Storia di un’anima carnale. Charles Péguy a cento anni dalla morte

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così facendo nella sua solitudine; infatti da una parte c’erano i nazionalisti, delusi da questa fedeltà al dreyfusismo, dall’altra i dreyfusisti ufficiali che non riconoscevano in Péguy uno dei loro. Per la maggior parte dei dreyfusisti l’affaire si riassumeva in un confronto fra illuminismo, di cui questi si ritenevano i rappresentanti, e anti-illuminismo, di coloro che mettevano la patria, l’esercito, al di sopra dei diritti dell’individuo. Péguy non ragiona in questi termini. Péguy dice: no, noi abbiamo degli antenati, e siamo responsabili di e davanti a loro; ecco perché non possiamo lasciar commettere un’ingiustizia. E che cosa fa? Cita Corneille: «Renderò il mio sangue puro come l’ho ricevuto» – è una battuta di Rodrigo nel Cid –; ne va dell’onore della razza, scrive Péguy, ed è questo che ha difeso al momento dell’affaire Dreyfus. Ancora una volta, ritroviamo l’«incontemporaneo»; in quel frangente, in quanto autore de La nostra giovinezza, egli è in una posizione precaria con tutti, con i maurrassiani da un lato e con i progressisti dall’altro. Ed è incompreso ancora oggi, in un momento in cui la parola razza spaventa tutti e, in nome di quell’antifascismo di cui ho detto poco fa, si arriva a confondere, come se fossero un’unica cosa, l’impeto corneilliano, a cui Péguy si rifaceva, e la pulsione hitleriana. Péguy ha vissuto in maniera drammatica il problema dell’esclusione: l’affaire Dreyfus, la povertà. La nostra società invece parla in continuazione degli esclusi. Perché secondo lei? Diciamo che preferiamo una società che si occupa dei suoi esclusi ad una società che non se ne sente coinvolta o che pratica deliberatamente una politica d’esclusione. Semplicemente, l’inferno può essere

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lastricato dalle migliori intenzioni e oggi, in nome della lotta contro l’esclusione o contro la discriminazione, sono proprio le gerarchie fondanti della stessa Repubblica ad essere oscurate e che rischiano anche di sparire. «Non bisogna escludere nessuno, non si può lasciare nessuno ai margini della strada»; di conseguenza, oggi, nella scuola primaria e secondaria si fanno i corsi in funzione dei cattivi allievi, annullando la bocciatura, e tutto ciò lo si fa a danno degli altri perché contribuisce al crollo del livello della classe. Ma questa politica si rivolta contro chi la mette in atto, perché produce un disastro educativo da cui possono sfuggire solo i figli dei privilegiati che vanno in altre scuole, o hanno dei sostegni, dei precettori, esterni alla scuola. È una disuguaglianza assai grave, e siccome ci troviamo in un circolo vizioso, chi vuole lottare contro l’esclusione si scandalizza di un tale risultato e accentua ancora le riforme che sono state così negative: chiedono che si facciano ancora più corsi in funzione di chi rischia di essere escluso e quindi il livello non cessa di abbassarsi. Péguy diceva tutt’altro. Faceva una differenza capitale tra la miseria e la povertà. Diceva che nella miseria la vita è ridotta ai suoi processi di base, si vive per vivere, non si ha accesso al mondo. La povertà è tutt’altra cosa. La solidarietà fraterna si dà da fare per non lasciare nessuno nella miseria, il resto non è importante. Ci possono essere delle differenze, soprattutto dislivelli di fortuna, ma ciò non è grave, e penso che chi vive diseguaglianze di talento sia pronto a riconoscerle. Oggi la lotta contro l’esclusione non ammette alcuna diseguaglianza, almeno in apparenza, perché alla fin dei conti la favorisce. Ma è uno stato d’animo molto diverso da quello che animava Péguy.


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