«Opere teatrali. Volume secondo (Batechio)», di Salvestro cartaio detto Il Fumoso

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Salvestro cartaio detto Il Fumoso

Opere teatrali volume secondo

Batechio edizione critica, traduzione e commento a cura di Anna Scannapieco prefazione di Roberto Alonge


Indice

Prefazione di Roberto Alonge

7

Nota al testo

11

Batechio

Bibliografia Indice delle forme e delle parole annotate

43 155 167


Prefazione di Roberto Alonge

Dei sei testi composti dal Fumoso, ben quattro sono vere e proprie commedie villanesche, aventi per soggetto il personaggio contadino, alfa e omega di questo piccolo universo drammaturgico, e solo due si presentano, almeno formalmente, come pastorali, che ho sempre trovato uno dei generi letterari più noiosi del mondo (chiedo venia, sicuramente è un mio limite culturale...). Nell’ordine sancito dalle date di pubblicazione le due pastorali stanno rispettivamente al primo posto (1544, Panechio) e al terzo (1546, Batechio), a pochi mesi di distanza del Tiranfallo. Ma in realtà, sin dall’inizio, è del tutto chiaro che al Fumoso interessa essenzialmente la vicenda del villano. Il plot pastorale (esilissimo, quasi inconsistente) viene evocato per scardinarlo dal di dentro. O per dirla con le parole di Anna Scannapieco, «il Batechio approfondisce intensivamente la marginalizzazione dell’elemento pastorale di pari passo con l’affinamento di quello villanesco». La costruzione del primo atto è, a questo proposito, di una chiarezza geometrica: prima e ultima scena dedicate ai pastori, rispettivamente la miseria di 19 e 11 versi. Dentro questa cornice un quadro scandito in tre grosse scene, per un totale di 142 versi, tutte compattamente dedicate ai personaggi villaneschi. Poi, certo, non può continuare propriamente così per quattro atti ma, tendenzialmente, la storia rusticana e quella pastorale procedono parallele e incomunicabili, e il Fumoso realizza alla grande il suo capovolgimento radicale rispetto alla tradizione dei Pre-Rozzi: non più il villano come intermezzo comico della vicenda sentimentale dei pastori e delle ninfe, bensì questi ultimi come intermezzo canoro-musicale di una trama tutta contadina. La solita trama, s’intende, intreccio dei due fili capitali che dicono i bisogni elementari di uno strato sociale elementare, quasi primitivo: la fame, la miseria economica, lo sfruttamento che la città impone alla campagna, e la fame sessuale. Dobbiamo però stare all’interno della convenzione della commedia, e dunque la fame di cibo non può andare al di là della lunga, variata lamentazione, per quanto irrobustita dai fermenti e dalle reazioni di classe


Prefazione

del ceto dei piccoli artigiani che danno vita alla Congrega dei Rozzi. La fame di sesso alimenta invece fantasie maschiliste brutalmente aggressive, che faticano tuttavia a tradursi in azione. Il desiderio di un giovane contadino per la donna (moglie) di un altro contadino, e altri sodali che guardano, che assistono, che condividono, che incitano, senza esclusioni di sorta. Nella mia vecchia tesi di laurea, pubblicata più di cinquant’anni fa, non avevo potuto fare a meno – per accecamento pre-sessantottino – di dichiarar la mia simpatia per Perella, coscienza politica del gruppo, ma ha ragione Anna Scannapieco a osservare che, con il secondo atto, Perella «torna ora ad indossare pienamente la maschera del villano in commedia», con suggerimenti di «sbrigativa efficacia». È proprio lui, infatti, a indicare la linea di condotta all’esitante amoroso: «Che sariè côr la posta quando è sola, / senza nissuno in casa, entrarvi un tratto / secretamente, e senza far parola / porgli le mani a dosso?». E se Batechio, incontrando la Meca, non riesce ad andare oltre a una sterile violenza su un oggetto (le rompe il «coppo», cioè il vaso con cui è andata a prendere acqua alla fonte), è sempre Perella a proporre l’alternativa vincente: «Basta, gli ha rotto el coppo, el barbagianni. / Dovevi infatto, perché gli era sola, / senza più dirgli niente, alsargli e panni». Però Perella predica bene ma razzola male. Prima dell’incontro con la Meca, i tre contadini si imbattono in una ninfa addormentata, e il progetto di razzia sessuale è condiviso da tutt’e tre: affittare una casa, e per tre settimane godersi la donna a mo’ di branco. A Perella tocca proprio la funzione di leader: dice bene la Scannapieco che è Perella, in quanto il «più capace», a essere incaricato di svegliare la ninfa e di imporre le modalità del ratto. Ma basta l’arrivo di due pastori (e del Pellegrino di rinforzo) per determinare il crollo del sogno erotico, ed è proprio Perella a ordinare il rompete-le-righe: «Toccafondo e Batechio, fuggiàn via / e scappiàn da costor, da le lor mani». Insomma, il teatro dei bisogni primordiali: non dell’amore ma del sesso, dove il partner è intercambiabile, la ninfa o la contadina, pari sono, e la positura erotica preferita è quella propriamente bestiale, more ferarum, appunto (dice Batechio a Meca: «che tu sie sì crudel che non ti doglia / di non farmi el poggiuol co le tuo spalle»). Ma anche teatro come risarcimento solo mentale di qualcosa che non si realizza, se non sotto la forma dello scacco, seppellito dalla risata liberatoria del pubblico. Almeno all’altezza cronologica del 1546, perché – in effetti – un po’ diverso è il quadro che emerge dalla Discordia d’amore del 1550, che conclude lasciando intravedere il trionfo della malmaritata, la quale compensa con ben due amanti il coniuge non troppo


Prefazione

gradevole. Ma quello era un testo complesso, prima grande prova di scrittura del Fumoso, cui giustamente, dunque, abbiamo riservato un indugio prefativo di una certa estensione. Qui la Meca è figurina ancora troppo germinale, che prepara molto alla lontana quella che sarà la Pasquina della Discordia d’amore: vorrebbe, ma non ce la fa; desidera, ma è intimidita dagli inevitabili pettegolezzi della comunità rusticana: «Cotesto non farò perch’i’ so questo, / che non sarebbe prima fatto el male, / sarebbe a tutto ’l mondo manifesto». Maniera graziosa – simpatica e candida al tempo stesso – di confessare che la voglia non mancherebbe... E figurina velleitaria è anche Batechio, che sprofonda nel momento topico dello scontro: lui e l’amico Toccafondo, da un lato, contro Matassa, il marito di Meca, dall’altro lato, a sua volta appoggiato da Perella, che ha tradito la causa di Batecchio e ha fatto la spia. Lo stessa schema che – sia pure con qualche variazione – il Fumoso ripeterà in Discordia d’amore. E qui come poi là s’impone il collaudato schema comico secondo cui i più fifoni sono coloro che dovrebbero essere i più combattivi, cioè i diretti interessati. Batecchio si spinge però a un eccesso che potrebbe risultare persino oscuro, quando opera un improvviso slittamento del duello su un piano sessuale: mostra il sedere e invita gli antagonisti a sodomizzarlo. In verità esibire le terga al nemico può anche essere – nel linguaggio simbolico – un gesto di irrisione, un indice di pugnacità aggressiva, ma non ci sembra che sia il caso del passo in questione. Al tempo della prima guerra del Golfo, abbiamo ben letto che i soldati irakeni si arrendevano agli alleati in overrun saltando fuori dalle loro trincee per calare le brache ed offrire il fondo-schiena. Insomma, una cifra di connotazione ancestrale della sottomissione, un segnale di resa a discrezione. Se fosse così, si comprenderebbe anche l’ambiguità di quella esclamazione di Batecchio, «la vò pigliare infatto per marito», che confonde ovviamente Meca e Matassa, la moglie e il marito. Come dire che il nostro duellante ha preso atto dell’adagio andarono per suonare, e tornarono suonati. A chi voleva violentare la moglie di Matassa può toccare di essere violentato dal di lei marito...


Nota al testo Una storia teatrale che aspiri ad essere non soltanto una storia della drammaturgia o della tecnica rappresentativa, ma che si proponga anche come storia della struttura e della forma scenica, stenta a individuare, nella folta materia che essa è chiamata a comprendere, i tratti peculiari che le consentano di trasformarsi in disciplina specialistica. Il suo cammino verso l’autonomia è ostacolato, nel nostro esempio [Ruzante], dall’arretratezza e dalla sfasatura delle ricerche; sicché lo storico del teatro che intenda catalogare e interpretare i fenomeni di natura teatrale presenti nell’opera del Ruzante e di altri autori circumvicini, è obbligato a farsi prima filologo ed editore dei testi, e poi studioso e dichiaratore di essi .

Introduzione A pochi mesi di distanza dalla commedia «carnovalesca» Tiranfallo, edita all’indomani della prima rappresentazione, nel giugno del 1546, Fumoso mette mano a una nuova opera, che – inevitabilmente, dato il contesto temporale – replica l’esperienza dell’esordio con una seconda «commedia di maggio». Rispetto all’esile, ancorché originale, prova del Panechio, il Batechio approfondisce intensivamente la marginalizzazione dell’elemento pastorale di pari passo con l’affinamento di quello villanesco. In particolare, quest’ultimo si nutre di umori politici che dovevano essere ampiamente condivisi nella Siena della primavera del 1546: l’imponente sommossa popolare che aveva portato, nel febbraio, all’allontanamento di Don Giovanni di Luna, agente imperiale inviso ai più per la sua parzialità verso il Monte dei Nove, aveva dato a Siena l’illusione di poter contrastare l’ingombrante tutela imperiale: il 1° marzo infatti veniva deliberata l’esclusione dei noveschi da cariche pubbliche e intimata la partenza della guardia spa 

Ludovico Zorzi, Introduzione, in Ruzante, p. viii. Cfr. Fumoso1, pp. 52-53.


Nota al testo



gnola, che tante sofferenze aveva prodotto, soprattutto nel contado. Carlo V, impegnato nella guerra di Germania, invia a Siena un proprio incaricato, Francesco Grasso, che fa il suo ingresso in città il 21 maggio: ma le direttive impartire al governo, «che ’l Monte de’ Nove fosse rimesso al governo e si accettasse la guardia di quattrocento fanti Spagnuoli», sono rispedite al mittente, e, tra un temporaggiamento e l’altro, i Senesi possono cullarsi nell’illusione di fronteggiare le ingerenze imperiali, almeno fino al giugno 1547, quando saranno costretti ad accettare sia la riammissione dei noveschi che un corposo contingente spagnolo (400 fanti) al comando di quel Don Diego Hurtado de Mendoza che tanto peso avrà nel tracollo definitivo della Repubblica. Questa temperie politica anima significativamente alcuni tra i più rilevanti nuclei drammaturgici della «commedia nuova di maggio» del Fumoso, la cui prima edizione vede la luce in giorni in cui la Speranza (non a caso prologhista del Batechio) poteva ancora palpitare con fiducia. Alla princeps, del luglio 1546, faranno seguito ben quattro edizioni cinquecentesche, a palmare riprova del successo che – anche in tempi più bui – l’opera dovette incontrare. Dopo tre secoli – per quanto è dato sapere – di silenzio editoriale, il Batechio è stato riproposto dapprima da Luciano Banchi (1871) e, oltre un secolo dopo, da Menotti Stanghellini (1999): nessuno dei due moderni editori, tuttavia, si avvaleva dell’indispensabile supporto della princeps e d’altronde – come vedremo – entrambi non esitavano a contaminare i testimoni a stampa disponibili o a procedere a taciti quanto arbitrari emendamenti. i.

Le edizioni

1. Siena, Francesco di Simone-Giovanni Landi, 1546 [A] 1.1. Descrizione BATECHIO | COMMEDIA NVOVA | DI MAGGIO. | Composta per il Pelegrino Inge |gno del Fumoso dela Con | grega de ROZZI. | [incisione con tre figure: una donna con vaso sul capo e uomo con mantello in atto di prendere il vaso o aiutare la donna a portarlo; sulla sinistra, seduta su un tronco,  

Cfr. di séguito il commento al v. i.91. Malvolti, p. 146.


Nota al testo



altra donna coronata di lauro e con ramo fiorito in mano (maio): se ne veda di séguito la riproduzione]. Colofone: In Siena per Francesco di Simione: | Adistantia di Giouanni d’Ali- | sandro Libraro, del Mese | di Luglio, M.D. | .XLVI. Formula collazionale: 8°; A-B8 C4; cc. [20] (segnatura del fascicolo a cc. [2r] A ii; [3r] A iii, [4r] A iiii, [9r] B, [10r] B ii; [11r] B iii, [12r] B iiii, [17r] C, [18r] Cii); carattere romano; titoli correnti: nel margine inferiore di B [i] (c. [9r]) e di C [i] (c. [17r]) «Batechio»; assenza di parole guida. Contenuto: c. [1r] frontespizio; c. [1v] INTERLOCVUTORI.; c. [2r] Prologo.; cc. [2v-19r] ATTO PRIMO: | Armenio Pastore [...] Ponianci qui, e voi intorno intorno; cc. 19r-v CANZONA.; c. 20r LICENTIA. Nel verso dell’ultima carta, grande marca tipografica (dimensioni: 6,5 x 10,2) della lupa che allatta i gemelli davanti a un albero di melograno (identificativo T27 Z1086), la stessa ricorrente nella princeps della Discordia d’amore (1550: cfr. Fumoso3, pp. 16-17). Non censito in Edit16 Impronta: i.i, iog- ioni enEn (C) 1546 (R) Unico esemplare reperito: Biblioteca Nazionale Firenze, Palat. E.6.7.58.I2. 1.2. Note sul tipografo e sull’editore Per la coppia Giovanni d’Alissandro-Francesco di Simone, rimando alla ricostruzione dei loro profili e della loro collaborazione già tracciata nella Nota al testo della Discordia d’amore (Fumoso3, pp.17-23), limitandomi qui a ricordare che Francesco di Simone, figlio del primo tipografo senese Simeone di Nicolò, fu, negli anni quaranta, uno dei principali tipografi di riferimento di «Giovanni delle Commedie», l’editore specializzato in pubblicazioni teatrali sin dall’epoca dei cosiddetti “pre-Rozzi”. Condivido pienamente le riserve espresse da Enrico Garavelli sulla funzionalità inequivoca dell’impronta nell’identificazione di un esemplare (e ne avremo una riprova eloquente proprio nell’esame dei testimoni del Batechio); ma trovo al contempo ragionevole la posizione di Edoardo Barbieri (p. 177), secondo cui non è «il caso di fare dell’impronta un casus belli: bibliografie importanti [...] l’hanno adottata [...]. Il problema è che tale rilevazione si affianca a quella della formula di collazione, non la sostituisce»: l’affiancamento, e non la sostituzione, è appunto la procedura qui seguita. 


Nota al testo



1.3. Caratteristiche dell’edizione L’edizione si presenta adorna di un’illustrazione, nel frontespizio, chiaramente allusiva ai riti del “maggio”, in particolare per la presenza del maio (il ramo fiorito tenuto mano dalla donna coronata d’alloro che osserva una scena di corteggiamento): il maio, da maggio, era il ramo fiorito adornato di nastri che i giovani un tempo portavano alla casa dell’amata nella festa di calendimaggio, come pegno d’amore o come proposta di matrimonio Colpisce anche la presenza di un soggetto villanesco: la contadina che porta il vaso con l’acqua sulla testa e il giovane villano che cortesemente si predispone ad aiutarla (il motivo della fonte a cui le contadine si recano a prendere l’acqua è presente nella commedia: cfr. vv. ii, 134-138 e relativo commento).

Tenendo conto dei suoi principi compositivi, la stampa si presenta complessivamente accurata. Gli emendamenti che si sono resi necessari sono i seguenti (quando opportuno, fa immediato séguito la descrizione della ratio correttoria; se già presente nella ristampa, la correzione è preceduta da asterisco). – Elenco personaggi: Batecchio> Batechio; si tratta dell’unica occorrenza della forma geminata lungo tutto il testo. – Prologo iii.4 mostri> *nostri (la correzione subentra solo a partire dalla stampa C). – i.11 lì ridotto> *e lì ridotti (corretto sin dalla stampa B, per ragioni morfosintattiche e di ipometria).


Nota al testo



– i.21a: ficaccia [inversione lettere per cifaccia]> ch’i faccia – i.68: dicosto> *discosto (corretto solo dalla stampe D E) – e > *ha (C à D E ha); la forma grafica emendata non è registrata in Tlio – v. i.93: a frati> *e frati – v. ii.75: ongnuno> *ognuno (correzione introdotta a partire dalla stampa C) – v. ii.88: errata attribuzione di battuta: Batechio invece di Toccafondo (né le ristampe né le edizioni moderne correggono l’evidente guasto) – v. ii.89-91b: errata attribuzione di battuta: Toccafondo invece di Batechio (come sopra) – v. ii.157: migliano> *migliaio; correzione necessaria anche per esigenze di rima – v. ii.163: Cancar vi venga, menate un po’ piei> Cancar vi venga, menate un po’ e piei – v. ii.234: ingnoranti >*ignoranti (le ristampe intervengono solo a partire da C); la parola ricorre in bocca al Pellegrino, sicché non può sospettarsi un intento deformante ii.256: né nissun modo aconsentir per niente> *né in nissun modo aconsentir per niente: (le ristampe intervengono solo a partire da C) – v. ii.259: ciaremben> ci arebben – v. iii.96: dsi> *di sì – v. iii.103: crese>*cresce – v. iii.121: grlosi> *gelosi – v. iv.39: so’ sforzato e l’essar> *so’ sforzato a l’essar (le ristampe intervengono solo a partire da C) – v. iv.48: sta sumpersona> sta su ’n persona – v. iv.60: inguriato> *ingiuriato – v. iv.78: qualucuno> *qualcuno – v. iv.93-94: oggi ch’in festa / deve stare e ciascun in santa pace> oggi ch’in festa / deve stare ciascun e in santa pace Canzona, v. 11: Canta infine a gli asinelli> Canta’ infine egli asinelli


Batechio Commedia nuova di Maggio composta per il Pelegrino Ingegno del Fumoso de la Congrega de’ Rozzi

1546


Salvestro cartaio detto Il Fumoso



Interlocutori Speranza pel Prologo Armenio Pastore Sedonio Pastore Nidia Ninfa Fermia Ninfa Toccafondo Villano Batechio Villano

 Costruito secondo il classico schema della combinazione di una base verbale con un sostantivo che la specifica (cfr. D’Onghia 2010), il nome è sicuramente da ricondurre alla locuzione «Toccare il fondo, o Andare al fondo, o Pescare al fondo di checchessia; vale metaforicam. Toccare il fondamento d’una cosa, Saperla bene, Chiarirsi in tutto, e per tutto, Scoprirne la pretta verità» (Crusca4): il personaggio infatti si distingue – ed è in quanto tale un tipo abbastanza singolare nella fenomenologia cinquecentesca del villano – per una maturità pacata e saggia, propria di chi ha metabolizzato il difficile “mestiere di vivere”.  Il nome-parlante del protagonista eponimo, come già nel caso dei confratelli maggiori Panechio e Tiranfallo, ha un forte radicamento senese: infatti batacchio, secondo le indicazioni di Politi (p. 91), mentre in fiorentino vale ‘bastone’, in senese indica «quel ferro posto in mezzo alla campana che la fa risonare quando è tirata, che si dice anco battaglio»; la sua chiara allusività sessuale (che, ben più del semplice bastone, richiama la forma dell’apparato genitale maschile) trova non a caso attestazione in una novella del Fortini: «il vicario se n’andò in camera a pigliarsi piacere con la fanciulla: e presto messo il batacchio a la campanella, sonò due doppi a vespro, e finito di sonare, uscitosi di camera, la lasciò» (Fortini2, i, pp. 367-368; merita segnalare che Fortini stesso, in una sua commedia rimasta manoscritta, e ascrivibile al 1547, utilizzava «Batoco» come nome del servo: cfr. Glénisson-Delannée 1994). La variante veneta batochio/batocchio è attestata nei corpora postruzantiani (cfr. Paccagnella, p. 71) e conosce un utilizzo esemplare in Amore allo specchio (1622) di Giovan Battista Andreini, allorché la serva Bernetta (ii.4.3) formula il suo piano di “autarchia femminista”: «Che sieno maledetti questi ominacci, che tanto impero vogliono aver sopra noi. Povere donne, sanno questi traditori che siamo come la campana e la lanterna, che non possiamo suonare, che non possiamo risplendere senza il batocchio e il senza il candelotto, e per questo fanno tanto gl’intirizati. Io vo signora, state pur di buon cuore, faremo come quelli che non han cuochi, si fregheremo la padella fra noi». Infine, com’è noto, Batochio diventerà, nella conclusiva codificazione goldoniana, il “cognome parlante” del secondo zanni Truffaldino-Arlecchino, dal Servitore di due padroni a Il genio buono e il genio cattivo: una riprova molto concreta di come il villano senese agisse sul codice genetico della tradizione dell’Arte e delle sue successive evoluzioni drammaturgiche.


Batechio



Perella Villano Pellegrino per camino

Sul nome di questo personaggio, che appare come “autore” di alcune Stanze conservate nella Raccolta di diverse rime delli più dotti Rozzi (Biblioteca Comunale di Siena, ms. h.xi.5) e pubblicate da Banchi 1868 col fantasioso titolo di Profezia sulla guerra di Siena, si è ricamata buona parte della mitografia relativa al Fumoso. Luciano Banchi infatti, dopo aver individuato l’autore delle Stanze del Perella in Giovan Battista Nini, ritrattò tale attribuzione nel pubblicare, tre anni dopo, il Batechio: data la ricorrenza in questa commedia del villano Perella, lo studioso volle riconoscervi con affrettato entusiasmo il medesimo Perella delle Stanze, facendone il portavoce fictional del Fumoso stesso. In tal maniera, Salvestro cartaio, per i suoi fieri sentimenti antispagnoli, patriottici e “progressisti”, divenne una sorta di bandiera della libertà senese. Nonostante le argomentazioni addotte a riscontro fossero alquanto labili, l’attribuzione è “passata in giudicato”, sia dal punto di vista critico che editoriale (cfr. Stanghellini 2003): ma sarà bene, in altra sede, discuterla e verificarne l’effettiva sussistenza. Per quanto ora di nostro interesse, va segnalato che nell’onomastica del Fumoso (e, più in generale, della produzione teatrale senese), quello di Perella si presenta effettivamente come un hápax, nella sua qualità di nome “non-parlante”: si tratta infatti di un nome proprio, ipocoristico di Petrus (dalla sua forma contratta Perus), poi tramutatosi in cognome; nella forma Perella, di antica attestazione siciliana (e di cui si ha celebre riscontro ne L’uomo, la bestia e la virtù di Pirandello), ebbe poi diffusione anche in varie zone dell’Italia centrale (cfr. ci); inoltre, potrebbe anche fare riferimento al toponimo Perella (uno dei tanti derivati da nomi di piante, in questo caso la pirus), che è proprio di uno dei luoghi più incandescenti della storia senese: Montalcino (cfr. Pieri S., p. 189). La mancata connotazione caricaturale di questo nome “comico”, e, viceversa, la sua presumibile ascendenza “realistica”, sembra d’altronde riflettersi – come vedremo – sulla fisionomia del personaggio, in buona parte estranea alla convenzione rappresentativa del villano senese.  Il personaggio del pellegrino, originariamente legato alla sacra rappresentazione, conobbe un ampio utilizzo non solo nella produzione dei Rozzi, ma anche in quella degli Intronati, «accomunando una volta di più le due accademie per questa capacità percettiva del reale» (Pieri 1983, p. 124n). Potrebbe anche essere considerato variante “evolutiva” – in un ben preciso senso di radicamento storico-sociale – del personaggio del romito, variamente attestato nella prima produzione teatrale senese, e anche in quella dei Rozzi propriamente detti: una figura di derivazione novellistica ed epica, che si prestava a collaudati trattamenti comici e polemici nei momenti in cui entrava in contatto coi villani del contado senese (cfr. Alonge, pp. 49-53), e che nella nuova configurazione del pellegrino, pur ereditando le funzioni comicosatiriche (legate al binomio lussuria repressa-ipocrisia), consente più graffianti riferimenti alla contemporaneità (si veda di séguito, v. i.125, il riferimento alle indulgenze e si consideri che da pochi mesi, rispetto alla prima pubblicazione della nostra commedia, era stato inaugurato il Concilio di Trento).  ‘Per strada, in viaggio’. Camino e caminare sono senesismi di lunga durata: «qualche dif


Salvestro cartaio detto Il Fumoso

 Matassa Villano Meca Dama di Batechio

ferenza è tra’ Fiorentini, e i Sanesi in tale uso di quest’elemento [m] [...]. Altra volta essi la raddoppiano dove noi, la sdoppiamo; come camminare essi dicono, e cammino; e noi camino» (Gigli, p. cxix); cfr. anche il Turamino (cap. vi, § 41 e cap. vii, § 8), Politi e Cagliaritano.  Quello di Matassa è un nome-destino: il termine ha infatti qui il valore di «ogni affare impacciato per frode altrui» (Tommaseo-Bellini), e il personaggio che ne è contrassegnato è costretto in effetti a fronteggiare le pene dovute agli imbrogli altrui (o per le inadempienze dei debitori o per le insidie cui è soggetta la moglie).  Forma contratta di Domenica (> Menica > Meca), già immortalato da una delle prime prove della produzione teatrale senese, La Meca. Egloga alla martorella di Giovanni Cristino Politi (1521).  Damo, dama è forma popolare toscana per ‘amato/a, amante’, ‘ragazzo/a con cui si fa l’amore’.


Batechio



Prologo

Speranza I’ so’ Speranza ch’aloggio nel petto del vulgo general di tutto ’l mondo, e talun pasco con gaudio e diletto, e ne le sue speranze il fo giocondo.

i

Io sono la Speranza, che abita nel cuore di tutti i diseredati dell’umanità; e qualcuno di costoro alimento con gioia e con piacere, rendendolo felice nelle sue speranze.

speranza

Il prologo del Batechio presenta alcune caratteristiche molto singolari rispetto al genere di riferimento (a quest’altezza cronologica ormai ampiamente codificato, sia nella produzione in lingua che in quella rusticale-villanesca), tanto sotto il profilo della sua “morfologia” quanto per la fisionomia del personaggio prologhista. Quanto al primo aspetto credo che costituisca un vero e proprio unicum nel panorama teatrale cinquecentesco (e non), la circostanza che vede agire il prologo anche all’inizio dell’atto ii, con palese asimmetria rispetto ai rimanenti due, e poi nel congedo conclusivo della commedia (Licenza): un’anomalia strutturale molto pronunciata, la cui ratio resta, allo stato attuale delle conoscenze, difficilmente interpretabile, anche se va per certo ascritta al novero delle peculiarità drammaturgiche di una produzione che si sottrae alla codificazione del modello teatrale egemone e che semmai l’imparenta alla tradizione dei maggi del contado toscano, che aveva appunto la caratteristica di «ricomparire [...] al mezzo o al fine, per la colletta o per la licenza» (D’Ancona, ii, p. 273). Quanto alla fisionomia del personaggio prologhista, spiccatamente allegorica, può risultare utile confrontarla con possibili antecedenti della produzione teatrale senese. Nei cosiddetti “pre-Rozzi” si registra, ad es., il caso dei Moti di Fortuna di Mariano Manescalco (1527), divisi in tre atti, ciascuno dei quali introdotti da un prologo: ma la funzione è esercitata da personalità allegorico-mitologiche diverse (nell’ordine: Fortuna, Apollo e Cupido), convocate a illustrare e a nobilitare con la propria presenza le varie scansioni narrative della rappresentazione; d’altronde, i prologhisti allegorici (oltre che, naturalmente, quelli mitologici) sono propri solo delle cosiddette «commedie regali» (per la cui definizione, cfr. Alonge, pp. 1-15; sulla fenomenologia del prologo nel primo teatro senese, si veda Braghieri, pp. 66-67), e risultano intonati a quell’«operazione culturale di tipo retrivo», a quell’«evasione del pubblico popolare dalla realtà contemporanea» (Alonge, p. 3) che contraddistingue tale tipo di produzione (per il caso analogo del cosiddetto Bicchiere del medesimo Mariano, 1514, cfr. Mazzi 1882, i, p. 179). La Speranza prologhista del nostro Batechio sembra invece rivestire un valore allegorico a forte radicamento nella contemporaneità: nella misura in cui esibisce, come vedremo, sia una sorta di manifesto programmatico della drammaturgia dei Rozzi e dello stesso Fumoso, sia un impegno civico che rivisita in chiave moderna e “politica” il precetto classicistico della commedia come intrattenimento mirato alla correzione dei costumi.  Aloggio: come già riscontrato nella ricognizione filologica delle due precedenti commedie, il fenomeno dello scempiamento nelle principes del Fumoso è molto pronunciato, ed è 




Salvestro cartaio detto Il Fumoso

Anco a dimolti inn- el contrario efetto mando e desir loro inn- el profondo. Così Speranza so’, sempremai verde: chi qui soggiorna acquista quel che perde.

In virtù di un effetto contrario, per molti faccio anche sprofondare nel nulla i loro desideri. Per questa ragione Speranza sono, sempre rigogliosa: chi qui soggiorna acquista quello che perde. // stato in quanto tale preservato (cfr. Nota al testo, p. 41); generale, «universale» (Crusca1); vulgo, latinismo per volgo, «la parte infima del popolo» (Tommaseo-Bellini); ne le: la forma analitica delle preposizioni articolate, costante in tutte le principes del Fumoso, è «Idiotismo Sanese», come sottolineava il Gigli, osservandone compiaciuto il perdurarne dell’uso ancora ai suoi tempi, in quanto «riesce a maggior dolcezza di pronunzia» (almeno nella lingua parlata, dato che «altrimenti da’ più si scrive per unirsi all’ortografia comune»: Gigli, p. lv); fo è stata fino all’Ottocento la variante più comune di faccio (forma considerata invece di àmbito poetico), ed è tuttora caratteristica dell’uso toscano (cfr. Serianni 1989, p. 435).  A dimolti: l’utilizzo della preposizione a nel valore di per è tipico del senese (cfr. Gigli, pp. xlvij), mentre dimolti è forma familiare e toscana per ‘molti’ (cfr. Crusca5 e Rohlfs, § 954), con l’avvertenza che «quando il Di disgiunto facesse ambiguità da parer partic. che rende il genit. lat. o corrisponde al lat. De, giova scrivere Dimolto come tutt’una voce» (TommaseoBellini). E desir (‘i desideri’): diffusa anche in altre aree toscane, la forma el, e per l’articolo determinativo maschile rispettivamente sing. e plur. si afferma a Siena sin dalla fine del Duecento (cfr. Manni, p. 128). Inn- el: il fenomeno del raddoppiamento della consonante finale primaria dei monosillabi in, con, non davanti a parola cominciante per vocale è molto diffuso negli antichi testi in volgare dell’Italia centrale e meridionale (cfr. Formentin).  Sempremai, «Sempre. E la particella mai, affermativa, v’è posta, per confermar più la continuazione, quasi voglia dirsi, sempre sempre» (Crusca1). «La speranza è sempre verde», recita un proverbio toscano (Giusti-Capponi, p. 305), ma ben si attaglierebbero anche le considerazioni del Manfredi dantesco: «Per lor maladizion sì non si perde / che, non possa tornar, l’etterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde» (Purg. iii, v. 135). L’affermazione va letta contestualmente a quanto precede (la speranza alimenta il desiderio sia di chi ha ricevuto benefici sia, a maggior ragione, di chi ne è rimasto privo), ma altresì a quanto segue, per cui si veda la nota successiva.  Si tratta del celebre motto che illustra l’insegna della Congrega dei Rozzi, e di cui sarà opportuno riferire l’originaria descrizione programmatica che ne ha lasciato il Proemio ai Capitoli istitutivi del 1531 (Biblioteca Comunale di Siena, ms. Y.II.27, c. 1r; moderna edizione in Mazzi 1882, i, pp. 345-346): «uno arbolo secho e di natura infruttuoso, o vero se frutto facesse fusse di poca qualità», conforme «allo stato nostro [...]. Voliamo adunque ch’ detto arbolo secho sia el nome sua suvaro, dele barbe del quale surga un piccolo polloncello verde [...] a denotare ch’ quel piccolo possi col tempo, se dala natura sarà favorito, acquistare quella virtù ch’ quel maggiore perde [...] e voliamo che al fusto principale del vechio arbolo vi sia avolto un breve in nel quale vi sia scritto questo verso: Chi qui soggiorn’ aquista quel che perde»; la descrizione prosegue (c. 2r) illustrando la ramificazione del suvaro (senesismo per suvero/


Batechio ii

 Fumosi versi di dottrina indòtti sentirete recitar se state attenti.

Versi fumosi, ignari di scienza, sentirete recitare, se state attenti. sughero, «arbore che fa ghiande più serotini [‘di maturazione tardiva’], che la quercia, la cui corteccia è grossa, leggieri, e ottima per pianelle»: Crusca1), e il suo valore simbolico, interamente concentrato sul concetto di tempo (i quattro rami principali rappresentano le stagioni dell’anno, quelli più piccoli mesi settimane giorni...), sicché «quegli rami significando el tempo come è già detto, noi aquistiamo quel tempo a frequentare tale insegnia» (segue poi, c. 2v, la spiegazione del valore simbolico della “rozzezza” interna ed esterna dell’albero, correlato oggettivo della necessità per i Rozzi di «sostenere il fascio di tante fadighe, a voler vivare»). Più che Mazzi 1882 (i, p. 346: «ascrivendosi alla Congrega coll’intervenire alle sue adunanze e pigliar parte ai suoi esercizi letterari, acquistavasi il nome di Rozzo, ma perdevasi la Rozzezza»), la cui interpretazione è ancora in auge (cfr. Catoni, p. 13) intese appropriatamente il valore della combinazione iconografico-verbale il Gigli del Diario senese: «Volendo esprimere in tal detto gl’Inventori, che chi perdeva quel tempo, e le occupazioni del mestiero suo abbandonava per ricrearsi in queste piacevoli conferenze, o per servire ai pubblici divertimenti, si rinfrancava con altrettanto acquisto di riputazione tanto appresso i suoi Cittadini, che appresso le straniere Nazioni» (Gigli 1723, p. 269; sul valore del motto e dell’impresa è intervenuta recentemente, con interessanti proposte interpretative, Chierichini, pp. 74-81). In un arguto, e anche raffinato, gioco di specchi, la Speranza prologhista convoca il pubblico a condividere con l’autore “rozzo” lo spirito programmatico della sua Congrega: trasformare la perdita in un guadagno, cioè il tempo della vita (spesso vuoto e/o oneroso) nel tempo del teatro (e del correlato impegno etico-artistico), l’unico che può garantire il crescere del «polloncello verde» dalle radici di un «arbolo secho». Non sembra azzardato riconoscere una sintomatica affinità con il prologo in lingua dell’Anconitana, recitato dal Tempo: «Lassiate ogni altro pensiero, poi che un nuovo caso amoroso siete per udire; che vi prometto, mentre che a li piacevoli ragionamenti, che a succeder hanno, darete udienza, ancora che la pronteza de l’ore non possi ritenere, nondimeno farò che [né] per voi, né per conto del viver vostro volerano, ma per il rimanente del mondo sì; e a la fine pervenuti, più da me guadagnato che perduto avrete» (Ruzante, p. 777). L’affinità peraltro – circostanza che la rende ancora più sintomatica – non può essere ascritta a influenza diretta, dato che la princeps della commedia di Ruzante risale al 1551 (nulla è dato sapere di un’eventuale circolazione manoscritta dell’opera; solo due sono i testimoni superstiti, a Venezia e a Verona, esemplati da copisti veneti tra il terzo e il quarto decennio del secolo).  Indòtti, con la o larga (a differenza di indótti, part. pass. di indurre), significa ‘non dotti, ignoranti’ (cfr. Crusca1); non convincente – anche perché basata sul fraintendimento di questo termine – l’interpretazione di Stanghellini 1999 (p. 3): «“versi fumosi” significa forse “versi oscuri e fantasiosi”, avvolti e avviluppati dalla saggezza temperata dalla fantasia». In realtà, è evidente il valore anfibologico dell’aggettivo fumoso, che rinvia sia all’autore (costituendosi come mera cifra autoriale, una sorta di trasparente e per così dire tautologico senhal, come poi rozzi e fumi di ii.4 e iii.2), sia alla qualità dei versi, di interpretazione peraltro controversa. Infatti, fumoso (forma grafica propria del senese – come avverte il Politi, p. 299 – mentre il fiorentino ha fummoso, ed esclusivamente in questa forma è lemmatizzato nelle prime due edd.




Salvestro cartaio detto Il Fumoso

Io so’ Speranza che gli ho qui condotti sol per darvi piacer co’ rozzi accenti e vi prometto, se non so’ ’nterrotti, ch’en parte forse vi faran contenti.

Io sono Speranza che li ho qui condotti solo per darvi piacere con rozzi accenti, e vi garantisco che se non sono interrotti, almeno in parte forse vi renderanno soddisfatti. della Crusca) in senso figurato significa soprattutto «altiero, superbo, albagioso, che presume di sé, più ch’alla sua condizion non parrebbe si richiedesse» (Crusca1), anche se poi – nelle sue frequente associazioni al vino – vale «generoso, gagliardo» (Tommaseo-Bellini); nell’occorrenza presente, pare di doversi interpretare in stretta connessione con di dottrina indotti e non senza un uderstatement antifrastico: proprio perché ‘ignari di scienza, di sapere codificato’, i versi sarebbero ‘superbi’, millanterebbero una qualità che non hanno (possono avere); ma forse, proprio per questo, hanno un vigore che costituisce precisamente la peculiarità della loro cifra etico-estetica. Il tutto naturalmente si innesta nella spessa trama allegorica che sostiene la scelta della denominazione di rozzi, e di cui il citato Proemio offre delucidazione (cc. 2r-v): «Ha questo arbolo qualità roza sì drento come di fuore, per essare drento cioè sotto la scorza non bianco [in effetti, internamente la scorza della sughera è di colore rossastro] né ancora ha alcuna vaghezza e similmente essare aspro e duro si vede si ch’ per questo alo stato nostro non è sconvenevole inperò ch’ le nostre menti drento sonno occupate e pieni di fantasie apartenenti a la vita nostra, come appare in quel legname essar venoso e tiglioso [‘duro, dalle fibre resistenti’]. Dela scorza ancora non so qual più roza cosa essar possi ch’ quella pareggi senza alcuna sustanzia in sé e che se ne può più dire quando la serve a essar suola dele pianelle e scarpe che dimostra come siamo noi inclinati a sostenere il fascio di tante fadighe, a voler vivare ché così non interviene a’ nostri maggiori e sì come quello è operato quasi a cose vili così noi non possiamo operarci alle alte, perché non potremo far la bisognevole riuscita. Ci sarebbe da dirne assai, ma perch’alla nostra povertà non si richiede ingombrare molto luogo, restarà la menzione di questa nostra insegnia de’ Rozi».  ‘Li’; la forma palatalizzata per il pronome atono oggetto di 3a plur., prodotta in posizione prevocalica e propria del toscano antico, fu in vigore fino al primo Ottocento (Manzoni sostituì li a gli solo nella revisione del romanzo) e ancora oggi è usuale nella parte più settentrionale della Toscana (cfr. Rohlfs, § 462). Il riferimento naturalmente va, più che ai versi, agli attori che se ne serviranno.  Rozzi accenti, in senso letterale, come ‘parole/pronunzia zotiche’, che qui chiaramente dissimula la fiera identità autoriale dell’espressione (cfr. supra, nota a ii.1). «Zotico, ignorante» è il valore figurato che la Crusca, sin dalla prima ed., attribuisce a rozzo, alla lettera «non ripulito, ruvido, che non ha avuto la sua perfezione».  Promettere ha qui la valenza, oggi desueta, di ‘assicurare, garantire’.  ‘Non sono interrotti [da voi pubblico chiassoso e intemperante]’; so’, ‘sono’, forma concorrente con sonno per indicare sia la 1a sing. (cfr. vv. i.1 e ii.3) che la 3a plur. dell’ind. pres. di essere (forme proprie non solo del senese ma anche dell’aretino e del cortonese).  Oltre che ‘lieto, allegro’, contento ha anticamente anche il valore di soddisfatto (cfr. Crusca1).


Batechio



E se per caso ciò non fusse vero, datene colpa a l’inganni, a ’l pensiero.

iii

Questa facesia è spartita in quattr’atti

E se per caso ciò non fosse vero, attribuitene la responsabilità agli errori del giudizio. // Questa commedia è divisa in quattro atti,  ‘Attribuitene la responsabilità agli errori del giudizio [o agli inganni dell’immaginazione]’. Se pare indiscusso dover interpretare l’espressione a l’inganni, a ’l pensiero come un’endiadi, è probabile che sia rimasta volutamente indefinita l’appartenenza degli ‘errori/inganni’, riferibili tanto all’autore che al pubblico.  Facesia (‘facezia’, propriamente il «detto arguto, e piacevole»: Crusca1) è qui eufemismo dissimulativo, immediatamente contraddetto dalla dichiarazione della sua ampia architettura (divisione in quattro atti). Sulla forma facesia, cfr. Gigli, p. 113: «I Sanesi anticamente, e molti anche al presente, ne [della s] fanno uso nella pronunzia avanti all’i seguito da altra vocale, con cui faccia dittongo, in cambio del z [...] come grazia [...], dicendo grasia [...], la qual pronunzia è tolta dai Francesi».  Batechio è la prima commedia del Fumoso che registra una suddivisione in atti (pur preservando la consueta mancanza di scansione in scene), secondo una struttura quadripartita che è affatto originale per il panorama teatrale coevo e per quelle che saranno le stesse successive scelte dell’autore (Capotondo, in tre atti; Travaglio, in cinque). Nella tradizione teatrale senese antecedente, la scansione in atti è decisamente rara: per quello che ho potuto appurare (basandomi solo su stampe datate), si registrano i casi, nella produzione “pre-rozza”, dei già citati Moti di Fortuna, in 3 atti, di Mariano Manescalco (la princeps, 1527, è tuttavia veneziana), de I cinque disperati di Niccolò Alticozzi (1524; 5 atti), dello Scanniccio di Giovanni Roncaglia (1533; 3 atti); e, nella produzione rozza, del Romito negromante di Angelo Cenni (1533; 3 atti), del Pelagrilli (1544; 5 atti) e del Travolta (1545; 3 atti) di Ascanio Cacciaconti (del medesimo autore seguirà, 1550, Calzagallina, in 2 atti). Come si vede, siamo per lo più di fronte a un tipo di scansione che fa riferimento o alla ratio retorica – di origine aristotelica – della tripartizione dell’intreccio, o a quella prescrittiva – di origine alessandrina e mediata presso la cultura umanistica dal commento di Donato a Terenzio – della pentapartizione del dramma. È questo che rende tanto più singolare la struttura quadripartita del Batechio, che – per quanto a mia conoscenza – non ha, nella letteratura teatrale italiana, altro riscontro se non nella redazione originaria della Veniexiana (il cui quinto atto fu frutto retorico – non casuale – di un aditamentum); mentre, com’è noto, conobbe nel teatro spagnolo – ma in anni di molto successivi a quelli di nostro interesse – una distinta fortuna prelopiana (sostanzialmente nel decennio 1575-1585: cfr. Arata). Quello che rende ancora più interessante la suddivisone in 4 atti della nostra commedia, a differenza dell’“anticlassicistica” Veniexiana, è tuttavia il suo non essere determinata da alcuna ragione né di plot division (divisione del dramma in quanto racconto) né di stage division (basata invece sulla sua articolazione rappresentativa, che è quanto dire con la sua relazione con le strutture temporali: riprendo le categorie critiche elaborate da Melchiori e poi sviluppate da Vescovo 2007, pp. 114-175): si dà infatti ininterrotta isocronia tra tempo della fabula e tempo della rappresentazione, sicché la segmentazione in atti potrebbe




Salvestro cartaio detto Il Fumoso

di nuove fantasie, di nuovi fumi, sì che quest’opra tratta di più tratti e mostra e nostri vizi e rei costumi.

ricolmi di nuove fantasie, di nuovi pensieri vaporosi, così che quest’opera rappresenta divertenti vicende di raggiri e nel contempo mette a nudo le nostre mancanze pubbliche e private. essere imparentata con quella, ad es., della Fiorina ruzantesca, che, pur figurando come pentapartita, «non presenta alcuna soluzione di continuità temporale, laddove ogni nuovo atto continua esattamente il precedente, ad indicare la segmentazione come meramente cartacea e non strutturale (senza salti di tempo e vuoti di scena)» e, proprio per questo, è stata letta come un «successivo riaggiustamento in panni canonici» (Vescovo 2006, p. 66; ancora più netta la formulazione in Vescovo 2012, p. 223: «la Fiorina è con evidenza un “atto unico” [...] tagliato in cinque fette e provvisto di un prologo per presentarlo come fededegna commedia breve»). Tuttavia, nel nostro caso, non solo l’originaria configurazione in atti è dichiarata apertamente dal prologo della princeps, ma, soprattutto, è del tutto estranea a qualsiasi ipoteca retoricoprescrittiva.  Fantasia, ‘rappresentazione creata dall’immaginazione’ (cfr. Tlio; per altri significati che il termine assume nella produzione del Fumoso, si vedano le note a Tiranfallo, vv. 333, 370, 416b, 430b, e a Discordia d’amore, v. 129b, rispettivamente in Fumoso1, pp. 141, 144, 148, e Fumoso3, p. 70; nonché qui di seguito al v. i.168); fumo, ‘pensiero caliginoso [o, figuratamente, superbo]’ ma anche ‘vapore gagliardo’ (cfr. Crusca3-4; si veda anche sopra, la nota a ii.1). Non sfugga l’insistenza sulla novità, tipica dall’apripista Cassaria in poi, di tanti prologhi della commedia rinascimentale (memori, emulativamente, del terenziano adporto novam comoediam).  Nel suo raffinato eloquio, la Speranza non rinuncia alla figura etimologica (ripetizione della radice di un vocabolo: «tratta di più tratti»), qui di sapore – per la sua enigmaticità – quasi oracolare: tratto, nell’italiano antico, può valere ‘astuzia’, o ‘motto arguto’ (in Fortini2, ii, p. 777, ha il valore di ‘espediente astuto’) ma anche ‘disegno’ (< ‘tratto di pennello’), e poi ancora ‘occasione, congiuntura’ (cfr. Crusca1). Dal contesto, si potrebbe desumere che l’espressione valga ‘rappresenta divertenti vicende di raggiri e [verso successivo] nel contempo mette a nudo le nostre mancanze pubbliche e private’ (attribuendo queste ultime ai vizi, e le precedenti ai rei costumi).  Su quest’asserzione della Speranza si sono sviluppate interpretazioni diverse, ma tutte ideologicamente connotate: «nei testi più riusciti del Fumoso [...] i villani tendono a trasformarsi da vittime in involontari giudici; nei loro lamenti vengono individuati i veri responsabili delle disgrazie che affliggono la società: l’accusa lanciata inizialmente sulla campagna si ritorce sulla città. E basti leggere l’ultima delle tre ottave che compongono il prologo [...]. Quali potrebbero essere i “vizi” e i “rei costumi”? Non certo le zuffe villanesche per la Meca, tanto più che essi sono detti “nostri”, inequivocabilmente cittadini (ma quel “nostri” poi – si capisce – è antifrastico, mirando a classi sociali ben diverse da quella artigiana che avrà assistito allo spettacolo)» (Alonge, p. 71); «on comprend [...] le sens du prologue où la comédie est présentée comme la “lumière” [il riferimento va a iii.6: lumi] dans la “fumée” [iii.2] des mauvaises moeurs; dès la départ, Batecchio se voulait une comédie dénonciatrice: les vilains de victimes de prime abord, deviennent vite ceux qui sont capables de montrer du doigt le causes


Batechio

 Non farete tumulto: e’ fanno e patti che se di qualche error vi mostra lumi, che se per caso v’ingiuriasse poi, faciate conto che non tocchi a voi.

Non dovrete fare confusione: lo stabiliscono i patti, che se essa vi mette sotto gli occhi qualche errore, e se per caso, nel far questo, vi offendesse, facciate conto che la cosa non vi riguardi. historiques de leur malheur économique, ainsi que les responsables de leur misère sociale» (Glénisson-Delannée 1995, pp. 198-199); infine, secondo Stanghellini 1999 (p. 5), che giustamente legge questo primo prologo alla luce di quello dell’a.ii, «al Fumoso-Speranza più che la denuncia sta a cuore la concordia e la fiducia dei senesi nelle proprie forze: senza speranza e senza concordia la loro libertà è destinata a venire meno». Mi pare condivisibile quest’ultima ipotesi interpretativa, nella misura in cui ridimensiona il peso dell’alterità sociale verso cui sarebbe espressa la “denuncia”, e nella misura in cui però inviti anche ad allargare il raggio della denuncia stessa: che coinvolge non solo le autorità detentrici, a vario titolo, del potere e delle nequizie ad esso connesse, ma anche il tessuto civile complessivo di una res publica che ha eletto la faziosità e le lotte intestine a sistema (e di cui sono trasparente riflesso allegorico i villani del Batechio). Mi pare infine utile ricordare che «vizi» e «rei costumi» costituiscono gli ingredienti topici di una formulazione (di probabile derivazione omiletica) che rimase a lungo in auge negli attributi apologetici del teatro: se ne veda l’identico ricorrere nel Moliere goldoniano (1751): «Armi di lui [Molière] ben degne, di lui ch’ebbe da’ numi / la forza di corregger i vizi e i rei costumi» (Guthmüller, pp. 112 e 193).  ‘Non dovrete fare confusione’, ma anche ‘non dovrete scatenare sommosse’: tumulto vale originariamente «confusione rumorosa di gente che grida e si agita in modo disordinato» (Tlio), ma qui è chiaro che l’invito al silete – topico nei prologhi cinquecenteschi di marca classicistica – si riveste di concrete connotazioni sociopolitiche, e illumina ulteriormente il radicamento senese della rappresentazione.  ‘Lo stabiliscono i patti, le regole del gioco (teatrale)’: il teatro è una zona franca nella ribollente vita cittadina; il suo potere conoscitivo e diagnostico resta inscalfibile dalle ordinarie reazioni rissose della comunità. E’ (nell’originale senza apostrofo, qui introdotto per differenziarlo sia da e congiunzione che da e articolo determinativo plur. masc.) è nel toscano antico la forma proclitica del pronome personale soggetto 3a persona sing. e plur. (cfr. Rohlfs, §§ 446 e 448). «D’uso larghissimo [...], con valore pressoché prefissale [...] costituisce una delle caratteristiche sintattiche del fiorentino parlato più pronunziate» in un’opera come i Motti e facezie del Piovano Arlotto (Folena, p. 369).  ‘[Lo stabiliscono i patti] che se essa [la facesia/opra, iii.1 e 3] vi illustra, vi mette sotto gli occhi [mostra lumi], qualche errore, e se per caso, nel far questo, vi offendesse, facciate conto che la cosa non vi riguardi, che il riferimento non vada a voi’. Sia Banchi 1871 che Stanghellini 1999 accolgono l’emendamento erroneo delle stampe D ed E riguardo a mostra (> mostran), laddove è evidente che il soggetto è singolare (come poi al successivo v. 7).


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