Fare Scuola | La scrittura

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La scrittura

oralità e

scrittura

Come vedi Il rapporto oralltà-scrlttura? Lo vedo nello stesso tempo come la distanza che separa mondi lontanissimi l'uno dall 'altro e il confine labile tra sfere contigue dell 'esperienza che noi uomini di «civiltà di scrittura» dovremmo continuamente attraversare con di­ sinvoltura. Nell'uno e nell'altro caso mi pare che in questi ultimi anni si siano prodotti numerosi stimoli a ripensare criticamente l'apparente owietà e rig idità dei confini tra la cultu ra del parlare e quella dello scrivere. È cambiata l'immagine del rapporto tra «cultura orale e civiltà della scrittura » (cfr. E. A, Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, Laterza, Bari, 1973). Le parole «ala­ te» che volano e si perdo no in quanto suoni irripetibili, pronunciati per la prima e l'ultima volta, diventano tutt' al­ tra cosa se le si pensa all'interno di un mondo umano senza scrittura. Veicolo centrale di trasmissione di tradi­ zione e di memoria, fonte, quindi, di identità, esse devono catturare saldamente l'attenzione e l'adesione di ascolta­ tori che, letteralmente, incorporano i suoni e con essi l'au­ to rità normativa della memoria di gruppo. Da quando Havelock ha richiamato l'attenzione sul fatto che in una cultura orale «l'unica possibile tecnologia ver­ bale disponibile per garantire la conservazione e la stabi­ lità della tradizione, era quella del discorso ritmico» e la poesia quindi era l'unico strumento didattico disponibile per trasmettere la tradizione, la figura del vate cantore, un Omero, per esempio, è diventata anche quella di un onni­ potente ed enciclopedico maestro . Ma allora il fermo invi­ to che Platone rivolge al poeta di allontanarsi dalla Re­

io (è per questo che in una let­ tera scriviamo il luogo, la data e la firma, che in un dialogo non sono necessari , e che dà un po ' fastidio chi dice «Sono io» da dietro una porta chiusa o al te­ lefono). Agli estremi di queste due modalità ci sono i generi chiamati da Benveniste "di­ scorso " e «stori a" , che coinvol­ gono soprattutto livelli superiori (morfosintattici) di org anizza­ zione della lingua, per i q uali la distinzione tra scritto e oral e ­ anzi , lo stesso livel lo fonico o grafico - non è rilevante. La stessa opposizione fra eco­

pubblica si lega non solo al sospetto dell'essere egli un propagatore di menzogne, ma anche, o soprattutto, al ri­ getto di una forma di comunicazione che seduce e «para­ lizza l'intelletto» perché produce nell'ascoltatore quell'i­ dentificazione mimetica con il parlante che, da allora in poi, è sempre stata vista con sospetto, quasi ai limiti della patologia. Inversamente, l'immagine di rigidità e di pesantezza del testo scritto si modifica quando lo si pensa anch 'esso co­ me polo di una struttura di comunicazione che mette in moto il flusso delle interpretazioni nel quale si aprono spazi per il conflitto e quindi anche per la produzione del nuovo rispetto alla tradizione. Mi sembra insomma che la chiave che ha permesso di ripensare fruttuosamente il rapporto tra oralità e scrittura sia quella del rived erle entrambe come forme di comuni­ cazione, modalità di dialogo, quindi di relazione , dentro le quali si producono forme di conoscenza e di sapere, e non come tecniche più o meno atte a rivestire oggetti di­ versi come il vero , il bello, il verosimile , ecc. Si tratta forse di un motivo analogo a quello che fa risor­ gere l' interesse per la retorica e per il discorso letterario come forma dialogica in un tempo in cui viene messa in dubbio l'esistenza di una verità come dato esterno al "commercio » tra gli uomini . Non si tratta forse tanto, co­ me a qualcuno sembra, di una caduta nel gioco dell'artifi­ cio verbale, quanto di un nuovo protagonismo della paro­ la dialogica e quindi anche di una riscoperta , fuori dai re­ cin ti specialistici, di quelle forme di discorso più capaci di sopportare la conflittualità, le contraddizioni, l'interpreta­ zione, la pluralità dei significati. Tutte caratteristiche lega­ te più spesso, nella nostra tradizione, alla parola parlata. In questo senso forse si può parlare di una nuova impor­ tanza dell'oralità. Penso alle più recenti teorie della letteratura che cercano di penetrare tutta la ricchezza dei giochi di relazione e di rimando propri del circolo autore-testa-destinatario. Mi sembra che, tra l'altro, esse riescano a togliere figure co­ me quelle dello scrittore-narratore dall'isolamento in cui lo vedeva chiudersi Benjamin quando, da narratore «perso­

nomia ed aumento della ridon­ danza si presenta però anche su un'altra dimensione che co­ involge proprio il livello sostan­ ziale fonico o grafico. Dato che presto e bene non stanno insie­ me, sì può infatti scegliere fra una realizzél2 ione più veloce (anche a costo di qualche tra­ scurateu a) ed una più curata (ma più lenta) Si tratta in primo luogo della stessa velocità di produzione dei segnali, e i due tipi vengono chiamati «Allegro» e «Lento », dai tempi musicali; per continuare con la stessa terminologia, all'Allegro si addi­

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ce il "Leg ato » (l'emissione è pi ù fusa , ogni segmento si adatta di più a quelli che lo pre­ cedono e seguono, con leg atu­ re, assimilazioni , abbreviature, trasferimenti di pertinenza), ed al Lento lo "Staccato» , che conserva la au tonom a definizio­ ne dei sin goli segmen ti. (Notia­ mo di pas sag gi o che, ta nto per le ling ue foniche quanto per quelle grafiche , nell'evoluzione storica è spesso dall'Allegro di una fase sincronica che deriva il lento della successi va è dal laltino «volgare » che nasce l'i­ taliano «letterario»)


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