si sostituisce in seguito a uno scambio di persona, poi si rivolge per ottenere aiuto), e il narratore reale (anonimo, ma amico del

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personaggio Paul Auster, da cui riceve il quaderno personale di Daniel Quinn, dove è annotata la storia poi oggetto del romanzo stesso). È facile intuire che un romanzo del genere, che parla di parole, di linguaggio, e si diverte a giocare con piani narrativi intersecanti, sia quanto di meno transducibile esista, magnificamente autoriflessivo. Eppure ne esiste una versione a fumetti, che non solo conserva l’essenza del romanzo, ma riesce a conferirgli un senso ulteriore. Si riportano qui le parole di Paul Karasik, tratte dall’introduzione alla ristampa (ampliata con interviste agli autori) di Città di vetro, pubblicata negli Stati Uniti nel 2004, e nel 2011 da Coconino Press in Italia: Un adattamento felice garantisce due cose: la fedeltà all’originale e, al tempo stesso, la sua revisione – proprio nel senso di nuova visione – in un altro mezzo espressivo. In altri termini, un adattamento deve creare un nuovo testo che sia lo stesso testo, e, tuttavia, un testo molto differente. (…) Non abbiamo cambiato una singola parola dell’originale. Il testo del fumetto è più breve, ma ogni parola è come Auster l’ha scritta. Quindi siamo stati fedeli all’originale alla lettera. E anche a ciò che potremmo chiamare il ritmo del romanzo. (…) Il romanzo di Auster è di 203 pagine. Io e Mazzucchelli sapevamo sin dall’inizio che l’adattamento a fumetti sarebbe stato di sole 120 pagine. Calcolai la proporzione in 1.7:1 e la applicai al fumetto. (…) In questo modo abbiamo riprodotto il ritmo del romanzo di Auster. Molto semplice.

Il fumetto riesce a mantenere le stesse ambiguità sull’esito della storia che propone il romanzo (anzi, forse la amplifica anche), soprattutto gli inserti del narratore anonimo che si palesa chiaramente solo alla fine del libro. Forse è questa la cosa più affascinante, considerando la sua natura di linguaggio visivo, che deve mostrare immagini, che necessariamente definiscono più delle parole.

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Caratteristica principale del graphic novel è la griglia con cui sono costruite le tavole70 (fig. 1): una griglia fissa a nove blocchi, tre per striscia, identici tra loro; i nove blocchi si concretizzano quasi sempre in nove vignette, oppure vengono accorpati per creare vignette dalla dimensione doppia o tripla, mentre sul finale, con il dissolvimento interiore del protagonista, la griglia finisce per accartocciarsi (fig. 2) e autodistruggersi (il ritmo della narrazione quindi non è stato mantenuto tanto dal rapporto matematico stabilito in partenza da Karasik, quanto da questa soluzione ben più fondante). L’altro elemento importante del fumetto è l’uso massiccio di immagini con funzione non naturalistica ma simbolica, che possano in qualche modo ricreare l’indeterminatezza insita nei discorsi (e nelle parole) dei personaggi della storia, sfruttando quelle che potrebbero essere chiamate paronomasie visive, cioè immagini simili nella loro apparenza, ma di significato molto diverso (fig. 3). Ovviamente le immagini dicono cose che nel romanzo non ci sono, ma si propongono in modo coerente al tema della narrazione, arricchendolo. Come si diceva, la dicotomia romanzo/fumetto di Città di vetro meriterebbe un’analisi a parte, in virtù della propria natura opaca, ma gli stratagemmi attuati da Mazzucchelli e da Karasik per dare vita a questa trasposizione sono importanti per capire la svolta successiva (e per certi versi antitetica) di Asterios Polyp. Si cita a tal proposito una piccola porzione della conversazione tra Chris Brayshaw e David Mazzucchelli riportata sempre nell’introduzione alla ristampa di Città di vetro: Brayshaw: A me pare che nel fumetto ci sia una particolare relazione dialettica tra l’elemento figurativo della pagina e l’elemento figurativo della vignetta. La pagina mi appare come un qualcosa che si afferma molto in fretta mentre la si gira, e di conseguenza le componenti figurative in ogni vignetta devono essere soppesate rispetto alla più ampia gestalt della pagina. A tuo avviso, com’è 70

Le immagini a cui si fa riferimento nel testo sono raccolte nell’appendice posta in calce allo studio.

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orientato il tuo lavoro nel rapporto tra la progettazione complessiva e la rappresentazione naturalistica? Mazzucchelli: Mi trovo in un qualche punto della curva che parte dall’aggregazione delle finestrelle illustrate e va verso la concezione di forme iconiche e rappresentative dispose su tutta la pagina. La questione è sempre attuale: voglio dire, chiunque si dedichi seriamente al fumetto progetta sempre pagine intere. Trovo interessante anche il fatto che, se si pensa alla struttura della pagina, non si può effettivamente dare per scontato il modo in cui verrà letta. Ci penso soprattutto quando si tratta di rivolgersi a nuovi lettori. La cosa magari è sorprendente per quelli che sono cresciuti leggendo fumetti, ma alle volte dai una pagina di fumetto a qualcuno che di solito non li legge, e rimane strabiliato da quello che ci fa. Perché ho visto persone che prendevano quella che noi considereremmo una griglia standard da sei vignette – due, due e due –, e leggevano la vignetta in alto a sinistra, la finivano, poi scendevano verso quella in mezzo a sinistra, e poi di lì volevano scendere ancora, e poi risalire verso destra. E una volta ho chiesto a una di queste persone perché faceva così, anziché leggere in orizzontale: cosa ti ha fatto pensare di andare da qui a qui anziché da qui a là? E l’unica ragione che le è venuta in mente, per spiegare la scelta, è che così leggeva il giornale: prima la colonna a sinistra e poi quella a destra. E questo episodio mi ha veramente colpito; significa che noi, creatori di fumetti, non solo dobbiamo combattere una serie di pregiudizi contro questa forma espressiva in sé, ma dobbiamo anche combattere la battaglia della leggibilità. Brayshaw: E come vanno le tue esplorazioni di layout di pagina? Mazzucchelli: Trovo che sono diventato molto più conservatore da quel punto di vista, cerco di assicurarmi che il mezzo non ostacoli chi vuole perdersi nella storia. Cerco di chiarire al massimo come si debba passare da una vignetta all’altra. Credo che probabilmente sia una buona idea, in particolare se si tratta di opere lunghe, far partire il lettore da qualcosa di molto invitante così poi, una volta che lui ci si è abituato, si può cominciare a giocarci un pochino.

Di sicuro si può affermare che Mazzucchelli non è un narratore conservatore, ma al contempo non sacrifica mai la leggibilità in favore della sperimentazione. Se c’è un autore in cui i due elementi vanno a braccetto, è lui.

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2.3 Asterios Polyp! Chi era costui? Asterios Polyp è un architetto statunitense, di padre greco e madre italiana. Architetto puramente teorico benché di grande fama, insegna all’università di Ithaca nello stato di New York, ma nessuno dei suoi progetti è stato mai fisicamente realizzato. Il racconto inizia il giorno del suo cinquantesimo compleanno: un fulmine colpisce la sua casa e la manda a fuoco. Asterios riesce a scappare fuori prima che le fiamme distruggano tutto, portando con sé solo un po’ di soldi e alcuni oggetti per lui importanti. Raggiunge la stazione degli autobus, e investe tutto il denaro che ha per la meta più lontana tra quelle coperte dal servizio di trasporto: la cittadina di Apogee (i nomi di persone e città, all’interno del graphic novel, non sono mai casuali, come si approfondirà in seguito). Da questo punto in poi il racconto si sdoppia, alternando due linee temporali: da una parte si ha la narrazione al tempo presente degli avvenimenti che riguardano Asterios ad Apogee, dall’altra parte il passato di Asterios, raccontato da un particolare narratore onnisciente, cioè Ignazio, il fratello gemello del protagonista, nato morto, che veglia su di lui come presenza incorporea. Si apprende da questa seconda linea temporale della storia d’amore tra Asterios e Hana, scultrice di origine giapponese: una storia tra due persone estremamente diverse, ma che sembrano compenetrarsi a vicenda, raggiungendo una sorta di chimerica unità (tanto è razionale ed euclideo Asterios, quanto è emotiva e naturale Hana). L’amore diventa sposalizio, e i due sembrano confermare di essere nati l’uno per l’altra, ma è solo apparenza: l’irrompere nella vita dei protagonisti di un coreografo ciarlatano, tal Willy Ilium, che cerca di coinvolgere Hana nella realizzazione delle scenografie di uno spettacolo, mostra come ciò che unisce Asterios e Hana sia, più in profondità, anche l’innesco di un forse irreversibile processo di rottura della coppia. Hana finisce per chiedere il divorzio e abbandonare l’ormai ex-marito alle sue idiosincrasie. Ed è un Asterios posteriore a 49


questi eventi, solo e alla deriva, quello colpito dal fulmine all’inizio del racconto. La parte del racconto ambientata ad Apogee vede il protagonista entrare subito in contatto con la famiglia Major: il marito, Stiff, gestisce un’autofficina per cui Asterios si mette a lavorare, la moglie, Ursula, è una sorta di bonaria sciamana. Inizialmente l’obiettivo di Asterios sembra essere quello di dimenticare il proprio passato, e ripartire da zero, ma nel corso della narrazione, grazie alle conversazioni con Ursula e ai sogni ricorrenti che lo vedono discutere col gemello Ignazio, cambia idea (anche se il turning point avviene in modo traumatico in seguito a una rissa in un locale che gli causerà la perdita di un occhio) e decide di partire e recarsi da Hana, presumibilmente per provare a riconquistarla. Una missione destinata al fallimento, visto che il fumetto si chiude con un asteroide che sta per schiantarsi sulla casa della donna, poche ore dopo che Asterios e Hana si sono ricongiunti.

2.4 100% fumetto, e forse qualcosa di più È ora di addentrarsi nell’opera Asterios Polyp, e capire cosa la renda speciale oltre che unica, come il piano del contenuto sopra descritto sia segmentato nel sistema-fumetto, e come questa segmentazione esprima a sua volta importanti contenuti. 2.4.1 L’opera come oggetto Bisognerà partire dall’opera intesa come oggetto fisico. Se infatti nella maggior parte delle pubblicazioni su carta la forma fisica non riveste un ruolo particolare, o deve comunque sottostare ai dettami della casa editrice (in merito a dimensioni, foliazione, stampa, tipologia della carta, grafica coordinata, ecc.), nel caso del lavoro di 50


Mazzucchelli anche l’apparenza è studiata per anticipare alcuni dei temi che emergeranno durante la lettura. Il volume è un cartonato di medie dimensioni, con sovracoperta (fig. 4). La sovracoperta presenta il titolo dell’opera, il nome dell’autore, e quello che si immagina essere il protagonista. Il titolo è composto dalla sovrapposizione di due bande colorate, ritagliate in modo da renderlo leggibile solo e soltanto grazie all’unione delle due strisce. Non è un caso che una sia di colore ciano, e l’altra magenta (come si capisce subito immergendosi nella lettura, il ciano rappresenta Asterios, e il magenta Hana). Anche il terzo colore primario, il giallo, fa capolino sulla costa del volume, per occupare poi con un’altra banda buona parte del retro della sovracoperta, che corrisponde alla quarta di copertina (il giallo è il colore dominante della linea narrativa che segue Asterios ad Apogee, come si vedrà in seguito). Tra copertina e quarta di copertina, sempre sulla sovracoperta, si fronteggiano due Asterios di profilo, quello davanti in tenuta da lavoro, mentre fuma una sigaretta, e sul retro il secondo in maniche di camicia, in versione più casual. Anche in questo caso viene anticipata la dicotomia tra l’esistenza del protagonista prima e dopo la rottura con la moglie. I due Asterios, identici nelle fattezze, nelle dimensioni e nella direzione dello sguardo, sono anche incisi sul cartone ruvido della copertina (fig. 5). Interessante notare come anche la copertina vera e propria sia divisa verticalmente in due metà, quella interna ricoperta di una carta telata viola, quella esterna invece in cartone grezzo grigio, molto facile all’usura (e non penso che sia un caso che Mazzucchelli abbia optato per questa scelta, aggiungendo un ulteriore livello di narrazione che corrisponde alla vita dell’oggetto-libro nel mondo, riunendo insieme il tempo reale della fruizione e quello più generale dell’esistenza del volume. Una storia può esistere, può raccontare, solo se proviene e fa parte del continuum della realtà, e da questo continuum finirà inevitabilmente per essere modificata in qualche modo). La dualità, già fortemente espressa dall’apparenza del volume, è uno dei temi

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dell’opera, come si approfondirà a breve. Si può insomma considerare l’oggetto-libro come una macro-prolessi della storia, sebbene questa funzione sia ricostruibile solo a posteriori. Un’ultra considerazione sugli elementi paratestuali (ammesso che possano essere definiti tali, e non testuali a tutti gli effetti, quando si sia in presenza di un design così manifestatamente narrativo): gli interni di copertina vedono disegnati, secondo una griglia regolare, trentadue tipologie diverse di fiori. Anche questa è un’allusione al personaggio femminile di Hana, il cui nome, in giapponese, significa proprio fiore (sebbene non un fiore specifico). E cosa dire infine del dettaglio quasi invisibile del dorsetto su cui sono incollate le segnature rilegate? Il paio di millimetri che sporgono in alto sono di colore ciano, e in basso magenta. 2.4.2 Costanti visive di autoriflessività È difficile scegliere da quale caratteristica partire per affrontare la ricchezza di soluzioni narrative (grafiche e testuali, e grafiche e testuali assieme) adottate da Mazzucchelli in Asterios Polyp: Elegante meccanismo ad orologeria, intelligentemente giocoso benché lezioso e ponderato, danza in un garbato e aggraziato ballo con il formalismo – lucido, risoluto, metodico – quasi a voler formare una sorta di sistema in sé. Vignetta dopo vignetta, una sequenza dopo l’altra, Mazzucchelli utilizza cautamente uno straordinario e inventivo vocabolario grafico-simbolico, fitto ma non ermetico, accessibile a tutti, agilmente decifrabile, ma mai banale e ovvio. Leggere Asterios Polyp da cima a fondo significa imparare e far proprio quel sistema, e come nei migliori libri a fumetti, Mazzucchelli congegna un linguaggio grafico a sé stante, e poi ci invita a utilizzarlo come si conviene71.

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Hatfield, C., “Asterios Polyp reviewed”, in The Comics Journal, Vol. 300, USA 2010; (tr. it., “Una spettacolare storia commovente”, in Speciale Asterios Polyp, Conversazioni sul fumetto, 2011).

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Sono due però gli elementi che saltano subito all’occhio anche alla più rapida sfogliata del volume: l’uso del colore e l’originale costruzione di ogni singola tavola a fumetti. Bisogna dire che acquisisce ancora più senso a questo punto l’aver tirato in ballo la trasposizione di Città di vetro, visto che le scelte per cui ha optato Mazzucchelli rispetto alle due opere sono magnificamente antitetiche: tanto è rigorosa la gabbia grafica di Città di Vetro, quanto è libera la costruzione della tavola in Asterios Polyp; tanto il vecchio lavoro si attiene a un denso e grezzo bianco e nero, quanto il più recente opta per una linea sottile, elegante e sempre colorata. Riparto appunto da quest’ultimo elemento. Il colore in Asterios Polyp riveste un ruolo che non è meramente decorativo, ma diviene essenziale anche narrativamente. Se si pensa al fumetto, sia come linguaggio in generale che nelle diverse forme che ha assunto e che ci si è ritrovati nel corso degli anni per le mani, è probabile che ci si formi in mente un’associazione spontanea col bianco e nero. Da quando il linguaggio ha iniziato a essere codificato e diffuso, la maggior parte dei fumetti è stata stampata in bianco e nero, sicuramente per una questione di economie di produzione, per quella che è sempre stata considerata come una delle più povere tra le diverse forme artistiche (il che è sempre stata la debolezza, ma anche la forza, del fumetto. Debolezza nella considerazione critica e sociale, forza nella libertà assoluta di raccontare qualsiasi cosa in qualsiasi modo con limitatissime restrizioni, dettate dai costi di produzioni e dalle potenziali censure). Ebbene, in Asterios Polyp il bianco e nero è totalmente assente. A dire il vero di bianco ce n’è in abbondanza (e sarebbe impossibile il contrario), e sempre motivato (e si vedrà come e perché), ma l’inchiostro nero è totalmente assente. Tutte le linee di contorno (alle figure – personaggi e sfondi –, così come alle cornici delle vignette e ai balloon), che solitamente, anche nei fumetti a colori, sono realizzate con l’inchiostro nero, appaiono di

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colore viola, frutto della fusione del ciano e del magenta già citati quando si parlava della copertina del volume (fig. 6). Una negazione della natura o della storia del fumetto? Non lo credo. Piuttosto un tentativo consapevole di riflessione su determinati standard consolidati. L’unica eccezione a questa regola è sulla sovracoperta, dove i due Asterios che si fronteggiano sono stampati in bianco e nero, così come il nome dell’autore e le brevi note bio/bibliografiche sul retro. Eccezione apparentemente inspiegabile, a meno che non si voglia spostare l’Asterios della copertina sullo stesso livello concettuale dell’autore, ossia un personaggio che esiste a prescindere dal testo in cui è messo in atto (ma forse si rischia di spingersi troppo in là con l’interpretazione, quindi mi limito a sottolineare questa particolarità). Perché proprio il viola, e perché a monte il ciano e il magenta? Come si è anticipato, il ciano è il colore che rappresenta il personaggio Asterios, e ne rispecchia il carattere freddo e razionale: Nella Teoria dei Colori, Goethe attribuisce alle tonalità fredde determinate caratteristiche, che rubrica sotto il segno del negativo: privazione, ombra, debolezza, lontananza, ecc. Mazzucchelli assumendo le vesti del narratore assente, Ignazio il gemello non nato, dipinge Asterios utilizzando cromatismi freddi e rigorose costruzioni geometriche72.

La razionalità è fredda e blu, ma lo è anche l’incompiutezza del protagonista, che compie nel corso della storia il proprio viaggio di formazione e redenzione. Specularmente Hana è rappresentata dal magenta, colore più legato ai sentimenti e all’emotività (fig. 7). Si tornerà successivamente sulla caratterizzazione dei personaggi, perché non conta solo il colore scelto per rappresentarli, ma anche l’approccio grafico. Intanto si può dire che la somma dei colori dei due personaggi dà il viola, e per certi versi è la loro unione, o 72

Troiani, T., “All’interno del cerchio dei colori”, in Speciale Asterios Polyp, Conversazioni sul Fumetto, 2012.

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comunque il rapporto che instaurano tra di loro, che permette l’esistenza stessa di questa storia, e la definisce. Ciano e magenta sono i colori non solo dominanti, ma unici, che identificano la linea temporale ambientata nel passato di Asterios. Il piano della storia ambientato ad Apogee è invece dominato dal colore giallo (sempre mescolato con il viola). Giallo che irrompe nella vita di Asterios dal momento in cui divampa l’incendio che gli distrugge la casa, e lo accompagna nel viaggio di scoperta e riedificazione di sé (fig. 8). Un fuoco purificatore e rigeneratore. Giallo che rappresenta il contatto con un lato più luminoso e aperto di Asterios, volto alla ricerca e alla messa in discussione dei principi che hanno guidato fino a quel punto la sua vita (fig. 9). Ciano, magenta e giallo, i tre colori primari, acquisiscono quindi un ruolo primario (il gioco di parole è voluto), che è sia narrativo, che metanarrativo, considerando che nella propria purezza rimandano il lettore al processo di stampa che ha generato il volume. L’ultimo cambio cromatico avviene nella parte finale del racconto, in seguito all’incidente nel bar che priva Asterios di un occhio, e gli dà la spinta definitiva per partire e provare a raggiungere Hana. Alle gamme cromatiche precedenti si aggiungono il verde e l’arancione, come risultante del giallo che si sovrappone al ciano e al magenta, e non è più separato da essi (fig. 10). Il nuovo Asterios non ha sostituito il vecchio, diciamo piuttosto che lo ha arricchito, stemperandone gli estremismi. Lo stesso dicasi per Hana, che, in assenza dell’ex-marito, ha compiuto il proprio viaggio di crescita interiore: L’immagine di Hana è eloquente: si presenta [quando lei e Asterios si ricongiungono] in maglione e pantaloni verdi. Secondo Goethe, il verde è la tonalizzazione priva di elementi torbidi del giallo e del blu. Hana nella sua solitudine (…) è riuscita come persona a tonalizzare gli opposti che si muovevano in lei, prima fusi nel magenta73. 73

Troiani, T., Op. Cit., (2012).

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Si passa dunque alla costruzione della tavola, che si potrebbe definire a griglia libera (un po’ come il verso libero in poesia). La maggior parte dei fumetti, specie quelli di natura popolare, segue uno schema ricorrente e facilmente identificabile, oltre che fruibile (per l’esigenza di proporre al lettore un prodotto di chiara comprensibilità): si pensi alle due vignette orizzontali per pagina di Diabolik, o allo schema a tre strisce che è il marchio di fabbrica di tutte le testate di casa Bonelli (Tex, Dylan Dog, ecc.). Si è visto anche come Città di vetro proponesse uno schema fisso, pur con le proprie varianti interne, per trasporre il ritmo della narrazione di Auster. E molti autori indipendenti hanno fatto di una particolare gabbia grafica un elemento peculiare del proprio stile. Ebbene, in Asterios Polyp Mazzucchelli rinuncia a qualsiasi schema fisso, per proporre una gabbia che varia di tavola in tavola. Varia il numero delle vignette, la loro dimensione, i formati (vignette rettangolari, quadrate, ma anche circolari o prive di contorno – fig. 11, splash page, cioè vignette singole che occupano un’intera tavola), la collocazione (le vignette possono essere normalmente giustapposte, ma anche sovrapporsi, intersecarsi, o estendersi fino al bordo fisico della pagina – fig. 12) e soprattutto varia anche lo spazio bianco che separa una vignetta dall’altra: Date un’occhiata agli ultimi cento anni di fumetti (in Occidente, almeno) e troverete molte variazioni nella misura e forma delle vignette, ma quasi nessuna variazione nello spazio tra una vignetta e l’altra. Mazzucchelli è un leader nel considerare quello spazio negativo per il suo ruolo nella storia e sul piano dell’immagine74.

Se in certi casi questa variazione del bianco sembra dettata solo da criteri di eleganza e di ordine (ma esiste scelta estetica che non comunichi qualcosa di più della propria pura apparenza?), in tutti gli 74

McCloud, S., “Some thoughts on Asterios Polyp”, in Scott McCloud Journal, 2009; (tr. it., “I pensieri di Scott McCloud”, in Speciale Asterios Polyp, Conversazioni sul fumetto, 2011).

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altri permette di influire sulla temporalità della narrazione, accelerando, ma soprattutto rallentando, la lettura di certi passaggi del racconto, e creando dei climax (ma anche anticlimax) visivi (fig. 13). Per alcuni esempi specifici vi si rimanda al paragrafo successivo. A dire il vero qualche schema ricorrente, nella costruzione dell’intera tavola (o delle singole vignette) viene proposto, con lo scopo di generare quelle che piuttosto che rime, si chiamerebbero assonanze visive (visto che la struttura è la medesima, ma varia parzialmente il contenuto), che hanno lo scopo di porre l’attenzione sul ripetersi di determinati temi, o sul contrasto generato dal modificarsi di un certo numero di elementi dello stesso insieme (fig. 14). Forse, più che assonanze, in linea con quanto accennato a proposito di Città di Vetro, si dovrebbe parlare in certi casi di macroparonomasie, che non riguardano solo la singola immagine, ma l’intera struttura, molto simile nell’aspetto, ma profondamente diversa, se non opposta, nel significato. Subito dopo questi due elementi del piano dell’espressione, colore e griglia libera, ne segue un terzo, che è stato già sfiorato in precedenza, e che si può forse considerare l’elemento ponte di tutta l’opera tra espressione e contenuto: la caratterizzazione dei personaggi. Caratterizzazione grafica che riflette la caratterizzazione psicologica. Di per sé non ci sarebbe nulla di nuovo sotto questo aspetto: gli autori di fumetto hanno spesso fatto ricorso a caratterizzazioni caricaturali, grottesche o esasperate per palesare in pochi tratti, economizzando la narrazione, la psicologia dei propri personaggi (ma senza ricadere negli eccessi: alle volte basta un determinato look, una pettinatura o la forma di un naso, secondo degli stilemi quasi lombrosiani – si vedano come esempio sommo le fattezze dei cattivi di Dick Tracy), un po’ come avviene nel teatro della commedia dell’arte. Ma nel caso di Asterios Polyp la narrazione passa anche attraverso l’interazione reciproca di queste caratterizzazioni grafiche. Asterios non solo è raffigurato con una dominante di toni di colore freddo (il

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ciano, tra l’altro, richiama anche il colore della matita usata di solito per i progetti e i bozzetti), ma spesso viene sintetizzato come uno schema di solidi trasparenti che esemplificano la sua natura, e lo congelano come se fosse un manichino, pura teoria, astratto come gli schemi su cui i disegnatori spesso si basano per abbozzare la figura umana (fig. 15). Specularmente, anche in questo caso, Hana è rappresentata nella sua essenza come un groviglio frenetico di tratteggi magenta, privo di contorni definiti (fig. 16), come se i disegnatori appena citati, invece di partire da una pura idea di ciò che vogliono rappresentare, fossero alle prese con una copia dal vero. L’interazione visiva tra Asterios e Hana avviene nel momento in cui i due si conoscono e queste opposte modalità si fondono l’una nell’altra (fig. 17), generando significato: il personaggio maschile dona a quello femminile i contorni e la struttura, mentre quello femminile riempie il maschile di contenuto e fisicità. Allo stesso modo, benché inverso, durante i litigi i due personaggi tornano a separarsi e a rimanere soli con la propria essenza (fig. 18). Visto che l’astrazione mostra la loro vera natura, viene di solito sfruttata da Mazzucchelli nei momenti emozionalmente più intensi, nel bene e nel male. Per quanto riguarda il personaggio di Asterios, va sottolineato un ulteriore aspetto: tranne rarissime occasioni, è sempre rappresentato di profilo e comunque, anche nei casi in cui lo si vede di fronte o di tre quarti, la forma della parte superiore della sua testa è un semicerchio perfetto (tracciato proprio col compasso, o con qualche strumento che permette di disegnare curve esatte), che unisce la nuca al naso o allo zigomo, come a voler ribadire la sua natura di personaggio che può vivere solo nel regno bidimensionale della raffigurazione iconica (quando subentra la rappresentazione solido/astratta la testa di Asterios non diventa infatti una sfera, ma solo una superficie che ha acquisito un po’ di spessore). Sebbene gli altri personaggi, principali e di contorno, non presentino una caratterizzazione grafica così ricca, esemplificano

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sempre in maniera chiara il proprio carattere, senza lasciare al lettore alcun dubbio sulla propria natura, rendendosi riconoscibili già a una prima occhiata come buoni e cattivi. Sembra, questa di Mazzucchelli, una scelta un po’ troppo facile, ma il sospetto è che l’autore abbia voluto dare vita a un’opera di idee incarnate, piuttosto che partire dalla concretezza di personaggi reali costruiti a tutto tondo, come si avrà modo di approfondire quando ci si occuperà dei principali temi che il fumetto sviluppa. Tutti i personaggi però, a partire da Asterios e Hana, condividono un artificio grafico che permette al lettore di connotarli in maniera univoca: ciascuno si esprime a parole attraverso un carattere tipografico differente che lo identifica. Così come il carattere, anche la forma del balloon è personalizzata a seconda del personaggio (fig. 19). Come ha commentato sul proprio blog il famoso letterista Todd Klein, nella recensione ad Asterios Polyp: E poi c’è il lettering, che utilizza font e balloon di forme differenti per riflettere il carattere dei personaggi principali, all’incirca una dozzina di stili differenti, se non di più. So per esperienza come sia facile esagerare con questo tipo di cose, ma David riesce a far funzionare il tutto magnificamente, in parte scegliendo stili che si addicono perfettamente ai loro personaggi e in parte non usandone troppi per volta. Diverse pagine non hanno che due stili differenti75.

E tra i commenti al sopraccitato post, un attento lettore ha fatto notare un dettaglio ancora più sottile: Altra peculiarità è lo stile del lettering, i rapporti familiari sono infatti accomunati da una similitudine visiva: ad esempio, i balloon e i dialoghi dell’Asterios adolescente richiamano, quasi fossero degli ibridi, quelli del padre e della madre. La forma è una reminiscenza del balloon della madre, tuttavia disegnato con lo stesso tratto deciso con cui è stato realizzato quello 75

Klein, T., “And then I read: Asterios Polyp”, in Kleinletters.com, 2009; (tr. it., “La lettura di Todd Klein”, in Speciale Asterios Polyp, Conversazioni sul fumetto, 2012).

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del padre. Anche la forma delle lettere richiama similitudini sia da una parte che dall’altra.

Si deve poi aggiungere che il carattere scelto per far parlare Asterios riprende il tradizionale tipo utilizzato nella maggior parte dei fumetti popolari, come se il protagonista potesse essere un’incarnazione/concretizzazione del linguaggio del fumetto tout court (e come se il suo carattere tipografico non potesse che essere il più funzionale possibile, privo di qualsiasi orpello). Anche il gemello Ignazio, in veste di narratore, si esprime con un carattere molto simile (fig. 20), solo di dimensione superiore e nella variante obliqua (come se fosse una sorta di maiuscoletto-italic). Una prova evidente di come il testo nel fumetto vada considerato prima di tutto come immagine, come significante nella sua apparenza (dimensione, forma, colore e ingombro), piuttosto che come simbolo trasparente che rimanda a un significato altro. Parte di quel significato risiede appunto nell’apparenza. Un’ultima notazione di

carattere

squisitamente

grafico:

Mazzucchelli è un maestro del disegno, cresciuto nella palestra del fumetto seriale di supereroi, fatto di anatomie esasperate e di ambientazioni in cui la prospettiva viene forzata e messa a dura prova, eppure in Asterios Polyp decide di lavorare totalmente in sottrazione, semplificando (se non eliminando) buona parte degli sfondi, o rappresentandoli non tanto come prospettive geometricamente corrette, ma soprattutto come assonometrie (fig. 21). L’assonometria è la rappresentazione grafica di oggetti tridimensionali su piano, in modo che in una sola figura siano mostrare le tre dimensioni, senza tenere conto però della deriva prospettica data dai punti di fuga. Una rappresentazione che può essere quindi solo teorica, figurabile solamente nella bidimensionalità di un piano (nello specifico la tavola a fumetti). Mazzucchelli sembra volerci ricordare a ogni pie’ sospinto che siamo alle prese con un fumetto, e che pur immergendoci nella

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lettura e facendoci guidare dalla storia, ci si deve anche fermare a riflettere sulla natura e sugli strumenti del linguaggio che portano avanti la narrazione. Certo è che questa bidimensionalità ostentata ben si sposa con il personaggio principale della storia, o per meglio dire, è stata costruita per essere emanazione e riflesso del carattere di Asterios. A questo punto, messe in evidenza tutti le principali costanti visive dell’opera, bisogna occuparsi delle tematiche da cui hanno origine e che al contempo sottendono (in quel continuo rimbalzo tra piano del contenuto e piano dell’espressione, tra superficie e profondità, che è caratteristica fondante dell’autoriflessività). 2.4.3 Tertium non datur: il senso dell’opera e i livelli di lettura Così come si diceva a proposito delle costanti visive, non è facile scegliere da dove e cosa partire nell’analisi tematica di Asterios Polyp. Numerosi sono i possibili livelli di lettura che vanno oltre la pura fabula della storia, alcuni espliciti e manifesti, altri sottointesi. E c’è sempre il rischio di sovrainterpretare, attribuendo all’opera di Mazzucchelli significati che vanno ben oltre quelli stabiliti dall’autore (il che non è necessariamente una cosa sbagliata, ma si corre sempre il rischio di distorcere le intenzioni del creatore). Come ogni critico, interprete, e potenziale traduttore, si è costretti insomma a scegliere, e a fare una scommessa sul senso profondo del testo. Si riparta allora da Asterios, considerando che tutto il romanzo ruota ed è costruito intorno a lui. Si potrebbe citare innanzitutto la grecità dell’opera: Asterios ha un’origine e un nome greco che nell’etimo contiene un riferimento agli astri (che tanto peso avranno nella sua vicenda – si pensi al fulmine che apre il libro, e all’asteroide che contrappuntisticamente lo chiude), e un cognome tronco, accorciato al padre da un impiegato dell’ufficio immigrazione troppo sbrigativo, altrettanto significativo: Polyp è la versione accorciata di

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Polyphemus, e anche questo rimando mitologico ha un peso narrativo, considerando che sul finire della storia Asterios verrà privato di un occhio (ma sarà quello il momento in cui inizierà a vederci davvero, come dimostra la mutata paletta dei colori). Tutto il volume è costellato di riferimenti alla filosofia, alla scienza e alla mitologia della Grecia classica: Platone, Socrate, Aristofane, Euclide, il mito di Orfeo ed Euridice, Apollo e Dioniso, l’epopea di Ulisse. Importanti poi sono anche i rimandi all’architettura, con la citazione degli stili ionico, dorico e corinzio. Alcuni di questi si cercherà di approfondirli in seguito, in relazione a specifici passaggi del racconto. Anche la grecità però risulta in definitiva un pretesto, e un modo anzi per esemplificare al meglio quello che sembra essere il vero concetto portante dell’opera, che è il dualismo. Dualismo che è anche ricerca di unità, di completezza, sintesi degli opposti. Mazzucchelli semina tutta la narrazione di rimandi a idee binomiali e dicotomiche, in maniera quasi ridondante ed eccessiva. Una sovrabbondanza che si proverà a giustificare dopo aver portato qualche esempio. Asterios incarna in sé i principali dualismi di tutta l’opera: il fatto di essere un gemello (con un fratello incorporeo che veglia su di lui, quasi un doppio speculare, una coscienza); la relazione con Hana, figura che si situa agli antipodi della sua concezione del mondo (e nella quale vede la perfetta integrazione della propria natura); l’attività di architetto, da sempre portata avanti come battaglia tra funzionale e decorativo (e più in generale contrapponendo sempre schemi binari); e soprattutto una generale ossessione per gli accoppiamenti simmetrici e ordinati (a un certo punto della storia dichiara di non riuscire a ragionare in termini di tre e che tutto è più facile da valutare se si attribuiscono dei valori analitici polari; per lui, più che per chiunque altro, vale il principio logico del tertium non datur). Mazzucchelli gioca con il proprio protagonista e amplifica visivamente la natura di Asterios sfruttando spesso simbologie grafiche che rimandano alla

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dualità: elementi simmetrici, accoppiati, o presentati comunque in numero pari, yin e yang, opposizioni ordinate di forme, linee e di colori, per non parlare di come costruisca di fatto tutta la narrazione come alternanza di due piani in opposizione (temporale – passato vs presente – ma anche geografica – ambientazione cittadina vs rurale). È interessante notare come questo principio duale di Asterios lo metta in conflitto non solo con Hana (si veda il confronto riguardante le Twin Towers, commovente riferimento di Mazzucchelli all’attentato dell’11 settembre, che Asterios vede come due elementi architettonici, mentre Hana considera come tre, tirando in ballo anche lo spazio tra una torre e l’altra, elemento negativo ma presente – fig. 22), ma con tutto l’ambiente che lo circonda, come se l’autore volesse mettere costantemente alla prova la filosofia di vita del personaggio. E anche questo in fondo è un dualismo: Asterios vs il mondo, o Asterios che cerca di imporre la propria visione del mondo sul mondo stesso. Anche l’antagonista, il coreografo Willy Ilium, rappresenta un doppio di Asterios: entrambi cercano di imporre sugli altri la propria visione del mondo, ed entrambi bramano costante attenzione e il centro della scena. Willy Ilium è il doppio deviato e lascivo del protagonista, e ciò è manifesto anche nelle rispettive professioni: l’architetto teorico contro il coreografo fisico. Un’attività che può essere svolta come pura astrazione, mentre l’altra esiste solo nella pratica. Un’altra volta la dicotomia di apollineo e dionisiaco. Questa costruzione che si articola intorno al protagonista finisce per rimandare sottilmente all’autore stesso del graphic novel, e al ruolo che assume in quanto fumettista e ancor prima demiurgo dell’opera. Si riporta qui un altro estratto dalla recensione di Charles Hatfield pubblicata sul numero 300 di The Comics Journal: Ma ciò che davvero libera questo graphic novel dall’occludente severità del formalismo è il modo canzonatorio e dirompente con cui Mazzucchelli affronta la questione dei sistemi e delle astrazioni (di ogni tipo). Innanzitutto Asterios

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Polyp è la tollerante storia di un essere umano non priva di una salutare diffidenza verso gli assolutismi formali. Sebbene tratti di una mente – di un uomo – dedita/o alla spasmodica ricerca di una pura logica, un uomo per cui le astrazioni surclassano l’esperienza di vita diretta, fortunatamente il libro non cede alla tentazione di rifugiarsi in un oscuro ermetismo. In effetti il romanzo è una satira perfettamente elaborata di un certo tipo di pensiero: dialettico, lineare, polarizzante, sistematizzante, architettonico, acutamente estraniato ed incorporeo. Asterios, ci viene detto, ha una incontenibile fascinazione per le astrazioni, in particolare per gli equilibri, i contrappesi, la dialettica e l’analisi lineare dello spazio. Ha altresì, come sappiamo, una personalissima ossessione per i doppi che dà forma alle ricerche intellettuali del suo pensiero cosciente. Il libro, dialettico sin dal suo concepimento, condivide per certi versi questa stessa ossessione senza però tralasciare di parodiarla, sebbene lo stesso Mazzucchelli indulga talora nelle sue proprie astrazioni, mettendo a nudo le limitazioni di una mente astratta. Si diverte molto con i limiti della visione del protagonista e con le sue preoccupazioni formali. Per rincarare la dose, inoltre, contrappone la sensibilità di Asterios con quella di Hana e degli altri personaggi principali, facendo scontrare, in un vivificante contatto la sua presuntuosa creatura con persone provviste di un atteggiamento nei riguardi della vita diametralmente opposto. (…) Pur prendendo parte attiva nella mania del suo protagonista per le forme simmetriche e il loro diametralmente opposto, Mazzucchelli contesta e infine cerca di ribaltare la tendenza. Hegelianamente anela e raggiunge una nuova sintesi, al contempo grafica, tematica e incentrata sui personaggi. (…) Asterios Polyp riesce nell’impresa di superare sé stesso. Per certi versi ha a che fare con il problema più generale della creazione: come possono idee astratte essere rese in una forma graficamente comprensibile e accattivante?76

Il piano dell’espressione non poteva dipendere più di così dal piano del contenuto, anzi più che dipendere, sembra volerlo combattere, o comunque instaurare con esso una riflessione dialettica: Mazzucchelli crea il proprio set di regole visive e, contemporaneamente, critica l’inorganica sovrapposizione di regole, schemi e strutture sugli altri, nell’arte e nella vita. La tensione centrale del libro, in fondo, è l’utilizzo di un rigido e 76

Hatfield, C., Op. Cit., (2010).

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audace formalismo per criticare proprio la rigidità del formalismo. Utilizza le caricature nel momento stesso in cui critica la riduzione degli altri a caricature77.

L’ossessione di Asterios per la dicotomia funzionale/decorativo (tutto ciò che in architettura non è conseguenza di una funzionalità precisa non può che essere decorativo) offre inoltre uno stimolante spunto di riflessione implicito rispetto al linguaggio del fumetto, dove funzionalità e decoratività si mescolano, nei codici quanto nelle figure rappresentate: esistono elementi puramente funzionali o, ribaltando, qualsiasi elemento non può essere altro che funzionale? Può darsi insomma un fumetto senza funzione estetica? Per quanto riguarda Asterios Polyp la domanda sembra superflua, visto che ogni singolo pezzo sembra far parte di un disegno complessivo e profondamente meditato. L’autore costruisce non a caso il protagonista come una sorta di proprio alter ego, a livello concettuale: tanto Asterios è un architetto di carta, che non vede mai le proprie opere realizzate (e che restano quindi allo stato di puri progetti su carta), quanto il Mazzucchelli fumettista è un architetto di carta per definizione, un creatore di mondi che per statuto restano su carta, e non possono concretizzarsi altrimenti. Come Asterios cerca di proiettare la propria visione del mondo su tutto ciò che lo circonda, cercando di renderla reale (che poi è il motivo profondo della rottura con Hana, il fatto che la vedesse come funzione del proprio completamento più che come entità complessa dotata di una ricchezza interiore ben maggiore), così Mazzucchelli da buon demiurgo progetta e orienta a proprio piacimento l’universo narrativo del graphic novel. Se il fallimento del personaggio è acclarato (essendo la scintilla che genera la storia), quello dell’autore può risiedere nel responso che ne daranno lettori e 77

Clough, R., “Two and three: Asterios Polyp”, in Highlowcomics.blogspot.com, 2009; (tr. it., “Può succedere solo in un fumetto”, in Speciale Asterios Polyp, Conversazioni sul fumetto, 2011).

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critici una volta che l’opera sarà immessa nel mondo: sarà riuscito a dominare la materia che tratta? O avrà affossato la storia in un eccesso di formalismo, senza che se ne capisse pienamente la messa in discussione? Avrà infine commesso lo stesso peccato di presunzione del suo personaggio? Mazzucchelli sembra essere perfettamente consapevole del rischio, e ci gioca sopra attraverso la figura del narratore onnisciente. Normalmente il fumetto, come il cinema, non necessita di esplicitare chi ricopra la funzione del narratore: l’immagine si presenta in qualche modo da sé, come se fosse autogenerata, e il fruitore la attribuirà al massimo a un generico narratore onnisciente, senza porsi domande su chi stia producendo la visione/narrazione. Non è lo stesso per la scrittura che, veicolando tutte le proprie funzioni attraverso il linguaggio alfabetico impone all’autore reale di prendere una posizione, scegliere la persona e il tempo verbale con cui esprimersi, creando quindi un narratore la cui figura, per quanto neutra e oggettiva, risulta più presente che nei linguaggi che possono basarsi sull’immagine. Pur non avendo bisogno di rendere manifesto il narratore, Mazzucchelli sceglie di giustificarne l’esistenza, creando appunto la figura del gemello Ignazio (rinforzando così il senso duale di tutta l’operazione), che racconta al lettore il passato di Asterios, per eclissarsi invece quando l’azione si sposta nel presente del protagonista. Come Asterios, anche Ignazio diviene una proiezione dell’autore: due alter ego gemelli che si contendono lo spazio e l’espressione delle idee portanti del fumetto, con il gemello invisibile che mette ironicamente in discussione le certezze espresse dal fratello, e di conseguenza anche l’operato stesso dell’autore. Emblematico a tal proposito è uno dei dialoghi tra i fratelli, nel quale Asterios esprime il proprio amore per il dualismo, come comodo principio di analisi e di organizzazione della vita e del mondo, e Ignazio ribatte che un’astrazione del genere non deve però essere confusa con la realtà, dove lo spettro di sfumature è ben più ampio, e che una tale

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semplificazione potrebbe essere adatta al più ai libri per bambini o ai fumetti (fig. 23). Insomma Mazzucchelli si mette alla prova, chiedendo al lettore, sebbene tra le righe, se il proprio formalismo non sia forse troppo schematico (anche se, in quanto autore di un fumetto, non sarebbe autorizzato ad accontentarsi di quello schematismo? Ma è poi vero che i fumetti sono così schematici nella proposizione di personaggi e funzioni, al di là della vulgata comune? Ovviamente no. Mazzucchelli nega affermando, e afferma negando, e lo fa costantemente per tutta l’opera). Resta un ultimo ma importante argomento, collegato alla grecità citata inizialmente, cioè la hýbris di Asterios. La hýbris è un termine della tragedia, che compare nella Poetica di Aristotele, e che significa letteralmente tracotanza, eccesso, superbia, orgoglio o prevaricazione. Come da definizione, la hýbris è un evento accaduto nel passato che influenza in modo negativo gli eventi del presente. È una colpa dovuta a un’azione che vìola leggi divine immutabili, ed è la causa per cui, anche a distanza di molti anni, i personaggi coinvolti o la loro discendenza sono portati a commettere crimini o subire azioni malvagie. La hýbris è punita con la némesis, cioè con la vendetta degli dei, i quali infliggono una punizione all’eroe che si macchia di questo peccato. La hýbris di Asterios è sicuramente l’arroganza con cui crede di capire e possedere il mondo, e le persone che lo vivono, grazie alla propria logica ferrea ed euclidea. Gli dei giocano con il nostro uomo, e lo mettono alla prova: permettono che trovi l’amore, glielo fanno perdere introducendo l’antagonista che mina le basi della relazione amorosa tra Asterios e Hana, e poi, quando il protagonista è ormai alla deriva, lo richiamano all’azione con un provvidenziale fulmine. Ma non è finita qua. Dopo che il protagonista ha compiuto il proprio percorso di scoperta e redenzione (svolgendo il classico tragitto già codificato da Propp rispetto alle fiabe russe, e poi ripreso da

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Campbell78 e da Vogler79), diventando una persona migliore, riconquistandosi il diritto di sedere a fianco della donna amata e di entrare in contatto – un contatto più vero e profondo, non più due esseri incompleti, ma due pienezze a confronto – con lei, la nemesi torna a colpire, scatenando nuovamente il cielo contro Asterios. La storia si chiude con un gigantesco asteroide che sta per schiantarsi sulla casa in cui i due sono riuniti in silenziosa e reciproca contemplazione. Un finale amaro, che destabilizza, anzi sconcerta, il lettore, solo parzialmente mitigato dall’epilogo in cui vediamo la famiglia Major (che ha ospitato Asterios ad Apogee) esprimere un desiderio alla vista di una stella cadente (come è facile intuire, la scena avviene in contemporanea alla precedente, e la stella è probabilmente l’asteroide stesso). Chiunque abbia letto Asterios Polyp avrà desiderato, in cuor suo, che in qualche modo la coppia di amanti si sia salvata.

2.5 Una pagina alla volta Praticamente ogni pagina di Asterios Polyp presenta una costruzione grafica particolare, meritevole di approfondimento, così come è disseminata di una fitta rete di citazioni e rimandi intertestuali, a opere, autori, culture, del presente e del passato. Sarebbe impossibile citarli tutti, sia per questioni di spazio che di necessità rispetto ai fini di questo studio (e non escludo tra l’altro che alcuni di essi, allo stato attuale delle mie conoscenze e delle risorse bibliografiche consultate, mi stiano semplicemente sfuggendo). Si cercherà pertanto di concentrarsi sui più rilevanti, e soprattutto su quelli che rendono la traducibilità dell’opera più ardua (se mai possibile). Quando 78

Campbell, J., The hero with a thousand faces, Pantheon Books, USA 1949; (tr. it., L’eroe dai mille volti, Ugo Guanda Editore, Parma, 2000). 79 Vogler, C., The writer’s journey: Mythic structure for writers, Michael Wiese Productions, USA 2007; (tr. it., Il viaggio dell’eroe, Dino Audino Editore, Roma 2010).

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determinati stilemi vengono riproposti più volte, ci si soffermerà sul loro primo utilizzo (a meno che non si sia in presenza di varianti significative). L’aspetto grafico di Asterios è a esempio già tutto un programma: le sue linee essenziali, il contorno del volto come semicerchio perfetto, rimandano da un lato al dandy Eustace Tilley, personaggio creato da Rea Irvin che rappresenta tuttora il settimanale New Yorker, e dall’altro a uno dei gangster nemici di Dick Tracy, il detective di Chester Gould. Venendo all’opera, la storia si apre appunto col fulmine che cala dal cielo verso l’edificio in cui vive il protagonista (fig. 24). Il fulmine bianco irrompe nella tavola, spezzandola in due: l’inquadratura dall’alto, estremamente angolata, crea l’impressione di una strana soggettiva che richiama quelli che prima sono stati definiti dei, ma che in definitiva coincidono con l’autore del fumetto. Non a caso il fulmine è bianco, come lo spazio bianco tra le vignette, cioè il luogo (e il tempo) in cui il fumettista opera, e il bianco che circonda l’unica grande vignetta della tavola si protende senza soluzione di continuità dentro la vignetta stessa grazie al lampo di luce. Appare come una forte dichiarazione di autorialità, della presenza di Mazzucchelli nel proprio fumetto. Nella tavola successiva si è introdotti nell’appartamento di Asterios: la vignetta in cui si vede il suo salotto ritornerà per tutto il corso del fumetto (fig. 25), identica nell’inquadratura ma non in tutti gli elementi che contiene, e segnerà il mutare delle vicende e degli stati d’animo del protagonista. Da notare, come si accennava in precedenza a proposito di costanti grafiche, la prospettiva sfalsata, in cui non tutti gli elementi paiono convergere verso il medesimo punto di fuga. Quando il fulmine irrompe nell’interno della camera da letto di Asterios ci si trova di fronte a un ribaltamento, a una rappresentazione in negativo (fig. 26): il fulmine è viola, ma è emanato sempre dal

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bordo vivo della pagina, e assume la forma di un’onomatopea (Klapp!), riunendo in sé forma, colore, ma anche suono. Una soluzione possibile solo in un fumetto, dove le parole sono anche immagini. Segue la fuga affannata del protagonista dall’appartamento che sta andando a fuoco (fig. 27). Le sue mosse sincopate sono scandite dal suono dell’allarme antincendio: in questo caso l’onomatopea si propaga nella tavola passando sotto le altre vignette, sfidando la bidimensionalità insita nel fumetto, e suggerendo quasi che le vignette appartengono a un livello di superficialità diverso rispetto al bianco della pagina. Da un punto di vista tematico si vede Asterios recuperare tre oggetti (che acquisiranno senso nel corso della storia) prima di darsi alla fuga: sono oggetti del passato del protagonista, e rispondono in tutto e per tutto alla funzione svolta dagli oggetti magici così come codificati da Vladimir Propp nella Morfologia della fiaba80. Che siano proprio tre, da una parte richiama le tripartizioni proppiane, mentre dall’altra è una messa in discussione iniziale e programmatica dello schema dualistico del protagonista (solo uno dei tre oggetti lo accompagnerà fino in fondo alla storia, e sarà quello che ha un legame con la storia d’amore con Hana). Dopo questo inizio in medias res, ci si concentra sulla presentazione del protagonista (fig. 28). Per la prima volta il narratore si rende esplicitamente presente, come dichiarato dal THIS che cala pesantemente dal bordo della tavola. Giunti a questo punto della storia, non è stata ancora introdotta la figura di Ignazio, il fratello gemello (che si paleserà poche pagine dopo), e quindi si è portati a far coincidere la figura del narratore con l’autore. Il sospetto è che sia una precisa scelta per creare in partenza un’ambiguità, che si protrarrà per tutto il volume, sull’identificazione possibile tra autore, narratore e protagonista. Le parole informano che è il giorno del cinquantesimo 80

Propp, V., Morphology of the folktale, Russia 1928; (tr. it., Morfologia della fiaba, Einaudi Editore, Torino, 1966).

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compleanno di Asterios, e l’idea di far cominciare le vicende del personaggio nel mezzo ideale della sua vita, in un momento di forte crisi, sembra essere una versione aggiornata dell’incipit della Divina Commedia di Dante. La presentazione prosegue dichiarando il lavoro di Asterios e i successi da lui conseguiti (introducendo inoltre il tema visivo della grecità), e subito ci si trova in presenza di un artificio narrativo possibile solo nel fumetto (fig. 29), grazie alla convivenza di più vignette nella stessa tavola: la narrazione infatti presenta una breve analessi in tre riquadri parzialmente sovrapposti, risalendo la brillante carriera di studioso del protagonista fino al liceo. Ma mentre gli eventi raccontati retrocedono nel tempo, mostrando in effetti un Asterios via via più giovane, la narrazione va comunque avanti, nel tempo anche se in modo atemporale, facendo vedere un pubblico progressivamente più disinteressato ai discorsi del protagonista (tanto che alla fine tutti gli astanti dormono). Grazie alla disposizione delle vignette nella tavola, coesistono insomma due movimenti temporali opposti. La pagina seguente presenta i genitori di Asterios, novelli sposi, in una vignetta circolare che richiama le classiche fotografie di famiglia (fig. 30): la circolarità della vignetta diventa a sua volta metafora visiva dell’ovulo femminile e del concepimento, grazie alla presenza raddoppiata di Eugenios Polyp in un’altra piccola vignetta che assume la forma di uno spermatozoo, ed entra in contatto con la vignetta più grande. Vignetta-spermatozoo che al contempo innesca e spiega la metafora. Dopo aver lasciato la propria casa, Asterios entra in metropolitana per raggiungere la stazione degli autobus, accompagnato dal fantasma del fratello (fig. 31): un ragazzo sta suonando la chitarra, e il mix di musica e canto è rappresentato visivamente dal fluire delle note che, come l’allarme antincendio, scorrono sotto le vignette, mentre le parole cantate sono rappresentate nei balloon su uno spartito, con un carattere che richiama le note musicali. Non sono riusciti a risalire

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all’origine della canzone (che potrebbe essere quindi una pura invenzione di Mazzucchelli a fini narrativi), ma è evidente che il testo richiama la stringente logica euclidea del protagonista. Nella tavola seguente arriva il convoglio, e la vignetta che contiene la scena assume la forma di una freccia, per amplificare dinamicamente l’effetto del movimento (fig. 32). Si assiste poi a una scena strana e desolante, e apparentemente fuori contesto (sarà ripresa sul finire del racconto): Asterios incrocia una donna, seduta sulla propria valigia, che ha dato di stomaco. L’uomo si ferma e sembra voler chiedere se vada tutto bene, ma la donna lo allontana (fig. 33). Nella costruzione della sequenza di immagini ci si trova di fronte a quella funzione che si può esprimere nel fumetto, e anche nel cinema, ma non nella scrittura: cioè il passaggio fluido e non dichiarato da un punto di vista oggettivo a uno soggettivo (seguendo il movimento e l’orientamento della macchina da presa – sfrutto per comodità il linguaggio tecnico del cinema – indotto dal susseguirsi delle vignette, viene naturale supporre che il punto di osservazione sia quello di Asterios, che scorre la donna dal basso verso l’alto), che si conclude poi con un ritorno all’oggettività iniziale. La scena seguente (fig. 34) si apre con una riflessione di stampo idealista sulla natura della realtà come emanazione del sé. Mazzucchelli esemplifica il concetto presentando una carrellata di passanti disegnati ognuno secondo uno stile grafico diverso (dalla pura linea a un groviglio di schizzi). Lo stratagemma visivo verrà poi amplificato e sfruttato nelle tavole seguenti e soprattutto alla festa in cui Asterios e Hana si conoscono. La stessa scelta narrativa da cui derivano

le

astrazioni

grafiche

dei

protagonisti

che

li

accompagneranno per tutto il volume. L’origine di questa idea deriva probabilmente dalle illustrazioni di Saul Steinberg, come rilevato da

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Tonio Troiani81, e nello specifico dall’opera intitolata Techniques at party del 1953 (fig. 35). Quando poi si vede Asterios alle prese con i suoi studenti (fig. 36), si assistie da un lato a una messa in opera dell’assonometria precedentemente esplicata, e dall’altro a una particolare costruzione della gabbia grafica, in cui un ambiente unico è diviso in sei vignette dalle dimensione identiche, permettendo al protagonista di fare la propria apparizione in ciascuna di esse, con movimento ripetuto che parte dal basso si sposta in alto al centro per poi uscire di scena a destra. Ci si trova anche alle prese col sensuale approccio di una studentessa (fig. 37), e alla conseguente perdita di lucidità e aplomb di Asterios: la classica metafora visiva degli ingranaggi che girano introduce al parallelo immaginato con Ulisse alle prese con le sirene (sempre a proposito di grecismi), e infine allo sfaldarsi delle vignette e all’ammorbidimento dei balloon nel tentativo del nostro di rispondere alla ragazza. Più che una vera e propria metafora, un modo per piegare i codici in modo che amplifichino un significato già presente nel disegno vero e proprio. All’inizio del viaggio ad Apogee (l’apogeo, il punto più lontano), durante il tragitto in autobus, Asterios sogna, e si confronta col gemello Ignazio (fig. 38): gli inserti onirici sono l’unico caso in tutta l’opera in cui lo spessore del bordo delle vignette è stabilmente variato, assumendo la stessa tipologia di tratto utilizzata per disegnare le figure (segnale ne è anche il fatto che siano linee non perfettamente rette, ma realizzate a mano libera). Nel mondo dei sogni i confini si assottigliano e tutto diventa più labile e indeterminato, perfino il confine tra una vignetta e l’altra. C’è un’altra sottigliezza da notare che, sebbene non riguardi il linguaggio del fumetto in quanto tale, mostra la maestria dell’autore nell’usarlo: tra l’unica vignetta riquadrata e la successiva, in cui vediamo Asterios a spasso nelle 81

Troiani, T., Op. Cit., (2012).

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rovine di un tempio greco, in alto, nel cielo che coincide con il bianco della pagina, si nota la silhouette di un aeroplano in volo. Perché questo aeroplano fuori contesto e in definitiva inutile ai fini della storia? Per rallentare la visione, per obbligare un attimo il lettore a decodificare questa piccola macchia di inchiostro prima di scendere con lo sguardo a contemplare l’immagine principale, e per inserire una dimensione temporale (dando l’impressione che il tempo raccontato all’interno di questa specifica tavola sia maggiore rispetto a quello che si penserebbe limitandosi a interpretare in sequenza le due vignette nude e crude). Ripresosi dal sogno Asterios inizia una conversazione con il passeggero che gli siede a fianco (fig. 39). Al protagonista viene chiesto se è sposato, ma la risposta tarda ad arrivare. Conviene soffermarsi sull’uso creativo che Mazzucchelli fa dei balloon: l’indecisione di chi si trova in una situazione non chiara neppure a sé stesso è resa da un balloon che per una volta diventa tridimensionale, potendo così presentare contemporaneamente (anche nell’ordine di lettura) le tre risposte che gli passano per la mente, prima di affermare il proprio status di divorziato. Stesso dialogo, due tavole più avanti. Il passeggero chiede ad Asterios se vuole regalargli il suo accendino (fig. 40). Asterios si lascia andare per un attimo al flusso dei ricordi, prima di rispondere: il pensiero va al padre, originale proprietario dell’oggetto, una volta uomo di mondo, ora malato e costretto a essere imboccato dalla moglie. Il flashback è reso istantaneamente dal cambio di dominante cromatica, che fa risaltare le due vignette in mezzo alle altre, ancor di più data la disposizione regolare delle vignette nella tavola. Dopo lo sbarco del protagonista ad Apogee, la narrazione riporta nel passato, al primo incontro tra Asterios e Hana. Si è già citato i riferimenti a Steinberg e alla presentazione degli elementi della coppia come astrazioni grafiche contrapposte. Si vuole però sottolineare come la griglia libera adottata da Mazzucchelli non sia mai casuale.

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Nel caso specifico si alternano due schemi, anzi, uno contiene l’altro. Il primo, cioè il colloquio tra Asterios e Hana, è stato già nominato in precedenza (fig. 14), il secondo invece è il racconto che Hana fa del proprio passato: due coppie di tavole perfettamente sovrapponibili le une alle altre in cui vediamo Hana combattere (con scarsi risultati) per l’affetto e il riconoscimento da parte della propria famiglia (figg. 41/42). Rientra in gioco anche la profondità della tavola, con i personaggi che dialogano e la pagina che si sfoglia per mostrare il passato su un piano diverso. C’è inoltre l’introduzione di un’altra metafora, che purtroppo accompagnerà il personaggio femminile nel corso della storia: l’occhio di bue teatrale, il classico faretto, che invece di puntare la propria luce su Hana, dirige lo sguardo altrove, impedendole di essere al centro dell’attenzione. Di nuovo il presente, ad Apogee. Asterios schiaccia una zanzara che stava per morderlo sul collo (fig. 43). L’onomatopea svolge un doppio ruolo: da una parte rappresenta il suono prodotto dall’insetto, dall’altra ne indica la traiettoria, come se fosse una linea cinetica (stratagemma classico del fumetto per evocare un movimento assente, vista la natura statica del linguaggio). La disposizione libera delle vignette nella tavola permette appunto di valorizzare al meglio questo genere di trucchi in uso al fumetto: il bianco diventa lo spazio in cui la zanzara si muove, zanzara che se dovesse essere rappresentata coerentemente alla vignetta successiva dovrebbe avere delle dimensioni ben inferiori. Ma non vi è questa necessità, visto che l’insetto è parte di una vignetta a sé stante (un close up), ed è unito alla successiva proprio dall’onomatopea (che quindi assume una terza funzione che da mimetica la fa diventare diegetica). Altro gioco di Mazzucchelli con i balloon: ci viene introdotto Jackson, il figlio della famiglia Major, soprannominato Running Dog (fig. 44). La sua natura di corridore è tale che va più veloce delle parole che esprime, le quali sembrano rimanere indietro rispetto al balloon che le contiene, che procede invece alla stessa velocità del

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bambino. Una soluzione del genere è possibile solo in un linguaggio in cui il tempo è una funzione dello spazio. Spesso i confini delle vignette non sono semplici riquadri, ma elementi architettonici o di paesaggio che vengono usati come confine naturale (fig. 45): una scelta stilistica sicuramente debitrice dell’opera di Will Eisner, maestro indiscusso del fumetto americano, che aveva approfondito questo spunto grafico in ogni maniera possibile82. L’opacità del fumetto è tale anche perché ogni elemento del codice può assumere un significato narrativo particolare, rinunciando al proprio statuto universale (ma continuando a essere compreso dal lettore in quanto codice). La forma del riquadro può assumere significato anche quando viene forzatamente interrotta o spezzata, richiamando quasi l’idea dell’autore che strappa o distrugge un pezzo della propria opera. Nelle tavole in esame (fig. 46) la spezzatura (che sembra richiamare il fulmine scagliato all’inizio della storia) diventa metafora della teoria di Aristofane citata dal narratore, secondo cui gli umani erano originariamente sferici, con quattro braccia e gambe e una testa bifronte, fino a che non è intervenuto Zeus a separarli in due entità distinte, uomini e donne. Da allora gli umani sarebbero impegnati a ricercare la propria metà mancante, in un disperato bisogno di unità. Quale modo migliore di una vignetta circolare (simbolo di completezza e perfezione per eccellenza) interrotta da una frattura e divisa al suo interno in rosso e azzurro, colori che simboleggiano non solo Asterios e Hana, ma più genericamente l’uomo e la donna, per raffigurare questa forse vana bramosia di totalità del protagonista e del genere umano tutto? Si gira pagina e si trova la coppia a passeggio in un bosco (fig. 47). Asterios cerca Hana chiamandola Daisy: abbiamo visto come Hana in giapponese significhi fiore, e questo aspetto sembra mettere in crisi il 82

Con un lavoro di ricerca sul linguaggio che parte nel 1940 sulle pagine di The Spirit, e prosegue nella seconda e più matura fase della carriera segnata dalla publicazione nel 1978 di Contratto con Dio.

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protagonista che, per una volta, invece di astrarre, decide di assegnare alla donna un nome di fiore specifico, forse con l’idea di possederla, trasformarla in qualcosa di particolare, solo suo. Mazzucchelli continua intanto a proporre nuove soluzioni per l’utilizzo dei balloon: Hana risponde al richiamo, e il balloon allungato oltremisura, che parte in una vignetta e si protende nella successiva, fa svolgere al lettore un percorso ottico e implicitamente uditivo simile a quello che deve aver fatto Asterios per seguire la voce della compagna e localizzarla. Una delle scene più belle dell’intero fumetto (a detta di chi scrive), riguarda sempre il passato della coppia, alle prese con una gita al mare (fig. 48). Non si trovano elaborazioni grafiche evidenti come nelle tavole precedenti, ma un sottile gioco di tratti e di ritmo. Nella tavola di sinistra i nostri protagonisti osservano il mare dalla spiaggia. Tutto è rappresentato dall’autore con la consueta linea sottile ed elegante, tranne la roccia su cui Hana siede, che assume una consistenza materica grazie alla pennellata grezza e scarica. La materia in questione però non è tanto la roccia, quanto l’inchiostro stesso, e il tratto rimanda piuttosto al gesto fisico del fumettista che si rende manifesto attraverso l’azione del disegno, come in un quadro di stile informale. La tavola di destra invece rende evidente il lavoro di Mazzucchelli sul ritmo visivo che è possibile costruire grazie a una griglia libera. Due blocchi identici di quattro vignette ciascuno mostrano in contrapposizione le mani di Hana e di Asterios, sulla diagonale alto-destra/basso-sinistra, mentre la diagonale opposta crea una sorta di climax visivo, stringendo via via l’inquadratura e avvicinando i personaggi, anche grazie al passaggio da una vignetta senza bordi alla vignetta finale circolare, che più di tutte concentra lo sguardo e focalizza l’attenzione. C’è da sottolineare come l’autore sfrutti anche la fisicità dei balloon, e il loro occupare comunque una porzione di spazio in conflitto con il resto degli elementi, per

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nascondere momentaneamente l’oggetto ritrovato da Hana nella sabbia e generare un accenno di suspense nella lettura. Fisicità dei balloon che rientra in ballo anche nella pagina seguente, per rendere palese il modo in cui Asterios impone il proprio carattere su quello di Hana (fig. 49): i balloon dell’uomo infatti coprono quelli della donna, impedendo a noi di leggerli e a lei di finire le frasi. Questa tavola ha poi il proprio doppio speculare nella scena finale, in cui i protagonisti si ritrovano: stessa identica griglia, ma oltre a essere mutati i colori, è mutata anche la relazione tra i balloon. La parola di Asterios non è più soverchiante, ma si sposa e si fonde con fare sinuoso con quella di Hana, a dimostrazione dell’evoluzione nel rapporto della coppia. La bravura di Mazzucchelli sta nel riuscire a rendere i rapporti di forza tra i personaggi grazie solo alla disposizione e interazione degli elementi del codice: entrambe le tavole potrebbero essere perfino mute, e il lettore capirebbe ugualmente alla perfezione lo stato delle cose. Le metafore visive sono brillantemente sfruttate dall’autore nel corso del fumetto. Durante la prima cena domestica della coppia, Asterios scopre che Hana è vegetariana, e deve ripensare al volo il menù che aveva in mente (fig. 50). La metafora del libro di cucina sfogliato rende in modo limpido, e soprattutto narrativamente economico, il processo mentale del protagonista. Si faccia poi un salto avanti alla conversazione tra Asterios e Ursula Major (un nome che richiama la costellazione dell’Orsa Maggiore). Ursula sta riflettendo con il protagonista sul ruolo degli astri nell’indirizzare la vita delle persone dalla loro nascita (fig. 51). Asterios non poteva che essere un gemelli (una cuspide però, nato l’ultimo giorno del segno). Mazzucchelli accresce l’effetto magico del monologo della donna con una sorta di dissolvenza a spirale di immagini l’una nell’altra. I balloon seguono il movimento dell’immagine e per essere letti necessitano che il volume sia girato su sé stesso dal lettore. Siamo pur sempre in presenza di un libro, un

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oggetto fisico con le proprie regole di fruizione, e l’autore vuole ricordarlo, costringendoci a un gesto abbastanza scomodo nell’economia della lettura. La doppia tavola sulle astrazioni, ambientata nel passato e raccontata da Ignazio (fig. 52), è un sunto delle tematiche care all’autore e riversate nella storia e nel suo protagonista: un’intraducibile digressione visiva sul tema della logica, delle metafore e delle analogie (i solidi platonici83, la sezione aurea, la divisione planare) che più che parlare delle passioni di Asterios sembra raccontare la passione nel creare metafore grafiche inconsuete che lo stesso Mazzucchelli ha riversato nell’opera, tanto che la seconda pagina si chiude con l’associazione che Asterios fa tra la distanza percorsa e i centrimetri di maglia prodotti all’uncinetto dalla moglie (ed è curioso che in inglese yarn possa significare, oltre a filo, anche storia lunga): d’altra parte cos’è un fumetto se non una distanza percorsa nello spazio di pochi centrimetri? Le astrazioni di Asterios possono assumere anche l’aspetto di complessi schemi teorici (fig. 53), quando si tratta a esempio di spiegare i rapporti che lo legano ai genitori e alla religione cristiana: una riduzione alquanto pretenziosa e arrogante di una complessa rete di sentimenti e legami emotivi in una mappa composta da concetti ideali e operatori funzionali. Si è spiegato che i rimandi intertestuali esterni all’opera non rientrano pienamente nel solco della presente analisi, a meno che non assumano un ruolo narrativo specifico, che vada oltre il puro gusto citazionistico. Nel fumetto questo dipende in buona parte da come l’autore decide di inserire detti rimandi all’interno della tavola. Vi è in Asterios Polyp una trama di dialogo tra il protagonista e Hana che ritorna a più riprese, e che riguarda San Francesco d’Assisi (fig. 54). Mazzucchelli decide allora di inserire la rappresentazione di San 83

Tetraedro, ottaedro, dodecaedro, icosaedro, e soprattutto l’esaedro, o cubo, che da elemento grafico decorativo si trasforma in griglia atta a contenere ulteriori immagini e a portare avanti la narrazione.

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Francesco riproponendo uno degli affreschi di Giotto che lo ritrae (tratto dal ciclo dipinto nella basilica di Assisi), virandone però i colori per uniformarlo alla paletta cromatica della tavola. Il dettaglio dell’affresco diviene così una vignetta a tutti gli effetti, parte del continuum narrativo. La riflessione sulla contemporanea spazialità e temporalità del fumetto può essere portata avanti anche grazie a piccole e semplici gag visive. Asterios spiega al piccolo Jackson, corso nella sua camera, che il suono che sente proviene dal proprio orologio (fig. 55). Il suono è amplificato dal mobile, che fa da cassa di risonanza. Infatti quando Asterios solleva l’oggetto, il suono si interrompe ma continua a provenire dallo stesso orologio, solo molto diminuito. La curiosità è che normalmente il lettore interpreta la striscia da sinistra a destra, con lo sguardo che legge ogni singola vignetta dall’alto in basso, ma in questo caso l’onomatopea ci spinge (anche grazie allo stacco cromatico) a seguire visivamente il proprio movimento curvo fino all’interruzione, e solo in quel momento lo sguardo si alza e si vede il protagonista che ha sollevato l’orologio dal piano del mobile. Azione che inizia prima e porta all’interruzione, ma che è letta dopo (nonostante sia posta all’interno della vignetta a un’altezza superiore). La particolare spazialità di questa sequenza unita al richiamo dell’onomatopea porta insomma a valutare prima la conseguenza che la causa. Quando viene introdotto Willy Ilium (un altro nome assai significativo, che richiama l’appellativo gergale dell’organo riproduttivo maschile), potenziale antagonista di Asterios, il narratore presenta ironicamente anche la sua attività di coreografo (fig. 56), attraverso una sfilata di locandine tratte dai suoi spettacoli. Pura composizione grafica, costruita sul rapporto tra linee rette e diagonali associate ortogonalmente, digressione visiva che è l’approccio con cui si esprime il narratore e attraverso di lui l’autore stesso (associando quindi sempre parole e immagini, senza limitarsi mai al mero testo).

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Si usa dire che un buon fumettista è colui che lascia dei bei spazi bianchi da riempire84. La doppia tavola in cui Asterios riposa dopo aver costruito la casa sull’albero ad Apogee (fig. 57) non presenta particolari accorgimenti narrativi, ma è composta come giustapposizione di dettagli minimali, suoni sottili e una luce da tardo pomeriggio estivo che inonda lo spazio. A darle risalto è la disposizione libera delle vignette nella tavola e soprattutto lo spazio bianco che circonda e avvolge tutto e fa respirare la scena, dilatando il tempo di lettura ma anche lo scorrere del tempo interno alla storia. Si torna al passato, al momento in cui Willy Ilium accompagna i protagonisti dal compositore delle musiche del proprio spettacolo. Si viene introdotti in un appartamento saturo di strumenti musicali e spartiti (fig. 58). Più che l’aspetto grafico (per quanto sia curiosa l’assonanza tra la confusione che regna nella casa e la pienezza delle tavole – tra le più ricche di testi e disegni dell’intero volume), è da evidenziare la riflessione del compositore Kohoutek sull’aspetto degli spartiti, su come i simboli (note, pause, ecc.) possano essere fruiti visivamente prima ancora che interpretati come valore musicale, e come in definitiva ogni pagina di spartito possa essere letta come la registrazione di un tempo stabilito che passa in un particolare modo. Una definizione che potrebbe funzionare anche per il fumetto. Mazzucchelli è impegnato in una costante riflessione sulla natura del medium e sulle analogie che possono essere instaurate con gli altri linguaggi. Dal punto di vista della narrazione visiva ci si può comunque soffermare sul set di quattro vignette che concludono l’ultima tavola (fig. 59). È difficile parlare di vignette separate, visto che si intersecano le une con le altre, condividendo la stessa ambientazione e inquadratura. L’autore avrebbe sicuramente potuto optare per una vignetta unica, ma adottando questa soluzione ha potuto da un lato trasmettere l’idea dell’isolamento di ogni singolo 84

Come da affermazione di Davide Toffolo: Toffolo, D., Fare fumetti – Manuale di fumetti a fumetti, Viva Comix, Pordenone 2000.

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personaggio e della distanza morale che li separa, e dall’altro costringere il lettore a fermarsi a osservare le quattro figure, una alla volta. E così come il compositore parla della propria volontà di creare una musica cacofonica, in cui sia l’ascoltatore a scegliere il proprio percorso all’interno dell’esperienza ricettiva, focalizzandosi solo su determinati suoni, Mazzucchelli riempie le pagine di dettagli e parole, isolando e al contempo sovrapponendo numerosi elementi, costringendo quindi il lettore del fumetto a fare delle scelte interpretative e a decidere un proprio percorso visuale nella tavola. Si è già descritto come Asterios e Hana tornino alla loro essenza nei momenti emotivamente più intensi. Il litigio che prelude alla rottura del loro rapporto mostra anche come l’autore riesca a passare in maniera naturale da un punto di vista oggettivo sulla scena a una soggettiva estrema (potremmo dire interiore) che mette in luce la difficoltà del protagonista nello scegliere cosa rispondere alle accuse della moglie (fig. 60): tre vignette praticamente identiche, di cui due barrate da una grossa X rossa, chiudono la pagina e mettono in scena le potenziali risposte scartate da Asterios nel momento in cui riflette su quale sia la frase migliore con cui replicare ad Hana. È presentato e allo stesso tempo negato qualcosa che avviene solo nella mente dell’uomo, senza però il bisogno di rendere manifesto questo passaggio dall’esteriorità all’interiorità, per sottolineare quanto pesino le parole non dette. Nella parte finale del romanzo Mazzucchelli dà fondo a tutto il proprio bagaglio di tecniche narrative (figg. 61/62). Quattro tavole in cui l’unico l’elemento ricorrente è un Asterios seduto, prima nel bianco della pagina, poi sul bordo del letto (quello di Apogee a confronto con quello della sua vecchia casa). Il protagonista associa un momento del presente a uno identico del passato, in cui Hana lo prendeva in giro per le conseguenze del suo amore per la funzionalità (le scarpe acquistate in precedenza, che tanto aveva apprezzato per l’essenza pura che esprimevano, sono anche quelle che gli hanno

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causato le vesciche – un’analogia che potrebbe rappresentare egregiamente l’intera storia). Il contrasto tra le due situazioni accresce il senso di solitudine di Asterios (grazie anche alla scelta di dilatare la sequenza e di porre il personaggio da solo nel contesto della pagina bianca), e il deja vù da il via a una stupenda sequenza di otto tavole (figg. 63-66), chiusa dal protagonista nuovamente nella posizione iniziale, in cui è rivissuta, attraverso lo sguardo di Asterios (una soggettiva se non fisica almeno sentimentale) un’ondata di ricordi che ha come protagonista Hana (e che come un’ondata parte lentamente, esplode, per poi assotigliarsi fino a sparire). Le tavole sono composte come denso affastellamento di momenti distinti e indipendenti, se si esclude l’azione che si svolge per tutta la durata della sequenza nella striscia centrale, in cui a contare non è tanto la temporalità, quanto la spazialità che permette di perdersi nelle memorie del protagonista, passando indistintamente da una all’altra, secondo le proprie preferenze, replicando il processo associativo casuale di immagini, sebbene a tema unico, che sta avendo luogo nella sua mente. La scena successiva rinarra il mito greco di Orfeo ed Euridice (non è una scelta casuale, ma legata alla rappresentazione che Willy Ilium sta cercando di portare in scena), con protagonisti Asterios e Hana. Cambia la modalità del disegno, caratterizzata da un tratto spesso, grezzo e opprimente, sparisce ogni colore che non sia l’onnipresente viola, sparisce anche ogni forma di parola o testo (figg. 67/68). L’inferno è la stazione della metropolitana vista all’inizio (ricompare anche la donna rigurgitante insieme a tutti gli altri personaggi che hanno segnato il passato del protagonista), Ade è interpretato da un piangente Willy Ilium, ma l’esito della storia è il medesimo: Asterios ha perduto forse per sempre la propria compagna, in un fuoco giallo che ricorda quello che gli ha devastato casa. Il narratore, ogni volta che si palesa (in accordo col principio di astrazione che permea tutto il volume), continua a presentarci nuove metafore per visualizzare la situazione di Asterios: la perdita di

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centralità planetaria rispetto al proprio sistema orbitale è un’ottima maniera per raccontare la deriva che intraprende il protagonista che non riesce più a essere l’eroe della propria storia (fig. 69), come è giusto che sia per iniziare a imparare davvero qualcosa sugli altri. Quest’ultima incursione nel racconto del detto narratore si ha dopo l’incidente in cui Asterios perde un occhio e prima che decida di partire alla ricerca di Hana. La riflessione con cui termina la propria missione riguarda il concetto di memoria, e di come essa annulli la dimensione del tempo riportando nel presente le esperienze vissute, trasformandole ogni volta in qualcosa di nuovo (fig. 70). Se si vuole continuare a vedere Asterios Polyp anche come un approfondimento dell’autore su cosa sia per lui, ma non solo, il linguaggio del fumetto, abbiamo qua una dichiarazione dei limiti del linguaggio rispetto alla realtà: un fumetto non cambia, è immutabile, sviluppa il proprio sistema di regole e di immagini e si condanna a riproporlo identico a ogni lettura. L’unico modo per oltrepassare questo scoglio è forse proprio rivivere la propria esperienza di lettura a posteriori, come avviene per qualsiasi altro evento che entri a far parte della nostra memoria. Una volta che il narratore ha espletato il proprio ruolo deve sparire, e visto che nel caso in esame esso non è una funzione astratta, ma si incarna nel gemello del protagonista, quest’ultimo deve essere fisicamente eliminato. Essendo però Ignazio una figura fantasmatica, il confronto tra lui e Asterios può avvenire solo nella dimensione del sogno: i due si incontrano un’ultima volta nell’officina di Stiff Major, con Ignazio che si è sostituito in toto al fratello (fig. 71), diventando anzi il proprio gemello, come Mazzucchelli ci fa capire mutando progressivamente la forma del balloon e del carattere tipografico con cui Ignazio si esprime. L’identificazione assoluta è ora compiuta, Asterios vede nel proprio riflesso tutti gli errori commessi in passato e la hýbris che li accompagnava, e mette a tacere la parte negativa di sé. Tesi e antitesi si fondono finalmente in una nuova sintesi.

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L’ultima scena, con la rinnovata paletta cromatica, e il destabilizzante finale sono stati già approfonditi in precedenza. Resta lo spazio per focalizzarsi su di un ultimo particolare espediente grafico che l’autore sfrutta, nonostante tutta la sequenza finale sia portata a compimento con una regia molto più neutra e pulita, per lasciare spazio massimo agli eventi e agli stati d’animo dei protagonisti (nessuna astrazione, solo fatti). La famiglia Major saluta Asterios, in partenza per il nord. La grande vignetta priva di bordi, che occupa buona parte della tavola, mostra l’automobile del protagonista in movimento, mentre Ursula e Stiff salutano. Il piccolo Jackson ha appena trovato nell’erba il mozzicone di una sigaretta della madre (fig. 72). Mentre l’azione è congelata nel saluto, una microazione si svolge in sovrapposizione, come se fossimo alle prese con un ipertesto, un link cliccabile che afferisce alle figure di Ursula e Jackson. Vediamo infatti Jackson imitare il gesto della madre quando fuma, e la madre, che voltandosi lo osserva, rendersi conto dell’influenza che il proprio comportamento ha sul figlio, e decidere di conseguenza di gettare via la sigaretta (e immaginiamo di smettere di fumare). Il senso di lettura delle vignette non rispecchia tanto una spazialità predeterminata e regolare, quanto l’attenzione ai gesti dei personaggi. Il contenuto sembra indirizzare forma e ordine della narrazione (la collocazione dei riquadri rispecchia la posizione e la dimensione dei personaggi nello spazio) ma, ancora più importante, Mazzucchelli ci dimostra come nel fumetto sia possibile mostrare eventi con temporalità diverse e conseguenti nella stessa porzione di spazio (e quindi, per certi versi, contemporaneamente): possiamo affermare quindi che la microsequenza ha luogo sia dopo che durante la scena principale.

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3. Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari

Rispetto ad Asterios Polyp, l’analisi di Cento poesie d’amore a Ladyhawke e dell’opera di Michele Mari risulta più facile e al contempo più difficile. Più facile perché il testo in questione parrebbe più snello e compatto (ed è composto di solo testo), più difficile perché sia quest’opera di Michele Mari che il resto della sua produzione è densa di rimandi e citazioni, intessuta di richiami intertestuali all’universo della letteratura (dietro il quale lo scrittore sembra volersi almeno in parte nascondere) che fuggono in ogni direzione e sono assai complessi da cogliere nella loro interezza, come vedremo in seguito. Come spiegato nel secondo capitolo, si adotterà una modalità d’analisi che parte da un profilo biografico dell’autore e dalla sottolineatura di alcuni aspetti tematici che emergono dalle opere precedenti alla raccolta di poesie in esame (ma che sono una costante della produzione di Mari), per poi concentrarsi su Cento poesie d’amore a Ladyhawke, sia da un punto di vista tematico che stilistico (attraverso una riflessione sui singoli componimenti e sulle strutture generali della raccolta che possiamo ricostruire da essi). L’attenzione sarà comunque focalizzata soprattutto su quegli aspetti che entrerebbero in gioco qualora si avesse a che fare con una potenziale missione traduttoria.

3.1 Michele Mari Michele Mari nasce a Milano nel 1955. È figlio del celebre designer Enzo Mari e dell’illustratrice Iela Mari. Si segnala l’ascendenza non come vezzo completistico, ma per sottolineare come l’ambiente in cui è cresciuto possa aver precocemente fornito stimoli intellettuali e 87


culturali, e una predisposizione alla narrazione, anche per immagini. Non è un caso infatti che il giovane Michele si cimenti già in adolescenza con l’adattamento a fumetti di alcune stanze dell’Orlando Furioso e, nel 1972, de Il visconte dimezzato (operazione che gli valse l’elogio dello stesso Italo Calvino, e che venne poi stampata nel 2001 sui primi numeri de Il caffè illustrato, rivista con cui Mari ha collaborato a più riprese, fondata da Walter Pedullà). Anche se poi abbandonerà la narrativa disegnata, gli resterà il gusto per una scrittura potentemente visuale. L’esordio come narratore avviene nel 1989, con il romanzo Di bestia in bestia, pubblicato da Longanesi. Un testo su cui l’autore aveva iniziato a lavorare già dieci anni prima e che rende subito manifesti i suoi orientamenti letterari. È molto difficile, se non impossibile, parlare di Michele Mari prescindendo dai suoi scritti. Anzi, una sua biografia non può che essere uno slalom attraverso un ricco catalogo di pubblicazioni, che variano dai saggi ai romanzi, passando per racconti e poesie. A tal proposito, possono essere al momento sufficienti le parole dello studioso Riccardo Donati: In un saggio di qualche anno fa, dal tono volutamente sospeso tra il serio e il faceto, Raffaele Manica giocava a distinguere e intrecciare le molte vite dello scrittore Michele Mari, autore eclettico e personalità complessa, dove il professore intreccia il novelliere, il romanziere il disegnatore85.

Si potrebbe partire dalla tesi di dottorato dedicata allo storico del Settecento Girolamo Tiraboschi, scritta nel 1990 e pubblicata nel 1999 da CUEM con il titolo Il genio freddo, anche se le attività di scrittore e filologo paiono essere unite da un legame indissolubile che si perpetra di opera in opera, per cui il talento di narratore si somma a una cultura letteraria vastissima, e a una passione per i generi quali la fantascienza e l’avventura ma anche per il linguaggio del fumetto. In un’intervista 85

Donati, R., "Collezioni di ceneri. Qualche appunto su Michele Mari”, in I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi, Bulzoni, Roma 2010, p. 221.

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rilasciata ad Alessio Lega, sempre riportata da Donati, Mari infatti afferma: Credo di essere come quegli schizofrenici che hanno tante voci, tanti personaggi e, a seconda della situazione, parlano non solo con parole, ma persino con timbri di voce diversi. Parlando in prima persona di cose che mi riguardano, la mia voce sarebbe scontata, banale, imbarazzante, greve. Divento uno scrittore ventriloquo, che scrive in una sorta di falsetto. Metto in campo non solo altri personaggi, ma anche altri scrittori, veri o inventati86.

Questa polifonia è elemento essenziale della scrittura di Mari, ed emerge da ogni suo scritto. Ci si limiterà intanto a elencare i principali titoli del suo catalogo, divisi per tipologia, per poi soffermarsi su alcuni di essi. Per quanto riguarda i romanzi, dopo Di bestia in bestia, scrive Io venia pien d'angoscia a rimirarti (in cui narra l’adolescenza di Giacomo Leopardi, dal punto di vista del fratello minore, pubblicato sempre da Longanesi nel 1990), La stiva e l’abisso e Filologia dell’anfibio (entrambi pubblicati da Bompiani, rispettivamente nel 1992 e 1995), Rondini sul filo (Arnoldo Mondadori Editore, 1999), per poi entrare stabilmente nel catalogo Einaudi: Tutto il ferro della torre Eiffel (2002), Verderame (2007) e Rosso Floyd (2010). È atteso per il 2014 il suo nuovo lavoro, Rodderick Duddle. Produce anche tre raccolte di racconti: Euridice aveva un cane (Bompiani, 1993), Tu, sanguinosa infanzia (Arnoldo Mondadori Editore, 1999 – su cui si tornerà tra poco, essendo forse l’opera che più ha in comune con Cento poesie d’amore a Ladyhawke) e Fantasmagonia (Einaudi, 2012). Oltre alla raccolta di poesie che è oggetto del presente studio, e che è stata pubblicata da Einaudi nel 2007, Mari redige anche numerosi saggi di taglio critico-letterario, come testimoniano la raccolta 86

Donati, R., Op. Cit. (2010), p. 221.

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intitolata I demoni e la pasta sfoglia (la prima edizione del 2004 è di Quiritta, ma il titolo è stato ristampato nel 2010 da Cavallo di Ferro) e il carnet di viaggio Milano fantasma (EDT 2008, in collaborazione con Velasco Vitali). Ha inoltre tradotto per BUR nel 2012 L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e sempre nello stesso anno Ritorno all’isola del tesoro di Andrew Motion per Rizzoli. Collabora come critico letterario con i principali quotidiani italiani (tra gli altri Corriere della sera, Il Manifesto-Alias, L’indice, Millelibri) e insegna letteratura italiana all’Università Statale di Milano.

3.2 Letteratura e cultura come filtro, memoria e realtà Prima di procedere con i testi, è opportuno fare qualche cenno alla poetica di Mari. Come lettori delle sue opere, di qualsiasi opera, si rimane subito impressionati dalla complessità della lingua che usa. Non necessariamente una lingua difficile, ma una lingua inusuale, a tratti inattuale, in cui si sentono echeggiare le voci di decine e centinaia di altri scrittori. Parole e costrutti particolari, che anche se non vengono riconosciuti in qualche modo si conoscono, provengono da un passato comune, dagli anni delle infantili letture avventurose e della formazione scolastica. Nella scrittura dell’autore insomma si sente forte il peso della tradizione letteraria italiana (e non solo). Ma non è questo uno sfoggio di erudizione fine a sé stesso, e non fa dei suoi lavori dei testi ammuffiti. Anzi si tratta di far rivivere, riverberare, il sapere degli antichi in una nuova veste, in una nuova formula che funziona. Non credo che sia soltanto una scelta programmatica, consapevole e pianificata, a livello di lingua utilizzata, quanto una conseguenza del particolare rapporto che Mari intrattiene con la letteratura: di sicuro ha rilevanza il suo mestiere di professore e 90


filologo, ma il legame pare molto più personale e umano. Non c’è vita o esperienza che possa essere definita e precisa quanto la parola scritta: Vita e letteratura sembrano essere in Mari condannate a un conflitto perenne, a uno scontro senza possibilità di soluzioni: e questo perché la macchina retorica del testo, sottraendo il linguaggio alla pena del tempo, gioca per così dire sporco nei confronti delle estreme verità biologiche dell’individuo, come spiega uno dei personaggi di Di bestia in bestia: “Uno che ha passato tutta la sua vita fra i libri soleva dire che i libri possono fare alla vita una concorrenza sleale, molto sleale...”. (…) La scelta di adottare una lingua erudita di ascendenza umanistica, approfondita e diremmo addirittura introiettata attraverso anni di studio, sembra allora rappresentare per l’autore un modo di sottrarsi all’imperfezione, se non al vero e proprio ribrezzo, che ispira tutto ciò che promana da ogni “oscena aspirazione all’attualità”87.

Lo dichiara lo stesso autore, in un colloquio con il critico letterario Andrea Cortellessa, riportato da Donati88: Avendo io come scrittore delle aspettative di tipo classico (diciamo foscoliano) nell’altitudine della parola letteraria, e aspettandomi dalla letteratura ogni salvezza, essendo appunto vissuto come uno che ha sempre visto nella letteratura qualcosa di divino, tendo a responsabilizzare la parola letteraria al massimo grado, investendola di una sacralità, di una esattezza (in virtù di una discontinuità con l’inesattissima vita) e di una potenza che altro non sarebbero se non la sua stessa natura. Dunque io mi aspetto che la parola letteraria sia più adatta della parola comune a prendere per le corna il toro-vita, ma al tempo stesso ho il terrore che ci sia comunque un margine di inadeguatezza, come se la mia religione potesse tradirmi.

La scrittura come àncora di salvezza, come scoglio a cui aggrapparsi, per quanto potenzialmente viscido, quando il mare del presente è in tempesta. Al netto dell’abusata similitudine, leggendo le 87 88

Donati, R., Op. Cit. (2010), p. 218. Donati, R., Op. Cit. (2010), p. 219.

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opere di Mari si sente che l’esperienza letteraria dell’autore conta quanto l’esperienza di vita, anzi che l’esperienza letteraria è esperienza di vita, una “speciale realtà che è la tradizione letteraria stessa (lo scrittore come vampiro dei propri padri, cioè succhiatore di un sangue già mille volte succhiato)”89. Non a caso qualsiasi testo di Mari con elementi autobiografici è anche un racconto che parla di libri, di letture varie, di riferimenti culturali dell’epoca, come se il ricordo dovesse essere sempre accompagnato o filtrato da un equivalente letterario, e che senza quest’ultimo la memoria non possa radicarsi. Tornando all’esperienza di lettori, non c’è dubbio che Mari prefiguri un lettore ideale di livello alto, in grado di cogliere citazioni e riferimenti intertestuali di cui ogni sua pagina è intessuta (ma anche non fosse intenzione dell’autore rivolgersi esplicitamente a tale tipologia di lettore, sono i suoi testi a costruire inevitabilmente questa figura). Come spiega Franca Sinopoli, docente universitaria presso l’Università Sapienza di Roma: Questa memoria culturale solitamente prende le forme di una intertestualità esibita che coinvolge che coinvolge testi (generi) ed autori di una o più tradizioni letterarie e culturali, essendo il testo (per chi legge ma anche per chi 90

lo scrive) una realtà semiotica complessa e pluridimensionale .

Siamo in presenza di una narrazione sempre necessariamente pluristratificata, che però acquista una propria forza originaria indiscutibile: La tecnica della narrazione ipertestuale in Mari è poi, anche in questo caso, sempre al servizio di una forza trasformativa e al contempo di una “crudeltà

89

Mari, M., I demoni e la pasta sfoglia, Cavallo di ferro, Roma 2010, p. 369. Sinopoli, F., "Passages della critica e riuso della tradizione letteraria in Michele Mari" in Storia e memoria nelle riletture e riscritture letterarie, Bulzoni, Roma 2005, p. 125. 90

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letteraria” che metamorfizza interamente le sue fonti dotandole di una nuova vita e di una forma indipendente da quella in cui sono esistite nel passato91.

Questo argomento ci interessa da vicino, perché l’intertestualità può diventare un problema quando si parla di traduzione, come si è visto nel primo capitolo. C’è infatti una complessità a livello di resa espressiva e contenutistica: tradurre non solo il testo in quanto tale, ma il testo come citazione di un altro testo, in modo che la citazione venga colta in quanto citazione nella lingua o linguaggio di destinazione, sempre ammesso che il contesto culturale di arrivo conosca l’elemento originario di tutto, e lo conosca in quella specifica forma (ogni pratica traduttiva non può che essere anche una circostanziata indagine storiografica e filologica sulla storia delle specifiche traduzioni). Un esempio assai significativo è dato da un brano contenuto nel romanzo Tutto il ferro della torre Eiffel. La storia, molto articolata, racconta le vicende (non vere ma verosimili, nonostante il tono magico della narrazione) dello scrittore e critico letterario Walter Benjamin e dello storico Marc Bloch nella Parigi degli ultimi mesi del 1936, mentre sui cieli d’Europa iniziano a raccogliersi plumbee nubi di guerra. Mari mette in scena, in una relazione che non c’è mai stata ma sarebbe stato bello fosse reale (o almeno questa è la sensazione che rimane a lettura terminata), tutti i più noti intellettuali e artisti attivi in quel periodo, tra cui l’italiano Carlo Emilio Gadda. È evidente che la parte di racconto che lo riguarda non ha grande importanza ai fini dello sviluppo della trama, così come è anche evidente che Mari desiderava omaggiare uno dei più originali scrittori, dal punto di vista linguistico e non solo, del nostro Paese. La scrittura di Gadda è densa e ricca di immagini, ma anche carica di forti valori fonosimbolici, un gramelot di dialetti, arcaismi e linguaggi tecnici. Quanto di meno traducibile o imitabile esista. Il nostro autore fa agire e pensare il 91

Sinopoli, F., Op. Cit. (2005), p. 131.

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personaggio Gadda con la lingua di Gadda stesso, in una sorta di semisoggettiva, provando a riproporne lo stile, la terminologia e l’immaginario. Se ne propone un breve estratto: Nudo, lucente di umori, rimase alla vista un grumo palpitante, qualcosa che teneva simultaneamente di un cervello, di un fegato e di un bulbo oculare escerpato: non fosse per i filamenti che, correndo sulla sua superficie e intrecciandosi in gangli, gli davano sembianza di fascio neuro tendineo avvoltolato su se stesso, id est di gomitolo o gnòmmero in cui il caos virulento della vita sortiva plastica epifania: nonostante tutto neoclassica. Si voltò, il nerovestito non c’era più. Era solo. Con cosa, forse, sapeva… Considerò la sfera viscida, oscena, la vide pulsare… capì che, radicata al terreno come una trifola, anelava disperatamente a liberarsi da quell’argilla di sviluppando quanto ancora permaneva conflitto… capì che voleva nascere al mondo, tornare, nel mondo… tornare indietro da laggiù, da quell’altrove, e che il passo, negato, suscitava lo spasmo di quella lotta, il conato patetico e violento di cui era testimone come una levatrice impotente…92

A leggere queste righe c’è il rischio di etichettare Michele Mari come uno scrittore erudito e citazionista e poco più. Mai come in questa occasione invece si può affermare che il tutto è molto di più della somma delle singole parti, che la gestalt narrativa dell’autore passa per una potenza immaginifica che si concretizza in trame ricche e appassionanti come quelle dei romanzi d’avventura che fanno parte della sua formazione di lettore: i colpi di scena, i twist inaspettati nella storia, le sequenze surreali e oniriche, il romanticismo tenebroso, un gusto sottile per l’horror, il magico e il grottesco, e soprattutto la capacità (forse ereditaria?) di raccontare per sequenze di immagini, anche se con le parole. Tra le opere precedenti a Cento poesie d’amore a Ladyhawke, quella che per tematiche e approccio pare più vicina alla suddetta è la raccolta di racconti Tu, sanguinosa infanzia. In realtà tutte le opere di 92

Mari, M., Tutto il ferro della torre Eiffel, Einaudi, Torino 2002, p. 82.

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Mari, oltre a relazionarsi con la storia della letteratura, parlano tra di loro, intersecando e sovrapponendo riferimenti e ossessioni. Si è comunque deciso di sfruttare questa raccolta per introdurre alcuni temi che poi saranno ripresi e amplificati nel testo oggetto della nostra analisi. Tu, sanguinosa infanzia parla di infanzia e adolescenza. Si sarebbe tentati di supporre che le età raccontate siano quelle vissute dall’autore. E alcuni usi dei nomi propri nei singoli testi avvalorano questa ipotesi (il riferirsi al protagonista chiamandolo Michele o Michelino), anche se in nessuna parte del libro è presente un’esplicita dichiarazione di autobiografismo. L’autobiografismo di Mari infatti (presunto o reale che sia) racconta di eventi riconducibili a un passato concretamente vissuto, ma il passato in questione è somma di eventi che fanno perno su esperienze con libri, letteratura (intesa come storie ma anche autori) e più in genere oggetti culturali (canzoni, fumetti, giochi, ecc.). Questo meccanismo di rimando a elementi che trascendono l’esperienza del singolo e che sono bagaglio collettivo trasfigura il dato biografico in un insieme più ampio a cui tutti si sentono in qualche modo di appartenere. I rimandi intertestuali diventano quindi un potente generatore di empatia nel lettore, al punto in cui non è neanche importante sapere se il protagonista delle vicende è l’autore stesso, e se i fatti siano accaduti realmente, perché ciò che conta è il modo in cui è raccontata questa ossessione per gli oggetti culturali. Un’ossessione che il lettore percepisce come vera, o perché l’ha provata egli stesso in relazione ai medesimi oggetti, o perché la può ritrovare in forme equivalenti. Anche in questo caso sarebbe riduttivo limitarsi a parlare di contatto tra esperienze personali e oggetti culturali, perché a contare è la forma di questi contatti. C’è la dimensione fantastica e quasi magica, come nel racconto Otto scrittori, in cui il protagonista è a colloquio con quelli che ritiene gli otto più importanti scrittori del passato di romanzi a tema marinaresco, e deve decidere con estrema sofferenza qual è il più grande di tutti. E c’è la dimensione della

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memoria, dell’infanzia immaginata retroattivamente, come rimpianto e perdita inevitabile, recuperabile forse solo attraverso degli oggetti che possono sopravvivere al passato, allo scorrere del tempo: Il dato più evidente della sua produzione è infatti l’ossessivo ritorno di un’infanzia che cerca continuamente di ri-viversi – e di ridirsi – attraverso l’unica parola autorevole che conosce, quella mutuata dalla cultura. Che è un altro modo, riteniamo, di riattivare il passato, facendo cortocircuitare il vissuto dei defunti – non è un caso che sin da subito l’esperienza autoriale di Mari si ponga sotto il segno della morte – con il tempo dei vivi, o meglio gli echi di un passato solo apparentemente morto con le istanze di un presente solo apparentemente vivo93.

A tal proposito Mari, nel racconto L’uomo che uccise Liberty Valance, mette in bocca le seguenti parole al padre del protagonista, che appare in sogno al figlio: Vedi, Michele, non si è mai abbastanza morbosi, perché per quanto si viva del passato c’è sempre qualcosa di ineludibile, nel presente, che ci plagia e ci umilia. Distrazioni, pulsioni, scuse buone per scrollarsi di dosso un po’ di coperte, così quell’aria chiusa in cui consistevi riceve aria nuova, ciao consistenza, nuove scuole, nuove case, nuove luci e noi intanto abbiamo dato il culo a chiunque, a furia di darlo ci siamo persi… Ma basta che ci capiti in mano una nostra fotografia di quando avevamo sette o dieci anni per scioglierci di commozione come ulissidi che rivedan la patria, ecco chi sono gridiamo, quello lì sono, volevo ben dire, io sono sempre quello.

C’è un terzo elemento, dopo l’autobiografismo filtrato e trasfigurato dalla cultura e il peso della memoria, che si ritroverà nelle poesie, ed è il particolare universo di riferimenti culturali. Mentre nella produzione maggiore di Mari paiono assumere rilevanza soprattutto i rimandi a testi che potrebbero essere definiti alti, dotati di uno status consolidato nella storia della letteratura, in questi racconti a essere privilegiate 93

Donati, R., Op. Cit. (2010), pp. 215-216.

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sono le citazioni di natura popolare, più in linea, sia stilisticamente che contenutisticamente, con i temi che emergono dai singoli testi. D’altronde a essere raccontato è un mondo precedente alla scoperta della grande tradizione letteraria. Quindi non solo i classici dell’avventura per ragazzi, come Verne e Stevenson, ma la collana di romanzi di fantascienza Urania, i fumetti, da Dick Tracy a Cocco Bill, i giochi da tavola come il Monopoli e i puzzle, le canzoni degli alpini, il cinema di Orson Welles e quello più commerciale degli anni Settanta. Come si vedrà adesso, in Cento poesie d’amore a Ladyhawke le citazioni popolari si sposano a quelle più letterarie, riunendo in un unico insieme alto e basso, sacro e profano, elementi autobiografici e anelito d’universalità.

3.3 Cento poesie, ma una storia sola In confronto ad Asterios Polyp ci si trova in presenza di una situazione più complessa, perché estrapolare una linea narrativa da una raccolta di poesie potrebbe essere una missione ben difficile. Eppure, se in sede di scelta si è optato per questa opera è proprio perché Cento poesie d’amore a Ladyhawke è una raccolta atipica, che presenta una storia unica, con un sviluppo chiaro, benché opacizzato dalla scrittura in versi. E in fondo è la vocazione narrativa, e come essa si concretizza attraverso un determinato stile in un linguaggio, che guida la presente ricerca. Ci si può quasi spingere a definire la raccolta come un romanzo in versi. La trama è totalmente incentrata sulla storia sentimentale tra il narratore e la donna amata, storia riletta dal primo retrospettivamente, anche se sembra essere breve lo scarto temporale tra gli accadimenti e il trasferimento su carta delle riflessioni che generano. Bisogna anche aggiungere che le prime due poesie presentano una situazione priva di temporalità definita in cui il protagonista si strugge per un amore non 97


corrisposto, dando il via a un’analessi che giustifica e spiega lo struggimento e che occupa quasi l’intero testo, fino agli ultimi componimenti in cui c’è il ritorno all’iniziale presente atemporale. Una cornice che potrebbe essere stata quindi aggiunta a posteriori, o almeno a un posteriori posteriore al principale tempo della narrazione. La passione del protagonista nasce sui banchi di scuola del liceo, ma non trova espressione e rimane sopita. La riscoperta di questo sentimento avviene più di trent’anni dopo: basta un incontro fugace e il tempo, dopo decenni di silenzio e reciproca ignoranza, sembra tornare indietro, al momento della scintilla iniziale. Ne nasce una relazione segreta e clandestina, visto che entrambi i protagonisti hanno ormai figli e famiglia. Dalla lettura dei testi non si riesce a capire (ma è bello e giusto così) quanto questo rapporto sia concreto e quanto ideale, quanto cioè alle parole seguano i fatti. Ciò che è certo è che la relazione si basa su pochi e fugaci incontri, e sulle maledizioni che il protagonista lancia nei confronti del marito dell’amata e della sua vita familiare alla luce del sole. In realtà le maledizioni sono lanciate espressamente anche alla donna stessa, che ha ingabbiato l’uomo in un maleficio da cui non c’è via di fuga o, se via di fuga c’è, è straziante, qualunque sia la direzione. A un certo punto la donna decide di porre termine alla relazione, essendo incapace di gestirla emotivamente, nonostante l’uomo sia disposto a sopportare la clandestinità e le briciole di tempo a disposizione della strana coppia. L’ultima parte della narrazione si concentra sulle solitarie recriminazioni del protagonista, sulle accuse ai comportamenti passati della donna, e su un’amara riflessione sulla morte e sul fantasma di un sentimento inappagato che continua a vagare nel mondo. È un racconto autobiografico? E in che misura? Lo vedremo tra poco, cercando di rispondere alle domande che l’opera pone al lettore.

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3.4 Una poetica poetica Se nel capitolo precedente si era partiti analizzando l’oggetto libro, vista l’elaborata realizzazione con chiaro intento narrativo, nel presente pare più opportuno riflettere innanzitutto su come la poetica di Mari si manifesti attraverso Cento poesie d’amore a Ladyhawke, per poi valutare le scelte stilistiche ed espressive. 3.4.1 La poesia come crittografia del sentimento Conviene ripartire col quesito che si era posto poche righe fa. Come si sosteneva a proposito di Tu, sanguinosa infanzia, non è così importante sapere che i fatti narrati siano chiaramente ascrivibili alla biografia dell’autore. Certo è che da sempre, in Italia almeno dai siciliani alla corte di Federico II, la poesia viene considerata innanzitutto come espressione dell’animo del poeta, come racconto autobiografico trasfigurato. Nel presente caso il taglio narrativo dell’intera raccolta sposta, almeno in parte, l’accento sulla storia in sé, e sul narratore in quanto protagonista degli eventi più che sul narratore come riflesso del poeta reale. A mettere in crisi questa ipotesi interpretativa ci sono alcuni riferimenti espliciti al Mari persona fisica, come il proprio nome, palesato in relazione all’Arcangelo Michele (“L’Arcangelo Michele e San Francesco/non potranno mai essere amici/per questo sono fiero/di chiamarmi come mi chiamo”94 – fig. 73), o la propria attività di professore universitario (“Sei venuta a vedere per la prima volta/l’università dove insegno e dove ho studiato” – fig. 74). Il talento per il racconto di Mari (anche in una forma così breve e sintetica) permette però al lettore di dimenticare questi segnali e non dar loro particolare importanza. Il dato 94

Si è scelto di raccogliere i componimenti poetici nell’appendice insieme alle tavole a fumetti, invece di incorporarli integralmente nello studio, in conseguenza della loro natura visiva oltre che testuale: credo sia il modo migliore per mettere a confronto i due linguaggi, e valutarli secondo le medesime categorie.

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autobiografico è insomma una scontata constatazione preliminare più che una condizione che influenza o pregiudica la fruizione del testo. È poi così interessante sapere se il poeta ha vissuto realmente questa avventura di cui parla? E in che proporzione la racconta realmente? Non potrebbe essere semplicemente un’operazione di collage, in cui ha riunito spunti ed esperienze di una vita in un sistema testuale compatto e unitario? Il fascino di questa aleatorietà nell’interpretazione (che a nostro parere dovrebbe rimanere tale) viene in realtà meno, se si cercano dichiarazioni dell’autore, rilasciate nelle interviste seguite all’uscita del libro: Ho scritto un libro di poesie con un ritardo di trentatre anni rispetto alla nascita del sentimento di cui si racconta. La ragazza in questione non aveva mai sospettato di questa mia passione medievale... io l’ho adorata per trent’anni, quando poi ci siamo trovati a una cena di classe, trent’anni dopo, io ero cresciuto, non ero più astemio, impedito, avevo avuto donne, mogli, divorzi... Chiacchierando del più e del meno ho alluso al mio sentimento segreto e lei è cascata dalle nuvole. Dopo quella sera ci siamo scritti delle mail e io ho iniziato a un certo punto a caratterizzare questa specie di amore clandestino, usando il linguaggio della poesia per non entrare in conflitto con la sua vita reale, con il suo matrimonio. Non ho mai creato situazioni adulterine nei confronti del marito: mi consideravo il suo fidanzato in un altro mondo, il mondo dei sogni e della letteratura, lei pure, per cui a un certo punto i primi tempi aggiungevo delle poesie alle mail, poi solo poesie. Quando anche questo è finito perché lei non ce la faceva a sopportare neppure un rapporto del genere, ho messo insieme tutte le poesie e rileggendole ho notato che raccontavano una storia. Da una parte c’è un divorzio: la vita comune non è una vita sognata. Tuttavia, paradossalmente, questo libro di poesie è la mia opera più autobiografica, ecco perché resterà un unicum95.

Forse non si può proprio sfuggire all’autobiografia, quando si scrive poesia, e forse la poesia è la forma per eccellenza dell’autobiografia, quando essa sia rivolta all’interno più che all’esterno di noi stessi. Ci 95

Campofreda, O., “Intervista a Michele Mari”, in Scrittoriprecari.wordpress.com, 2013.

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si atterrà allora alla famosa massima “Perché rovinare una bella storia con la verità?”, attribuita a Woody Allen, limitandosi a valutare Cento poesie d’amore a Ladyhawke nella propria dimensione di testo indipendente e autonomo. In fondo lo stesso Mari afferma che “la letteratura è una re-invenzione della propria stessa vita su un canovaccio di confuse memorie. Certamente mi son divertito di più scrivendo la mia vita che vivendola”96. Da questa affermazione si riprende per cercare di dissezionare questa re-invenzione. La forza dirompente dell’esperienza amorosa ha bisogno di essere arginata, convogliata, indirizzata, e l’autore intraprende questa missione con gli strumenti che meglio conosce e che ha a disposizione. Gli strumenti sono indubbiamente il vastissimo bagaglio di cultura letteraria e popolare accumulato negli anni, che fornisce un termine di paragone alle proprie esperienze di vita, spiegandole. Come suggerisce Donati (che cita Mari che a sua volta cita la Gerusalemme liberata di Tasso): Il sapere letterario si configura come un esorcismo necessario e al contempo maledetto, perché non esime l’individuo dall’affrontare la discesa in quell’“arcano pozzo insondato” che è l’esperienza del tempo, un “abisso oscuro” di cui ha insieme timore e “vaghezza”97.

Si ritorni a quanto detto in precedenza: il rapporto con la tradizione letteraria non va visto come sfoggio di erudizione, ma come pezza d’appoggio, come arma (l’esattezza e la stabilità della parola) contro la sfuggevolezza del flusso della realtà. Non sarà la soluzione di tutti i mali, soprattutto perché agisce inevitabilmente a posteriori, a esperienza già vissuta, ma il lavoro di scrittura cristallizza il flusso, lo trasforma in parole tra le parole, e livella queste parole su un unico piano, un piano dominato totalmente dallo scrittore. Che sia un’autobiografia vera o immaginata resta la realtà delle sensazioni provate (realtà che il lettore percepisce come riflesso della propria 96 97

Donati, R., Op. Cit. (2010), p. 225. Donati, R., Op. Cit. (2010), p .229.

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esperienza personale), unita alla realtà dei rimandi intertestuali ad altre opere e oggetti culturali (realtà vera quanto la prima, nella poetica di Mari). Cento poesie d’amore a Ladyhawke propone una nuova sintesi degli estremi nell’opera di Mari, per quanto riguarda gli universi di riferimento: citazioni alte e basse, letterarie e popolari diventano equipollenti, un bacino unico a cui attingere per domare e trovare un senso al sentimento amoroso e alla vita. Una fusione che è conseguenza dell’integrazione nei componimenti tra età adulta e infanzia: da un punto di vista della narrazione ciò è dovuto all’amore che nasce durante l’adolescenza e viene covato negli anni, da un punto di vista tematico invece l’amore viene vissuto anche come una regressione alla purezza dell’infanzia, in cui i sentimenti non hanno bisogno di spiegazioni e giustificazioni, e non sono dipendenti da opportunismi o contingenze materiali. L’amore come gioco, quindi, tenendo però ben presente che per un bambino il gioco è qualcosa di tremendamente serio e reale. L’infanzia, passando attraverso l’adolescenza, confluisce nell’età adulta e porta con sé ricordi e memorie che possono ora essere reinterpretati in funzione di un’attuale e più consapevole maturità (“Così i bambini giocano/a non ridere per primi/guardandosi negli occhi/e alcuni sono così bravi/che diventano tristi/per la vita intera” – fig. 75). Le stesse fiabe, sicuramente conosciute da bambino, sono lette secondo una nuova chiave metaforica, in cui il narratore sostituisce se stesso e gli altri protagonisti della vicenda ai personaggi della favola originale, come quando diventa lupo incapace di buttare giù col proprio soffio la casa di mattoni costruita dal porcellino-marito della donna amata (“ma dei tre porcellini/tuo marito/doveva essere quello in salopette con la cazzuola” – fig. 76). Il parallelismo tra il narratore/protagonista e la figura del lupo necessita di essere approfondito, perché è una dominante dell’intero testo e si collega direttamente alla questione dei rimandi intertestuali.

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Bisogna fare quindi un salto indietro per valutare il primo elemento che la raccolta presenta di sé, e che era stato volontariamente tralasciato (fino a questo punto), cioè il titolo. Cento poesie è facile. Le poesie sono effettivamente cento, anzi verrebbe da considerarle novantanove più una, vista la natura molto diversa dell’ultima rispetto a tutti gli altri componimenti (ma questo aspetto sarà ripreso dopo). È il Ladyhawke che mette un po’ in difficoltà. Chi è la Ladyhawke a cui sono rivolte le poesie? È una persona reale, nonostante il nome esotico? Già il titolo interroga la conoscenza enciclopedica del (ancora potenziale, in questa fase) lettore. Non a caso Ladyhawke è il titolo di un film. Un film statunitense del 1985, diretto da Richard Donner e interpretato tra gli altri da Rutger Hauer e Michelle Pfeiffer. La pellicola, ambientata nell’Italia del dodicesimo secolo, racconta una specie di fiaba: il capitano di ventura Etienne Navarre e Isabelle D’Anjou sono innamorati, ma il loro amore è reso impossibile da un maleficio lanciato su di loro dal geloso vescovo di Aguillon. La maledizione consiste nel fatto che la donna viene trasformata di giorno in un falco, mentre l’uomo di notte diventa un lupo. I due non possono coesistere in forma umana, se non per un istante, quando le due trasformazioni hanno luogo, all’alba e al tramonto: “Sempre insieme, eternamente divisi. Finché il sole sorgerà e tramonterà. Finché ci saranno il giorno e la notte”98. La difficile vicenda di questi amanti diventa insomma analogia e metafora modellizzante dell’impossibile relazione clandestina intrattenuta dai protagonisti della raccolta di poesie (“ci piacque tanto che per un bel pezzo/ci siamo firmati Knightwolf e Ladyhawke” – fig. 77). La vera novità sul fronte citazionistico consiste nell’ampio utilizzo di fonti cinematografiche. Non c’è solo l’amore impossibile di Ladyhawke, ma a esempio l’Overlook Hotel di Shining mixato con uno dei classici dell’horror, il Non aprite quella porta diretto da Tobe 98

Citazione tratta dai dialoghi del film, sceneggiatura di Edward Khmara, Tom Mankiewicz, Michael Thomas e David Webb Peoples.

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Hooper nel 1974 (“Non aprite quella porta/non entrate nella stanza 237 dell’Overlook Hotel” – fig. 78), e il Psycho di Alfred Hitchcock (“e come Norman Bates/apro un motel” – fig. 79). Citazioni che attivano nel lettore il rimando a una dimensione inquietante e ossessiva, propria anche di un rapporto sentimentale che non può espletarsi alla luce del sole, ma che deve vivere nell’ombra e necessita di sfogarsi secondo altre vie piuttosto irregolari, quasi patologiche. C’è il cinema western (Shane, il cavaliere della valle solitaria e Wild Bill Hickok), e le atmosfere evocate da registi come Leone e Peckinpah (“pur di evitare un finale/alla John Ford/alla Sergio Leone/alla Sam Peckinpah/alla Clint Eastwood/numi amici” – fig. 80). Più in generale è presente un riferirsi a un immaginario composito, frutto della visione di decine e decine di film di genere (e non) che si sommano in una specie di unica metapellicola, che viene declinata di volta in volta, distillata in scene e scenari che fungono da ciniche allegorie dell’amore: “come in mille finali/di film che so a memoria” (fig. 81). Oltre all’universo cinematografico e al mondo dell’infanzia, permangono i solidi e onnipresenti legami con la tradizione letteraria, che fornisce paragoni e similitudini in abbondanza, in grado di puntellare l’esperienza di vita con solidi travi, definendola nel migliore modo possibile (il più esatto). Si nominano qui solo un paio di esempi, rimandando alla sezione successiva per la mappatura completa. Si è optato per due dei padri nobili della lingua italiana, Dante e Boccaccio. Il primo viene tirato in ballo con un rimando al canto XXXIII dell’Inferno, dedicato alla cerchia dei traditori, le cui anime sono già state trascinate negli inferi, sebbene i corpi siano ancora vivi e abitati ora da un demonio. Più che un rimando, “degli Alberighi/l’antico scelo” diventa tout court l’antonomasia del tradimento, destinato a ripetersi senza che ci si possa in qualche modo opporre (fig. 82). Per il secondo invece è messo in atto un paragone con una novella del Decameron, la settima del quarto giorno. La

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tragicomica vicenda degli innamorati Simona e Pasquino, uccisi da foglie di salvia avvelenate da un rospo, permette al poeta di costruire una relazione tra testo originario ed esperienza di vita in cui però i rapporti di forza tra le parti vengono modificati rispetto a quanto ci si aspetterebbe. Infatti i protagonisti non incarnano i ruoli di Simona e Pasquino, o perlomeno il narratore si attribuisce quello del rospo, minacciando di deteriorare la relazione tra la Simona reale e il marito, col veleno della propria frustrazione (“perché come il rospo di Simona e Pasquino/con il mio veleno renderei letali/i tuoi baci” – fig. 83). Si potrebbe continuare a estrapolare dai singoli componimenti la rete dei riferimenti ad altre opere, ma occorre ora fare un discorso più generale sull’effetto che ottiene Mari intessendo la raccolta di poesie di rimandi intertestuali. Se nei racconti e nei romanzi la maggiore ampiezza e strutturazione dei testi permette quasi sempre di fornire una giustificazione narrativa al lessico e alle citazioni utilizzati (soprattutto perché viene inevitabilmente fornita una cornice diegetica di significazione che spiega chiaramente cosa stia avvenendo e quali personaggi agiscano, come la storia richiede), nella forma breve, anzi brevissima del componimento poetico è spesso eliminato il passaggio logico che indica al lettore la presenza di una citazione. Una soluzione che fa quindi appello alle conoscenze personali proprie di chi fruisce le poesie. Alcuni riferimenti sono immediatamente individuabili anche dal lettore meno colto (anche se come già espresso in precedenza i testi di Mari prevedono sempre un lettore ideale dotato di una buona cultura di partenza), grazie alla presenza di nomi propri e cognomi di personaggi finzionali e di autori reali, o di corsivi e virgolettati, che attivano quella che potremmo definire una modalità di decodifica enciclopedica. Anche se non si è a conoscenza della fonte, si comprende che i versi creano un ponte verso un altro testo (spesso questo effetto è amplificato dall’uso di particelle grammaticali come come o così, che manifestano il paragone o la similitudine). Più interessanti però sono i casi in cui la citazione non è dichiarata, ed è

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lasciato tutto in mano alle conoscenze di chi legge. La comprensione del testo non è certo inficiata da questa scelta, ma l’autore decide di costruire un sottile gioco culturale e letterario con il destinatario, una sfida a riconoscere le fonti. Un esempio, abbastanza comodo da identificare in verità, è dato dalla poesia che richiama da un lato il componimento di Giovanni Pascoli, La cavalla storna, e dall’altro il film Un uomo chiamato cavallo di Elliot Silverstein (fig. 84), riuniti nello stesso campo metaforico di stampo equino. È come se Mari, giovandosi della corta distanza, costruisse le proprie poesie come giochi enigmistici, eliminando la giustificazione dei collegamenti interni tra le opere, nello specifico come delle crittografie mnemoniche. La crittografia mnemonica, un classico dell’enigmistica, è un gioco in cui bisogna risalire a una frase risolutiva partendo da un enunciato esposto. Mentre però nel gioco verbale la frase risolutiva si caratterizza per un doppio senso (di cui uno attinente all’enunciato esposto, e l’altro avulso da esso), nei componimenti del poeta a essere dotati di doppio senso sono gli enunciati esposti: uno legato alla poesia in quanto tale, l’altro al riferimento intertestuale a cui rimanda. La frase risolutiva, se possiamo chiamarla così, mantiene invece il proprio duplice significato, solo che i significati sono il riconoscimento della citazione da una parte, e la profonda comprensione delle ragioni della poesia, dall’altra. Giunti alla fine della lettura della raccolta si ha però una duplice sensazione, perché si può esultare (o ritenersi comunque bravi) per essere riusciti a risolvere alcuni di questi enigmi, ma si ha sempre anche l’impressione che qualcosa sfugga, una parola, un sintagma, o un’intera frase, e che l’autore ci abbia messo sotto scacco, riuscendo a inserire un qualche riferimento che solo egli stesso può (ri)conoscere. Questa impressione è accresciuta dalla lingua colta e ricercata utilizzata da Mari, che sembra sempre provenire, anche nella sua declinazione più originale, da qualche brano del passato. Non pensiamo che questa scelta estetica e narrativa sia da imputare esclusivamente a una pulsione ludica

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dell’autore, quanto soprattutto a un uso della parola che, come garantisce l’esattezza, così cela e devia il suo potere definitorio dietro una cortina che può essere oltrepassata solo da chi è dotato di un sapere iniziatico che lo mette in condizione di comprendere davvero. La parola racconta, spiega, definisce, ma al contempo protegge la delicatezza dei sentimenti (anche quando siano brutali, ma comunque deboli perché esposti), e questo è il senso del titolo che si è scelto per il paragrafo. 3.4.2 Epigrammatica schizofrenia Sono ancora numerosi gli aspetti di Cento poesie d’amore a Ladyhawke da trattare, e più d’uno investe sia il piano dell’espressione che il piano del contenuto (come è inevitabile quando si parla di poesia). Si cercherà quindi di procedere in un percorso che da questioni di natura tematica si sposta progressivamente verso la dimensione estetica (ferma restando l’interdipendenza dei due insiemi). Come si potrebbero definire le poesie di Michele Mari? L’aggettivo più calzante pare epigrammatiche. L’epigramma nasce in epoca classica come iscrizione poetica encomiastica o commemorativa, spesso associata a celebrazioni funebri, per poi assumere, nell’età imperiale romana, anche una valenza satirica. Oggigiorno il termine ha acquisito un senso più generico, e rimanda a componimenti brevi di carattere poetico, dotati soprattutto di grande icasticità, di evidente forza espressiva. È stato spesso usato dai più importanti poeti e intellettuali italiani come arma satirica nei confronti dei propri rivali, e Mari sembra volersi inscrivere in questa tradizione, per quanto con un cambiamento di funzione e destinatario. I testi che compongono Cento poesie d’amore a Ladyhawke raramente superano i dieci versi, e mantengono una feroce carica satirica che si scatena però contro la donna amata e contro il poeta stesso. Satira che è naturale

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conseguenza dell’esasperazione, del sarcasmo che prende piede quando il romanticismo purtroppo è sconfitto dai fatti, dalle contingenze che rendono l’amore impossibile (fig. 85). Non è però una resa incondizionata all’arida realtà della situazione, sebbene le condizioni sfavorevoli siano dettate già in partenza, anzi, il romanticismo si nutre anche della propria idealità che va a scontrarsi proprio con la realtà. La scrittura si fa anche più asciutta, dall’epigramma passa all’aforisma, al motto sentenzioso che non abbisogna neppure di commenti o parafrasi: “Come un serial killer/faccio pagare alle altre donne/la colpa/di non essere te” (fig. 86). La chiusura non è però sempre secca o definitiva, anzi lascia spesso spazio al dubbio, alla soluzione aperta o sospesa. Un dubbio venato dell’autoironia di chi vive e analizza le cose in uno stato di iperconsapevolezza: “E adesso che te ne sei accorta/non so se la mia vita/sarà rubricata come cosa patetica/o come cosa eroica” (fig.87). L’euforia si alterna alla disperazione, l’amore all’odio, la benedizione del sentimento finalmente manifestato diventa maledizione, e questa costante dissociazione schizofrenica (ben comprensibile) permea e dà forma a tutta la raccolta. La poesia di Mari è una poesia di contrappunti, di dualismi complementari. L’abbiamo sottointeso a proposito del discorso sui rimandi intertestuali letterari vs popolari, ma va verificato ora come questo approccio si estenda alle restanti componenti espressive dell’opera. Per restare sull’aspetto linguistico (cioè del dizionario che l’autore sceglie di consultare e mettere in pratica, la propria personale parole letteraria, secondo la terminologia saussuriana99), non vi è un ricorso esclusivo a una lingua colta, distillata dalla tradizione, come l’analisi fin qui condotta potrebbe far pensare, anzi Mari alterna l’uso di 99

Si è scelta questa definizione nonostante la teorizzazione di de Saussure faccia riferimento al discorso orale, perché mi sembra metaforizzi al meglio l’atto linguistico individuale e perciò unico. Si veda de Saussure, F., Cours de linguistique générale, a cura di Bally, C., Riedlinger, A., Sechehaye, A., Payot, Losanna-Parigi 1916; (tr. it., de Saussure, F., Corso di linguistica generale, a cura di De Mauro, T., Laterza, Roma-Bari 1967).

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termini aulici a parole della lingua di uso comune, colloquiale (spingendosi talora verso una voluta crudezza e volgarità). Non è neanche una vera e propria alternanza, quanto un bilanciamento, un modo per riportarci (e riportare il poeta stesso) sulla terra dopo che il discorso ci ha proiettato in un ideale empireo amoroso. La dura realtà si affaccia nella poesia e la smonta dall’interno. Oppure si potrebbe affermare che l’unica parola in grado di rendere la frustrazione di un sentimento sospeso, la parola esatta, è una parola scabra, ruvida, priva di ogni forma di abbellimento: “Adesso spero che avrai il pudore/di ritirarti per sempre/da questo agone/che come un cane ho recintato/con quattro pisciatine/essenziali” (fig. 88). Senza spingersi sempre a questi eccessi, la parola colloquiale è parola della quotidianità, del tempo normale della vita, del flusso della realtà che si combatte e da cui si cerca di fuggire per costruire qualcosa che rimanga, nonostante le problematiche della clandestinità: “ma a te/è sembrato troppo distrarre alla tua vita/due mezzorette al mese” (fig. 89). Il dualismo tematico per eccellenza però riguarda la natura dialogica di Cento poesie d’amore a Ladyhawke. La Ladyhawke della raccolta non è evocata infatti solo nel titolo, ma è l’esplicito destinatario di tutti i componimenti. Anzi, i componimenti sono la forma del dialogo che ha luogo tra il poeta e la donna amata. Un dialogo costantemente negato, assente, senza le risposte dell’altra parte in causa. Un dialogo che si tiene successivamente rispetto ai fatti raccontati e avviene solo nella mente dell’autore/narratore. Un dialogo impossibile come impossibile era la relazione tra l’uomo e la donna. Una forma di racconto che è metafora del contenuto della narrazione stessa: “L’abitudine di pensarmi/osservato da te/mi ha reso personaggio//Per questo/nonostante la tua aureola/interloquisco bellamente con te/da icona a icona” (e come non vedere questo conflitto tra le parti riunito nelle parole aureola e icona, così semanticamente connotate: la prima che racchiude il senso di donna

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angelicata da una parte, e poeta che ha perso la sua aura dall’altra, come espresso da Baudelaire ne I fiori del male, la seconda come immagine semplice e come immagine sacra – fig. 90). A dire il vero anche Ladyhawke parla, e lo fa attraverso la memoria del narratore che ne riporta le battute, quelle più fulminanti, che lo mettono in crisi e che lo fanno riflettere, generando a propria volta altri pezzi di dialogo: “Ti cercherò sempre/sperando di non trovarti mai/mi hai detto all’ultimo congedo//Non ti cercherò mai/sperando di trovarti/ti ho risposto” (fig. 91). La narrazione si apre come un soliloquio, per trasformarsi in un dialogo (per quanto altrettanto solitario) quando è introdotta l’analessi che presenta Ladyhawke e il sentimento che il narratore prova per essa, e ridiventa alla fine, dopo la separazione definitiva della coppia, nuovamente soliloquio, venato di sfumature necrologiche (cosa ne sarà di tutto quell’amore quando uno dei due soggetti verrà meno?). Prima di passare all’opacità più evidente, quella che si manifesta sulla pagina alla prima lettura, o già al primo sguardo, e al di là di dualismi e contrappunti (che investono in pieno anche il piano strettamente espressivo, come si constaterà a breve), rimane da approfondire l’aspetto visivo della scrittura di Mari. Lo si era accennato presentando l’autore e la sua poetica, ma si vuole ora vedere (la scelta lessicale non potrebbe essere meno casuale) come questa scrittura per immagini prenda vita nelle poesie. Si deve innanzitutto ribadire come questa scrittura sia probabilmente debitrice del contesto familiare da una parte e di un’educazione visiva fondata sul fumetto e su un ricco immaginario cinematografico dall’altra. Un ambiente culturale, unito a un indiscutibile talento personale, che ha dotato Mari di una grande capacità di raffigurare le astrazioni, e di costruire la narrazione attraverso sequenze di immagini, quasi come si fosse in presenza di inquadrature di tipo filmico. In Cento poesie d’amore a Ladyhawke questa abilità è messa frutto donando in poche righe, nonostante l’asciuttezza del testo poetico, una resa visuale alle

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metafore che esprimono i sentimenti del narratore: “Nella mia testa/c’è sempre stata una stanza vuota per te/quante volte ci ho portato dei fiori/quante volte l’ho difesa dai mostri” (fig. 92). Similitudini e paragoni danno concretezza fisica a loci ideali, trasformandoli in loci tridimensionali, in cui c’è anche lo spazio (e il tempo) perché si compia un’azione: “Un posto nel tuo cuore/non lo voglio/perché quando farai l’amore/laggiù io sarei il clandestino/sballottato dalla tempesta/nella stiva” (fig. 93). Una capacità che si spinge addirittura a creare in poche frasi dei cortometraggi che si sviluppano e risolvono nel giro di una scena: “Di fronte a me c’è il tipo/che ti vinse al poker/su qualche battello del Mississippi/ed ogni mano è servito/servito/servito/ma ogni mano/io ho sempre il punto del morto/e sempre devo andare a vederlo/vederlo/vederlo/ed ogni mano/vedo che non bluffa/perché le carte/le fai sempre tu” (fig. 94). Nel caso specifico ci rendiamo conto di come è messa in atto la già citata iconografia delle pellicole western, che partendo da un immaginario popolare condiviso, diventa spunto per metaforizzare la crudeltà della donna amata. Si è insomma in presenza di due movimenti contrapposti (ancora una volta, pur senza averli esplicitamente cercati, i contrappunti): uno che dall’idea astratta si concretizza in situazioni reali e agibili, l’altro che parte dal racconto di una scena apparentemente slegata dal dato reale (sebbene il western sia uno dei campi semantici più sfruttato per raccontare la storia d’amore) per astrarsi poi verso una dimensione puramente emotiva. 3.4.3 Ritmi e contrappunti visivi Parafrasando le parole di Eco, citate nel primo capitolo, in poesia i concetti dipendono dalle parole scelte per esprimerli, e ciò rende questo linguaggio così difficilmente traducibile. Nonostante tutto quello che si è detto finora riguardo l’opera di Mari, è anche vero che

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in apparenza la sua scrittura poetica risulta abbastanza facile: non siamo in presenza di rime o assonanze evidenti, e la struttura metrica dei versi non sembra sottostare a qualche schema rigido e costante. Le caratteristiche del suo stile si esplicitano su un piano diverso, che è prima di tutto visivo. Già a un primo impatto si nota che in numerose poesie versi lunghi si alternano a versi molti brevi (composti da una o al massimo due parole) che isolano un verbo o un sostantivo, obbligando il lettore a soffermarsi su di essi e valutarli in tutta la loro potenza significativa: “che resta ormai di me/sputnik/che ha esaurito i suoi messaggi/per il pianeta Terra?” (fig. 95). Questo ricorso a verbi e sostantivi, ma anche a particelle pronominali, in posizione isolata e di rilievo sembra voler in qualche modo replicare su carta il ritmo di una conversazione parlata, anche se sappiamo di essere alle prese con il dialogo impossibile del poeta con l’amata. Il ritmo della versificazione cerca di recuperare il respiro della parola, e soprattutto le pause della comunicazione orale. Può sembrare un assunto paradossale, visto che si sta trattando l’opera di uno scrittore letterario come Mari, ma la dimensione colloquiale/orale si sposa a quella dominata da un lessico scelto e dalle citazioni. Non a caso sono predominanti i periodi brevi, con un’ipotassi limitata (le subordinate sono in gran parte relative, causali e consecutive, di primo grado), collegati per semplice giustapposizione, in un flusso di immagini e pensieri: “Il tuo silenzio/dici/è pieno di me//Così so/come si sentono i morti/pensati dai vivi” (fig. 96). E come nella comunicazione a voce, nella poesia di Mari è totalmente assente la punteggiatura: in tutta la raccolta si sono contate due virgole (di cui una è parte di una citazione), una volta i tre punti di sospensione, un terzetto di due punti esplicativi, e soprattutto quattro punti di domanda (che però ben si confanno al carattere dialogico della narrazione, per quanto siano quesiti destinati a cadere nel vuoto, a non ricevere risposta). La punteggiatura è quindi affidata al metro totalmente libero dei versi, e alla scelta di troncare questi ultimi

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laddove interviene la naturale pausa della respirazione, o dove si vuole fare terminare anche momentaneamente il concetto. Una naturale conseguenza a esempio è la totale assenza di una delle figure canoniche della poesia come l’enjambment. Una delle poche composizioni a negare questo corollario propone in effetti una sorta di legame che si trasmette di riga in riga, ma a prevalere è l’icasticità di ciascun singolo verso, che spezza continuamente la lettura, portando il fruitore a interrompere il processo (e a prendere fiato?) per soffermarsi sulle immagini evocate: “Nessuno dei nostri compagni/ha mai sospettato di niente/né allora/né nei decenni scanditi/dalle cene di una classe fantasma/perché nessuno più di me conobbe/l’esosa arte di celare/perfino il proprio suicidio” (fig. 97). Il ritmo del verso è garantito anche dalle scelte lessicali che, oltre a dipendere da precisi intenti referenziali (come approfondito in precedenza), pongono l’accento sulla sonorità, sul valore fonosimbolico della lingua. Non è una costante, ma uno stratagemma che talora Mari adotta per sottolineare determinati passaggi e dare risalto ad alcune parole che sono spie forti dei sentimenti che il narratore prova: “ma prendi il suo sorriso più bello/e assottiglialo fino a ridurlo ad un filo/e con quel filo/strozza le tue domande” (fig. 98). In questo caso si vede come il flusso allitterante di consonanti liquide e fricative viene spezzato drasticamente dal verbo all’imperativo che attira su di sé tutta l’attenzione. Un contrappunto sonoro che amplifica il contrappunto tematico interno al componimento. La stessa tattica contrappuntistica (che fonde insieme i piani del contenuto e dell’espressione) sfrutta a esempio anche i termini onomatopeici, il cui valore fonosimbolico è autoevidente: “e allora in un punto è stato chiaro/che solo al muto/il battito del cuore/è rimbombante” (fig. 99). L’altro aspetto visivo dominante della poesia di Mari, oltre all’alternanza di versi lunghi e brevi, è dato dall’impaginazione dei testi. Non tutti i versi infatti, dopo l’essere andati a capo, sono seguiti da un verso con lo stesso identico allineamento con bandiera a

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sinistra. Ciò non avviene casualmente, è ovvio, ma gioca sull’aspetto grafico del componimento per estetizzare in maniera prevalente due strategie narrative, oltre a quella del contrappunto: l’inciso e la climax. Il primo è reso visivamente da un allineamento non uniforme che scala in blocco verso destra il gruppo di versi che fa riferimento all’inserto che contiene le parole del narratore, che per una volta non sono esclusivamente indirizzate alla donna amata, ma sembrano rivolgersi anche a un lettore terzo, prevenendo le sue perplessità o fornendo ulteriori spiegazioni rispetto alla linea principale del monologo/dialogo (fig. 100). La seconda agisce come l’inciso ma, invece di mantenere costante l’allineamento di tutto il blocco di testo interessato dalla figura retorica, continua a spostare verso destra l’inizio del verso, creando appunto, riga dopo riga, un’immagine che richiama i gradini di una scala. Sebbene il significato del testo sia già concettualmente investito dalla figura retorica, è questa scelta visiva a segnalarlo in maniera chiara e ad accrescerne l’effetto. Il meccanismo può avere valore ascendente, di intensificazione (fig. 78), o discendente, nel qual caso siamo in presenza di una anticlimax, caratterizzata dall’affievolimento della voce del poeta (fig. 94). Mari si diverte inoltre a combinare i due effetti, dando spazio a una parola che sembra perdersi in dettagli via via più minuziosi ma forse anche superflui, come se la climax coincidesse con l’anticlimax, e la voce con l’afasia, trasformandosi in silente e fuggevole visione (fig. 101).

3.5 Verso per verso Si è cercato nel corso del capito di rendere conto delle caratteristiche più evidenti e costanti di Cento poesie d’amore a Ladyhawke, esemplificandole attraverso i singoli testi. Si vuole ora effettuare una ricognizione sui componimenti che sono rimasti fino a qui esclusi dall’analisi, ma che assumono ruoli e significati particolari 114


(senza la pretesa di poter esaurire il corpus di rimandi intertestuali attivati dall’autore, ma anzi con la speranza di poter essere una base di partenza per successivi e più approfonditi studi). Mentre con Asterios Polyp si è dedicato un intero paragrafo all’analisi del libro come oggetto, in quanto portatore di un design fortemente narrativo, nel caso in esame il testo, parte della celebre collana di Giulio Einaudi Editore dedicata alla poesia, non presenta particolarità proprie e individuali. Una cosa però va fatta notare: come in ogni volume della collana, in copertina è trascritto uno dei componimenti parte della raccolta. Così come il titolo dell’opera di Mari stimola la conoscenza enciclopedica del potenziale lettore, lo fa anche la poesia riportata, sebbene su un piano diverso. La poesia in questione è la penultima, la novantanovesima: “Verrà la morte e avrà i miei occhi/ma dentro/ci troverà i tuoi” (fig. 102). Il componimento non è altro che la rilettura del primo verso di una celebre poesia di Cesare Pavese (che dà anche il titolo all’intera raccolta composta tra il marzo e l’aprile del 1950): “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”100. Interessante però come la reinterpretazione di Mari cambi radicalmente il senso dell’assunto: se nella versione di Pavese il legame tra la donna amata e la futura, ma già presente, morte mantiene separati i due amanti (nonostante la polisemia dell’aggettivo possessivo tuoi, possiamo leggerla come un tardivo e ultimo confronto con sé stessi e/o con il proprio passato sentimentale), in quella di Mari l’aggiunta degli occhi che contengono gli occhi della persona amata suggerisce la presenza di una relazione non risolta, sospesa, dove l’amore si unisce a un sentimento di vendetta e di rivalsa (come se ci fosse ancora qualcosa che necessita di essere dimostrato). La citazione rimanda non solo all’opera di Pavese ma anche a un brano del racconto Laggiù, dello stesso Mari, contenuto in Tu, sanguinosa infanzia, che sembra spiegare l’origine e l’importanza autobiografica di questa scelta: 100

Pavese, C., Le poesie, Einaudi Editore, Torino 1998, p. 136.

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Io, alle scuole medie, andavo spesso nella biblioteca scolastica a prendere a prestito dei libri. Un giorno il bibliotecario si sbagliò, e invece della Scoperta di Troia di Heinrich Schliemann mi diede un librino intitolato Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Non esiste cifra al mondo che potrebbe mai risarcirmi di quell'errore.

La prima poesia della raccolta (fig. 103) presenta già alcune specificità da evidenziare: c’è il passaggio libero e continuo da discorso diretto a indiretto e viceversa, in cui è subito messo alla prova anche il talento di Mari di evocare immagini, ma soprattutto c’è in posizione di rilievo un endecasillabo sciolto, che contiene anche la più classica delle figure etimologiche: “che non suscitò in chi amava l’amore”. Nel componimento immediatamente successivo (fig. 92), di cui si è parlato in precedenza proprio a proposito della capacità di visualizzare le metafore, vi è una delle figure retoriche più utilizzate dall’autore nel corso dell’opera, cioè l’anafora (sia di singoli vocaboli che di strutture sintagmatiche): “quante volte ci ho portato dei fiori/quante volte l’ho difesa dai mostri”. In una raccolta in cui la tecnica poetica della tradizione è tenuta sotto controllo, questo strumento linguistico è quello che meglio attribuisce alla lingua scritta una sfumatura d’oralità. Inizia a questo punto l’analessi che riporta nel passato del narratore, al suo primo incontro con la donna amata (fig. 104). Vediamo all’opera il contrappunto tra versi lunghi e versi brevi (anzi brevissimi, bisillabici), che creano una climax fino all’esplosione finale con l’ammissione piena e totale dei propri sentimenti (una sorta di countdown emozionale). Mari non ha mai paura di usare un verbo inflazionato come amare, che rimane comunque il più esatto e chiaro, proprio tanto di una dimensione colloquiale quanto di una più aulica. Anche in questa poesia a spiccare è un endecasillabo, che si staglia sulla lingua piana che lo circonda grazie a una scelta terminologica 116


più ricercata ma comunque potentemente visiva: “perché si lambiccasse il maleficio”. La rievocazione del comune passato scolastico è generatrice di immagini e metafore, e Mari attua quella che prima abbiamo definito crittografia mmemonica: il riferimento a La classe morta (fig. 105), la più famosa pièce teatrale di Tadeusz Kantor, necessita di essere compreso per attivare il paragone tra la gioventù del poeta e l’età adulta (nell’opera di Kantor gli attori adulti fronteggiano in un’aula scolastica i propri giovani alter ego, rappresentati da manichini), spazi temporali uniti in una dimensione che va oltre il tempo stesso, in un eterno loop di rimembranza del primo grande amore. Un girare a vuoto a cui il protagonista è stato condannato dalla propria amata giusto prima di effettuare il classico passaggio/rito d’iniziazione ed entrare nel mondo degli adulti (il maleficio, di cui sopra, che gli impedisce di lasciarsi alle spalle il passato). Il tutto reso da un’asciutta e splendida metonimia: “un attimo prima che l’ultima campanella/ci mandasse nel mondo”. Crittografia più sottile, perché non segnalata apertamente, è quella della poesia immediatamente successiva (fig. 106). Anzi, si potrebbe non sapere mai se di rimando intertestuale si tratti o di libera scelta di parole. Il “Tu non ricordi” iniziale coincide infatti con l’incipit de La casa dei doganieri di Eugenio Montale. Si è detto anche che l’autore non sfrutta un metro uniforme o costante per i singoli versi, però si presenta qui l’occasione in cui ricorre prevalentemente al settenario e all’endecasillabo, recuperando la tradizione della poesia italiana: “così lontano che non sembra stato/ci siamo dondolati/su un’altalena sola//che non finisse mai quel dondolio/fu l’unica preghiera in senso stretto/che in tutta la mia vita/io abbia levato al cielo”. L’endecasillabo ritorna poi in numerosi componimenti, non come costante ma come soluzione occasionale (e ovviamente ricercata), quasi fosse un esito naturale e ineludibile per la sonorità della lingua italiana. Resta il fatto che i versi così costruiti acquisiscono

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un’immediata rilevanza al momento della lettura, e brillano per pienezza e tono. L’uso delle citazioni si sposa ed è vincolato inoltre al ritmo verbale del procedimento poetico (fig. 107). La citazione, benché non identificata dal relatore di questo studio (sebbene rimandi a un contesto sicuramente britannico, come fosse un estratto di un racconto di Arthur Conan Doyle, anche se forse l’uso di virgolette, che la rende manifesta, potrebbe essere perfino un gioco per attribuire l’aura della citazione a un’ideazione originale dell’autore), coincide con l’ultimo verso, e con il proprio ritmo piano e musicale bilancia quelli che la precedono, costruiti con accenti forti e anticipati (sulla seconda o terza sillaba) e ricchi di consonanti occlusive e fricative. Vi è anche il ricorso a un lessico tecnico, che cozza con il tradizionale parlar d’amore e genera ardite metafore, che provocano un inevitabile effetto comico, come quando i bambini cercano di fare gli adulti utilizzando un vocabolario da adulti, ma sconfinano inesorabilmente nell’iperbole: “il mio amore è un trapano tremendo/con punte/al tungsteno/al molibdeno/al vanadio” (fig. 108). Mari stesso smonta la propria iperbole nel paragrafo successivo, palesando la perdita del pezzo necessario a far funzionare il trapano. L’uso della parola “mandrino” è la chiave, e rientra sempre nella strategia testuale che l’autore intesse con il lettore: il termine è tecnico, specifico, e di sicuro non di uso comune, e richiede probabilmente al destinatario un passo ulteriore (la consultazione del vocabolario) per la decodifica e la comprensione del senso della poesia. Non solo Dante e Boccaccio, tra i padri nobili del volgare italiano, ma anche la poesia di Guido Cavalcanti viene parafrasata e fatta cortocircuitare con il progresso scientifico del Novecento (sebbene sia un progresso un po’ retrò, incompiuto e farraginoso – fig. 95). Le comunicazioni elettromagnetiche potrebbero essere l’equivalente

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moderno di sospiri e spiritelli di stilnovistica memoria101, ma che importanza può ciò avere se il narratore si identifica con il rottame di un satellite ormai alla deriva nello spazio, impossibilitato a comunicare alcunché? Un altro argomento ricorrente di Cento poesie d’amore a Ladyhawke, finora solo lambito, è quello della morte, che è una dimensione topica e narrativa con cui Mari flirta da sempre, in tutte le proprie opere. Nella raccolta che stiamo analizzando, la morte è un risvolto grottesco, una soluzione che non risolve nulla ma condanna a una sospensione eterna di sentimenti e status quo, crea fantasmi costretti ad agitarsi pateticamente sulla terra in mezzo ai vivi. È forse la dimensione che più di tutte può rendere il passaggio (l’inversione?) brutale tra poeticità e prosasticità. Per l’essere umano la morte è sempre qualcosa di scandaloso, che si pone oltre l’orizzonte degli eventi possibili, un’idea astratta (eventualmente romantica) che però la realtà dei fatti incarna in un modo quasi inaccettabile: “Così sognarti/è sempre stato guardare da lontano/due fuochi fatui/in un cimitero celtico//Così la tua immagine/è l’ultima che vede di notte il guidatore/prima del frontale” (fig. 109). Anche la narrazione è resa evidente come processo, e diventa tema: grazie all’immagine degli occhi della donna amata (topos poetico ben presente in più poesie), il narratore diventa personaggio, si sdoppia e si osserva dall’esterno, e questo movimento finisce per condurre a un piano di esistenza che va oltre la stretta diegesi, in cui lo sguardo del poeta cerca di sovrapporsi a quello della sua Ladyhawke (fig. 110). Il topos degli occhi può però essere ribaltato, inserendolo in un contesto non idealizzato ma estremamente pragmatico, di nera pulsione sotterranea, di erotismo patologico (si può giocare anche con la tradizione, risemantizzandola): “toglietemi lei/e cercherò la luce dei suoi occhi/nel cupo sempre uguale/di mille vagine” (fig. 111). 101

Mari fa riferimento alla lirica Io non pensava che lo cor giammai delle Rime di Cavalcanti, riprendendo, oltre ai termini indicati anche l’idea di sbigottimento.

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Un filone trasversale, che interessa più testi e si sposa a diversi immaginari, è anche quello del poker: investe l’adolescenza del narratore/protagonista, già pratico del gioco di carte (“Già al liceo/pelavo a poker i nostri compagnucci” ) e della sua terminologia specifica (“di chi non distingueva/un cip da una parole” – fig. 112), e si arricchisce grazie ai film di genere western (come già visto nella poesia che inizia raccontando la storia di Wild Bill Hickok – fig. 94), ma è prima di tutto anch’esso una sorta di metafora modellizzante dell’intera narrazione. Il gioco d’azzardo diventa rappresentazione ideale (semanticamente già molto connotata) di una relazione clandestina: il narratore gioca le proprie carte, mano dopo mano, contro il marito dell’amata, contro il destino, e insiste fino a dilapidare ogni bene, nonostante la distribuzione sfavorevole delle carte sia dettata, paradossalmente o forse no, proprio dalla donna oggetto di desiderio. L’ultima mano addirittura si gioca in assenza del protagonista, e l’esito è scontato (fig. 113). L’infanzia è recuperata a esempio attraverso le formule ripetutamente ascoltate a messa (“Ma di’ soltanto una parola e l’anima mia sarà salvata” – fig. 114), che, secondo la logica giocosa e il pensiero magico del bambino, possono essere dissacrate e poi riconsacrate in chiave del tutto personale. Il passaggio da infanzia a età adulta fa perno, e non può essere altrimenti per un poeta, sull’evoluzione del ruolo delle parole: dalla parola esotica “asparago”, che si esaurisce nel suo particolare valore fonetico, alla parola “sì” che assume un senso solo se legata a un dato contesto. Dalla pura forma al puro significato: si è alle prese con una metafora del valore della scrittura poetica, che si destreggia tra piano dell’espressione e piano del contenuto. In questo, come in molti altri componimenti, sono presenti più hapax (sia di livello aulico – effato – che popolare – asparago appunto): ci si potrebbe spingere a dire che la poesia di Mari è una poesia di hapax, costellata di parole che acquisiscono valore nell’unicità (e particolarità) della loro apparizione.

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L’autore dichiara la propria missione poetica, o almeno sembra farlo (“la profilassi guidava la mia mano/perché ogni senso/fosse soltanto negli spazi bianchi” – fig. 99), attribuendo un valore speciale (IL valore) a tutto ciò che va oltre le parole in quanto tali, all’universo alluso, evocato ma non mostrato, e fisicamente rappresentato dallo spazio bianco, quello che separa termini, sintagmi e versi: irrompe e viene ribadita la dimensione concreta del testo, ugualmente significata dai pieni e dai vuoti, e insieme a essa la battaglia quotidiana del poeta. Per quanto in una poesia lo spazio bianco sembri dominante e avvolgente, è comunque poco; e le parole, scarne, asciutte e ridotte a un presunto essenziale, rischiano al contrario di dire sempre troppo: “e nondimeno mi sentivo osceno/come se la più ermetica allusione/grondasse la bava del questuante” (nel primo verso citato si ha, per altro, un raro esempio di rima interna). Quando la realtà irrompe nell’immaginazione inevitabilmente la corrompe, la riduce, ne tarpa le potenzialità digressive. La realtà è una, mentre le fantasie sono in continua mutazione ed evoluzione (fig. 115). La realtà, per certi versi, complica la scrittura poetica, la costringe a confrontarsi con un romanzo scadente. La libertà fantastica, immaginativa, si pone agli antipodi di un approccio che l’autore definisce manzoniano, così legato al riferimento storico concreto: “Così il solipsismo si fa impuro/ed il romanzo uggioso/onta suprema/per chi da sempre nei romanzi aborre/il manzoniano vero”. L’aspetto grafico è accentuato anche dallo sporadico uso di vocaboli resi con lo stampatello maiuscolo, che sottolineano visivamente il peso di una parola. Un’accentuazione che può passare esclusivamente dal piano dell’espressione (fig. 116). Lo si è già visto, anche se non esplicitato, a proposito del binomio ASPARAGO/SÌ, mentre in questo caso lo stampatello maiuscolo si sposa alla ripetizione costruita in forma sempre/SEMPRE la mettevi”.

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La difficoltà nell’analizzare la poesia di Mari (e forse uno dei motivi per cui in rapporto alla mole e alla lunga cronologia delle opere così pochi studi sono stati condotti sull’autore) è che per farlo pienamente bisognerebbe saperne almeno quanto lui (e va da sé che ci vorrebbe una vita – una vita vera, non metaforica – di studio). Egli stesso ne è consapevole, e si permette di aprire un componimento con un’ironica dichiarazione di intenti e di poetica: “Poetando en pasticheur” (fig. 117). L’attitudine è postmoderna, ma lo è da prima che un certo postmodernismo di facciata prendesse piede nella narrativa contemporanea. Nel suo caso si appoggia appunto su cultura e conoscenza delle fonti fuori dal comune, mescolate e rielaborate, tanto che già lo stilema “compita angelella” può mettere in crisi il lettore: il riferimento pare rimandare a vocaboli topici della poesia petrarchesca e all’amor cortese, anche se l’effetto che si vuole ottenere è soprattutto quello di evocare l’idea di una donna pura e angelicata, poi ribaltato dal cortocircuito con la visione del poeta tedesco Rainer Maria Rilke (che fece dell’angelologia un tema pregnante della propria opera), che vede in queste figure sospese tra cielo e terra dei potenziali demoni che mettono alla prova l’essere umano. Se può sembrare ardito il collegamento tra la poesia trecentesca e quella di Rilke, che dire allora di quello tra Rimbaud e Petrolini (fig. 118)? Da una parte i versi della Chanson de la plus haute Tour (composta nel 1872 e contenuta nella raccolta Derniers vers) sono riportati letteralmente, senza bisogno di parafrasi, vista l’immediata comprensibilità, con tanto di riferimento diretto all’autore. Dall’altra il riferimento a Petrolini è più oscuro. Non inficia la comprensione della poesia (giocata sul contrasto tra apprezzamento e disprezzo della figura del gentiluomo, considerando la gentilezza una condanna alla sconfitta), ma aggiunge una sfumatura di significato. La mia ipotesi interpretativa è che alluda al “E io me ne fregio”, parodia petroliniana della famosa battuta di Mussolini, a sua volta ribaltata in chiave diminutiva che bilancia il “e me ne vanto” del secondo verso. In

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questo caso l’allineamento dei versi non rientra tanto nella dimensione dell’inciso, quanto nel contrappunto visivo che associa a distanza i due concetti topici e ne accresce l’opposizione. Il confronto con i poeti è un’altra costante di Cento poesie d’amore a Ladyhawke: non solo i classici da Dante a Rilke, ma anche i più contemporanei della beat generation: Mari sostituisce Corso e Ferlinghetti nelle letture dell’amata e dichiara apertamente come il proprio dialogo/monologo assuma lo statuto di poesia (in una ricerca forse impossibile di sintesi tra le due dimensioni): “ed ora leggi me” (fig. 119). Un discorso che quindi è già in partenza filtrato dalla carta (o meglio dalla parola scritta), cristallizzato, e non può più mutare, ratificando lo stato delle cose. I riferimenti però non attivano solo rimandi ad altri oggetti culturali, ma anche alla cronaca. La psicopatologia raccontata attraverso l’horror cinematografico (come abbiamo già visto a proposito di Shining – fig. 78) può trovare un valido corrispettivo nella crudezza degli atti di Jeffrey Dahmer, meglio noto come Il cannibale di Milwaukee, responsabile di numerosi e cruenti omicidi negli anni Ottanta, ma anche negli stereotipi quali gli ambienti domestici connotati da inquietudine e segretezza: “ricordati figliuolo che puoi andare dappertutto/tranne che nella soffitta”. La riflessione sulla scrittura è anche un modo per elevarsi dalla dimensione dialogica e porre l’accento sul ruolo e la natura del discorso poetico: se scrivere è una sublimazione dell’atto amoroso, non può che essere una sublimazione incompleta, parziale, mancate di una parte (fig. 120). Ecco il perché del riferimento al personaggio biblico Onan (celebre per l’improprio spargimento di seme), inteso non tanto in chiave storico-filologica, quanto nell’accezione contemporanea di masturbazione, quindi atto sessuale individuale, fine a sé stesso, mancante del contatto con l’altra persona. La curiosità sta nella metafora, in vero abbastanza scontata, che viene ribaltata e

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riacquisisce forza, cambiando valore retorico: non è tanto la scrittura come onanismo, quanto Onan come scrittore per antonomasia. Si ritorna per la terza e ultima volta sul componimento dedicato a Wild Bill Hickok (fig. 94), per notare come Mari sia pure disposto a imbrogliare il lettore per garantirsi un verso ben composto: “con una doppia di assi e nove in mano” è in effetti un endecasillabo, ma contiene una scorrettezza storica. La famosa mano del morto, le carte che il pistolero aveva nel momento in cui è stato freddato, erano una coppia di assi e una coppia di otto, e siamo certi che l’autore non potesse non saperlo. Una dimostrazione definitiva, se mai ce ne fosse bisogno, del verba tene, res sequentur di echiana memoria. Un’allegoria dell’impossibile situazione sentimentale del poeta è costruita sul mondo animale, quasi come in una fiaba di Esopo (fig. 121). Credo che la scintilla iniziale che ha generato il testo sia nella vicinanza tra i termini carpa e capra (uno anagramma dell’altro): la femmina animale (anche rispetto al genere grammaticale) e oggetto dell’amore prima di un persico e poi di un montone, entrambi destinati a fallire e soffrire. La rivisitazione di spunti letterari, oggetti culturali e realtà, a uso e consumo delle personali finalità testuali di Mari, coinvolge anche il mito greco di Orfeo ed Euridice (fig. 122). La donna amata subisce l’ennesima incarnazione (perché sempre decisa dall’autore) e diventa un’Euridice legata al proprio inferno che non ha bisogno del gesto inconsulto di Orfeo per ritornare alla propria dimora, ma decide in autonomia. La rilettura del mito ne inverte la polarità: la donna da passiva si trasforma in parte attiva, mentre l’uomo vede comunque fallire la propria missione, senza neppure potersi permettere il lusso di sbagliare lasciandosi guidare dal sentimento. Ammetto invece la sconfitta in merito alla poesia più corta dell’intera raccolta: “Son tutte belle le spade del mondo/tranne la spada di Artù” (fig. 123). Il distico è formato da un verso endecasillabo e da un settenario, ma l’allusione è di difficile

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interpretazione. La più celebre spada di re Artù (ma non l’unica), come tramandato dai romanzi del ciclo bretone, è Excalibur, ricevuta in dono dalla Dama del lago. Il suo essere dipinta in chiave negativa può essere forse associato alle complesse vicende del mito arturiano, tra battaglie, amori e tradimenti, intrighi a corte, morti violente. Resta scoperto il primo verso, e allora la “spada” potrebbe essere letta come metafora più ampia di battaglia, lotta, o anche metonimicamente di colpo doloroso (come avviene a esempio nel canto XXX del Purgatorio dantesco: “non piangere ancora;/ché pianger ti conven per altra spada”): saremmo allora alle prese con una contrapposizione tra due usi astratti della stessa parola (sono tutte belle le battaglie, tranne quelle che infliggono dei colpi mortali, e in questa ipotesi il narratore si identifica nella figura di Artù). In mancanza di una chiave certa per questa specifica crittografia mnemonica, si è costretti a sospendere momentaneamente il giudizio. Dante è citato senza alcuna ombra di dubbio nel verso di apertura della poesia che parte appunto dall’assunto del poeta fiorentino, e ne sviluppa il senso in chiave iperbolica e grottescamente fantascientifica: “Amor ch’a nullo amato amar perdona/sempre suonommi assioma nauseabondo” (fig. 124). La citazione letterale (se si soprassiede sull’espunzione di una virgola), tratta dal canto V dell’Inferno, che ha per protagonisti gli amanti Paolo e Francesca, è chiosata e messa in discussione, senza paura di compiere un reato di lesa maestà (anzi, proprio con il gusto di delinquere): Mari si può permettere una tal chiosa perché la inserisce come secondo verso del distico, amplificando il valore fonetico della formula dantesca, riproponendo le stesse identiche sonorità costruite sulla consonante m e sulla chiusura dentale/nasale in n e d. Si segnala la presenza di altre figure retoriche, quando se ne rinviene l’occorrenza: “Dice il ghiottone/giorni dieci starò senza dolciumi/e senza grassi e senza sughi e fritti” (fig .125). Il terzo verso (peraltro ancora un endecasillabo) è costruito sul polisindeto che lega

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gli alimenti che tentano il goloso: la figura insiste sulla congiunzione e, dando un reale effetto di accumulo che ben caratterizza la persona dedita ai piaceri del cibo. Come si è già accennato, la citazione è condotta anche per via metonimica (sebbene sia un passaggio semantico complesso, e si potrebbe definire piuttosto una metalèpsi): “Tutti i nostri incontri/si sono svolti nel segno affannoso/della Zucca” (fig. 126). Il collegamento è ancora una volta all’universo fiabesco, e la zucca fa riferimento alla storia di Cenerentola, e soprattutto alla carrozza che allo scoccare della mezzanotte recupera il proprio aspetto originale di ortaggio. La conseguenza sostituisce insomma la causa, e lo fa attraverso un’immagine che il lettore interpreta immediatamente e in modo lampante: quale rappresentazione migliore per l’ansia data dall’assenza di tempo e per il medesimo tempo che scade? Mari non è nuovo neppure alla riflessione sugli etimi delle parole, inserita direttamente all’interno dei testi. Anzi, lo scavare nell’origine delle parole può essere pretesto narrativo e metaforizzante (fig. 127). Il termine scrupolo effettivamente è diminutivo del latino scrupus, che significa roccia. Quindi la remora e l’incertezza sono da sempre intese come la pietruzza che inceppa l’ingranaggio o si muove nella scarpa generando fastidio. Dal sassolino all’iperbole metaforica del masso erratico (l’incombente e sempre presente relazione coniugale) che schiaccia e affossa l’amore, il passaggio è breve e quasi naturale. La missione – fallita – del protagonista sarebbe dovuta essere quella di riportare la roccia alle dimensioni infinitesimali del granello di sabbia, allontanando dubbi e inquietudini, e attirando così l’amata a sé. La poesia si chiude infatti con una citazione della celebre canzone Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco (1961, RCA Italiana), che recita testualmente: “Legandoti a un granello/di sabbia, così tu/nella nebbia, più fuggir non potrai/e accanto a me tu resterai”. Il dubbio che permane (e che è irrisolvibile, vista l’impossibilità di desumere la modalità del processo creativo del testo a partire dal testo stesso) è se

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Mari sia partito dal brano musicale per ricostruire a posteriori il componimento, o se una volta stabilito il nucleo semantico sulla dicotomia scrupolo/masso l’associazione a Fidenco si sia presentata successivamente da sé alla memoria. Il tradimento in una relazione sentimentale può facilmente essere messo in parallelo a una congiura politica per eliminare l’avversario (fig. 128). Il marito dell’amata viene associato a Cesare, la cui figura diventa antonomasia vossianica non tanto del leader carismatico, quanto del tradito per eccellenza (sebbene in questo caso la figura sia rivisitata in chiave di negazione, per via della congiura destinata al fallimento: “Cesare non atteso/dalle idi di marzo”). Si è già approfondita l’analogia con il film Ladyhawke, torno però per un attimo sulla poesia che esplicita il legame tra la pellicola e la narrazione (fig. 77) per segnalare il bel chiasmo semantico presente al suo interno, visivamente scalato nell’allineamento per renderlo più evidente: “donna di notte lei/e con la luce falco/lui con la luce uomo/e nottetempo lupo”. Anche il testo immediatamente successivo (fig. 82) è stato sviscerato in precedenza, si vuole però aggiungere un’altra considerazione sulle strategie testuali di Mari legate al concetto di contrappunto. In questo caso (ma anche in altri) i componimenti che si confrontano su due pagine affiancate dialogano tra loro o, per meglio dire, la poesia sulla pagina di destra (quindi quella posta per seconda) risponde all’altra, aggiungendo un ulteriore commento (per quanto dotato di autonomia propria) vagamente sarcastico rispetto alle affermazioni appena espresse. Non è solo sarcasmo però, ma quasi una negazione del pensiero esternato in precedenza, come se il poeta, in seguito a un ulteriore approfondimento del ragionamento, si fosse reso conto di aver cambiato idea. La poesia e le emozioni manifestate da Mari insomma sembrano non cristallizzarsi mai in una forma definitiva, ma ricrearsi a ogni nuova lettura, in un processo aperto e dinamico che è mostrato nel suo farsi.

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L’horror (come espressione di disagio, inquietudine e irrisolutezza) assume anche forme gotiche, nel momento in cui viene tirato in ballo Edgar Allan Poe (fig. 129). Il riferimento esplicito è al racconto Il cuore rivelatore, scritto dall’autore nel 1843. Il cuore è quello dell’anziano assassinato dal protagonista, che continua a battere dopo la morte (o almeno è ciò che il narratore continua a sentire nella sua mente), causando lo svelamento del delitto. Ebbene, il confronto gioca sull’iperbole, cioè su come il battito del cuore rivelatore sia ben poca cosa rispetto al rumore che il poeta è in grado di generare nel cuore dell’amata. L’amore è anche una fede religiosa rispetto a cui mettere in discussione le proprie credenze, e a cui scegliere di affidarsi o di rinunciare (fig. 130). La poesia in esame è forse una delle più complesse della raccolta, perché accenna e si basa sulle idee di tre grandi pensatori vissuti a cavallo tra Cinquecento e Seicento (il fondatore dei gesuiti Ignazio da Loyola, il matematico e filosofo Blaise Pascal e il fisico Galileo Galilei), ma senza spiegarle mai esplicitamente. L’argomento di Loyola, parafrasato metaforicamente in apertura, rimanda agli esercizi spirituali del religioso spagnolo102, che prevedono un percorso di avvicinamento a Dio attraverso l’immedesimazione nella sua incarnazione fisica, cioè Gesù Cristo. Il primo argomento viene ribaltato tirando in ballo Pascal, e la sua scommessa sull’esistenza di Dio (“Valutiamo questi due casi: se vincete, vincete tutto, se perdete non perdete nulla. Scommettete, dunque, che Dio esiste, senza esitare”, Pensieri, 1670): non può esserci percorso graduale, perché in fondo si tratta di un salto nel vuoto, tanto per la fede quanto per l’amore. Eppure entrambe le scelte sono in fondo solo un pretesto, un temporeggiamento, visto che Ladyhawke ha sperimentato per poi abiurare, proprio come Galileo con la dimostrazione della teoria copernicana. 102

Gli Esercizi spirituali di Ignazio da Loyola furono pubblicati per la prima volta nel 1548, con l’approvazione di Papa Paolo III.

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Si può misurare il tempo in papi? Certamente sì, con un po’ di fantasia e con una discreta conoscenza della cronologia dei papati (fig. 131). Mari costringe un’altra volta a prendere in mano l’enciclopedia per restituire senso pieno a una propria poesia. Il riferimento temporale è puramente un gioco (con la prima destinataria del testo ma anche con i lettori successivi), e prende il via dai funerali di Papa Giovanni Paolo II, che coincidono con la fine della storia d’amore (2005, un dato autobiografico certo?), per poi risalire alla scintilla primigenia, scoccata sotto Paolo VI (eletto al soglio pontificio nel 1963, e deceduto nel 1978, mentre l’autore frequentava effettivamente le scuole superiori). Il gioco non si arresta qui, ma pone fantasticamente l’inizio dell’amore molto più indietro nella storia, ai tempi di Gregorio VII (papa dal 1073 al 1085) o di Innocenzo III (papa dal 1198 al 1216). Non ci viene spiegato perché proprio questi due papi e non altri, e si potrebbero fare mille speculazioni a riguardo, anche se per il secondo potremmo sospettare reminiscenze dantesche (è il papa che per primo diede una legittimazione all’ordine mendicante francescano: “ma regalmente sua dura intenzione/ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe/primo sigillo a sua religione”, Canto XI del Paradiso). Caratteristica della raccolta, come si è visto, è mischiare l’alto con il basso, ma anche il sacro con il profano, l’amore platonico e ideale con la più greve pulsione sessuale. Nel giro di un paio di pagine si passa dalla benedizione sacra di un legame a opera dei papi, alla perversione del pittore espressionista Kokoscha che, come riferisce la sua biografia, si fece costruire una bambola che replicasse a dimensione naturale le fattezze di Alma Mahler (vedova del famoso compositore). Il pittore, innamorato della donna, fu sedotto e abbandonato da essa. Non riuscendo ad accettare questo stato di cose, commissionò la costruzione della bambola e, una volta entratone in possesso, ne fece la propria fidanzata ufficiale, assegnandole una cameriera e portandola con sé ai ricevimenti, andandoci a letto e infine

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uccidendola dopo una lite provocata dalla gelosia (fig. 132). L’autore, pur riconoscendosi nella condizione del pittore, alla ricerca di un sollievo, paventa la costruzione di un simile artefatto, con l’intenzione però di mantenersi su un livello astratto e sacro (“non me la scoperò” – il parlare gergale irrompe in tutta la propria icasticità): che la sua vera bambola sia proprio la poesia? Ritornano anche i riferimenti a Stephen King (fig. 133): dopo l’Overlook Hotel di Shining, il fidanzamento sepolto nel cimitero indiano stregato è una chiara citazione del romanzo Pet Semetary, pubblicato nel 1983. Letteratura e cinematografia sono i filtri prediletti da Mari per rileggere e connotare le vicende narrate attraverso la poesia. L’amata può metaforicamente diventare un tendaggio (fig. 134): non un tendaggio qualsiasi, ma quello che ha provocato la caduta dalle scale di Ivan Il’ič, causandogli un trauma che lo condurrà lentamente alla morte (come raccontato da Lev Tolstoj nel romanzo del 1886). Tendaggio che avvolge inoltre il protagonista al momento della morte, legandosi inestricabilmente a esso, come un sudario. Il doppio endecasillabo dal lessico assai ricercato (“ho trascinato così la vita egra/guardandoti dal letto d’afflizione”), posto al settimo e ottavo verso, sembra inoltre richiamare almeno foneticamente il titolo del romanzo di Luciano Bianciardi La vita agra. L’analisi dei vocaboli può trasformarsi anche in etimologia comparata descritta nel proprio compiersi (fig. 135), senza venir meno a un’interpretazione figurata (che affianca, ma non sostituisce il valore di esattezza della parola scritta): se le stelle cadenti sono segni scivolanti, che fuggono via troppo in fretta (incontro alla morte), le parole del poeta forse sono segni destinati a rimanere, in grado di ripetere e moltiplicare quel tempo all’infinito. Uno strumento che Mari utilizza poco, a dispetto delle proprie conoscenze e a quanto ci si aspetterebbe, è proprio la polisemia delle parole (forse perché contrasta con l’idea di esattezza?). Uno dei pochi

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esempi che si trova, in cui più termini possono assumere diverse sfumature di significato, prende spunto dal ricordo scolastico del cervo volante conservato sotto etere dalla professoressa di scienze (fig. 136). Il cervo volante si fa metafora della relazione amorosa mentre il narratore osserva l’insetto volare prima di essere inchiodato al proprio “letto di bambagia”. La polisemia si manifesta nel verbo “si spiegava” (che allude sia alle ali del cervo che si aprono, sia al sentimento che diventa chiaro e manifesto), poi nel seguente “ho fissato” (che è innanzitutto un richiamo alla vista, ma traslatamente, anzi recuperando il significato originario, anche una dichiarazione sulla propria attività poetica), e infine nell’aggettivo “volatile” (rimando all’insetto, all’etere usato per conservarlo e alla fugacità del tempo). E nonostante tutta questa attenzione sulla dimensione visiva, resa mirabilmente, il poeta dichiara infine la propria sconfitta: il ricordo che gli rimane più impresso è un suono, qualcosa che non può essere fissato, né con lo sguardo né con le parole. I rimandi intertestuali non devono concretizzarsi per forza in un’opera fonte identificabile con certezza, ma possono servire anche per evocare una particolare atmosfera (fig. 137). Yves Montand, Annie Girardot, Maurice Ronet e Jeanne Moreau sono tutti attori francesi che hanno avuto consacrazione artistica tra gli anni Sessanta e Settanta. Per quanto non risulta che abbiano mai recitato tutti e quattro contemporaneamente nello stesso film, si può affermare che facciano parte di un’unica metapellicola, come lascia intendere lo stesso Mari nei primi versi, retti non a caso da un’epifora ironicamente denotante: “In uno di quei vecchi film francesi/con le musichine francesi/nelle brume francesi”. L’autore non cita solo letteralmente, ma anche ipoteticamente, giocando con il lettore: esiste veramente la frase che lui cita (e allora da che film è tratta?), o è solo una frase inventata ma perfettamente compatibile con l’ideale metapellicola del cinema d’Oltralpe?

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Le poesie affiancate su due pagine vicine possono rispondersi ironicamente, oppure possono essere eco l’una dell’altra (figg. 138/139). Questo effetto è dato dall’identico esordio (“Tertium dabatur”), e da uno sviluppo che non contraddice il precedente ma lo completa. La frase latina non è casuale, ma la negazione del principio logico del tertium non datur, altresì detto del terzo escluso. Il principio stabilisce che due proposizioni contraddittorie non possono essere entrambe vere o entrambe false, ma nell’universo dei sentimenti (e rispetto alla narrazione) la logica formale non vale, e una terza via rispetto all’amore per uno o per l’altro uomo sarebbe stata per Ladyhawke possibile, nella visione del narratore. Una recriminazione tardiva e confinata a una specifica situazione, e perciò non affermata in un indicativo atemporale e assoluto, come il principio logico, ma all’imperfetto (nomen omen). Bisogna accennare anche alle ultime parole del secondo componimento (“e sarebbe stato vivere/sfiorandoci”) perché l’ultimo verso, ben lungi dall’essere casuale, introduce al campo semantico dell’ultimo testo della raccolta, assai diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto. Si è usata la definizione di crittografia mnemonica come ipotesi interpretativa per le poesie di Mari, ma la scelta è soggettiva solo fino a un certo punto. L’autore stesso infatti cita la Settimana Enigmistica (fig. 140), il più famoso e longevo settimanale italiano dedicato ai giochi enigmistici (e che contiene anche le menzionate crittografie). Non lo fa però a proposito di giochi complessi, bensì di quello più semplice ed elementare, cioè l’unire i punti numerati sequenzialmente per ottenere una figura nascosta. Punti è la parola chiave della poesia, nel suo doppio significato di punto geometrico e di punto come luogo. Fissare, scrivere, disegnare: l’unico modo per dare un senso e collegare momenti, occasioni ed esperienze del passato è rappresentarli in qualche modo su carta, dando una dimensione visiva alle parole e ai fatti. Ciò che non può vivere nella realtà può continuare a farlo attraverso il linguaggio. La scrittura è una

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consolazione tardiva ma anche il trait d’union tra memoria e fantasia: “il disegno/di un’altra vita/in cui potremmo amarci” non è forse, per certi versi, la poesia stessa? La lingua della quotidianità nei componimenti di Mari è stata già trattata, ma occorre ribadire come essa tragga forza proprio dal contrasto iperbolico. Le “mezzorette” risaltano nella propria diminutio proprio perché messe in relazione all’assolutezza dei miti della classicità (fig. 89): le vicende di Polluce e Proserpina sono prese a esempio massimo della disposizione al sacrificio e al compromesso, al cui confronto il comportamento della donna amata risulta ancora più egoistico e assente di rispetto. Se la polisemia può minare l’esattezza delle parole, è anche vero che può generare il senso stesso della poesia, ed essere una dichiarazione d’intenti (fig. 73). Il fioretto è sia una spada che un sacrificio (anche se entrambi i significati derivano comunque dall’oggetto fiore, che sia esso deposto devotamente su un altare, o che sia un bottone protettivo posto sopra l’impugnatura di un’arma), e il concetto produce una dicotomia che viene ricondotta al dato autobiografico (il nome del poeta): da una parte l’arcangelo Michele, da sempre rappresentato con le effigie della guerra, e dall’altra Francesco d’Assisi, il santo mite per eccellenza. Pace e conflitto non possono coesistere, così come non può esserci una soluzione pacifica alla storia d’amore del narratore, una risoluzione amicale. Se in precedenza l’ipotesi della terza via sembrava praticabile, ecco qua una nuova negazione. Si è anche già notato come una poesia può gravitare intorno a una singola parola, che ne diventa il focus e la chiave interpretativa. La chiave può risiedere anche nell’uso (non) contemporaneo di un vocabolo rispetto alla sua evoluzione nella storia della lingua (fig. 141). Se si analizza la frase “perché il lupo è vago/delle cose perse” secondo il significato attuale e più comune dell’aggettivo vago (incerto, indeterminato) non si è in grado di comprenderne il senso. Si

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deve infatti scavare nel passato, e soprattutto nel linguaggio poetico della tradizione: da Dante a Leopardi, l’aggettivo è usato in poesia col significato di desideroso, voglioso o anche piacevole e leggiadro. Soprattutto per Leopardi è un vocabolo topico (ripreso nella famosa distinzione tra termini e parole, approfondita nello Zibaldone), e penso che quello di Mari sia propriamente un omaggio al poeta a cui ha dedicato anche una delle sue prime opere103. Una delle cose più interessanti è vedere come l’autore riesca a sposare insieme elementi reali, paragoni a culture e letterature varie e attenzione al valore delle parole (fig. 142). La donna amata si taglia i capelli, e ciò è immediato presagio di sventura (che poi si avvererà), come nel racconto biblico di Sansone, che in seguito al tradimento di Dalila viene rasato, perdendo la propria mitica forza, e catturato dai nemici. Se la donna viene paragonata a Sansone, allora il marito non può che essere un filisteo, inteso sia in senso letterale (la prima moglie di Sansone era una filistea, quindi parte del popolo avversario degli ebrei) sia in senso figurato (cioè una persona meschina, ipocrita e conformista). Sul finire della narrazione, quando diviene assodato che non c’è più spazio per una relazione clandestina, inizia il tempo delle recriminazioni e dei rimpianti. È proprio il tempo a essere metaforizzato, giocando con le definizioni di uso comune (fig. 143): se l’ora legale non può che essere quella dei rapporti ufficiali, allora l’ora solare sarà quella dedicata agli amanti, costretti “a bruciare nel sole”. Assume una sfumatura ironica il paradosso generato da questa analogia: l’ora legale sarebbe ingiusta, sbagliata, perché frutto di un “furto/nella sostanza del tempo”, stabilita in maniera meccanica dalle convenzioni sociali che non badano alla natura e ai sentimenti.

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Il già citato Io venia pien d’angoscia a rimirarti. In questo caso Mari sposa e applica la definizione di “arcaismo moderato” proposta da Leopardi (Zibaldone 3868), cioè l’uso conveniente di parole antiche, lievemente distinte dalla lingua corrente.

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La metafora modellizzante del poker orienta soprattutto la seconda parte della narrazione, quando da una storia d’amore fantastica (Knightwolf e Ladyhawke) si passa al gioco d’azzardo, alla scommessa (persa) di provare a portare avanti una relazione che può vivere solo sul bilico. L’ultimo testo che richiama le carte parla in realtà di “triflisso”, che è parola assai poco diffusa (fig. 144): risulta essere sempre una variante del poker, ma, al di là del significato, è interessante soprattutto come Mari scelga di usare, sia qui che in generale, una parola che è al contempo esatta ma anche sommamente indeterminata, per attribuire un valore quasi esoterico ai propri componimenti. Un’altra caratteristica è che nella parte finale della narrazione si rarefanno i rimandi intertestuali e, con il crescere della drammaticità, le poesie si concentrano di più sui richiami alla gioventù e alla futura morte, strettamente legate come già si era detto a proposito del testo che cita l’opera di Kantor. Una delle ultime citazioni è anche una delle più popolari (fig. 145): il mulino bianco richiama la famosa marca italiana di prodotti alimentari (dolci e biscotti) che da sempre identifica la propria immagine promozionale con quella della famiglia perfetta (che vive in una casa-mulino immersa nel verde, è sempre serena e sorridente, e indossa immacolati abiti bianchi). Questa immagine è agli antipodi dell’altra immagine proposta, e se vogliamo altrettanto stereotipata: gli anelli di Saturno rappresentano uno scenario fantastico, fantascientifico, evocativo nel suo fascino spaziale (così il narratore metaforizza la portata che avrebbe potuto avere la storia d’amore con l’amata). Le due immagini sono fatte cortocircuitare attraverso il termine farina, metonimia del mulino (e di conseguenza della famiglia) ma al contempo metafora della concretezza del sentimento del narratore. Lo sguardo al passato, la “testa montata all’indietro” del quartultimo componimento (fig. 146) è anche una dichiarazione di approccio poetico: l’autore non può sapere dove sta andando perché è

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troppo impegnato a guardarsi alle spalle, agli eventi che gli sono occorsi e forse anche di più alla loro trasfigurazione in atti testuali. Sguardo, memoria e scrittura sono magnificamente riuniti in un’unica parola: sinossi allude alla dimensione testuale, al riassunto di ciò che è successo, ma attraverso l’etimo anche al piano visivo (in greco sguardo d’insieme). L’ultima poesia (fig. 147), che finora non a caso era stata tralasciata, è morfologicamente molto diversa da tutte le altre della raccolta. Rispetto all’epigrammaticità riscontrata per tutto il corso dell’opera, si è qui in presenza di un testo che si snoda per quattro pagine, composta di ben centoventiquattro versi. La poesia si sviluppa come un’enumerazione di tipologie di fiori tutti realmente esistenti, ciascuno dei quali associato a una determinata caratteristica astratta, che sia essa emotiva, caratteriale o psicologica. Non mancano i riferimenti ad altri poeti: Leopardi è evocato implicitamente nel verso “il fior della ginestra è la poesia”104, Foscolo è espressamente citato in “fior d’amaranto fiore foscoliano”105, mentre D’Annunzio riecheggia in “il capelvenere è il fior degli annegati”106 (e molti altri probabilmente ci sfuggono). Bisogna soffermarsi ancora un attimo sul rapporto con D’Annunzio, perché questa poesia di Mari riprende in qualche modo l’amore del poeta pescarese per l’universo botanico, come espresso nell’Alcyone. E più in generale, Mari ha nei confronti della poesia un atteggiamento simile a quello dannunziano, fatto di recuperi del passato letterario e di saccheggio di vocabolari tecnici, sebbene con un’ironia e con un approccio giocoso sconosciuti al celebre antesignano. Tornando alla lirica in esame, sembra di avere a che fare con una lunga preghiera, o per meglio dire una litania, che culmina, attraverso una lenta climax generata proprio dall’accumulo 104

Testamento spirituale di Leopardi, La ginestra o Il fiore del deserto è la penultima lirica dell’autore, composta nel 1836 e pubblicata postuma nei Canti. 105 Il riferimento all’amaranto ritorna in diversi componimenti realizzati da Foscolo, dai giovanili La croce e In morte di Amaritte fino al celebre Dei sepolcri (1807). 106 Il capelvenere è nominato più volte nella lirica Il fanciullo, contenuta nella raccolta Alcyone, pubblicata nel 1903.

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progressivo di enunciazioni, in uno svelamento finale. Non a caso dall’elenco è stato lasciato fuori il fiore tradizionalmente collegato all’amore, cioè la rosa. Ma non è l’unico: rimane anche il fiore che non può avere un nome, che non può essere definito con precisione, un fiore che esiste solo in negativo, come definizione di ciò che non è. Il fiore è la relazione amorosa in sé, sempre lambita ma mai raggiunta, e la sua perfezione sta proprio in questa dimensione sospesa, in questa distanza dalla realtà che permette lo sguardo e poi la scrittura: ogni contatto porterebbe inevitabilmente al fallimento e al deterioramento della purezza, e di conseguenza all’impossibilità di compiere l’azione poetica. La poesia svela infine così il proprio paradosso creativo (presenza possibile solo nell’assenza), e lo fa attraverso una complessa costruzione retorica basata sulle variazioni costruite intorno al sostantivo fiore: “ma il fiore mio più bello/il fior della mia vita/il fior che non sfiorisce/è il fiore che non sfioro”. L’allitterazione infatti si sposa con l’anafora, il polittoto e la figura etimologica: solo nelle ultime righe di tutta la narrazione Mari sembra immergersi e affidarsi (una resa?) a una parola più consona alla tradizione.

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Conclusione

Cosa si è imparato da questa ricognizione? Si era partiti da un’idea alquanto astratta sulle dinamiche della traduzione e dalla volontà di metterla alla prova su due opere che reputavo potessero avere alcuni punti di contatto, a partire appunto dalla difficoltà di essere traslate in altri linguaggi. Si è imparato innanzitutto che se la traduzione è sempre un processo di negoziazione (quello che forse un pessimista chiamerebbe tradimento) allora non esistono opere perfettamente traducibili ma neppure perfettamente intraducibili. Non a caso il titolo di questo studio vuole essere una provocazione, non fine a sé stessa, ma una provocazione a riflettere sulle ragioni che rendono talvolta la traduzione una questione parecchio complessa. Di conseguenza il focus non poteva che spostarsi sull’approfondimento delle specificità dei linguaggi, così come sono adoperate e messe in atto dalle singole opere. Opere scelte per l’analisi proprio perché fondono piano dell’espressione e piano del contenuto in un connubio inestricabile. Una prima sorpresa è stata riscontrare come Asterios Polyp e Cento poesie d’amore a Ladyhawke abbiano numerosi elementi tematici e stilistici in comune, oltre a uno sviluppo narrativo abbastanza simile, come premesso nell’introduzione. Se la vicinanza di fumetto e poesia, dal punto di vista semiotico, fa sì che in vari frangenti le opere adottino soluzioni visive e testuali assai comparabili (e compatibili), non era così lecito sperare che potessero presentarsi anche numerosi altri punti di contatto a livello di sviluppo della storia e di rimandi intertestuali. Fondamentale in entrambi i testi è apparso a esempio il tema del dualismo e il suo eventuale superamento, che percorre e condiziona trame ed eventi raccontati, ma si riverbera anche sul piano delle scelte più propriamente linguistiche (tanto le dominanti cromatiche in Asterios Polyp quanto l’approccio contrappuntistico nella raccolta di Mari riflettono questa logica binaria). Ma poi anche 139


il ruolo degli astri, metafora di un destino avverso, presente con la propria influenza ma sordo alle preghiere degli individui, o l’amore come mezzo (quasi un pretesto) per compiere un viaggio dentro di sé, alla (ri)scoperta del proprio passato e dei sentimenti. Tra i rimandi intertestuali comuni, il più evidente è senz’altro il mito di Orfeo ed Euridice (che sia affermato – in Asterios Polyp – o negato – in Cento poesie d’amore a Ladyhawke). Arrivati in fondo alla lettura delle opere in esame, viene naturale porsi una domanda: è impossibile costruire una narrazione complessa, fortemente autoriflessiva, e perciò opaca, senza ricorrere così massicciamente alla citazione di altri oggetti culturali? Non lo credo, sebbene si sia scelto di studiare due testi che sembrano confermare questa impressione. Certo è che si potrebbe dire che il mondo della cultura (uso questo sintagma un po’ vago e forse improprio per riunire l’intero universo delle opere e delle espressioni artistiche) è vasto perlomeno quanto il mondo reale, oltre a essere intrecciato a esso, e pertanto diventa impossibile riferirsi senza tenerne conto, o anzi escludendolo. Ogni riferimento infatti può essere esplicito, ma anche implicito, come conseguenza di qualcosa che ha segnato la nostra esperienza e che si sfrutta inconsapevolmente quando ci si trova a portare avanti una comunicazione. La differenza allora starà tra autori consci di questo processo e che ne fanno un aspetto evidente della propria poetica, e autori che, pur non sottostimando il problema, lo accettano come parte inevitabile della dinamica creativa, nel bene e nel male. È fuori di dubbio invece che sia Mazzucchelli che Mari facciano parte del primo gruppo citato. Questa riflessione provoca un’ulteriore domanda, che non riguarda tanto il tempo e le modalità della scrittura (sia essa di parole e/o di immagini) dell’autore, quanto il ruolo e il comportamento del destinatario finale e reale. Ogni testo presuppone un lettore ideale che sia in grado di cogliere il campo di inferenze interne ed esterne che viene generato, e quindi di comprendere il senso, o i sensi, dell’opera. Ma nel caso di opere che attivano una quantità così alta di omaggi,

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citazioni, ispirazioni e collegamenti, è pensabile che esista un destinatario capace di dipanare integralmente la matassa? Il fruitore dovrebbe in pratica avere una storia personale e un’esperienza del mondo che almeno coincida con quella dell’autore (e sarebbe una condizione necessaria, ma comunque non sufficiente, nel caso di rimandi inconsapevoli e quindi ignari all’autore stesso), e ciò è ovviamente impossibile. Non potendo neppure esistere un lettoreenciclopedia, l’opera finisce per interagire in modo unico e indipendente con l’enciclopedia dei singolo lettore. Immaginiamo che il creatore abbia ben presente questo rischio, ma che lo sfrutti come l’opportunità di sviluppare con il destinatario un gioco interattivo che ricrea il testo a ogni esperienza individuale di lettura. Anche il fattore tempo ha una propria rilevanza in questa dinamica: lo stesso testo ripreso in mano a distanza di anni dalla stessa persona potrebbe attivare (e probabilmente lo farà) inferenze nuove conseguenti all’espansione della propria enciclopedia personale. Interessa in particolare l’esperienza di fruitori nel 2014, nel pieno del presente: ha ancora senso parlare di enciclopedia individuale, ora che si vive in relazione continua e costante con internet? È sufficiente digitare le parole chiave in un motore di ricerca e si può decodificare e ricondurre alla fonte primigenia pressoché ogni citazione. Forse non è proprio così, perché il sapere che internet ci fornisce è sterminato ma non esaustivo. Però si deve ammettere, a esempio, che per redigere questo studio si è fatto abbondantemente ricorso a ricerche online che hanno permesso di svelare alcuni arcani, o di trovare riscontro per certe intuizioni. Tornando indietro anche solo di quindici anni il processo di analisi sarebbe stato decisamente più difficoltoso e soprattutto più lento: si sarebbe dovuto tenere conto dei tempi di spostamento tra una biblioteca e l’altra, del recupero e della consultazione dei libri (una parte del lavoro che non è soppressa dall’affermazione di internet, ma che è stata certamente ottimizzata, permettendo di andare a colpo sicuro). In definitiva il gioco di cui si

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parlava poc’anzi risulta almeno in parte depotenziato, a meno che il suo fascino non si mantenga comunque vivo nell’innescare il lavoro di ricerca in cui il lettore eventualmente si imbarca per decodificare una parte dell’opera in cui intuisce essere presente un rimando a un’altra opera. Per quanto l’approccio enciclopedico sia un aspetto importante della poetica di Mazzucchelli e Mari, sono ancora più interessanti le riflessioni che le loro opere partoriscono in merito alla natura del linguaggio in cui sono messe in atto e al ruolo dell’autore rispetto a esse. Come è emerso dalle analisi (a cui si rimanda per gli esempi), si può concludere che ogni opera autoriflessiva sia anche metanarrativa, cioè interroghi in profondità, sebbene non è detto che ciò avvenga esplicitamente, il linguaggio sulla propria natura e sui propri meccanismi di funzionamento a livello espressivo, e si spinga anche a sviluppare il linguaggio stesso, espandendo le proprie potenzialità di significazione. Senza dimenticare che la manifestazione del processo creativo e della natura del linguaggio inevitabilmente tira in ballo l’autore e il suo ruolo rispetto alla narrazione. E sono proprio questi gli elementi che mettono in discussione la potenziale traducibilità (intersemiotica soprattutto) delle opere in esame, e delle altre che seguono le medesime coordinate: se parte fondante del loro essere è infatti la metanarrazione, come trasportarla tale e quale in un altro linguaggio? È impossibile, considerando che a ogni linguaggio appartengono diverse strutture e processi semiotici. Oppure bisogna valutare con attenzione il processo di negoziazione, rispetto a quello che da potenziali traduttori si ritiene il senso profondo di un’opera: è nella storia raccontata, o forse la storia è solo un pretesto per raccontare la metanarratività? In questo secondo caso saremmo costretti a cambiare quasi tutto, e il tradimento totale sarebbe la più grande fedeltà possibile.

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Riferimenti bibliografici e sitografici

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Appendice


Fig. 1

Fig. 3

Fig. 2


Fig. 4

Fig. 5


Fig. 6

Fig. 7

Fig. 8

Fig. 9


Fig. 10

Fig. 11

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Fig. 14

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Fig. 16


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Fig. 139

Fig. 140

Fig. 141

Fig. 142


Fig. 143

Fig. 144

Fig. 145

Fig. 146


Fig. 147


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