Latitudini

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L'ARABESCO L'arabesco è il più ideale di tutti i disegni

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Pierluigi Lanfranchi

Latitudini

Edizioni O.M.P. FarePoesia


Edizioni O.M.P. Farepoesia Pavia, 2008 ISBN 978-88-95762-05-0 Officina Multimediale Pavese associazione di promozione culturale viale campari 83/d pavia www.mupa.it Farepoesia fanzine murale ed elettronica di poesia e arte sociale www.farepoesia.it Stampa Print Service S.r.l. In collaborazione con Rivista Kronstadt (www.kronstadt.it) Progetto grafico Stefano Menegon Responsabile editoriale Luca Schiavi Collana a cura di Tito Truglia

DISCLAIMER I diritti dell'opera contenuta in questo libro appartengono a Pierluigi Lanfranchi. L'opera è rilasciata sotto la disciplina della licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 2.5 Italia. Il riassunto e il riferimento alla licenza sono disponibili a pagina 67


Nota Voyage autour d’une chambre, Vacanze romane e Rue Bichat sono state pubblicate nella plaquette Canicula, Battello Stampatore, Trieste 2007.



Prefazione

Leggendo le poesie di Pierluigi Lanfranchi ho l’impressione di imbattermi nel frutto, tanto posato e educato da risultare inquietante, della promiscuità fra un geografo, un geometra e un allegorista: incontro opere di misurazione e riduzione in scala, e tentativi di attribuzione di senso, all’interno di un’area liberata, tramite meticolosa disinfestazione, dal parassitaggio espressivo-emotivo con cui oggi si vendono automobili, contratti telefonici ed elettrodomestici. Un buon inizio, evidentemente. La fibra metrica di queste poesie si palesa, nei suoi diversi significati, fin dall’incipitaria Elegia di Dumbarton Oaks, e interviene a correggere la più superficiale caratterizzazione che si potrebbe dare del libro, quella del diario in versi, referto del contatto di un viaggiatore, o turista, con il variegato spettacolo del mondo. Il mondo, qui, appare solo dopo il processo che lo ha riportato, e appiattito, sulla carta: carta geografica con le sue cornici e i suoi reticolati, o foglio bianco che poco a poco si riempie di linee di scrittura. A collegare cartografia e poesia sono i «numeri» e i «nomi», ovvero, certo, le coordinate geografiche, e i «cardi» e i «decumani» (segni di come la realtà venga ricalcata sulla carta, e non il contrario), ma anche le sillabe e gli accenti dei versi, che con le loro regolarità costruiscono le scatole sonore, griglie per l’occhio e supporto per la voce, di cui la poesia è fatta. La maggior parte delle poesie che qui si leggono è ambientata in interni (camere, caffè, vagoni ferroviari: interni di cui l’autore si dimostra ottimo architetto), perché esse stesse sono stanze: costruzioni logiche e retoriche ad alto tasso di improbabilità che, con le loro geometrie “dure”, possono proteggere chi VII


le abita. Che sia anche un filtro, la poesia, un depuratore o condizionatore, che «mantiene all’interno / un’aria respirabile rispetto all’inferno / di fuori»? Per fortuna la rima, fortemente oppositiva, interno – inferno sta all’inizio e non alla fine del libro; è la prima tessera di un quadro più complicato. A far sospendere le possibili accuse di intimismo da anima bella sta la constatazione che spesso gli interni suddetti si trasformano in ciò che Henry Miller chiamava «incubi ad aria condizionata» (vedi il desolato Voyage autour d’une chambre). Le pareti della casa, le sicurezze della forma, sono bipolari: difensive ma anche segreganti, esse salvano ma contemporaneamente imprigionano il soggetto inchiodandolo alla sua passione («come un Cristo morto»). Ma allora cosa c’è fuori? Cos’è quell’incognita da cui occorre difendersi, e di cui non si può fare a meno? È il tempo, ed è la morte. Non il tempo misurato, addomesticato dei versi, che attraversato il giusto numero di sillabe torna indietro e ricomincia il suo passo (reso figura proprio nella camera, con la linea delle pareti che curva di novanta gradi per tre volte fino a ricongiungersi a sé), ma un tempo informe che inghiotte e cancella ogni cosa. Credo che al centro del libro di Lanfranchi stia il rapporto, impossibile e necessario, tra metrica e non misurabile, tra numeri e non numerabile. Alle zone, ai poli in cui l’opera si bipartisce, Nord e Sud, corrispondono due modalità di informe, messe di fronte, alla distanza di un vetro, di un diaframma, a un ordine e una forma non clamorosi o esibizionisti ma non per questo meno tenaci e vincolanti. Il nord è il regno dell’inverno, e dell’acqua, in forma di pioggia o di ghiaccio: scorrimento continuo e fuori misura della pioggia o invivibile gelo del ghiaccio (in Due nella neve la più rigida e virtuosistica delle for-

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me, la sestina, mima, forse per ingannarla, la stretta mortale del freddo); il sud è il polo dell’estate, del calore e del fuoco (dove persino «l’ombra avvampa»), che hanno l’effetto di liquefare, far colare in grumi gli oggetti, e dilatare enormemente, fino a renderlo sproporzionato e dunque diversamente inabitabile, il tempo. E la poesia? Sibila e ronza, come un condizionatore, o come le ultime zanzare di ottobre. Si sforza, con una specie di pacato eroismo stoico (e i modi stoicheggianti non possono che diffondersi in un tempo privo di modelli autorevoli come il nostro, «eclettico e conservatore» secondo Alain Badiou, dove ciascuno deve arrangiarsi come può), di star dietro al compito che sembra spettarle, quello del dare forma (interessantissima a tal proposito la relazione tra metro e parole: sono frequenti versi che solo a patto di forzosi “stiramenti” – tramite dialefe e dieresi – arrivano al numero di sillabe fissato dallo schema, come se le parole faticassero a sostanziare la forma del verso, come se accusassero un’incipiente «asfissia»). Si accende a tratti di punte e acutezze barocche, ricordandosi che il barocco è il più grande tentativo dell’ordine di geometrizzare il disordine, di incorporarlo senza sopprimerlo e senza morirne. Ma proprio come le zanzare d’ottobre, che vengono da Giacomo Lubrano, la poesia non punge; la si avverte solo per il suo rumore, o la sua musica. Come usare questa musica, con cosa connetterla, cosa farne, è questo il problema. «For poetry makes nothing happen», diceva Auden, «it survives» finché ne ha la forza, e non è poco: conserva traccia di quel «mouth» che l’ha formata e pronunciata, in attesa di un’altra bocca che la faccia di nuovo ronzare. La poesia non fa accadere nulla: non da sola, almeno. Federico Francucci IX



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Nord

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Elegia di Dumbarton Oaks

a Emilie I. Dalle colline della capitale l’Impero dissimula colonne, cupole e marmi dietro quinte di siepi, querce e case in stile tardo federale. Impossibile smarrirsi dove i cardi hanno numeri al posto dei nomi e i decumani lettere. Sei un punto che si muove su un piano, una x sull’ascissa del viale se dall’alto ti fissa geometrica la pupilla di un falco.

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II. Sulla piÚ alta delle colline un giardino. All’ingresso un’epigrafe con versi in latino. Oltre il muro di cinta della villa il tempo travestito da secolo decimonono a stento riesce a farsi non dico futuro, ma almeno presente. Una ninfa raggiunta dal sileno all’istante diventa marmo tra i cespugli. Lo zodiaco a stella trafigge un granchio: luglio.

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III. Interno in penombra. Scricchiolano le assi cerate del parquet sotto il peso dei passi. Un domestico lucida il passamano della scala. In biblioteca, piegati su sigilli e dracme, due tedeschi decifrano legende in greco nella mano reggendo una lente d’ingrandimento. Al muro una natura morta con teschio e pipa di mediocre fattura.

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IV. E forse qui tra questi mogani, i volumi eruditi e i volti assorti che illumina la lampada da tavolo, un rifugio è possibile, un modo che ci scampi, proprio come il sibilo del condizionatore mantiene all’interno un’aria respirabile rispetto all’inferno di fuori. In strada – ad ogni modo troppo distante – ulula la sirena cupa di una volante.

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V. Il giornale ha la data di oggi e la lancetta piÚ lunga nel quadrante doppia l’altra esattamente a ogni ora. E sia. Ma non potrebbe essere il padrone di casa a farsi beffe degli ospiti, a mettere apposta gli orologi avanti? I minuti per una loro logica inesplicata invece di scorrere a schiere si addensano, ritardano. Fuori un giardiniere

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VI. pettina a contropelo l’erba con un attrezzo elettrico là dove si apre la terrazza dei rosai. Dell’intero parco questa è la parte prediletta dai coniugi collezionisti d’arte che nel ’20 comprarono con la di lei fortuna (proventi sul brevetto di un elisir per gli uni, di un lassativo insinuano altri) il terreno e la villa in rovina per farne un loco ameno,

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VII. un loro buen retiro. Non stupire se vedi scendere da un toro una fanciulla a piedi nudi. Tutto qui parla di Europa: il disordine studiato dell’erbaio, le siepi lungo i bordi dei viali, la fontana nell’ellisse. Persino la quercia abbattuta dal vento alla fine dello scorso inverno si dice che avesse più o meno l’età della quercia di Tasso

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VIII. sul Gianicolo a Roma. L’aria vibra di insetti a quest’ora. Se guardi oltre il parapetto e levi gli occhiali avrai un paesaggio impressionista: grumi di luce, ombre, raggi, stille di fuoco dalle foglie, policromia che stinge nell’incerto verde della miopia ossia della memoria. La notte su Dumbarton Oaks non scende mai un minuto in ritardo.

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Zanzare in ottobre

ci ruba un schizzo d’essere la pace - Giacomo Lubrano Le zanzare che tutta la notte ci molestano alternativamente ronzando ora a me ora a te dentro gli orecchi – ditteri tardivi che ci tengono desti non già con punture e con tosco ma per il solo fastidio del volo nel nero della stanza così forte da pinzare la mente – quando poi fuori schiara mentre ancora cerchiamo se sono allegoria di qualcosa le zanzare stremate più di noi vanno via.

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Bassa marea

Infastidito dalle sassaiole dei bimbi e accecato dal bianco della scogliera il mare si ritira lontano lasciando sul fondale pascoli d’alghe, rocce fiorite di corimbi. Figuranti in cerca di molluschi vi frugano pazienti. Mi domando se possa dirsi pesca questa spigolatura marina piÚ modesta della terrestre: scampano al flusso in qualche ruga soltanto gusci, granchi, piÚ raramente ostriche senza perle, ben miseri relitti se rifletti al fitto bulicame che ribolle di sotto, a tutto il corallo, ai polpi, ai mostri nascosti negli abissi. Che si arenino sulla spiaggia le meraviglie sommerse non attendere, ma quando le conchiglie fremono sotto l’onda immergi lo scandaglio, sonda dentro il nulla.

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7 Reece Mews

A Londra si smonta lo studio di Bacon per poi ricreare uguale a Dublino in qualche museo lo stesso casino: barattoli secchi a terra e spreco di colori sui muri, ovunque strati di polvere, grumi di tempera, scarpe spaiate, ritagli, riviste di arte bottiglie di whisky e tele sventrate, pennelli confitti in vasi di latta identici ai giavellotti e alle lance di Paolo Uccello. Il cibo rancido sulle stoviglie infestate di blatte è stato gettato perché le narici dei visitatori non sappiano il fetore di corruzione. Idem i contenitori di sostanze nocive e di vernici. Feticci che ci raccontano una storia come dalla fessura di una porta che in questa Pompei domestica la morte spalanca per mostrare detriti e scorie. Leviamo i sigilli e senza invito entriamo approfittando dell’assenza dell’ospite. Pezzo a pezzo l’esistenza proviamo a comporre, a rifarne la vita. Relitti privati. Memorie. Perché anche noi indossiamo un accappatoio a strisce, ci sbarbiamo con un rasoio uguale a questo, beviamo del tè. 15


Perciò crediamo di capire. Ma Bacon non abita più al sette di Reece Mews. Staccato in eterno il telefono, chiuse le imposte. Se chiami a rispondere è l’eco.

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Sette sonetti per una città

a Kees Verheul I. La pioggia fa da terza dimensione a questo paesaggio altrimenti del tutto piano, una composizione monocroma di linee e gradienti creata da un Mondriaan divino. Sulla campagna un silenzio compatto. Soltanto l’elica di un mulino eolico apre l’aria con esatta cadenza. Poi la pioggia si arresta. Il sole scopre la trama d’argento dei canali. Nell’occhio di chi osserva da un treno questi raggi convergenti fanno girare come una ruota di bicicletta l’orizzonte vuoto.

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II. La pioggia sferza le torri neogotiche della stazione. L’ago nel quadrante dell’anemometro ondeggia avanti e indietro attratto da un nord dispotico. Sembrano tendere tutti i passanti a un punto, ma secondo caotici disegni o lungo linee asintotiche, quindi restando tra loro distanti. Come uno dei martiri a Sebaste al supplizio del gelo non resiste l’ombra che il trabocchetto di una porta girevole sottrae alla scena. Nessun altro di certo si è accorto del vacuo che ha lasciato la sua pena.

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III. La pioggia scroscia obliqua contro i vetri e la stella dell’insegna illustrando ai clienti seduti in veranda la teoria del clinamen. Da scheletrici rami e dalle ciglia delle grondaie sgocciola senza posa. Al selciato s’incolla il fogliame come al palato la lingua. Dai tombini le caldaie alitano vapore. Un nessuno in impermeabile entra nel fumo del caffè per sottrarre al paesaggio ogni traccia di sé: autonegazione significa che non c’è distinzione tra prima e dopo il nostro passaggio.

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IV. Nell’acqua dei canali si riflettono capovolti i frontoni dei palazzi come spalliere in fila di letti barocchi. Attorno alle barche guazzano le folaghe. È immobile lo specchio su cui aleggia dal principio un occhio liquido. O quasi. Le cose rifratte nell’H2O perdono i contorni netti, anche la pietra si deforma, l’acqua inarca le linee rette per effetto dell’onda e le spezza. La città tiene i piedi a mollo fino alla caviglia in questo catino dove il flusso intacca la saldezza.

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V. Non è più alto il sole a mezzogiorno né più lucente dei rari lampioni che si alonano di arancione nel cielo inallusivo e disadorno. I corvi a scatti si guardano attorno zampettanti sui fili in tensione. Dall’immobilità dei cornicioni si scioglie in volo una schiera di storni. Anche per gli uccelli una retta è la linea più breve che unisce il davanzale al vertice del tetto, ma nelle nubi senza superficie come in un vetro coperto di polvere la prospettiva sfuma, si dissolve.

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VI. La pioggia riga i cristalli del tram con gocce in tutto simili a flagelli di semi. Ad ogni svolta una scintilla illumina il cielo di Amsterdám. Sopra la strada i lampioni oscillano sospesi ai fili che il vento sgronda ora allungando ora scorciando l’ombra dei passanti aggrappati ai loro ombrelli. Si aprono i ponti, i bracci levati come in atto di arrendersi all’inverno. La pioggia ammolla le ossa all’interno come l’olio il midollo di patate fritte. Un corpo trascina l’ombra fradicia fino a casa, entra, appende il soprabito.

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VII. Parlano un identico linguaggio la città e la pioggia, geometrico elementare. L’occhio dietro ai vetri impara a guardare il paesaggio nel suo luogo natale. Millimetrico lo sguardo. Inutile ogni personaggio osservatore incluso. Il coraggio è sapere sparire nella metrica, svoltare all’angolo. Mandano ancora riflessi i vetri anche se le tende sono tutte calate a quest’ora. Dentro si scorgono sagome intente a qualcosa – sui fogli segni, forme. Sotto la palpebra l’occhio non dorme.

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Voyage autour d’une chambre

a Daniel Grempel in memoriam Una stanza d’albergo. Moquette. Lampada. Letto. Le tariffe in esergo sulla porta. Lucchetto. Oggetti. Chiavi. Sveglia. Nell’angolo: lavabo. Specchio. Vetro a smeriglio. Bicchiere vuoto. Cavo elettrico. Sui muri crepe dall’alto in basso. Macchie. Tendine luride di tulle. Un materasso a molle. Dal soffitto la luce fa l’elenco di ciò che cade sotto il suo occhio. Memento mori anch’esso, rassegna dell’ammasso di cose che allo sguardo consegnano le parti polverose, al tempo il lato solido. Il peso ha sempre sete di cadere, ma i mobili rinunciano alla meta

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delle mete contenti di appoggiare mani e piedi al pavimento del penultimo piano. Entelechia e atto degli oggetti: restare dove uno li mette e non desiderare.

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* La stanza è una scatola chiusa in altre sempre più grandi. Ogni lato stira le proprie membra fino a un certo punto. Poi incontra un ostacolo e piega di novanta gradi l’arco dell’angolo. Sul pavimento trappole per formiche. Altrimenti detto: nessuno scappa nell’infinitamente piccolo e nemmeno nel grande. Al soffitto la funzione coseno tracciata da un insetto. La carta da parati marrone che si scolla da una delle pareti. L’interruttore della luce. L’attaccapanni. La presa. Un calendario vecchio di cinque anni. Polvere. Il lampadario iscrive il suo cerchio nel plafond. Se si chiude come sotto un coperchio lo spazio, ci si illude

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di fare altrettanto con il tempo. Gli oggetti cedono a questo incanto. Solo loro lo accettano.

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* Un armadio aperto. Specchi. Grucce. Cassetti. I ripiani deserti all’interno. Sacchetti di canfora. Al suolo: valigia. Scarpe. Maglie. Mutande. Uno stuolo di lattine e bottiglie. Materiale inerte. Tracce di atti compiuti, gesti. Muti referti. E per quanto li scruti la pupilla e notifichi i dettagli al cervello con puntiglio scientifico, non può sapere quello che le cose nascondono. Solo frammenti. Indizi. Per il resto un profondo silenzio. Il viaggio inizia e finisce allo stesso punto. Parte e ritorna alla porta d’ingresso. Ma guarda meglio attorno: sparsi sul copriletto peli, ciglia, crateri spenti di sigaretta capelli tinti in nero

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e disteso - oggetto tra gli oggetti - un corpo per lungo. Un relitto. Come un Cristo morto.

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Rue Bichat

Rientrando da te una sera in rue Bichat ci fermiamo sul ponte accanto alla chiusa. Sui gradini trascina la lingua l’ombra sciatta di alcuni passanti. Al modo in cui annusa un randagio l’altrui didietro così le nubi annusano la luna. Si svuota la vasca alta. Nel bacino di sotto il livello sale. Tubi e condotti di scarico sono presi d’assalto dalla massa liquida. Dura però la stasi, l’equilibrio idraulico. Stare lì per ore a fissare rubinetti giganti, giunte, vasi comunicanti, poi salire da te per l’amore.

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In treno

Un binario deserto: compiuto l’ennesimo giro la lancetta più rapida aspetta che l’altra scatti, nell’attesa del tac trattiene un istante il respiro, poi riprende a contare i secondi. La porta sbatte. Stride il metallo: il treno sgranchite le ossa vince la forza d’inerzia. Benché solidale con il sistema intuisci che adesso si è mosso. Pensi: spostarsi è un esperimento mentale. La ragazza seduta di fronte si specchia nel vetro. Alla tempia una vena disegna le anse del Volga che discendono fino all’orecchio. Guarda indietro, le sue spalle rivolte al futuro. Speri distolga gli occhi dal proprio riflesso, dalle luci delle auto che ottunde una nebbia buia. La pianura libera spazio e silenzio dalle loro celle. Pensi: se questa è la morte non aver paura.

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Due nella neve

Si fanno schermo, alzando entrambi i guanti agli occhi, dal riflesso della neve stesa come la bella addormentata su ogni cosa piana nel suo bianco e inamidato mantello di ghiaccio i cui lembi solleva a tratti un soffio. Fragile l’aria quasi uscita al soffio di un vetraio, da toccare coi guanti se no si spezza e turbinano ghiaccio in schegge fitte e cristalli di neve. Silenzio è il solo suono che il bianco produca nella piana addormentata. La donna esausta s’è addormentata sotto un masso al riparo dal soffio che assilla e dall’ossessione del bianco. Lui le bacia le tempie e, tolti i guanti, le falangi. In ginocchio nella neve prova a strapparla al sonno e al ghiaccio. Gli trafiggono mille aghi di ghiaccio la mente e l’estremità addormentata dei suoi arti formicola. La neve, che adesso scende trattenendo il soffio, per non lasciare impronte mette i guanti e occulta l’arma nello sfondo bianco. Il colore del silenzio è un bianco abbacinante: un muro di ghiaccio contro cui battono sordi due guanti stretti a pugno. Si è addormentata ogni parte del corpo ormai. Il soffio del respiro si spegne nella neve. 32


Il buio della notte dà alla neve un aspetto bluastro non più bianco. S’è solidificato anche il soffio del loro fiato. Rigidi nel ghiaccio non sono che una statua addormentata, sfilati dalla vita come guanti. Al primo soffio coprirà di bianco la neve l’ultima traccia nel ghiaccio della coppia addormentata: i guanti.

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Versi per Giuseppe Giusto Scaligero Fuori la pioggia sfrigola come olio in pentola. Cigola un cancello. Sbatte. Il platano sventola un sacchetto di plastica, ma non placa il tormento delle raffiche. Indica il lunario il ventuno marzo: anche quest’anno, senza avviso alcuno, la primavera ha perso il momento opportuno per cominciare. Dura nelle tane il letargo, nei termometri dorme il mercurio, nei bar appannati la gente cerca scampo all’embargo dell’inverno bevendo ginepro e acquavite. Gira sopra la porta del barbiere la vite perpetua dell’insegna su se stessa, reitera la propria tripla elica con effetto ipnotico (è la stessa vertigine che spalanca il vuoto del tempo), riavvolge le spire monotona, ma non incanta i refoli che secchi come schiaffi schiantano i rami morti, squassano siepi, graffiano i vetri delle auto in fila in mezzo al traffico. Più di questa tempesta è la storia, Scaligero, che infuria e tra i generi continua a prediligere quello tragico, come quando, qui tra indigeni e profughi, dei secoli raccoglievi i tesori e ne emendavi i calcoli. Confondere la storia col tempo è stato il più grave dei tuoi errori. Te ne sei reso conto solo dopo che ha smesso per sempre il cigolio delle vertebre, adesso che per te il verso (avanti/indietro) è lo stesso. 34


Montréal

Cammino stasera attraverso suburbi che ignoro in cerca d’un cinema, un bar, un locale qualsiasi. Ed eccomi perso che vago alla cieca da circa un’ora nell’ortogonale delirio di strade ed incroci. Abbaiano cani da dietro steccati poi tornano afoni a cuccia. Non meno feroce la pioggia crivella uno spettro sospeso ad un palo: il semaforo. Mi chiedo che cosa ci faccia in questo insensato quartiere di questa metropoli reale soltanto di nome. Sfilaccia il vento ricordi e pensieri. Il punto di fuga dei viali si perde nel buio privando la tua solitudine di ogni possibile ostacolo. Inutile provare a riprendere, quando ti infili al contrario in un sogno, la strada da cui sei venuto. Il neon d’un’insegna ossessivo cancella e riscrive sul nero le lettere (mutila l’ultima) d’un nome. Dilavano i rivoli l’ingresso del bar. La cerniera dei cardini emette singulti sinistri. Gli occhiali si appannano

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appena varcata la soglia velando di spessa condensa lo sguardo che attorno s’affanna. Dal banco la radio gorgoglia le note di un pezzo melenso. Deserta la sala. ‘Desidera?’ domanda una voce. ‘Qualcosa di forte’. ‘Spiacente, signore: alcolici niente’. Sorride. ‘Espresso?’ e la mano già dosa la polvere. Come il dolore potrebbe trovare un antidoto in questa brodaglia che usurpa il nome caffè? La tazzina racconta sul fondo un capitolo non scritto. Vi leggo (e mi turba) sull’ultima pagina: fine. Non muta alla terza zolletta di zucchero il liquido. L’unico effetto: la pena diventa ancora più amara. ‘Ha l’aspetto d’un uomo’ mi fa ‘su una fune che oscilla’. In effetti dei cent di dollaro (Croce: la foglia d’un acero. Testa: regina) tintinnano in tasca. ‘Mi sono perduto e non so dove sbaglio. Capisce? Mi chiedo alla fine se esista ritorno o perdono’. ‘Addio’. Mi abbottono il paltò ed esco per strada. La pioggia ha smesso. Un’infida pellicola di ghiaccio ricopre l’asfalto.

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Il piede comunque lo poggi si sente in continuo pericolo. Davanti alle luci di lerce vetrine si specchia un automa umano (lo vedi dal pianto per cui fa fatica a vederci). Impara tacendo l’idioma di questa città : il desperanto.

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Sud

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Prima lettera da Siviglia

Le palme esili e alte sono punti esclamativi a rovescio: un modo come un altro con cui il paesaggio si stupisce di un febbraio tanto mite. Lungo piazze e marciapiedi gli aranci si prendono per lampioni in pieno giorno già accesi. Perché l’inverno betico sia almeno un po’ più credibile la gente, quando esce, si infila il cappotto o l’impermeabile, del vento di ponente lamentandosi che lucida il cielo e ruota il Giraldillo sulla cima della torre. Il velo in scompiglio, la Fede volge scudo e palma verso Sud dimentica di quando non si era ancora posata lassù sopra l’unica sfera superstite di un dio aniconico. Ma il punto cardinale opposto, altri prefissi telefonici e codici postali, un’altra fedeltà indica il polo magnetico dell’anima. Perciò ti scrivo confuso e solo al tavolino d’un bar. La distanza, se la misuri in versi, 41


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è più breve di quella che separa due punti dispersi nello spazio perché il foglio, come una tavola di atlante, ha dei margini e riducendo la scala anche i punti distanti si approssimano, al limite si toccano. Il vetro imprime cerchi sul foglio, superiore in ciò alla penna e all’occhio che cerca rime dentro gli oggetti, nel paesaggio, in cose d’ogni genere. Il dito indice sta alla tempia come al posacenere la sigaretta spenta. Torce in pietra ardono sulle guglie come ricci di una grafia barocca. Più in alto pattugliano i piccioni il palazzo degli Archivi chiuso per lavori. La gorgiera di bronzo cinge il collo non del Commendatore, come ti aspetteresti, bensì quello del suo assassino. Invece io ti scrivo sull’umile carta imbrattata di vino.


Paesaggio

Il vento si solletica, passando sulle spighe, il palmo della mano imbrattato di polline. Sul ciglio della strada colonne di formiche spariscono ed emergono da un foro. Le rondini, chiuse le ali, si tuffano in distese di meliga, che fendono al loro passaggio gli eterni convogli dei camion. C’è aria di domenica all’immota fermata della linea esterna. Ancora uno sbadiglio e come una pillola questa sera di maggio deglutirà il sole: l’ultimo raggio è poco più d’uno spillo che punge la pupilla di un solo spettatore.

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Vacanze romane

I. Nell’albergo romano ronza l’aspirapolvere. Il portiere si sforza invano di risolvere un cruciverba della Settimana enigmistica. Di guardia sulla soglia abbaia ai turisti una specie di sfinge sotto mentite spoglie di un portaombrelli – o soltanto sbadiglia? Piede gonfio e pulsante, un edipo in vacanza rientra anzitempo e sale nella sua stanza. Pomeriggio di luglio. L’invito don’t disturb che pende alla maniglia è rivolto all’Urbe, ma lei lo ignora: simili a mille moscerini nelle strade di Roma sciamano i motorini.

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II. Una donna passeggia. Il suo passo rimbomba nel vuoto dei tombini, in androni, in trombe di scale dove l’ombra si rifugia dai raggi. Liquefatto l’asfalto, sopra la via galleggia un’aria arroventata. Batte il tacco come un acciarino: tutto rischia la combustione al suo passaggio. Struscia la ruvida epidermide dei palazzi il vestito leggero, sfiora i termini dei portoni col dorso della mano e l’ingorgo del traffico si scioglie e la sua mente, gorgone a rovescio, risveglia fiumi barbuti, sarmati in catene, altri barbari in esilio nei marmi.

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III. La sagoma del corpo, violando un precetto pitagorico, resta come impressa sul letto quando lui si trascina verso il cesso. Ridotte a un ammasso di carta che qualcuno appallottola le lenzuola giacciono al suolo. Nel tragitto si mette a quattro zampe – delle cose descritte dall’enigma è la prima – sofferente e tutto sudato e perciò vivo: un anfibio all’asciutto. E complice del tempo goccia il rubinetto calcare misto a ruggine. Ancora non fa effetto il cachet d’analgesico sul dolore che batte nelle dita del piede con il ritmo di un dattilo.

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IV. Se il corso rettilineo del tempo a intervalli prendesse a oscillare come il tergicristalli di un’auto, se ancora avesse centro e limes l’impero, lei sarebbe venuta dal confine estremo, dalle lande basse, dalle paludi dove hanno cento nomi per il fango e i rudi costumi che amavano Agricola e Tacito. Ma lei senza complessi tra colonne che l’acido delle piogge consuma, cubicoli di ville, fori e terme si aggira, affissa le pupille nei globi oculari degli imperatori, accarezza la lupa senza alcun timore.

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V. Nella luce non onde, ma infiniti corpuscoli vibrano risplendendo. Un fascio di pulviscolo passa così le tende, traversa la penombra della stanza e di spazio di nuovo la ingombra, così in mezzo alle palpebre si accende una virgola di luce e gli oggetti si dispongono in circolo. Poi lui prende un foglio e traccia con la penna delle parole-insetti, quanto loro perenni, dove la città intera sta come in miniatura. Ma per quanto ancora, se in questa calura tutto, persino l’ombra, avvampa senza tregua e come perla sciolta nell’aceto dilegua?

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VI. Gli angeli custodi dei ponti ripiegando le loro ali fanno cenno ai mortali quando cala un’altra notte sulla città eterna. Ma l’assedio dell’afa non cessa, all’interno dei bidoni fermenta anche adesso la monnezza come durante il giorno. Lei con naturalezza attraversa le strade che solo da straniero fingendo di ignorare lingua, nomi, maniere lui potrebbe percorrere. All’ingresso la sfinge tradisce il suo mistero quando la donna spinge la porta dell’albergo lasciandosi alle spalle le reliquie immense e solenni del nulla.

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Parole di Elkana ad Anna

Anna, perché piangi? Lacrime di rimmel rigano le guance, sul cuscino stillano una lunga aiyn. Dimmelo, cos’hai? E perché non mangi? In cucina c’è spremuta d’arancia. Fuma il caffè. Prima che si freddi, vieni. Che aspetti? Perché il tuo cuore è triste e negli occhi la luce scolora? Abbracci i ginocchi sotto le coperte fetale e inerte. Morde il tuo dolore. Sanguinano sillabe dal labbro, parole mute. La pupilla brucia nella febbre. Diranno: è ebbra, smaltisca il suo vino. Ma dilla la scabra preghiera vicino alla tenda, che apra l’orecchio al Dio delle schiere, al Dio 50


di Sara e di Abramo. Asciugati il pianto. Ascolta. Ti amo. Stavolta non mento pi첫: non sono meglio io di dieci figli.

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Cartoline greche

ad Alfonso Non tira un filo di vento a Dodona e per questo ci si sente perduti nel labirinto di pietre inutili, denti rotti, frammenti che abbandona a quest’ora anche l’ombra. Pur sapendo bene che non si tratta della stessa quercia, comunque ho, come promesso, posto all’oracolo la tua domanda. Significava di sicuro 'sì' ciò che ho sentito. Sì - ci giurerei. D’altra parte il segreto con gli dèi sta nel modo in cui formuli il quesito.

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* Se ti affacci certi giorni limpidi senz’afa - qui estremamente rari dal nostro balcone in via Gounari puoi vedere i contorni dell’Olimpo. Ma c’era scarsa visibilità quando l’imperatore a Tessalonica come si scioglie un’orchestra sinfonica congedò tutte le divinità. Se anche i templi furono distrutti non per questo gli dèi sono scomparsi. Ripeto questi versi. Sì, può darsi, ma è difficile ignorare l’editto.

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* Sui marmi dorsi ruvidi di rospi come certe verruche sulla pelle. Nella palude coppie di libellule sbirciano unirsi i loro doppi: ospiti e custodi di questo tempio semisommerso. Un corpo di pietra smembrato eroso, steso sott’acqua su un prato di fibre scure. Metterne insieme tutti pezzi per lei sarebbe un gioco: Isis elementorum omnium domina, victrix, regina, dea dai mille nomi inutili se nessuno li invoca.

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* Sulle soglie gli uomini di Ianina fumano e sgranano scacciapensieri. Deposita il caffè dentro i bicchieri, l’alga nel lago, il tempo nell’anima. Nella sua gabbia di ferro Ali Pasha si riposa dagli infiniti amplessi con le sue spose e concubine adesso che è ostaggio di un’unica bagascia. Al bagno turco è crollato il tetto. Il tempio è chiuso anche di shabbat. Qui le campane continuano a battere ma non coniugano più il perfetto.

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Sonetti canicolari

I. Nell’estate della grande canicola crepavano disidratati i vecchi. Gravi i danni alla produzione agricola. Spighe riarse in cima agli stecchi sfarinavano tra le dita. I becchi dei corvi dentro i frutti del fico infilzavano cenere. Lo specchio retrovisore metteva in pericolo come una lente ustoria il bosco. Vuote le fonti, le cisterne, i pozzi. Chiuse le imposte. Esauste le mosche. Aprendo i rubinetti e accostando l’orecchio potevi sentire il rantolo della terra salire a singhiozzi.

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II. Se escludi le zanzare diurne e il ronzio del frigo, tutto il resto dorme in cucina, chiuso in un’urna di calore. Si anneriscono presto pesche e susine. Poi sarà il turno dell’altra frutta che inscena nel cesto una natura morta. Puoi dedurne il presagio che vuoi purché funesto. Contro il vetro un insetto si accanisce. Il sifone boccheggia come un pesce. Non potendo dilatare lo spazio l’afa espande i secondi in minuti - questi in ore - e prolunga lo strazio dell’estate. Resisterle è inutile.

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III. Affondano i tacchi nell’asfalto quando traversi lo spazio aperto tra le due sponde combuste. Si sfalda il manto della strada. Sembra perda lo stato solido anche lo smalto delle macchine. Solo una lucertola senza coda al tuo passaggio salta in un tombino. Nella via deserta si innalzano colonne di calore. All’ingresso di un’autorimessa dinnanzi al rottame di un parafango ti fermi a inalare il forte odore di vernice e gomma. Svoltato l’angolo manterrà l’ombra la propria promessa?

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IV. La camicia si appiccica alla pelle della schiena e per quanto tu ti sforzi di stare immobile sotto le ascelle si allargano chiazze: anche l’inerzia è fatica, anche il dilatarsi delle narici, anche il battito a un hertz e mezzo del cuore dietro il cancello di carne del torace. Come scorza ruvida sfrega la lingua il palato. Il sale del sudore brucia gli occhi, lascia cristalli impigliati alle ciglia. Il corpo infine crolla espugnato dal caldo quando nulla più ne blocchi il caos interno l’esterno scompiglio.

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V. Notte. Ti sveglia il sibilo dei tuoi polmoni che assorbono l’aria fradicia come uno straccio, scarica d’ossigeno. Non sai dove e chi sei ma riconosci il corpo di colei che dorme accanto: la luce precaria dei lampioni e dei neon di via Gounari illumina una schiena senza nei. A fatica ti stacchi dalla sindone sudata del materasso. Allo specchio fissi un ritratto (titolo: asfissia). Ti affacci al balcone per istinto. Nessun rumore, eppure una vecchia dall’alto grida in greco: hisychia.

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Indice Prefazione......................................................................VII Nord..................................................................................3 Elegia di Dumbarton Oaks..........................................5 I...............................................................................5 II.............................................................................6 III............................................................................7 IV............................................................................8 V..............................................................................9 VI..........................................................................10 VII.........................................................................11 VIII........................................................................12 Zanzare in ottobre.....................................................13 Bassa marea...............................................................14 7 Reece Mews............................................................15 Sette sonetti per una città.........................................17 I.............................................................................17 II............................................................................18 III..........................................................................19 IV..........................................................................20 V............................................................................21 VI..........................................................................22 VII.........................................................................23 Voyage autour d’une chambre..................................24 Rue Bichat..................................................................30 In treno......................................................................31 Due nella neve...........................................................32 Versi per Giuseppe Giusto Scaligero.........................34 Montréal....................................................................35 Sud...................................................................................39 Prima lettera da Siviglia............................................41 Paesaggio...................................................................43 Vacanze romane........................................................44 I.............................................................................44 II............................................................................45 III..........................................................................46 IV..........................................................................47 V............................................................................48 VI..........................................................................49 63


Parole di Elkana ad Anna..........................................50 Cartoline greche........................................................52 Non tira un filo di vento a Dodona.........................52 Se ti affacci certi giorni limpidi...............................53 Sui marmi dorsi ruvidi di rospi..............................54 Sulle soglie gli uomini di Ianina..............................55 Sonetti canicolari.......................................................56 I.............................................................................56 II............................................................................57 III..........................................................................58 IV..........................................................................59 V............................................................................60 Indice..............................................................................63

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Finito di stampare nell'Aprile 2008 per conto delle Edizioni O.M.P. Farepoesia presso la tipografia Print Service S.r.l. di Pavia (PV)

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