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Attualità Transizione ecologica, pronti, partenza, via Guido Guidi
Transizione ecologica, pronti, partenza, via
Incremento della popolazione, risorse sempre più limitate, urbanizzazione dilagante, cambio climatico, crisi idriche e altri trend simili: il modello take-make-waste non è più sostenibile
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di Guido Guidi
Dobbiamo cambiare passo: ne sono consapevoli tanto i consumatori, quanto le imprese, ed è così che l’idea di un’economia circolare, più rispettosa dell’ambiente, prende piede e si mostra oramai irrinunciabile. D’altronde, oltre alla prospettiva di un risparmio effettivo e di un ritorno di immagine, le organizzazioni devono fare i conti con un orientamento normativo sempre più incalzante. Il Piano d’Azione per l’Economia Circolare adottato dalla UE a marzo 2020 è uno dei pilastri principali del Green Deal e indirizza in maniera decisa verso la circolarità, dalla progettazione del prodotto al consumo fi no alla gestione dei rifi uti. A questo proposito, DNV (www.dnv.it), organizzazione multidisciplinare, ma, soprattutto, azienda leader nelle certifi cazioni accreditate per i sistemi di gestione a livello globale, propone i risultati di un’indagine condotta tra marzo e aprile 2021 che ha coinvolto 793 suoi clienti Business Assurance, appartenenti a diversi settori in Europa, Nord America, Centro e Sud America e Asia. Il campione, pur non statisticamente rappresentativo delle aziende mondiali, è certamente signifi cativo, tanto più che offre uno spaccato su un centinaio di aziende






Allevamento di storioni (photo © kpn1968 – stock.adobe.com).
leader che col proprio operato sono anticipatorie di una tendenza che inizia a dare segnali importanti verso un nuovo modo di fare impresa.
La ricerca restituisce un quadro interessante, da cui si intravede un aumento della consapevolezza sulla necessità di un’economia circolare, purtroppo ancora lenta e cauta, ma che si sta pian piano affermando.
La maggioranza delle imprese coinvolte appare più interessata ai fattori interni e meno del 40% vede immagine aziendale e brand reputation come fattori motivanti per un cambio di passo o un mutamento dell’organizzazione interna. Meno del 30% riconosce l’importanza delle esigenze del consumatore, mentre gli aspetti legati alla normativa non sono annoverati tra i principali fattori trainanti verso la circolarità.
Ciò che maggiormente spinge in quella direzione è semmai il recu-
pero di risorse e l’estensione della
vita del prodotto che possono apportare vantaggi immediati, oltre ad essere direttamente o indirettamente strumenti di tutela dell’ambiente.
Il fatto che l’economia circolare sia tema sempre più dibattuto e sempre più al centro dei programmi di enti e istituzioni, ha portato 3 aziende su 4 ad analizzare o discutere l’argomento al proprio interno, anche se con importanti distinguo da un’azienda all’altra.
Alcune aziende si sono già poste l’obiettivo di generare valore economico e mitigare gli impatti ambientali. Per il 26%, l’economia circolare fa parte della propria strategia di sostenibilità, mentre per il 12,4% è già al centro delle attuali strategie di business.
Le imprese europee dimostrano un interesse elevato: l’81,1% afferma infatti di aver discusso o analizzato l’economia circolare nel proprio team.
In questo quadro, sono poche le organizzazioni che rifl ettono in maniera seria sul fatto che non bastino pochi accorgimenti per cambiare direzione, ma sia necessario un mutamento radicale del proprio approccio. Resta però la preoccupazione, per molti, che nel lungo termine possa essere rischioso non evolversi, perché i concorrenti lo faranno e il pericolo è che si generi un dannoso divario. Pertanto, seppur le azioni tardano o tarderanno ad arrivare, l’attenzione non manca affatto.
Permangono sacche di bassa consapevolezza dell’utilità e della necessità collettiva di attivare sistemi circolari, così come in certi casi a mancare è la capacità e la competenza all’interno delle organizzazioni di affrontare la transizione in maniera strutturale e con un alto profi lo di competenza.
Tra i problemi esistenti, non è secondario quello della misurabilità della circolarità. Ciò che non si può misurare non si può migliorare, ma non si può nemmeno dimostrare. La ricerca evidenzia che tutte le aziende, in generale, si stanno attivando, sebbene solo il 5,9% dichiari di avere un approccio maturo verso l’economia circolare, mentre il 29,6% si trova nella fase di sviluppo e il 18,6% in una iniziale.
Oltre il 50% delle imprese afferma di star esplorando o avere adottato almeno un modello di business circolare. Nei prossimi 3-5 anni, un’azienda su 3 intende adottare uno o più modelli di circolarità. Attualmente, quelli prevalenti sono il recupero di risorse (39,6%) e l’estensione della vita del prodotto (30,3%). Ma l’adozione delle forniture circolari, la sostituzione delle risorse tradizionali con altre interamente rinnovabili, riciclate o alternative sembra essere il modello che crescerà di più nei prossimi 5 anni.
Tra le aziende che hanno adottato un’iniziativa di economia circolare è diffusa l’idea che questo approccio sia valido se coinvolge l’intera
fi liera e non resti confi nato tra le mura aziendali. Il 41% sta infatti collaborando con operatori del riciclaggio e servizi di manutenzione. Il 35,7% sta cooperando con aziende della propria catena di fornitura, il 18,1% ha coinvolto operatori logistici specializzati (reverse logistics o logistica inversa) e il 17,1% ha incluso nelle proprie iniziative fornitori di tecnologie.
Non sempre però le aziende riescono a comunicare adeguatamente le iniziative circolari, perdendo così l’occasione di far sapere al pubblico quale sia il valore aggiunto del prodotto o del servizio proposto. Quelle che lo fanno, utilizzano prevalentemente il sito web aziendale o altri canali di comunicazione istituzionale e solo il 19,3% comunica attraverso l’etichetta del prodotto.
Una ragione potrebbe essere che in questo caso è più diffi cile dimostrare la validità di un’affermazione o condividere informazioni dettagliate. Un grande aiuto può, però, venire dalla tracciabilità digitale, con le tecnologie blockchain e il tagging, ma anche su questo fronte c’è ancora molto da fare. In quest’ambito è convinzione diffusa che le organizzazioni di terza parte possano contribuire in maniera importante ad accrescere la fi ducia dei clienti e dei consumatori fi nali. Sono quindi un valido strumento da prendere in considerazione.
Molte imprese stanno a guardare ciò che fanno le leader, capaci di affrontare investimenti in ricerca, di approfondire temi da esplorare e di mettere a disposizione ingenti capitali in operazioni dal risultato incerto. Sono quelle che guidano il mercato e I due modelli di business circolari prevalenti sono il recupero di risorse e l’estensione della vita del prodotto, seguiti dall’adozione di forniture circolari e sostituzione di risorse tradizionali con altre completamente rinnovabili, riciclate o alternative (photo © Puwasit Inyavileart – stock.adobe.com).

che sono tendenzialmente capaci di anticiparlo, facendo da apripista. Nella ricerca citata, su 793 aziende le leader rappresentano il 12,1% e, a conferma di questa tesi, dimostrano di avere un approccio più maturo, esaustivo e avanzato alla transizione verso la circolarità.
È possibile che un cambio di abitudini e di modalità di processo non sia completamente vincente in termini di impatto sull’ambiente. Ma
è certo che la transizione ecologica sia diventata la protagonista di questi tempi anche sul piano commerciale. Pertanto, chi non si adegua rischia di rimanere ai margini, per
essere poi completamente espulso. È anche questo uno dei principali motivi per i quali i più grandi fondi fi nanziari stanno investendo ed investiranno sempre di più, su imprese della green economy. Non è un caso, dunque, se le aziende leader siano più inclini ad adottare nuovi modelli e strategie che integrino la circolarità nelle proprie funzioni e in quelle di gestione della catena di fornitura, costringendo così anche i propri partner ad adottare azioni virtuose e comportamenti trasparenti. La stessa trasparenza che è richiesta
Cos’è l’economia circolare
È un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile. Permette di estendere il ciclo di vita dei prodotti, contribuisce a ridurre i rifi uti al minimo e, quando il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto vengono reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico. Così possono di nuovo e continuamente essere riutilizzati all’interno dei processi produttivi, generando ulteriore valore. Grazie a misure come prevenzione dei rifi uti, l’ecodesign e il riutilizzo dei materiali, le imprese possono ottenere un risparmio e ridurre al contempo le emissioni totali annue di gas serra. Riducendo così la pressione sull’ambiente, generando maggiore sicurezza sulla disponibilità di materie prime, dando impulso ad innovazione e crescita economica, incrementando l’occupazione. Nel contempo i consumatori avranno prodotti più durevoli e innovativi in grado di far risparmiare e migliorarne la qualità della vita.
da stakeholder e mercati, ai quali non basta la propaganda aziendale.
La comunicazione riguardante la circolarità deve essere fondata su metriche corrette e tracciabili in tempo reale, sebbene la carenza di criteri di misurazione e di indicatori delle performance rimanga, anche per le leader, un problema serio.
Senza un approccio scientifi co, e possibilmente univoco alla misurazione, è diffi cile progettare iniziative di successo, svilupparle e comunicarle. Ma, spinte da grandi motivazioni, l’84% delle leader ha già posto l’economia circolare al centro delle attuali strategie di business, con l’obiettivo di generare valore economico mitigando al contempo gli impatti ambientali.
I principali driver della transizione sono la possibilità di rafforzare le strategie di sostenibilità (70,8%) e i risparmi sui costi (69,8%). Seguono la brand reputation (49%) e le richieste dei consumatori (35,4%). Le leader appaiono più predisposte a cogliere appieno il potenziale dei modelli di business basati sull’economia circolare: il 29,2%, infatti (rispetto al 16,6% del campione), ne riconosce la capacità di dare accesso a nuovi fl ussi di ricavi.
I due modelli di business circolari prevalenti sono il recupero di risorse (84,9%) e l’estensione della vita del prodotto (72,2%), seguiti dall’adozione di forniture circolari e la sostituzione di risorse tradizionali con altre completamente rinnovabili, riciclate o alternative (56%). Al pari dell’introduzione di modelli più recenti quali il product-as-a-service (PaaS) (40,5%) e le piattaforme di sharing (40,2%).
La creazione di una supply chain più sostenibile (67,7%) è di gran lunga l’azione più implementata, al fi ne di raggiungere un approccio più circolare. A questa fanno seguito la progettazione del prodotto, considerando gli impatti sull’ambiente, e le risorse durante il suo intero ciclo di vita (60,4%), la riduzione nell’uso di materie prime vergini (57,3%) e gli investimenti tecnologici (53,1%).
Nel complesso, le imprese leader stanno implementando modelli di business circolari ad un ritmo molto più sostenuto rispetto alle altre. D’altronde, dalla loro implementazione il 63,8% rileva risparmi sui costi, il 54,3% un miglioramento della propria immagine pubblica e il 48,9% un miglioramento nella conformità coi requisiti legali e normativi. I risultati che sono quindi già evidenti.
I leader sono anche coloro che comunicano in maggior misura le performance dei prodotti o delle iniziative circolari. Il bilancio di sostenibilità è utilizzato dal 48,9%, mentre il 46,8% usa il sito web aziendale o altri canali di comunicazione istituzionali. Il 34%, inoltre, condivide informazioni tramite l’etichetta del prodotto.
In sostanza, al netto delle verifi che di terza parte, particolarmente utilizzate dalle imprese leader, l’uso dei canali è in gran parte lo stesso per tutte le aziende.
Per ciò che riguarda le competenze, invece, resta il fatto che i team di progetto di economia circolare devono comprendere competenze multidisciplinari, reperite sia all’interno sia all’esterno. Inoltre, più il modello è avanzato, maggiore è il coinvolgimento di esperti di tutte le discipline.
Le risorse esterne, specialmente nelle aree più specialistiche, tendono ad essere particolarmente rilevanti nelle fasi iniziali, con costi che normalmente le imprese più piccole hanno serie diffi coltà ad affrontare. Pertanto le aziende leader — che hanno maggiori risorse — coinvolgono, nei progetti di economia circolare, un maggior numero di esperti e in più discipline e fanno grande affi damento sulle soluzioni digitali, mentre per le altre questo è uno dei problemi maggiori.
Come dimostra la ricerca, la transizione richiede prima di tutto un cambiamento sistematico e organizzativo, collaborazioni e coinvolgimento di tutta la catena del valore, compresi i consumatori. Con costi e uno sforzo iniziale che non tutti possono affrontare con facilità. La direzione presa però è ormai questa e indietro non si torna.
Guido Guidi

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Allarme Coldiretti: dalla pesca alle serre, travolte dal caro energia
Il caro petrolio blocca i pescherecci italiani nei porti e spegne le serre di fi ori ed ortaggi con l’esplosione dei costi energetici che rappresentano la voce principale dell’attività produttiva: è quanto afferma Coldiretti in riferimento al balzo dei prezzi di benzina e gasolio spinti dalla corsa delle quotazioni record dell’oro nero. L’aumento nell’ultimo un anno del +67% del prezzo medio del gasolio sta affondando la fl otta nazionale costretta a navigare in perdita o a tagliare le uscite secondo Impresapesca Coldiretti, che sottolinea come fi no ad oltre la metà dei costi che le aziende ittiche devono sostenere è rappresentata proprio dal carburante. Con gli attuali ricavi la maggior parte delle imprese di pesca — spiega Impresapesca Coldiretti — non riesce a coprire nemmeno i costi energetici oltre alle altre voci che gli armatori devono sostenere per la normale attività. Senza adeguate ed urgenti misure per calmierare il costo del carburante le imbarcazioni sono costrette a pescare in perdita se non addirittura a restare in banchina con gravi ripercussioni sulla fi liera e sull’occupazione per un settore che — sottolinea la Coldiretti — conta complessivamente 12.000 imprese e 28.000 lavoratori, con un vasto indotto collegato.
L’aumento record dei costi energetici spegne anche le serre e mette a rischio il futuro di alcune delle produzioni più tipiche del fl orovivaismo nazionale come tra gli altri il ciclamino, il lilium o il ranuncolo. E se in altri settori si cerca di concentrare le operazioni colturali nelle ore di minor costo dell’energia elettrica — rileva la Coldiretti —, le imprese fl orovivaistiche non possono interrompere le attività pena la morte delle piante o la mancata fi oritura. Le rose ad esempio hanno bisogno di una temperatura fi ssa di almeno 15 gradi per fi orire e lo stesso vale per le gerbere, mentre per le orchidee servono almeno 20-22 gradi per fi orire ed in assenza di riscaldamento muoiono. E chi non riesce e far fronte agli aumenti è così costretto a spegnere le serre e cercare di riconvertire la produzione. Un trend che pesa gravemente su un settore cardine per l’economia agricola nazionale che vale oltre 2,57 miliardi di euro, generati da 27.000 aziende fl orovivaistiche attive in Italia, con un indotto complessivo di 200.000 occupati, secondo Coldiretti.
Ma in un Paese come l’Italia dove l’85% delle merci per arrivare sugli scaffali viaggia su strada,
l’aumento di benzina e gasolio ha un effetto valanga sulla spesa di famiglie e sui costi delle imprese. A subire gli effetti dei rincari — sottolinea ancora la Coldiretti — è infatti l’intera fi liera agroalimentare, dai campi all’industria di trasformazione fi no alla conservazione e alla distribuzione. Per le operazioni colturali gli agricoltori sono stati costretti ad affrontare rincari dei prezzi fi no al 50% per il gasolio necessario per le lavorazioni dei terreni, senza dimenticare che l’impennata del costo del gas, utilizzato nel processo di produzione dei fertilizzanti, ha fatto schizzare verso l’alto i prezzi dei concimi, con l’urea passata da 350 euro a 850 euro a tonnellata (+143%).
L’aumento dei costi — continua la Coldiretti — riguarda anche l’alimentazione del bestiame e i costi di produzione come quello per gli imballaggi, dalla plastica (+72%) per i vasetti dei fi ori alla banda stagnata per i barattoli (+60%), dal vetro (+40%) per i vasetti fi no alla carta (+31%) per le etichette dei prodotti che incidono su diverse fi liere, dalle confezioni di latte, alle bottiglie per olio, succhi e passate, alle retine per gli agrumi ai barattoli smaltati per i legumi. Su questo scenario pesa il defi cit logistico italiano per la carenza o la totale assenza di infrastrutture per il trasporto merci, che costa al nostro Paese oltre 13 miliardi di euro, con un gap che penalizza il sistema economico nazionale rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea. In Italia il costo medio chilometrico per le merci del trasporto pesante è pari a 1,12 €/km, più alto di nazioni come la Francia (1,08 €/km) e la Germania (1,04 €/ km), ma addirittura doppio se si considerano le realtà dell’Europa dell’Est: in Lettonia il costo dell’autotrasporto è di 0,60 €/km, in Romania 0,64 €/km; in Lituania 0,65 €/km, in Polonia 0,70 €/km secondo l’analisi di Coldiretti su dati del Centro Studi Divulga (www.divulgastudi.it).
