«Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimi», di Ortensio Lando a cura di E. Tinelli

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Ortensio Lando

Cicero relegatus et Cicero revocatus Dialogi festivissimi a cura di Elisa Tinelli Premessa di Davide Canfora


Indice

Premessa di Davide Canfora Introduzione Nota al testo

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Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimi [Cicerone esiliato e Cicerone richiamato in patria. Dialoghi piacevolissimi] Testo e traduzione

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Commento 115 Bibliografia 153 Indice dei nomi

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Premessa di Davide Canfora

L’autentica natura dell’essere umano consiste nell’imitazione. Questo principio vale non solo in letteratura e nelle arti in genere, ma è stato il fondamento dell’intera civiltà attraverso i secoli. Imitare, è bene chiarirlo, non significa banalmente ripetere. Imitare è un atto creativo, che comporta l’intuizione di un progresso acquisito, la sua sperimentazione, il suo perfezionamento. Nei millenni l’uomo ha continuamente imitato, portandosi da condizioni di vita primitive a condizioni di evoluzione e di civiltà impensabili. L’imitazione comporta tra l’altro un progressivo ed esponenziale incremento della velocità e dell’affinamento nelle conoscenze, siano esse scientifiche, pratiche, artistiche o di altra natura. Se per scoprire la ruota e poi per passare dalla ruota in legno pieno e massiccio alla più agile ruota a raggi sono occorsi secoli, per passare da un modello di elaboratore elettronico a quello – come si suol dire – di ‘nuova generazione’ oggi bastano poche settimane. I tempi della storia cambiano e non sempre la maggiore velocità è un valore. Imitare vuol dire in ogni caso osservare, comprendere, immedesimarsi, continuare una strada intrapresa. Tutti gli animali imitano, prerogativa dell’uomo è poggiare un mattone nuovo sul mattone già esistente. Nessun uomo calpesta senza riflettere le orme già calcate da altri. Nessun figlio è identico al padre, nessun erede si limita ad avere le stesse idee di chi lo ha preceduto. Paradossalmente, l’imitazione è il più vivo cambiamento nella continuità. Quando sradichi una pianta dal terreno, la condanni a morire. Se invece lasci che essa si riproduca nel suo ambiente, anno dopo anno verrà alla luce un bosco, di cui ogni angolo sarà diverso e unico. Nulla è stato scritto che non sia già stato scritto, diceva non senza amarezza Leon Battista Alberti in anni non molto lontani da quelli in cui Lando si avventurò, con i suoi dialoghetti su Cicerone, nella vexata quaestio dell’imitazione letteraria, che aveva tormentato la cultura già antica e quella moderna almeno dal tempo di Petrarca. Tutto accade per la prima volta, ha scritto


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Premessa

Borges: eppure ogni volta tutto accade in un modo eterno. Il punto più importante è: chi dobbiamo considerare l’imitatore autentico? Su questo aspetto del problema la cultura umanistica si interrogò a vario titolo, giungendo a risposte diverse e tutte, a ben vedere, portatrici di una porzione di verità. Si imita perché si imitano i buoni modelli, come volevano i classicisti. Ma anche la cultura cristiana aveva consapevolezza dell’importanza dell’imitazione: l’imitatio Christi è un cardine della dottrina cristiana medioevale, per esempio. Certo, il rischio della pedanteria, in letteratura, è sempre a portata di mano, quando si imita pedissequamente. Ma l’altezza del modello imitato giustifica in ogni caso il riuso moderno di una autorità antica. Eppure, ribattevano i più raffinati conoscitori delle lettere, imitare comportava il rischio – a questo si accennava già prima – di limitarsi a ripetere e nulla più. Cicerone non sarebbe stato mai Cicerone se avesse ripetuto la prosa di qualche autore più antico in modo meccanico. Dov’era dunque la soluzione, la chiave del problema? Cicerone era Cicerone perché – come osservarono Petrarca, Poliziano, Erasmo – conosceva il latino meglio di chiunque altro. Per essere come Cicerone bisognava dunque non usare la sua sintassi e il suo lessico in modo automatico (non essere le sue ‘scimmie’, secondo la celebre immagine), bensì conoscere il latino profondamente quanto lui. Essere ciceroniani significava, in definitiva, essere superiori alla media culturale diffusa e muoversi nel latino come ci si muove in una lingua viva. Il che, sia detto per inciso, presuppone una questione – quella della vitalità delle lingue consumate dal tempo – su cui in questa sede non ci soffermeremo. A ben pensare, essere ciceroniani sarebbe l’esatto opposto di ciò che il senso comune intende quando fa riferimento al concetto di ‘imitatore’: l’imitatore è nel senso comune una persona povera di idee, che non ha niente di pionieristico, che si appoggia ai puntelli lasciati da altri. Insomma, un paradosso. O l’imitatore è un pedante o è un genio. Come potrebbe essere entrambe le cose? Anche la cultura romantica, che tanto criticò il principio dell’imitazione e lo combatté a tratti duramente, vedendo nell’imitazione una dinamica divenuta asfittica nel corso dei secoli e priva di quella ‘originalità’ che l’uomo inseguiva come avrebbe inseguito, pochi anni dopo, il sogno di raggiungere il centro della terra assecondando la fantasia ineguagliabile di Jules Verne, ebbene anche la cultura romantica – si diceva – non poteva se non accettare, in qualche misura, l’idea di imitazione. Foscolo non è forse meno grande per essersi ispirato al Werther? La morte di Ivan Ilic’ è forse un capolavoro meno grandioso solo perché ci fa vedere, come nel Defunctus di Alberti (che


Premessa

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con ogni probabilità Tolstoj non conobbe), ciò che una vedova pensa del marito dopo essersene finalmente liberato? L’assenza integrale di imitazione prende corpo solo nei suoni scomposti del delirio senza scopo di Marinetti, che non corrisponde ad alcuna forma artistica, ma al fracasso diurno di una discarica in piena attività. Erasmo da Rotterdam, che per il geniale e prolifico Ortensio Lando era molto più che un’autorità, era intervenuto sulla questione dell’imitazione del classicismo nel dialogo Ciceronianus, di cui Elisa Tinelli, la curatrice di questa importante e raffinata edizione dell’opera landiana, si è personalmente occupata molto di recente. Il punto cruciale su cui le pagine di Lando ci invitano a riflettere è in fondo semplice. La vita – non solo l’arte – è continuità. Persino la presa della Bastiglia non nacque da un giorno all’altro, ma dalla somma di scelte cieche e reiterate nel corso degli anni. L’uomo, anche l’uomo dell’era digitale, si muove con più lentezza mentale di quanto possiamo pensare. E si muove per piccoli passi, per gradi. Certo, ogni tanto c’è un Einstein che intuisce all’improvviso che il tempo è rallentato dalla velocità: ce l’ha ricordato uno dei più acuti scienziati del nostro tempo, Carlo Rovelli, impegnato da anni nel meritorio sforzo di spiegare che la cultura, anche quella più elevata, non è poi così ardua da comprendere di quanto sia seguire l’andamento di una partita di calcio in televisione. Ogni tanto occorre a questo mondo qualcuno che abbia il passo più lungo della media. Ma l’esistenza dell’uomo è continuità, è come l’acqua del fiume che scorre con costanza. Mai la stessa, come diceva Eraclito, eppure sempre apparentemente uguale. L’imitazione, da questo punto di vista, si configura come una delle immagini più pacifiche: come quella dell’anziano protagonista dell’ultimo episodio del film Sogni di Akira Kurosawa. In un villaggio incantevole, fatto di semplici capanne e in cui l’unico suono che si ascolta è appunto quello dell’acqua che scorre, a un certo punto si comincia a udire da lontano il suono festoso di un corteo. Il protagonista, un anziano del villaggio, spiega al viaggiatore di passaggio che si tratta di un corteo funebre in avvicinamento. Il viaggiatore è sorpreso per il fatto che in quel villaggio i funerali si festeggino. Ma l’anziano replica: dal momento che la morte è inevitabile, se si è vissuti bene, è giusto festeggiare chi abbandona la vita e ha lasciato di sé un felice modello. Detto questo, l’anziano si aggrega al corteo, ormai avvicinatosi, e simbolicamente vi si mescola, come se fosse proprio lui il prossimo abitante del villaggio a dover essere celebrato in quel modo, tra musiche


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Premessa

allegre e lanci di fiori. Poi lentamente il corteo si allontana, mentre il viaggiatore di passaggio resta a guardare in silenzio. La musica sfuma, il suono ripetitivo dell’acqua riprende a farsi sentire. Come nel geniale movimento finale del quintetto d’archi di Boccherini, comunemente conosciuto come La ritirata di Madrid, la musica dapprima sale, raggiunge l’apice, poi pian piano scema, infine svanisce: come la vita umana. E la cosa che più sorprende è che, per tutta la durata di quel brano meraviglioso, la musica rimane sempre la stessa. Cambia il timbro, l’intensità degli strumenti, la forza della presenza degli elementi sulla scena. Ma il motivo – come la natura degli uomini – non cambia per nulla.


Cicero relegatus et Cicero revocatus Dialogi festivissimi


Introduzione*

Con la sua prima opera nota, il Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimi, l’agostiniano apostata Ortensio Lando1 intese prender parte all’acceso dibattito suscitato dalla pubblicazione, nel 1528, del Ciceronianus, l’opera dedicata da Erasmo alla polemica contro l’imitazione pedissequa di Cicerone e alla proposta di una teoria dell’imitazione eclettica, fondata sui princìpi del decorum e dell’aptum e resa legittima unicamente dalla perfetta coerenza dei materiali tratti dal modello con lo specifico contesto di riuso2. * Questa Introduzione recupera e approfondisce talune riflessioni già presentate in un saggio preparatorio, cui mi permetto di rinviare: E. Tinelli, Alcune considerazioni sul Cicero relegatus et Cicero revocatus di Ortensio Lando, «Studi Rinascimentali», 14, 2016, pp. 71-85. 1 Per la ricostruzione delle complesse vicende biografiche e culturali di Ortensio Lando, vd. I. Sanesi, Il cinquecentista Ortensio Lando, Pistoia, Fratelli Bracali, 1983; C. Fahy, Per la vita di Ortensio Lando, «Giornale storico della letteratura italiana», CXLII, 1965, pp. 243-258; P.F. Grendler, Critics of the Italian World, 1530-1560: Anton Francesco Doni, Nicolò Franco & Ortensio Lando, Madison-Milwaukee-London, The University of Wisconsin Press, 1969; S. Seidel Menchi, Spiritualismo radicale nelle opere di Ortensio Lando attorno al 1550, «Archiv für Reformationsgeschichte», LXV, 1974, pp. 210-277; Ead., Sulla fortuna di Erasmo in Italia. Ortensio Lando e altri eterodossi della prima metà del Cinquecento, «Schweizerische Zeitschrift für Geschichte», XXIV, 1974, pp. 537-634: 574-591; F. Lenzi, Ortensio Lando, Erasmo e la Riforma in Italia, «Annali dell’Istituto di Filosofia» (Università di Firenze), III, 1981, pp. 71101; S. Seidel Menchi, Chi fu Ortensio Lando?, «Rivista storica italiana», CVI, 1994, pp. 501564; Dizionario biografico degli Italiani, s.v. Ortensio Lando, a cura di S. Adorni-Braccesi, S. Ragagli, LXIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2004, pp. 451-459. 2 Per il Ciceronianus, vd. almeno Desiderio Erasmo da Rotterdam, Il Ciceroniano o dello stile migliore, testo latino critico, traduzione italiana, prefazione, introduzione e note a cura di A. Gambaro, Brescia, La Scuola, 1965; P. Mesnard, La battaille du «Ciceronianus», «Études», CCCXXVIII, 1968, pp. 240-255; Ch. Bené, Érasme et Cicéron, in Colloquia Erasmiana Turonensia, II, edited by J.-C. Margolin, Toronto-Buffalo, University of Toronto, 1972, I, pp. 571579; L. D’Ascia, Erasmo e l’Umanesimo romano, Firenze, Leo S. Olschki, 1991, soprattutto pp. 17-38 e 161-172 e, da ultimo, Erasmo da Rotterdam, Il Ciceroniano, testo, introduzione, note, indici, traduzione a cura di F. Bausi, D. Canfora, con la collaborazione di E. Tinelli, Torino, Loescher Editore, 2016.


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Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimi

I precedenti della contesa che oppose ciceroniani e anticiceroniani in seguito alla pubblicazione del dialogo erasmiano devono essere ricercati già nel Quattrocento, nelle battaglie combattute da Poliziano, Paolo Cortesi e Bartolomeo Scala, da Filippo Beroaldo e Giovanbattista Pio e, ancora, nella disputa che, tra il 1512 e il 1513, oppose Giovanfrancesco Pico della Mirandola e Pietro Bembo3: la posta in gioco era la definizione di un ideale di stile che fosse in grado di conferire dignità ed eleganza alla prosa latina, ma anche il tentativo di attribuire una funzione e un senso nuovi all’ars rethorica e all’imitatio. Da un canto, i ciceroniani, attuando un processo di astrazione della lingua e dello stile di Cicerone dal processo di evoluzione diacronica della Latinitas, indicavano nell’imitazione rigida ed esclusiva dell’optimus auctor la sola garanzia contro la confusione stilistica; dall’altro, i sostenitori dell’imitazione eclettica, oltre a preoccuparsi della difesa del vero Cicerone, uomo dotato di pregi e difetti, «filosofo e moralista impegnato e non puro stilista»4, esprimevano il rifiuto di continuare a considerare gli autori moderni inferiori, non solo da un punto di vista stilistico, all’auctoritas dell’Arpinate e parallelamente affermavano il diritto dei moderni all’elaborazione di nuove forme espressive, che potessero esprimere contenuti nuovi – di matrice evidentemente cristiana – nella maniera più adeguata, ossia con la medesima efficacia e capacità di persuasione che avevano contraddistinto l’oratoria di Cicerone. Il Dialogus Ciceronianus dell’umanista di Rotterdam innesta sui consueti schemi delle polemiche umanistiche relative all’imitatio la discussione di una questione di natura religiosa – il neo-paganesimo mascherato da ciceronianismo e caratterizzato dal ricorso, nell’oratoria sacra, ai moduli classicistici – e l’elaborazione di una teoria retorica che fa dell’imitazione il frutto di ampie e diversificate letture, dalle quali sole può discendere un processo di assimilazione personale che, consentendo spontanee reminescenze, giustifica l’autonomia dai modelli nel momento della composizione: una teoria retorica, dunque, che tende a identificarsi, in ultima istanza, con un percorso di continuo arricchimento culturale e di educazione del gusto. 3

Vd., a questo proposito, il datato, ma sempre utile, R. Sabbadini, Storia del ciceronianismo e di altre questioni letterarie nell’età della Rinascenza, Torino, Loescher, 1885; ancora, D. Gagliardi, Il Ciceronismo nel primo Cinquecento e Ortensio Lando, Napoli, A. Morra, 1967, pp. 7-13; L. D’Ascia, Erasmo e l’Umanesimo romano cit., pp. 105-159. 4 L’espressione è di L. D’Ascia, Erasmo e l’Umanesimo romano cit., p. 106.


Introduzione

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Combattendo il ciceronianismo, Erasmo rifiuta a un tempo quella rinnovata forma di paganesimo che si celava dietro il culto fanatico di Cicerone, appunto, e dell’antico in genere e un’idea di letteratura a suo giudizio anacronistica, una letteratura, cioè, intesa come attività lenta, solitaria e, nella sostanza, egoistica, cui fa da contraltare la letteratura da lui propugnata, calata nel vivo del mondo e della storia, vicina all’uomo e, in quanto tale, utile, giacché finalizzata a recare giovamento al lettore e non solo fama all’autore. Non è un caso che il Ciceronianus risulti fondato sulla contrapposizione delle due antitetiche tipologie di letterato: da un canto il ciceroniano, privo di obblighi familiari e di incarichi civili o ecclesiastici, tutto intento a valutare la perfetta rispondenza di ogni singola parola con l’uso dell’Arpinate e che, pertanto, preso dalla sua ansia formalistica, impiega giorni per comporre pochi, brevi, periodi; dall’altro, l’erasmiano che «interdum iustum uolumen scribit stans pede in uno, nec unquam potest imperare animo suo, ut uel semel relegat quod scripsit, nec aliud quam scribit, quum post diutinam lectionem demum ad calamum sit ueniendum, idque raro»5, un letterato, in altre parole, privo degli scrupoli dei puristi e che, lungi dall’essere pago dell’eleganza stilistica e della vastità dell’erudizione, si propone di affrontare importanti questioni etiche o religiose, privilegiando la rapida e vasta diffusione di scritti destinati a un pubblico ampio invece che la perfezione formale – peraltro faticosamente conseguita – di opere rivolte a pochi dotti in grado di comprenderle. All’indomani della pubblicazione del dialogo di Erasmo le polemiche più roventi divamparono in Italia e in Francia6 e precisamente in questo contesto si colloca la singolare operazione letteraria messa in atto da Ortensio Lando con i suoi Dialogi festivissimi, comparsi sul mercato editoriale europeo nel 1534 con tre differenti edizioni7. Non si possiedono notizie certe a proposito della genesi dell’opera landiana: Conor Fahy8 ha fissato il terminus post quem per la sua stesura al 5

Cito da Erasmo da Rotterdam, Il Ciceroniano (ed. a cura di F. Bausi e D. Canfora) cit., p. 240 (§ 1329). 6 Vd. A. Gambaro, Introduzione a Desiderio Erasmo da Rotterdam, Il Ciceroniano cit., pp. lxxviii-cxii. 7 Per cui vd. Nota al testo, pp. 22-25 della presente edizione. 8 Vd. C. Fahy, The Composition of Ortensio Lando’s Dialogue Cicero relegatus et Cicero revocatus, «Italian Studies», XXX, 1975, pp. 30-41: 32-34.


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Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimi

15299, anno della nomina a vescovo di Modena di Giovanni Morone10, uno degli interlocutori del Cicero revocatus – da Lando indicato, appunto, come antistes – al quale è affidato l’onere della difesa di Cicerone; è forse il caso di sottolineare, tuttavia, che la nomina al vescovato modenese non fu la prima di cui Morone fosse insignito, giacché nel 1528 papa Clemente VII l’aveva già designato al vescovato di Tortona: questo dato consentirebbe di retrodatare al 1528, appunto, il terminus post quem per la composizione del Cicero. È bene ricordare, d’altro canto, che solo nel 1531, in effetti, Morone ottenne il riconoscimento della nomina modenese da parte di Alfonso II d’Este – che su quella cattedra episcopale aveva sperato d’insediare il figlio Ippolito – e solo il 28 gennaio 1533, dopo la consacrazione avvenuta a Bologna il 12 gennaio, prese possesso della cattedrale11. Se, dunque, si assume genericamente la data della nomina di Morone a vescovo come terminus post quem, non c’è ragione che, a rigore, possa indurre a preferire il 1529 al 1528, dal momento che, nel Cicero revocatus, di Morone si parla semplicemente come antistes, senza ulteriori specificazioni geografiche: vero è che il personaggio in questione ottenne, poi, il vescovato di Modena e non quello di Tortona ed è plausibile, per questo, ritenere che Lando facesse riferimento al primo più che al secondo. Nulla, d’altra parte, vieta che – posto che l’autore pensasse in effetti alla nomina modenese di Morone – il terminus post quem possa essere fissato almeno al 1531, se non, addirittura, al 1533, anno, come si è detto, in cui ebbe luogo il concreto insediamento di Morone; anche l’indicazione tradizionalmente proposta in riferimento al terminus ante quem per la stesura dell’opera non contraddice, in linea teorica, questo ragionamento: tale termine è stato fissato da P.F. Grendler al 4 novembre 1531, data della morte di uno degli interlocutori del Cicero relegatus, Antonio Seripando, umanista e filologo attivo a Napoli nel primo Cinquecento, fratello del più noto Girolamo, ma, come pure Fahy ha notato, se questo riferimento è senz’altro ascrivibile ai fittizi avvenimenti descritti nell’opera, non necessariamente conserva il suo valore a proposito della stesura materiale del testo. 9

Il medesimo terminus post quem ha indicato P.F. Grendler, Critics of the Italian World cit., p. 26, n. 24. 10 Per cui vd. commento al § 97 della presente edizione. 11 Vd. Dizionario biografico degli italiani, s.v. Giovanni Morone, a cura di M. Firpo, LXXVII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2012, pp. 66-74.


Introduzione

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Un altro elemento deve, inoltre, esser preso in considerazione: nel Cicero revocatus Lando annovera, tra i ciceroniani dotati d’una eloquenza pronta e vivace, tale «Ioannis ex Ulma, qui graecas literas prius Taurini frequenti auditorio, nunc summa laude Neapoli profitetur», personaggio che deve essere identificato nell’umanista e orientalista tedesco Johann Albrecht von Widmanstetter (1506-1557). Questi fu a Napoli tra il 1530 e il 1532 e qui, precisamente nel convento agostiniano di San Giovanni a Carbonara, conobbe Ortensio Lando, al quale fu legato da un rapporto d’amicizia cui egli fa cenno in una nota vergata sul verso del frontespizio del suo esemplare del Cicero: «Author libri est Hieremias Augustiniani ordinis monachus, postea hortensius Medicus factus, qui et Fortianas quaestiones edidit, homo doctus et mihi Neapoli in aede S. Joannis Carbonariae familiaritate iunctissimus ao 1530»12. Widmanstetter circoscrive, come si vede, i suoi rapporti con Lando al solo anno 1530, dato, questo, che consente di affermare con un discreto margine di sicurezza che, dopo quella data, Lando dovette abbandonare il convento partenopeo; al tempo stesso, la menzione dell’umanista tedesco nel Cicero revocatus deve indurre a ritenere, da un canto, che i rapporti tra i due non dovettero interrompersi dopo il 1530, dall’altro, che la stesura dei Dialogi dovette avvenire tra la partenza di Lando da San Giovanni a Carbonara e il 1532, anno in cui Widmanstetter si spostò da Napoli a Roma13. Questa ipotesi di datazione, se esclude la possibilità di fissare al 1533 il terminus post quem per la composizione dell’opera, rafforza la convinzione che questo possa essere fissato al 1531, al medesimo anno, cioè, generalmente indicato come terminus ante quem14; quest’ultimo, del resto, se si accoglie il ragionamento ora esposto, potrà essere posticipato al 1532, per quanto si possa concordare con Fahy a proposito del fatto che, se Lando avesse atteso alla stesura del Cicero dopo la morte di Antonio Seripando, avrebbe probabilmente voluto far cenno al luttuoso evento: ad ogni modo, che si postuli una stesura concentrata in meno di un anno o una stesura diluita tra il 1531 e il 1532, la validità dell’ipotesi di datazione qui proposta non risulta inficiata.

12 Per l’importanza di questa nota ai fini della ricostruzione della biografia di Ortensio Lando, vd. commento al § 6 della presente edizione. 13 Per la figura di Widmanstetter, vd. commento al § 140 della presente edizione. 14 Si noti che C. Fahy, The Composition of Ortensio Lando’s Dialogue cit., p. 33 considera impropriamente le lezioni napoletane di Widmanstetter con terminus ante quem per la stesura dell’opera.


Testo e traduzione


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Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimis

Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimi [1] Pomponio Trivultio H. A. s. d. (A1v.) Posteaquam mihi nunciatum est amplitudinem tuam morbo implicitam esse, existimavi, pro mea in te Trivultiumque nomen singulari observantia, non alienum me facturum si de allevando isto tuo morbo cogitarem. Mitto itaque hasce facetas narrationes quas, si eo verborum splendore non exornavimus (ut par erat), pro tua incredibili facilitate ignosci pervelim. Vale.

(A2r.) Dialogus lepidissimus, cui titulus Cicero relegatus, adiecta in calce eius revocatione. Ad excellentissimum virum Pomponium Trivultium. [2] Bellinzonam concesseramus ego et Iulius Quercens – a cuius latere, ob excellens ingenium eximiamque doctrinam, ne latum quidem culmum aequo animo discedere possum – cum subito allatae sunt a Philocalo literae, quibus significabat Philoponum, clarissimum splendidissimumque nostrae urbis civem, totius corporis doloribus oppressum, misere spiritum ducere. Quo nuncio ita acerbe perculsi sumus, ut parum abfuerit quin a mente destitueremur statimque, repudiato consilio, quod prius intenderamus, illic in amoenissimis hortis, quos defendente Lucio superiore anno, recuperavimus, aestiva tempora traducendi, tanta animos nostros incessit ur(A2v.)bis cupiditas, ut nulli neque remi, neque venti satisfacere posse viderentur. [3] Oborta loci, in quo eramus, infinita non dicam satietate (levius enim est quam dolor noster deposcat), sed malevolentia, sed odio, ita ut disturbatum ac multis locis convestitum locum illum videre cuperemus. Sic enim nobis (nescio qua ratione) persuaseramus non tam graviter Philoponum aegrotaturum si illi frequentes adfuissemus, ut nobis in more positum erat. Nullum enim praetermittebamus diem cum in urbe essemus, quin ad illum familiarissime ventitaremus


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Testo e traduzione

Cicerone esiliato e Cicerone richiamato in patria. Dialoghi piacevolissimi [1] Ortensio Appiano saluta Pomponio Trivulzio Dopo che mi fu annunciato che la tua magnificenza era preda della malattia, ritenni che, in ragione della straordinaria deferenza da me nutrita nei riguardi del tuo nome, Trivulzio, non sarebbe stata cosa sconveniente se avessi pensato di poter alleviare le tue sofferenze. Ti mando, pertanto, questi piacevoli resoconti che, se ho mancato di ornare della magnificenza dello stile (com’era giusto facessi), desidererei vivamente tu perdonassi in virtù della tua sconfinata cortesia. Sta’ bene.

Dialogo piacevolissimo, il cui titolo è Cicerone esiliato, con l’aggiunta, in calce, del resoconto del rientro del medesimo in patria

All’eccellentissimo Signore Pomponio Trivulzio. [2] Io e Giulio Della Rovere – dal quale non posso allontanarmi neppure d’un dito con animo rassegnato, in ragione dell’eccellente suo temperamento e della straordinaria sua dottrina – eravamo appena giunti a Bellinzona quando all’improvviso ci furono recapitate le lettere con cui Filocalo ci rendeva noto che Filopono, mio nobilissimo concittadino, oppresso da dolori diffusi, poteva respirare con molta pena e fatica. La notizia ci colpì così duramente che poco mancò perdessimo il senno e senz’indugio, rigettata la decisione, che prima avevamo fatta nostra, di trascorrere lì la stagione estiva, negli amenissimi giardini che l’anno passato avevamo recuperato grazie all’appoggio di Lucio, un così forte desiderio di tornare in città si impadronì dei nostri animi che nulla sembrava potesse soddisfarlo, né i remi né i venti. [3] Sopraggiunse in noi non dirò un’inestinguibile nausea (più lieve era, infatti, questa di quanto il nostro dolore esigesse) del luogo in cui ci trovavamo, ma un’autentica avversione, al punto che desideravamo che quel posto fosse devastato e che sulle sue rovine sorgessero nuove costruzioni. Ci eravamo, infatti, persuasi (non so per quale ragione) che le condizioni di Filopono non si sarebbero aggravate se ci fossimo presentati al più presto da lui, com’era nostro desiderio. Se ci fossimo trovati in città, infatti, non avrem-


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Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimis

horasque multas suavissimo sermone consumeremus. Ea est mehercle hominis suavitas, ii mores, ut illius consuetudinem omnibus praefecturis facile anteponam malimque cum illo esse quam in beatas insulas deportari. [4] In urbem itaque venimus cumque nihil nobis potius aut antiquius esset, quam ut illum conveniremus, recta ad eius aedes, quas magnifice aedificavit, proficiscimur; sed forte nobis illius pueri occurrunt herumque suum apud Archintum esse nuntiant: ita medicos quos sibi accersiverat consuluisse, tum quod ea pars urbis multo salubrior sit, tum (A3r.) quod hortum domus illa habeat, qui nulla parte celebratissimis cedat. Illo mox iter convertimus, cumque fores occlusas offendissemus valideque dudum pultavissemus, coepimus iis, qui intus erant, de via clamare. [5] Tandem in aedes intromissi, ad eiusque cubiculum, quod in interiori aedium parte erat, deducti, visi sumus in Elysios campos pervenisse: nulla solitudo, nullae sordes, nulla moeroris aut tristitiae indicia; cedros incenderant suavissimisque odoribus omnia asperserant flores undique; caelati argenti, signorum, stragulae vestis, Corinthiorumque vasorum ornatum conspeximus cubiculum totaque domus symphonie cantu percrepabat. [6] Circum vero lectum corona lectissimorum doctissimorumque hominum, qui de variis rebus colloquebantur. Aderat in primis Hieronymus Seripandus, una cum amantissimo fratre Antonio Seripando, in quibus omnia sunt, quae aut Fortuna hominibus aut natura largitur. Prope illos sedebat M. Antonius Caimus, iuvenis et domi nobilis et apud Gallos propter virtutem splendidus et gratiosus; ab illius dextera assidebat Hieremias Landus, omnibus rebus or(A3v.)natissimus suique eremitani sodalitii splendor ac decus; ab altera parte sedebat Caesar Casatus, homo disertus et omni doctrina ac virtute ornatus. [7] Non longe aberat Gaudentius Merula, omni lepore affluens et gratia; ab illius dextra, si recte commemini, erat Hieronymus Garbagnanus, vir gravissimus atque honestissimus; hunc sequebatur Bassianus Landus, omnium quos unquam viderim ingeniosissimus ac eloquentissimus; deinde P. Antonius Chioccha, vir ad pericula fortis, ad usum ac disciplinam peritus, ad consilia prudens, ad casum fortunamque felix; dein Franciscus Piochetus, homo frugi et in omnibus vitae partibus moderatus ac temperans, plenus pudoris, plenus officii, plenus religionis. [8] Ab illius dextro latere Octavia-


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mo trascurato neppure per un giorno di recarci a fargli visita, intimi come siamo, e di trascorrere diverse ore in piacevoli conversari. Tale è, per Ercole, l’amabilità dell’uomo, tali i suoi costumi, che anteporrei senza difficoltà la consuetudine con lui a quella di tutti gli uomini di potere e preferirei star con lui piuttosto che esser condotto nelle isole dei beati. [4] Giungiamo, così, in città e poiché per noi nulla è più importante che vedere Filopono, ci dirigiamo difilato verso la sua dimora, ch’egli aveva fatto splendidamente costruire; ci imbattiamo per caso, però, in alcuni suoi servi, i quali ci annunciano che il loro padrone è ospite della famiglia Archinto: i medici ch’egli aveva mandato a chiamare avevano ritenuto preferibile che si spostasse lì, sia perché quella zona della città è di gran lunga più salubre, sia perché quella casa è dotata d’un giardino che non ha nulla da invidiare a quelli più famosi. Subito volgiamo i nostri passi in quella direzione: avendo trovato le porte serrate, dopo aver bussato forte, cominciamo a chiamare a gran voce quelli che si trovavano già dentro. [5] Ammessi finalmente in casa e condotti alla sua stanza, ch’era nella zona più appartata dell’edificio, ci sembrò d’esser giunti nei campi Elisi: non c’erano solitudine né sporcizia né altri segni d’afflizione o mestizia; era stato bruciato del legno di cedro e i fiori, disposti ovunque, spargevano i loro profumi soavissimi; la stanza era adorna, come potemmo vedere, di argento cesellato, statue, tappeti e vasi di Corinto e tutta la casa risuonava d’una musicale armonia. [6] Al letto facevano corona uomini esemplari e dottissimi, che discettavano di vari argomenti. V’era anzitutto Girolamo Seripando, insieme al diletto fratello Antonio Seripando, nei quali si compendiano tutti i doni che la fortuna o la natura possono elargire agli uomini. Accanto a quelli sedeva Marco Antonio Caimi, giovane celebre in patria e assai benvoluto presso i Francesi in ragione del suo valore; alla sua destra sedeva Geremia Lando, ragguardevole sotto ogni rispetto, splendore e ornamento dell’Ordine eremitano; dall’altro lato sedeva Cesare Casati, uomo facondo e dotato di grande dottrina e di ogni virtù. [7] Non lontano v’era Gaudenzio Merula, ben provvisto di grazia e leggiadria; alla sua destra, se ben ricordo, c’era Girolamo Garbagnati, uomo nobilissimo e degno di ogni stima; subito dopo veniva Bassiano Lando, l’uomo più intelligente e eloquente che abbia mai conosciuto; seguiva Antonio Chiocchi, uomo coraggioso nell’affrontare i pericoli, di grande esperienza e dottrina, assennato e fortunato negli incerti casi della sorte; ancora, François Piochet, uomo frugale, equilibrato e temperante sotto ogni rispetto, assai pudico, moralmente saldo e religiosissimo. [8] Alla sua


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nus Vosascus cum Aphricano Boëtho, qui et caeteris ornamentis et existimatione innocentiae maxime florent. His medius (nisi me animus fallit) interiectus erat Gulielmus Saeva, vir admodum honestus Gallicaeque probitatis plurimum in se habens; aderat etiam Augustinus Mainardus, pietate et doctrina clarus, Galeacius Gropellus, iuris peritus, (A4r.) Claudius Figonus, Laura Barbatus, viri clarissimi et in omni doctrinae genere excellentes. [9] Hi omnes illum inviserant, ut sua officia, studia, cogitationes, voluntatem denique omnem deferrent et morbum facetis narrationibus aut lepidis fabellis allevarent: tantumque iam effecerant ut altera quartana decessisset articulorumque dolores, quos intensissimos pertulerat, facti sint remissiores. Ubi nos advenisse conspexerunt, ilico magna facta est consurrectio: nemo fuit qui nobis caput non aperuerit amantissimeque dissuaviatus sit, nemo non dextram iunxit; quisque rogabat magnopereque contendebat, ut prope illos sederemus. Quid quaeris? Si Deus aliquis e coelo in terras illapsus fuisset, non plus honoris habiturus erat. Assedimus inter Caimum et Hieremiam, tum quod illos nobis voluntate, animo sententiaque coniunctiores existimaremus, tum quod disertos ac facetos iamdudum cognovissemus. [10] Philoponus vero, qui nostro adventu plane recreatus videbatur, in me os suum obvertens, «Gratulor», inquit, «quod Dei Optimi Maximi benignitate ad nos, tui amantissimos cupidissimosque, salvus et incolumis redie(A4v.)ris: eram mehercule (ut nihil dissimulem nihilque obtegam) in magno tui desiderio; neque solus ego, sed familiares omnes, ut pro aliis etiam affirmem, quod mihi non temere videor facere, cum illorum omnes sensus teneam. Equidem facile nunc in animum induco meum posse nullo negotio sic morbum istum, qui me hoc triduum acriter torsit, depellere, ut nullae reliquiae nullaque vestigia appareant. Sed quaeso te quid mihi novi affers ex ea regione, quae rerum novarum plenissima esse solet?». [11] Cui ego, postquam ingentes et mirificas egi gratias de illa sua, quam in me ornatissimis verbis declaraverat, voluntate, nihil me novi afferre dixi, praeter Ciceronis libros De gloria et selectiores aliquot orationes castigatissimas. Quo nuncio existimabam omnes prae nimia laetitia mentis parum compotes futuros, sed me spes mea egregie frustrata est: tantum abest ut illorum quisquam, praeter duos aut ad summum tres, laetaretur, ut omnino


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destra, Ottaviano d’Osasco e Africano Beto, ben noti per la loro somma integrità e per le altre loro virtù. Tra di loro (se la memoria non m’inganna) v’era Guillaume Scève, uomo degno di ogni stima e ben fornito della dirittura morale propria dei Francesi; v’era anche Agostino Mainardo, illustre per pietà e dottrina, Galeazzo Groppelli, giureconsulto, Claudio Figonio, Barbato, uomini assai illustri e eminenti in ogni arte e scienza. [9] Costoro s’erano recati in visita da Filopono per onorare i doveri dell’amicizia, per mettere a sua disposizione i loro studi, le loro riflessioni, in una parola, la loro intera volontà, e per alleviare le sue sofferenze con racconti arguti e piacevoli storielle: e già erano riusciti a scacciare via la febbre quartana e anche i fortissimi dolori articolari, che Filopono aveva sopportato sino ad allora senza interruzione, si erano mitigati. Quando s’accorsero ch’eravamo giunti, si alzarono tutti in piedi: nessuno trascurò di scoprire il capo per salutarci, di baciarci con affetto e di stringerci la mano; ciascuno pretendeva che ci sedessimo accanto a lui. Cosa si può desiderare ancora? Se una qualche divinità fosse caduta dal cielo sulla terra, non avrebbe ricevuto più onori. Ci sedemmo tra Caimi e Geremia, sia perché ci sentivamo più vicini a loro per disposizione d’animo, indole e modo di sentire, sia perché sapevamo già da tempo quanto fossero facondi e arguti. [10] Filopono, che appariva visibilmente sollevato in ragione del nostro arrivo, rivolgendosi a me disse: «Mi rallegro poiché la benignità di Dio Ottimo Massimo ti ha ricondotto a me, che ti amo moltissimo e desidero la tua compagnia, sano e salvo: avevo, per Ercole!, un gran desiderio di vederti (non voglio nascondertelo); né solo io, ma tutti i miei congiunti: posso parlare, infatti, anche per loro senza temere di farlo in maniera sconsiderata, giacché conosco i sentimenti di ciascuno di loro. Quanto a me, al momento sono indotto a credere che questa malattia, che mi ha aspramente tormentato per tre giorni, possa essere scacciata via senza difficoltà, così che non ne rimanga traccia. Ma, di grazia, quali nuove mi rechi da quella regione che è sempre assai ricca di novità?». [11] Io, dopo che l’ebbi caldamente ringraziato per la disposizione d’animo che aveva manifestato nei miei confronti con le sue squisite parole, dissi che nulla di nuovo recavo con me, ad eccezione dei libri De gloria di Cicerone e di una selezione di sue orazioni rigorosamente emendate. Credevo che a questa notizia tutti sarebbero stati fuori di sé per l’indicibile gaudio, ma le mie speranze furono completamente deluse: con l’eccezione di due o tre persone al massimo, tutti gli altri erano ben lungi dal gioire, al punto che


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viderer magnam aliquam futuram cladem, aut supremum aliquod exitium nunciavisse. [12] Augebat admirationem meam quod illic Ciceronis statuam, adfabre factam, erectam (A5r.) viderem viserenturque passim in eo cubiculo Ciceronis opera, variis typis excusa. Ipse vero Philoponus in manus haberet Ciceronis Officia, quae Gryphius, librariorum impressorum magister diligentissimus, excuderat. Ob id stomachi plenus, ad Eremitanum me converto, quem ciceronianissimum existimabam, petoque cur mihi non gratuletur laudetque fortunas meas curque se ad gratiarum actionem non comparet, qui tam amplum thesaurum attulissem. [13] Tum ille subridens: «Gratularer», inquit, «totusque in gratiarum ac-tione essem, si theologum aliquem attulisses, qui divinae philosophiae sub-obscura mihi elucidaret, qui me ad divina inflammaret et rerum mundana-rum curam ac solicitudinem e pectore amoveret, qui animi fastum et tumo-rem abstergeret. Ego certe, ut quod sentio ingenue ac libere dicam, nihil posse pestilentius legi arbitror. Neque me solum in hac haeresi esse existi-mes: ita sentiunt plerique omnes qui sani sunt». [14] Cum nos videret Philoponus altercationibus incaluisse, veritus ne res ad convitia perveniret, a quibus non procul aberat, constituit ut suam quisque efferret sententiam planumque (A5v.) omnibus faceret quam animo de Cicerone conceptam haberet opinionem. Itaque prior rogatus est Aphrica-nus suam ut diceret sententiam sicque sermones (quanquam id aegre facere videretur) auspicatus est. [15] Aphricanus: «Nisi vestra autoritas, quae gravissima est, tantum ha-beret apud me ponderis, quantum par est ut habeat, nunquam adduci po-tuissem ut in tam celebri consessu meam afferrem opinionem: vereor enim, clarissimi viri, ne, si quod sentiam aperte dixero, multorum animi offendan-tur a meque abalienentur. Sin vero aliter atque sentio dicam, conscientia, quae pro mille testibus esse solet, me perpetuo urgebit et divexabit. Itaque dum in dubio sum, sentio me huc atque illuc rapi: vester tamen iucundissi-mus conspectus facit ut minus perturbato sim animo speremque vos aequi bonique consulturos quidquid a me in praesentia dicetur. Iniecta est etiam


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sembrava che avessi annunciato una qualche calamità futura o un qualche disastro. [12] Accresceva il mio stupore il fatto che fosse stata collocata lì una statua di Cicerone scolpita con grande maestria e pure il fatto che v’erano ovunque, in quella stanza, volumi di Cicerone stampati da tipografi diversi. Lo stesso Filopono, invero, aveva tra le mani il De officiis di Cicerone, che Grifio, maestro dei librai tipografi, aveva stampato con ogni diligenza. Assai irritato per questo, mi rivolgo all’Eremitano, che consideravo devotissimo a Cicerone, e gli chiedo per quale ragione non si complimentasse con me e non lodasse la mia buona sorte e per quale ragione non si cimentasse in un discorso di ringraziamento in mio onore, dal momento che avevo rinvenuto un così gran tesoro. [13] Quegli, allora, sorridendo, disse: «Mi complimenterei con te e ti ringrazierei pubblicamente se avessi portato qui un qualche teologo in grado di svelarmi i misteri della filosofia sacra, di stimolarmi alla devozione, di li-berare il mio cuore dal pensiero e dalla sollecitudine delle cose mondane e di spazzare via l’orgoglio e la baldanza dell’animo. Io senza dubbio, per dire ciò che penso in maniera del tutto sincera, credo che non si possa leggere nulla di altrettanto esiziale. E non pensare che sia io il solo ‘eretico’: la pen-sano allo stesso modo la maggior parte di coloro che sono sani di mente». [14] Vedendo che gli animi si surriscaldavano e temendo che la discussio-ne degenerasse – mancava poco perché ci urlassimo contro l’un l’altro –, Filopono stabilì che ciascuno esprimesse il proprio punto di vista e rendesse nota a tutti la propria posizione nei riguardi di Cicerone. Così, il primo ad essere interpellato affinché esponesse il proprio parere fu Africano, il quale prese, pertanto, la parola (sebbene facesse mostra di farlo malvolentieri). [15] Africano: «Se la vostra autorevolezza, degnissima di voi, non avesse per me l’importanza che è giusto debba avere, non avrei mai potuto essere indotto ad esprimere il mio punto di vista al cospetto di un così illustre consesso: temo, infatti, nobilissimi uomini, di poter offendere gli animi di molti e di alienarmi le loro simpatie se dirò apertamente ciò che penso. Se invece dirò qualcosa di diverso da ciò che realmente penso, la coscienza, affidabile quanto mille testimoni, mi tormenterà senza tregua. Così, mentre sono in dubbio, mi sembra d’essere trascinato in due opposte direzioni: il vostro amabilissimo aspetto, tuttavia, rende il mio animo meno inquieto e mi induce a credere che, qualunque cosa io possa dire in vostra presenza, sarà da voi giudicata in maniera equa e onesta. La straordinaria indole di ciascuno di


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Avvertenza. Le fonti da Lando dichiarate – o comunque individuabili con certezza – sono indicate con la citazione dell’autore e del passo dell’opera a cui si fa riferimento, preceduta dall’abbreviazione vd. Le fonti a cui si ritiene che Lando alluda, invece, sono indicate con l’abbreviazione resp. (= respicit). 1. Pomponio Trivultio: Poche le notizie su Pomponio Trivulzio, esponente dell’omonima nobile casata milanese, protettore delle lettere e dell’editoria e governatore della città di Lione tra il 1531 e il 1539 (vd. P. Litta, Famiglie celebri d’Italia. Trivulzio di Milano, fasc. 4, Milano, Paolo Emilio Giusti, 1820; ancora, il rapido cenno contenuto in Documenti di storia italiana copiati su gli originali autentici e per lo più autografi esistenti in Parigi, a cura di G. Molini, vol. II, Firenze, Tipografia all’insegna di Dante, 1837, p. 87 [nota al documento n. CCXVIII] e C. de’ Rosmini, Istoria intorno alle militari imprese e alla vita di Gian-Jacopo Trivulzio detto il Magno, vol. I, Milano, Tipografia di Gio. Giuseppe Destefanis, 1815, p. 486). H.A.: Iniziali di uno degli pseudonimi adoperati da Lando, ossia Hortensius Appianus. 2. Bellinzonam: Bellinzona, città svizzera, attuale capitale del canton Ticino. I Visconti la conquistarono stabilmente nel 1340; occupata nel 1499 da Luigi XII re di Francia, alcuni mesi dopo riuscì a cacciare le truppe francesi ma, temendone le rappresaglie dopo la vittoria di Novara (1500), dovette accettare la signoria dei cantoni di Uri e Obwald, ai quali rimase definitivamente con la pace di Arona (1503). Iulius Quercens: Giulio Della Rovere (1504-1581) fece il suo ingresso tra gli eremitani di S. Agostino fra il 1520 e il 1522; risiedette, in seguito, presso il convento di Bologna, dove, col grado di lettore, insegnò filosofia e teologia e dove, insieme al confratello Ortensio Lando, probabilmente per influsso del maestro Ambrogio Cavalli, entrò in contatto col gruppo erasmiano che andava allora costituendosi nella città, che aveva a capo Eusebio Renato, Giovan Angelo Odoni e Fileno Lunardi. Intorno al 1536-37, Della Rovere, che aveva dato avvio alla propria attività di predicatore già nel 1530, cominciò a palesare posizioni dottrinali di adesione alle idee della Riforma protestante, cosa che lo avrebbe indotto, nel 1540, ad abbandonare il proprio incarico di reggente degli studi nel convento di S. Marco, insieme ad Ambrogio Cavalli, priore del medesimo convento, in aperta polemica col generale dell’Ordine agostiniano, a causa della repressione da questo attuata nei confronti dei frati novatori. Nonostante i contrasti, Della Rovere ebbe il permesso di recarsi a Venezia nel 1541 per la predicazione quaresimale, predicazione che si rivelò dirompente e valse al frate il primo grande processo della storia inquisitoriale veneziana, processo che dimostrò la sua azione di proselitismo di tendenza eterodossa verso ambienti religiosi e laici e lo costrinse a una pubblica abiura il 15 gennaio 1542. Espulso dall’Ordine insieme al confratello Agostino Mainardo e condannato a


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un anno di carcere, Della Rovere riuscì a uscire di prigione solo con la fuga, dopo che ormai era scaduto l’anno di condanna, nel febbraio 1543; da questo momento e per alcuni anni, le sue tracce si fanno labili: certo è che passò in territorio grigione e che fino alla morte esercitò il ministero di ortodosso pastore calvinista in alcune località delle Tre Leghe. latum [...] culmum: ‘di un dito’, espressione adoperata in alternativa alle classiche digitum transversum e unguem latum. Philocalo: grecamente, ‘amante del bello, dell’eleganza’. Philoponum: ‘amante del lavoro, operoso, attivo’. Si noti che protagonista di uno dei Colloquia erasmiani, Πτωχολογία (Parlano gli accattoni, dell’agosto-settembre 1524), è Misopono, ossia, al contrario, ‘colui che odia il lavoro, la fatica’. 4. Archintum: Palazzo Archinto, in via Olmetto a Milano, era caratterizzato da eleganti cortili a portici, che si aprivano in successione scenografica fino al giardino e rappresentano, oggi, l’unica parte sopravvissuta dell’edificio, quasi interamente distrutto dai bombardamenti dell’agosto 1943. Alcuni membri della famiglia Archinto si distinsero nella vita pubblica, in epoca visconteo-sforzesca, con ruoli amministrativi di responsabilità nel governo del Ducato, ma fu in epoca spagnola che il casato raggiunse il vertice della sua affermazione sociale e economica. 6. Hieronymus Seripandus: Girolamo Seripando (1493-1563), ordinato sacerdote nel 1513 e divenuto segretario di Egidio da Viterbo, generale dell’Ordine agostiniano, alternò l’attività di predicatore con gli studi di filosofia e teologia, che gli valsero la nomina a magister studii e l’insegnamento di teologia presso l’università di Bologna. Conobbe il movimento valdesiano, ma non vi prese parte: auspicò, tuttavia, una riforma profonda della Chiesa e, creato priore generale nel 1538, cominciò ad attuarla, prima nel suo ordine attraverso una scrupolosa visita ai monasteri agostiniani d’Italia, di Francia e di Spagna (1539-42), poi con un’attiva partecipazione alle consulte e ai primi lavori del concilio di Trento. Rientrato a Napoli nel 1550, abdicò al generalato, riprese gli studi e fondò la biblioteca di San Giovanni a Carbonara; l’elezione di Pio IV al soglio pontificio, nel 1559, coronò la sua carriera: fu nominato, infatti, inquisitore e poi, nel 1561, cardinale. Fondò la tipografia vaticana, prevalentemente destinata, nelle sue intenzioni, alla pubblicazione di edizioni canoniche di libri sacri, al fine di contrastare la diffusione delle edizioni protestanti; non poté, tuttavia, attendervi a lungo perché fu nominato legato pontificio al Concilio di Trento, dove si sforzò di risolvere tesi opposte e diverse in formule conciliative. Mentre insisteva presso la curia romana per la stampa di una bibbia canonica, preparò lo schema per sei commissioni di riforma (ordini, matrimonio, regime ecclesiastico, monasteri, teologi minori, messa) e fece sancire l’obbligo della residenza per i vescovi. Intervenne, inoltre, a proposito della fondamentale questione della giustificazione, propugnando lo schema della doppia giustizia, ch’era stato sottoscritto anche dai luterani nei colloqui di Ratisbona del 1541: è, in particolare, in scritti come il De duplici iustitia (1542), il De iustificatione (1543) e il Pro confirmanda sententia de duplici iustitia catholicorum quorundam doctrina (1546) ch’egli ricorre alla distinzione tra giustizia imperfetta (della vita presente) e giustizia perfetta (della vita eterna). Seripando fu pure ottimo esegeta: commentò, tra l’altro, le due Epistole di Paolo, ai Galati e ai Romani, da cui lo stesso Lutero aveva tratto gli argomenti per la sua idea di giustificazione. Certamente per questa ragione i suoi commenti divennero ben presto oggetto di critiche e di sospetti sulla loro ortodossia, sebbene, di fatto, l’apertura alla problematica religiosa e teologica della Riforma non inficiò mai la sua ferma adesione alla Chiesa cattolica. Su Seripando, vd., da ultimo, la traduzione italiana della biografia curata da


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H. Jedin (1937), Girolamo Seripando. La sua vita e il suo pensiero nel fermento spirituale del XVI secolo, Brescia, Morcelliana, 2016. Antonio Seripando: Antonio Seripando (1486-1531), fratello del più noto Girolamo, fu, dai quindici anni, allievo di Francesco Pucci, l’umanista fiorentino che aveva portato a Napoli la lezione filologica di Poliziano, insegnando presso lo Studio e prestando la sua opera in qualità di bibliotecario regio. Dopo la caduta della dinastia aragonese, nel 1504, Pucci sarebbe passato a Roma, come segretario del cardinale Luigi d’Aragona; alla sua morte, nel 1512, l’incarico sarebbe passato a Seripando, che avrebbe cercato di salvare libri e testimonianze del maestro: alcuni volumi avrebbero preso la strada di Firenze, ma Antonio riuscì a trattenere presso di sé alcuni importanti incunaboli adoperati da Pucci come esemplari di collazione, tra cui l’edizione veneziana del 1470 delle Epistulae ad Atticum di Cicerone (vd. C. Vecce, Postillati di Antonio Seripando, in Parrhasiana II. Atti del II Seminario di Studi su Manoscritti Medievali e Umanistici della Biblioteca Nazionale di Napoli, Napoli, 20-21 ottobre 2000, a cura di G. Abbamonte, L. Gualdo Rosa, L. Munzi, pp. 53-60). M. Antonius Caimus: Marco Antonio Caimi (ca. 1500-1562), dopo una prima formazione particolarmente attenta alle humanae litterae, si recò a Padova per attendere agli studi giuridici, ma, prima di conseguire il dottorato, si trasferì a Bourges, attratto dalla fama di quello Studio e dall’insegnamento di Andrea Alciato, ch’egli avrebbe poi sostituito sulla cattedra di diritto civile. Insegnò, in seguito, a Ingolstadt e Pavia e ricoprì la carica di senatore a Milano, dal 1553 sino alla morte. Di Caimi apparvero a stampa alcune Summariae Adnotationes in aliquot Iustiniani Codicis titulos (Francoforte, 1544, ripubblicate, pare, tre anni dopo a Lione): ispirata alla lezione di Alciato nella stessa scelta del genere letterario, l’opera scomparve ben presto da una più larga circolazione. Si trattava di un’elegante raccolta di osservazioni sulla complessa materia della iurisdictio, ricca di precisazioni erudite e di tentativi di ricostruire storicamente l’origine degli istituti, seguendo gli esempi umanistici, soprattutto alciatei, che Caimi citava spesso con grande rispetto. Hieremias Landus: Come persuasivamente dimostrato da C. Fahy, Per la vita di Ortensio Lando cit., pp. 243-251, indubbia è l’identificazione di Geremia Lando, interlocutore del Cicero relegatus, con lo stesso Ortensio Lando. G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., pp. 162-165, sulla scia dell’autorevole testimonianza di Apostolo Zeno (per cui vd. G. Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana, a cura di A. Zeno, vol. II, Venezia, presso Giambatista Pasquali, 1753, pp. 433-434) aveva ritenuto si dovesse distinguere la figura dell’eremita agostiniano Geremia Lando, apostata e autore di scritti eretici erroneamente messi all’Indice sotto il nome di Ortensio Lando, da quella di Ortensio, appunto, autore spregiudicato ma non eretico né apostata. Il documento che ha permesso a C. Fahy di venire a capo della complessa questione è una nota scritta dall’umanista e orientalista tedesco Johann Albrecht von Widmanstetter (per cui vd. nota al § 140) sul verso del frontespizio del suo esemplare del Cicero relegatus, ch’egli doveva possedere nell’edizione veneziana del 1534, nota che, dal momento che l’esemplare widmanstetteriano non è più conservato, insieme alle altre carte dell’umanista, alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, conosciamo solo grazie alla trascrizione settecentesca fattane dallo studioso monacense A.F. von Oefele: «Author libri est Hieremias Augustiniani ordinis monachus, postea hortensius Medicus factus, qui et Fortianas quaestiones edidit, homo doctus et mihi Neapoli in sede S. Joannis Carbonariae familiaritate iunctissimus ao 1530». La testimonianza ha, evidentemente, valore dirimente, poiché identifica esplicitamente fra Geremia agostiniano con Ortensio medico – diversi sono i loci delle sue opere in cui Lando si definisce medico – e entrambi con l’autore non solo del Cicero relegatus ma anche delle


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Forcianae quaestiones. Vd. anche, a questo proposito, l’addendum Lando and the Augustinians in C. Fahy, The Composition of Ortensio Lando’s Dialogue cit., pp. 40-41, che reca altre prove della giovanile permanenza di Lando tra gli Agostiniani, tra cui un documento legale datato 5 maggio 1533, relativo al monastero di S. Agostino a Pavia, in cui compare il nome di frater Ieremias de Mediolano in qualità di lector: Geremia non era un nome comune tra gli Agostiniani e remota è la possibilità che nel medesimo Ordine ci fosse, in aggiunta a Lando e nello stesso torno di anni, un altro Geremia da Milano. Caesar Casatus: Personaggio non meglio identificato. Capostipite della famiglia milanese dei Casati fu un Apollonio, vicario imperiale per Lotario il Sassone nel 1126, il quale eresse un castello presso Casate-Vecchio nella Martesana. I Casati si trovano inscritti nella matricola delle duecento famiglie patrizie milanesi pubblicata da Ottone Visconti nel 1277. A partire dal XVI secolo fiorirono rami diversi della famiglia, in particolare quello dei conti di Borgo Lavezzaro e quello dei conti di Spino e Nosadello (vd. G.B. di Crollalanza, Dizionario storicoblasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, vol. I, Bologna, Arnaldo Forni editore, 1886, p. 249; Milano. Le grandi famiglie – Nobiltà e borghesia. Le radici del carattere milanese e lombardo, a cura di R. Cordani, Milano, Celip, 2008). 7. Gaudentius Merula: Gaudenzio Merula (1500-1555), dopo aver compiuto i primi studi sotto la guida dell’umanista Domizio Calciato, si recò a Milano per completare la sua formazione; salvatosi dalla peste che infuriava nella città, vi si trattenne a lungo, stringendo legami con letterati come Scipione Vegio e inserendosi nei locali circoli umanistici. Nel 1534 compose la commedia Gelastinus che, malgrado la mancanza di originalità, riveste un certo interesse e in quanto capitolo della fortuna di Plauto in età umanistico-rinascimentale e per l’argumentum recitato in apertura dal personaggio principale, Gelastinus appunto, in cui l’autore, oltre a esprimere il proprio biasimo nei confronti di quanti disprezzano il genere comico, si scaglia contro coloro che propugnano una lingua e una cultura fondate non sui testi classici, ma sui testi medievali. Una polemica, questa, che Merula avrebbe recuperato, poi, nel più tardo Terentianus dialogus (1543), in cui è descritta una disputa, svoltasi a Milano, tra i fautori di Terenzio e Cicerone da un canto e i loro oppositori dall’altro e su cui non secondaria parrebbe esser stata l’influenza del Cicero di Lando. A Merula è attribuito pure un testo sinora non rinvenuto, il Bellum civile inter Ciceronianos et Erasmicos, menzionato, con un certo fastidio, da Erasmo in una sua epistola (per cui vd. Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, vol. XI, cit., pp. 132-135: 134 [epist. 3019]). La posizione di Merula non dovette essere univocamente antierasmiana o, almeno, mutò nel tempo, poiché nel proemio del Terentianus dialogus l’amico Bartolomeo Draghetti lo esorta a prendere le distanze – non è ben chiaro se da un punto di vista solo letterario o anche religioso – dal pensatore olandese (vd., per i rapporti che intercorsero tra Erasmo e Merula, S. Adorni-Braccesi, Gaudenzio Merula tra Erasmo e Calvino: ricerche in corso, in Giovanni Calvino e la Riforma in Italia: influenze e conflitti, a cura di S. Peyronel Rambaldi, Torino, Claudiana, 2011, pp. 245-274). Merula affrontò diversi processi per motivi religiosi – in un caso forse per aver espresso pubblicamente giudizi contro il clero – ma fu sempre assolto. Secondo il biografo, suo contemporaneo, Dal Pozzo, la sua posizione era aggravata dalla corrispondenza intrattenuta con Sebastian Münster, il cosmografo tedesco entrato nell’Ordine francescano e poi passato alla Riforma luterana, corrispondenza di cui, tuttavia, non è rimasta traccia. Hieronymus Garbagnanus: Possibile l’identificazione con Girolamo Garbagnati (15361569), giureconsulto milanese. Bassianus Landus: Di Bassiano Lando si ignorano la data di nascita e la gran parte delle


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vicende biografiche; nelle Forcianae quaestiones Ortensio Lando loda la giovane età e l’eccellenza di questo insegnante privato di greco e latino, ch’egli aveva avuto modo di ascoltare nel corso di un viaggio da Lucca a Milano, al termine del soggiorno presso la villa dei Buonvisi a Forci, presso Lucca, teatro delle Quaestiones (vd. O. Lando, Forcianae quaestiones in quibus varia italorum ingenia explicantur, multaque alia scitu non indigna, Autore Philalete Polytopoiensi Cive, Neapoli [ma Lione], excudebat Martinus de Ragusia, anno MDXXXV, p. 23). La documentazione di cui disponiamo mette in luce che Bassiano fu un personaggio di rilievo e nello Studium patavino, presso il quale insegnò per diversi anni, e nell’ambito delle discussioni che, verso la metà del XVI secolo, si svilupparono, in Italia, lungo il crinale del rapporto tra critica filosofica, rinnovamento della scienza medica, libertà della ricerca e potere delle istituzioni politico-ecclesiastiche; egli si distinse, in particolare, per i suoi studi di anatomia e per la traduzione, accompagnata da commento, del De anima di Aristotele (vd. S. Ferretto, La medicina tra utopia e responsabilità civile. Alcune riflessioni su Bassiano Lando e l’ambiente culturale bolognese della prima metà del ’500, in L’utopia di Cuccagna tra ’500 e ’700. Il caso della Fratta nel Polesine, a cura di A. Olivieri e M. Rinaldi, Rovigo, Minelliana, 2011, pp. 209-228). P. Antonius Chioccha: Personaggio forse identificabile con Antonio Chiocchi del Monte, aretino, nominato vescovo di Novara il 19 aprile 1516 e in seguito creato cardinale da Giulio II; morì a Roma il 20 settembre 1533 e fu sepolto nella chiesa di san Pietro in Montorio: vd. L.A. Cotta, Museo novarese, Milano, per gli Heredi Ghisolfi, 1701, p. 70. ad pericula fortis [...] fortunamque felix: espressione ciceroniana, per cui vd. Cic. Font. 43. Franciscus Piochetus: François Piochet (XVI secolo), poeta francese, compose un’epigrafe in versi latini per la morte, avvenuta a Lione il 10 agosto 1536, del delfino Francesco, primogenito del re Francesco II di Valois. 8. Octavianus Vosascus: Ottaviano Cacherano d’Osasco, secondogenito di Giovanni, signore di Osasco e conte di Rocca d’Arazzo, dopo aver concluso gli studi di diritto, assunse sotto Carlo III, dal novembre del 1530, l’incarico di avvocato fiscale generale nel contado di Asti e nel marchesato di Ceva, segnalandosi negli anni successivi per la difesa delle prerogative della signoria sabauda e la repressione di torbidi nei territori del Cuneese; più tardi fu nominato senatore e trasferito a Nizza come conservatore delle gabelle del sale della contea. Consigliere abile e devoto in anni difficili per la dinastia sabauda, pose le sue doti al servizio della restaurazione politica e amministrativa del ducato a seguito del definitivo ritorno di Emanuele Filiberto dopo la conclusione della pace di Cateau-Cambrésis (1559). Nel 1575 divenne gran cancelliere di Savoia, massima dignità dello Stato. Morì nel 1589. Gulielmus Saeva: Guillaume Scève, poeta elegiaco, cugino del più noto Maurice Scève (sulla sua figura e il Sodalitium Lugdunense vd. almeno J.-C. Margolin, Le cercle humaniste lyonnais d’après l’édition des Epigrammata (1537) de Visagier, in L’Humanisme lyonnais au XVIe siècle. Actes du colloque (mai 1972), Grenoble, Presses universitaires de Grenoble, 1974, pp. 151-183). Augustinus Mainardus: Agostino Mainardo (1482-1563) entrò, probabilmente in giovanissima età, nell’Ordine agostiniano e nel 1513 ottenne, presso lo Studio conventuale di Firenze, il titolo di magister; nel 1532, durante la predicazione quaresimale ad Asti, fu udito pronunciare proposizioni eterodosse mentre discuteva questioni teologiche con un frate: denunciato all’autorità pontificia, ricevette l’ordine di cessare la predicazione relativa ai temi della predestinazione, della grazia e del peccato originale e, tuttavia, continuò a diffondere segretamente


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Cicero relegatus et Cicero revocatus. Dialogi festivissimi

le proprie dottrine. Tra il 1533 e il 1539 intrecciò una profonda amicizia con Celio Secondo Curione – docente di oratoria nell’ateneo pavese nel 1536-38 – e frequentò il confratello Giulio Della Rovere; ebbe contatti, inoltre, con Ortensio Lando e Ambrogio Cavalli. In occasione della Quaresima del 1538, Mainardo ebbe dal vicario generale dell’Ordine l’incarico di predicare a Roma nella chiesa di S. Agostino: alla presenza di un uditorio affollatissimo, egli insistette sui temi delle indulgenze, dell’autorità del pontefice e della salvezza per fede, esprimendo velatamente orientamenti filoprotestanti; ne scaturì una vera controversia, nel corso della quale Mainardo fu avversato da Ignazio di Loyola e dai suoi seguaci. Ciononostante, nel luglio 1540 fu annoverato dal generale dell’Ordine, Girolamo Seripando, tra i padri cui sola era concessa la licenza di predicare. In seguito, tuttavia, fu spiccato contro di lui un mandato d’arresto e Mainardo, dopo esser stato espulso dall’Ordine insieme al confratello Della Rovere, prese la via dell’esilio a Chiavenna, dove sarebbe morto nel 1563. Laura Barbatus: Si ha notizia di un Pietro (o Petronio) Barbato, nativo di Foligno e morto il 22 novembre 1554; fu poeta e studioso di diritto, nonché segretario del cardinale Enrico Caetani di Sermoneta. 11. Ciceronis libros De gloria: opera perduta di Cicerone, in due libri, composta nel 44 a. C. Petrarca, in un’epistola a Luca da Penne (Sen. XVI, 1), un giurista di Avignone che aveva chiesto al poeta una copia di tutte le opere rare di Cicerone in suo possesso, risponde che le opere dell’Arpinate di cui disponeva erano tutte ben note e, dopo aver descritto la predilezione nutrita, sin dalla fanciullezza, per il massimo autore della latinità, racconta che il suo maestro di Carpentras, Convenevole da Prato, aveva da lui ricevuto in prestito un raro esemplare del trattato ciceroniano De gloria – che Petrarca aveva a sua volta avuto in dono dal giureconsulto Raimondo Soranzio –, che era stato, però, costretto a dare in pegno, senza poi avere la possibilità di riscattarlo e restituirlo all’antico allievo. La veridicità dell’episodio fu, tuttavia, messa in dubbio già da P. de Nolhac, Pétrarque et l’humanisme, vol. I, Paris, Champion, 19072, pp. 260-268, che ipotizzò che Petrarca potesse aver letto, durante la sua giovinezza, alcuni passi ciceroniani relativi al tema della gloria e che, in un secondo momento, avesse avuto notizia di un’opera specificamente dedicata dall’Arpinate al medesimo tema, finendo per convincersi di aver effettivamente posseduto il volume, poi smarrito dal suo maestro Convenevole da Prato. 12. Ciceronis Officia [...] excuderat: la più antica edizione del De officiis di Cicerone pubblicata da Sébastien Gryphe comparve nel 1532 (M. Tulii Ciceronis De officiis libri III ad uetustissima denuo exemplaria integritati suae restituti. De amicitia, & de Senectute dialogi. Paradoxa, & Somnium Scipionis cum annotationibus D. Erasmi Rot. & Philippi Melanchthonis. Accessit praeterea Graeca traductio in librum de Senectute, ac Somnium Scipionis per Theodorum Gazam. Seb. Gryphius Germ. excud. Lugduni, 1532). Tale edizione recuperava, probabilmente, il testo del De officiis curato da Erasmo e pubblicato a Lovanio nel 1519 dall’editore Dirk Martens di Aalst (Officia Ciceronis rursus accuratissime recognita per Erasmum Roterodamum, Lovanii, apud Theodoricum Martinum Alostensem, 1519), insieme alla prima edizione delle note di commento al De officiis, al De amicitia, al De senectute e ai Paradoxa redatte da Erasmo e pubblicate a Parigi intorno al 1501 da Denis Roce. Sébastien Gryphe non fu, dunque, il primo a raccogliere insieme tali testi, né il primo a pubblicare scritti ciceroniani e note di commento in un unico volume; egli volle, tuttavia, rivendicare l’originalità della sua edizione attraverso una notazione contenuta nel titolo: la formula De officiis, libri III ad uetustissima denuo exemplaria integritati suae restituti lascerebbe intendere, infatti, che il testo ciceroniano


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fosse stato rivisto e corretto, sennonché in nessun luogo del volume si fa riferimento al curatore di una collazione dei testi contenuti nelle edizioni precedenti. Collazione che, certo, Gryphe potrebbe aver commissionato a uno dei suoi collaboratori, ma che, con ogni probabilità, non fu, in effetti realizzata: è verosimile ritenere, piuttosto, che quella notazione fosse adoperata unicamente per invogliare i lettori all’acquisto dell’edizione. Essa risulta, infatti, decisamente vaga, non solo in riferimento al nome del curatore scientifico della collazione, ma anche a proposito dei vetustissima exemplaria adoperati: non è chiaro, infatti, se dovesse trattarsi di un manoscritto antico o di un’edizione precedente adottata come modello. Tale ambiguità non era, ovviamente, insolita in età umanistico-rinascimentale e, tuttavia, quella formula, [...] ad uetustissima denuo exemplaria integritati suae restituti, scompare nel titolo della seconda edizione lionese della raccolta: M. T. Ciceronis Libri tres de Officiis. Item de Amicitia, De senectute, Paradoxa & de Somnio Scipionis, cum D. Erasmi, Philippi Mel. ac Bartolemaei Latomi annotationibus. Quibus accessit Graeca Theodori Gazae in lib. de senectute & somnium Scipionis traductio, Lugduni, apud Gryphium, 1536 (per le edizioni di opere ciceroniane pubblicate da Gryphe, vd. H. Lannier, Les éditions de Cicéron produites par Sébastien Gryphe. L’étude d’une production, 1531-1556, sous la direction de R. Mouren, Mémoire de recherche/septembre 2012).


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