«Agosto», di Sotera Fornaro

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Sotera Fornaro

Agosto


Indice

L’incontro 9 Giorno d’agosto

11

Il mare diviso

13

La notte di Bach

18

Il furto

20

La miniera d’argento

22

La sorella

26

Bintou 30 L’attentato 33 La terra

35

Permesso di soggiorno

38

Il tatuato

41

Il pericolo

43

Il cuore perduto

45

L’età del disprezzo

47

Il tempo degli altiforni

49


L’incidente 53 La casa delle ombre

56

La pietà di Antigone

61

Il sogno opaco

65

Fine del sogno

69

Le leggi non scritte

71

La sepoltura negata

76

Le Pleiadi

78

Centro d’accoglienza

80

La fotografia

87

La vergogna

91

Diario dell’indifferenza

95

Azione di polizia

103

Viva la Germania

107

Alla stazione abbandonata

109

L’addio 114 Nota dell’autrice 119


L’attentato

Un cucciolo guaiva: lasciato su un balcone o su un terrazzo. Accese la luce e cercò il libro sul comodino, un romanzo che racconta di lontane periferie metropolitane, di un giovane di origine araba che si converte alla religione musulmana e progetta un attacco suicida in un qualsiasi lunedì metropolitano di traffico intenso. Nel romanzo non accade nient’altro, ma la preparazione del gesto viene descritta nei minimi, insignificanti, dettagli quotidiani di vite qualsiasi, nelle quali può innescarsi una bomba omicida con il volto rassicurante di un diciottenne sicuro di aver ricevuto la missione di cambiare il mondo. D’improvviso, non riuscì più a leggere. Le singole lettere non si componevano in parole. A fatica, con esasperante lentezza, riusciva a distinguerle una ad una; però non si legavano in parole sensate, sfuggivano, come meccanismi di un ingranaggio impazziti che girano ognuno per conto suo. Aprì e chiuse ripetutamente gli occhi, inforcò gli occhiali. Le cose intorno a lei stavano al loro posto, ma non le righe della pagina. Con uno sforzo estremo d’attenzione riusciva a identificare le “a”, le “r”, le “t”, segni senza significato. Posò il libro atterrita. Il cucciolo continuava a guaire. Prese un sonnifero dal comodino, le era stato prescritto, lo usava per la prima volta. Ingoiò due pastiglie, poi spense la luce e rimase in attesa. Si immaginò la continuazione del racconto: il terrorista sale sul camion imbottito di esplosivo, si avvia verso la metropoli, guardando dall’alto del suo abitacolo i volti sconosciuti nelle auto intorno a lui. Due bambini lo salutano e poi gli fanno le boccacce, fissandolo in continuazione,

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nell’alternanza estenuante di stop e marcia del traffico intasato. Il detonatore sta pronto, innescato sotto il cruscotto. Un semplice gesto, sarebbe seguita l’esplosione.

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Centro d’accoglienza

Accese l’abat-jour, guardò la radio sveglia, le tre del mattino, si avvicinò al portoncino d’ingresso. Udì distintamente la voce di Bintou che la chiamava; confusa, riassettandosi la lunga t-shirt che indossava, aprì. La ragazza singhiozzava, aveva gli occhi bagnati, le guance rigate, i capelli le ricadevano sulle spalle spettinati, senza velo. Gli occhi esprimevano terrore, le sopracciglia corrugate, la bocca aperta, ma incapace di parlare con chiarezza, le davano l’apparenza di una bambina indifesa, colta da chissà quale paura o disgrazia. «Mi hanno detto, una guerra al centro, Ahmed ferito, devo andare a vedere, mi aiuti, aiuto, aiuto». Notò come i legami sintattici tra le frasi fossero completamente saltati. Bintou regrediva a uno stato ancestrale, dove c’è solo il grido per esprimersi. «Aiuto», ripeteva, prendendola per mano, stringendole il polso. La lasciò un attimo, mise un paio di pantaloni sformati che aveva depositato sul sofà e i sandali, prese la borsa e le chiavi della macchina. «Andiamo», disse, in un attimo, senza riflettere. L’auto era parcheggiata quasi solitaria nella piazza deserta; tutte le saracinesche erano abbassate, anche quelle dei pachistani. Il vento sferzava i vicoli, quasi volesse impadronirsene. La ragazza riuscì a dirle che il centro di accoglienza si trovava sulla litoranea della città, in una vecchia colonia abbandonata costruita negli anni Cinquanta, riattata, qualche anno prima, ad albergo. L’impresa era fallita, la struttura rimasta tristemente vuota come altre in quel tratto magnifico di costa, dalla gialla sabbia pesante, dirimpetto ai pini e ai platani superbi di uno stagno. Nelle guide quel luogo non c’era, anche se alcuni turisti si spin-

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gevano sino alla spiaggia frequentata soprattutto dalle famiglie del posto. Bastò che la ragazza dicesse il nome dell’antico lido, perché lei capisse: sul quotidiano locale aveva sentito della decisione del sindaco di ricavare dalla struttura, messa a posto alla bene e meglio, un centro d’ospitalità. Distava non più di dieci chilometri dalla città, una strada dritta, per metà costeggiata dai caseggiati popolari della periferia più malfamata, un vialone preda delle passeggiatrici e dei travestiti, liminare alla zona industriale, poi ampie distese coltivate a grano, dove ardevano quasi sempre le stoppie, quindi canne sibilanti al vento, la pineta e il mare. A quel lido si accedeva da una rotonda, per gli abitanti del luogo “la rotonda”, che aveva conosciuto tempi migliori nel secolo passato, dove la domenica sera si passeggiava e si mangiava il gelato, i fidanzati si affacciavano alle balaustre direttamente sulla spiaggia stringendosi le mani. Guidò con attenzione nel buio, arrivò al viale d’accesso illuminato da alti, fiochi lampioni, ma si trovò la strada sbarrata da una volante di polizia, un agente le intimava a gesti di fare inversione e andar via. Lei non si perse d’animo, si avvicinò e parlò al poliziotto: «Cosa è successo?», chiese dal finestrino, sperando di mostrarsi rispettabile. Ma il poliziotto, un ragazzo col volto squadrato, scontroso, fissava invece Bintou che accanto a lei non aveva smesso un momento di piangere. «Non è posto per lei qui, signora, torni a casa. Ci sono dei disordini.» Si esprimeva come il poliziotto di una metropoli sconvolta da qualche evento politico finito nella violenza, ma era invece in un lido semiabbandonato, dalle fatiscenti costruzioni disabitate, alcune col patetico cartello di “vendesi”, non frequentate da nessuno perché pericolanti. «Di quali disordini si tratta?», insisté lei, poi al guizzo degli occhi del poliziotto spazientito aggiunse, indicando Bintou: «È la sorella di uno degli ospiti del centro, l’hanno avvisata che il fratello sta male». Pensò che Bintou non possedeva un cellulare. Come avevano potuto avvisarla? E chi? C’era una comunità, sempre all’erta, solidale, che comunicava di nascosto, le cui voci serpeggiavano nell’ombra.

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«Ci siamo noi qui, rispose perentorio il poliziotto, torni a casa, è d’intralcio, lei e…», guardò Bintou con disprezzo, «chiunque altro». Ubbidì, ma Bintou prese a singhiozzare più forte, «Non preoccuparti», disse, «so come fare». Invece di riprendere la strada principale per la città, percorse un chilometro sulla via costiera deserta, imboccò una stradina sterrata che si addentrava in un piazzale di pineta non illuminato. «Vieni», disse a Bintou con dolcezza. Scesero al buio, sulla pianta dei piedi sentì la sabbia granulosa e gli aghi di pino insinuarsi nei sandali. «Vieni», ripeté, e accese la torcia del cellulare; dovevano percorrere poche decine di metri di pineta, conosceva bene il posto, ci veniva qualche anno prima d’estate a leggere o a riposarsi dopo aver fatto jogging sulla spiaggia. Arrivarono sulle dune, i piedi affondavano nel terreno soffice e freddo, il vento però non era clemente, dovevano proteggersi gli occhi dalle raffiche che portavano granelli di sabbia e anche gocce di mare, che vicino a loro rumoreggiava, in burrasca. Avanzarono seguendo la spiaggia sino al lido abbandonato, che adesso si distingueva abbastanza; nella colonia occupata c’erano luci e fuochi che si alzavano al cielo e diffondevano bagliori. «Fai attenzione», disse a Bintou. Vicino alle cabine in disuso si formava una specie di discarica, siringhe usate, bottiglie di vetro spezzate, oggetti di plastica respinti dal mare, persino il filo di ferro arrugginito che una volta segnava la recinzione. Alcune delle porte senza vernice delle cabine aperte sbattevano cupamente. Una costruzione quadrata, che doveva essere stata un bar, resisteva triste con i muri sbriciolati e le finestre rotte, come alcova di fantasmi. Da alcuni pilastri lasciati incompiuti, che chissà quale mostro avrebbero dovuto sorreggere, sbucavano fili di ferro ripiegati, rossastri, tristi rami senza fiori. Si avvicinarono, sentirono voci. Da quella parte era impossibile entrare nel centro, bisognava costeggiarlo e sbucare nella rotonda a cui avevano impedito loro l’accesso. Da due volanti della polizia, con le sirene disattivate ma i lampeggianti accesi, si diffondevano luci azzurre intermittenti come di

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fari. Le due donne si appiattirono sul muro di cinta, appena prima dell’entrata. Nel centro urlavano in una lingua a lei ignota. Bintou si era accosciata al suolo, si teneva la testa tra le mani, non voleva o non riusciva più ad andare avanti. Lei non intendeva uscire allo scoperto, mostrarsi ai poliziotti, prima di capire cosa davvero stesse accadendo. Nell’edificio sembrava litigassero; alle parole urlate seguivano tonfi di oggetti scagliati. Poi qualcosa di pesante sibilò nell’aria, nella direzione del piazzale e dei poliziotti, si schiantò al suolo. All’interno c’erano almeno trenta uomini, i quattro poliziotti si guardarono tra loro smarriti, mentre la radio della volante gracchiava. Un’altra pietra si alzò da una delle finestre, roteò nell’aria, cadde vicino al parafango di una delle macchine. I poliziotti si tirarono lontano a una distanza di sicurezza. Nella penombra, dietro le macchine, si acquattava un gruppo di giovani che parevano del luogo, la punta delle loro sigarette brillava, lanciarono una bestemmia e urla verso l’entrata del vecchio hotel. Un poliziotto allora in uno scatto d’ira: «Andatevene», urlò, «ho detto di andarvene». «Voglio indietro quello che mi hanno rubato», sbraitò uno uscendo dall’ombra, «voglio sapere dove sta la mia macchina», disse qualche parola in dialetto e poi «basta proteggere sempre questi qui». Dall’ombra uscì un uomo corpulento, la testa rasata, si avvicinò al poliziotto dondolando, sfrontato, esperto, gli disse qualche parola che un colpo di vento coprì. Si diffuse un acre odore di plastica bruciata. Dall’entrata dell’hotel fu spinta una camera d’aria in fiamme, rotolò fin quasi al centro della rotonda, furono poi lanciati sulle fiamme oggetti di ogni tipo, piatti, posate, cuscini, perché prendessero fuoco. I poliziotti si spaventarono, sul patio del vecchio hotel comparvero una decina di uomini neri. «Hanno sparato», gridava uno di quelli con lo sforzo di rendere chiare le parole, «hanno sparato, sono venuti qui e hanno sparato, fateli andare via e usciamo», quindi una pioggia di pietre e calcinacci si riversò verso il gruppo di giovani italiani dalle finestre del primo piano. Quelli le raccolsero, ignorando le urla dei poliziotti cominciarono a rispondere e a bombardare l’edificio di materiali di risulta, facili da reperire lì

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intorno, dove c’erano stati diversi lavori e nulla era stato buttato via. I vetri si infransero, qualcuno dall’alto lanciò stracci in fiamme legati ad altre pietre, si sentì l’odore pungente della benzina. Poi una vampa, improvvisa, si alzò nel piazzale, i poliziotti rientrarono in macchina, misero in moto, precipitosamente fecero retromarcia, stridire di ruote, le volanti si allontanarono. I ragazzi del luogo, gli assedianti, ritennero il campo libero, aggirarono le fiamme e andarono sul patio, in mano bastoni e spranghe di ferro, ma anche i neri erano armati di mazze, alcuni tendevano le braccia in avanti come chi brandisce un coltello, i coltelli della cucina, pensò lei, una rete metallica da letto fu scagliata nell’aria contro il gruppo che veniva avanti, luccicò nel bagliore irregolare delle fiamme. Bintou, che era rimasta silenziosa nella sua posizione accovacciata, cominciò allora a urlare forte, gli altri uomini urlavano pure nel loro dialetto, parole strascicate come di delirio, offese, bianchi e neri si affrontarono in un groviglio, il vento alimentava pericolosamente le fiamme, in lontananza cominciò a sentirsi, finalmente, l’urlo di una sirena. Lei si appiattì ancora contro il muro, poi sedette sulla sabbia, strinse tra le braccia la testa di Bintou, sentiva la sabbia appiccicata ai capelli, ai vestiti, la puzza di bruciato diveniva sempre più irrespirabile, una colonna di fumo fluttuava nel vento. La lotta tra maschi si spostò all’interno, dai rumori si capì che stavano distruggendo ogni cosa, poi uno scoppio, qualcosa gettato nel fuoco, lei si sporse quel tanto per poter vedere, ancora, l’uomo rasato che stava rompendo i sigilli di una cassetta anticendio e tirando fuori un estintore. “È la fine”, pensò, “ammazzerà qualcuno”. Il pesante camion dei vigili del fuoco in quel momento arrivò sul piazzale a sirene spiegate seguito stavolta da quattro volanti. Altri poliziotti meno timorosi o che avevano avuto ordini precisi, entrarono nel centro armati; dall’ingresso principale subito una diecina di persone scapparono, si dissolsero nell’oscurità della spiaggia in opposte direzioni. Gli idranti spensero il fuoco improvvisato, la puzza di bruciato diventò intensa, un silenzio bronzeo scese sull’edificio adesso per metà nell’oscurità, le

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lampadine all’entrata erano state tutte rotte. Gli agenti gridarono «Venite fuori». Allora lei sollevò Bintou, la sorresse, vennero fuori anche loro, si portarono sul piazzale. Nel patio dell’hotel i ragazzi neri stavano in piedi, sudati, respirando affannosamente, il capo chino, come marionette a cui erano stati tolti i fili. Bintou si avvicinò a uno di loro, urlando, prendendo di sorpresa i poliziotti, quello le disse qualcosa nella sua lingua, indifferente, la guardò appena. Bintou interrogandolo prese a tirarlo per la maglietta, lui le afferrò con forza le braccia e la respinse, un poliziotto la bloccò. Allora si avvicinò anche lei. «Cosa ci fate qui? Chi siete?», disse il poliziotto concitato. Lei pensò che doveva sembrare una donna orribile, con i vestiti sporchi, incollati addosso dall’umidità. «Noi eravamo venute a cercare il fratello», pensava di avere a dispostizione più parole, ma non le vennero. Anzi avrebbe voluto fare un discorso, a quella gente, una delle sue conferenze. Avrebbe voluto dir loro che il suo medico le aveva detto di vivere “normalmente”, ma persino in quel posto sperduto, uno spettro di luogo, non poteva più vivere “normalmente”, si trovava in guerra, una guerra più incomprensibile di tutte le guerre, la guerra fatale degli uomini di bronzo nati coi capelli già bianchi, che nel cuore avevano solo l’odio. «Andatevene, immediatamente», sibilò risoluto l’agente. Lei prese Bintou tenendola tra le spalle, le nascose la testa sul petto, come si fa con una persona ferita, con un bambino che si vuole proteggere, si incamminarono a ritroso lungo il muro di cinta, salirono sulla duna. Quanto tempo era passato? Albeggiava, il vento adesso si era placato. All’orizzonte, la sagoma pesante della nave che veniva dal continente, per attraccare alle prime ore del mattino nel porto vicino. Dalla foschia emergeva il profilo dell’isola prospiciente, l’isola che era stata penitenziario. L’imboccatura del porto riluceva. Trascinò Bintou, come una bambola inerte, alla riva del mare, si bagnarono sino alle caviglie. Raccolse il guscio di una conchiglia, liscio, bianco, lucente: glielo porse. L’unico piccolo, povero dono che poteva farle in quel momento. Un guscio vuoto, come lei adesso si sentiva. Eppu-

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re, quanta vita intorno. Il mare si svelava lentamente nei suoi verdi e azzurri più incontaminati, del primo mattino. Deposta la rabbia schiumosa, il mare si stendeva come una pianura di erba increspata appena. La vita era bella, pensò, davvero bella. L’idea più bella venuta a un dio, se mai fosse esistito. Eppure, quanto è difficile viverla. Bintou parlò placidamente: «Ahmed è scappato. Cercavano lui. Credono che abbia rubato una macchina. Ma Ahmed non è un ladro. Però lui è riuscito a scappare». C’era un accorato sollievo nella sua voce; guardò la lunga striscia di sabbia, come se dovesse vedere da un momento all’altro comparire il fratello. Non c’era nessuno.

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