Pigi Colognesi, La prima sarà la migliore. Conversazioni su Charles Péguy

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Indice del volume

Prefazione Nota editoriale

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I. «Ho sempre preso tutto sul serio»

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A cent’anni dalla morte, p. 17 • Infanzia e giovinezza, p. 18 • I «Cahiers de la quinzaine», p. 21 • Battaglia culturale, p. 23 • Ritorno alla fede, p. 25 • La morte, p. 29 • I volti di una lunga fedeltà, p. 32

II. «La sovranità dell’avvenimento»

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Imprevedibilità, p. 42 • Rispetto, p. 45 • Implicazione personale, p. 51 • Umiltà, p. 55

III. «Cristiano della comune specie»

59

È successo..., p. 59 • ...e succede, p. 62 • Riduzioni, p. 68 • L’odio del mondo, p. 78 • Le risorse per la ripresa, p. 83

IV. «La giovane speranza»

91

Speranza e «détresse», p. 91 • Il padre boscaiolo, p. 94 • Giovinezza, p. 98 • Gratuità, p. 105 • Misericordia, p. 108 5


V. «Il più bel mestiere del mondo»

115

Dal punto di vista del bambino, p. 115 • L’insegnamento e le sue criticità, p. 120 • Maestri buoni e cattivi maestri, p. 124 • Il trascinamento e la libertà, p. 126

VI. «Di che cosa potrebbero parlare che fosse più attuale del problema dell’essere?»

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L’esperienza, p. 131 • Le prime e le ultime pagine di «Véronique», p. 136 • Soldato, p. 143 • I santi Innocenti, p. 147 • Dialogo con Eva, p. 149

Cronologia

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Repertorio biografico

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Prefazione

Recensendo un volume di cui ho scritto la postfazione1, un giornalista – credo con intento elogiativo – mi ha definito «specialista» di Péguy. A me, però, questa definizione è parsa stridente. È vero che per alcuni anni – prima la preparazione della biografia dello scrittore orleanese2, poi l’allestimento della mostra al Meeting di Rimini del 20143 ed infine le molte occasioni in cui sono stato invitato a parlare di lui – Péguy è stato per me una presenza pressoché quotidiana, ma questo non fa di me – credo – uno «specialista». In questa parola c’è un non so che di accademico – nel vasto mare dello scibile uno, se vuol fare un po’ di carriera, deve ritagliarsi un particolare sul quale concentrarsi in modo da conoscerlo come nessun altro era riuscito a fare – o di patologico – quello strano fenomeno per cui uno si incaponisce su un dettaglio, ingigantendolo fino a coprire tutto l’orizzonte del pensiero –, comunque di strano. 1

2014.

Roberto Gabellini, L’ultima marcia del tenente Péguy, Ares, Milano

2 Pigi Colognesi, La fede che preferisco è la speranza, Rizzoli, Milano 2012.

3 Storia di un’anima carnale. Charles Péguy a cent’anni dalla morte, catalogo della mostra, Edizioni di Pagina, Bari 2014.

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Per me il rapporto con Péguy può essere meglio descritto nei termini di una vicenda di amicizia. L’incontro è stato casuale: l’ho sentito leggere per la prima volta in occasione di una Via Crucis al santuario di Caravaggio, rimanendo sorpreso dalla freschezza e non ovvietà delle immagini che usava per descrivere la Madonna che sale al Calvario o Gesù che muore in croce gridando il suo dolore perché Giuda lo aveva rifiutato. Per anni è rimasto un conoscente lontano che si va a trovare in determinate occasioni dell’anno. Salvo una impetuosa fiammata – siamo nel 1992 –, quando don Giussani usò un’intervista di Alain Finkielkraut proprio su Péguy per riproporci con vigore la categoria di «avvenimento» come l’unica in grado di spiegare il fenomeno della conoscenza autentica e, soprattutto, il vero contenuto del cristianesimo. Allora capii che in questo strano Péguy doveva esserci qualcosa di molto importante, ma non mi misi ad approfondire. Così, per altri dieci anni, rimase il conoscente che era stato fino ad allora, con in più la curiosità suscitata dalla consapevolezza di non conoscerlo davvero. Poi è venuto il «bel giorno» in cui nella semplice conoscenza si è aperto lo spiraglio dell’amicizia. Lo spunto è stato fortuito: la lettura – stimolata dalla meditazione che stavo facendo sulla speranza, e Péguy nella mia mente era il «poeta» di questa virtù – di un saggio che giaceva intatto nella mia biblioteca da anni4. Con sorpresa ho scoperto che l’autore di quelle meravigliose immagini – che conoscevo – della speranza come bambina, gemma d’aprile, fontana zampillante aveva scritto queste cose in un momento della sua vita – che non conoscevo per nulla – in cui era sull’orlo della disperazione. 4 Charles Moeller, Charles Péguy e la speranza della risurrezione, in Letteratura moderna e cristianesimo, IV. La speranza in Dio Padre, Vita e Pensiero, Milano 1966, pp. 401-455.

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Tant’è che aveva scritto: «Quello che è facile è l’inclinazione a disperare, ed è la grande tentazione»5. E siccome tale tentazione mi è nota, sono rimasto molto incuriosito da quest’uomo che conosce bene l’abisso della disperazione eppure non vi precipita mai. «Voglio capirlo meglio», mi sono detto. Ho cercato qualche biografia recente e l’interesse per Péguy è cresciuto fino a farmi balenare l’idea di scriverne una io per il lettore italiano, che non ne aveva a disposizione. Allora ho comperato i quattro volumi dell’opera omnia e ho cominciato a leggere tutto quello che Péguy ha scritto; benedicendo in cuor mio il professore di francese delle medie che mi aveva attrezzato così bene in questa lingua con la quale, benché non la frequentassi da decenni, non trovavo grosse difficoltà, se non quelle del lessico per cui basta un buon vocabolario. Poi è venuta la stesura del libro, l’ipotesi della mostra al Meeting e quanto ne è seguito. Ma è inutile che stia a dettagliare. Devo solo dire che in questa assidua frequentazione con lo scrittore dei Misteri l’interesse, la sorpresa, lo stupore ammirato nei suoi confronti non sono mai venuti meno. Lo documenta chiaramente il fatto che né al Meeting, durante il quale ho fatto alcune decine di visite guidate, né quando mi è capitato di fare tre conferenze in una sola settimana, mai mi sono annoiato, mai ho avuto la sensazione di ripetere un discorso «bell’e fatto»6. L’idea di questo libro è nata proprio da qui. L’esperienza mia di un approfondimento continuo del pensiero vivace e molto pertinente al presente di Péguy mi ha suggerito la pos-

5 Le Porche du mystère de la deuxième vertu, cahier del 22 ottobre 1911, P, p. 637. 6 «Tout fait», per usare un’espressione che Péguy mutua da Bergson; cfr. Note sur M. Bergson et la philosophie bergsonienne, cahier del 26 aprile 1914, III, p. 1253.

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sibilità di offrirla ad altri. Sono qui, infatti, raccolti articoli e testi di conferenze preparati nel 2014 (con qualche sporadica puntata all’indietro). Ho semplicemente ordinato la materia secondo un itinerario logico e rivisto i contenuti per evitare ripetizioni e, a volte, per arricchirli o chiarirli. Il primo capitolo offre, nella prima parte, una sintetica biografia del nostro autore e, nella seconda, una riflessione sulla indiscutibile continuità – la chiamo «fedeltà» – che ha percorso tutta la sua esistenza. Nel secondo capitolo cerco di spiegare un termine chiave del pensiero di Péguy: avvenimento. Il terzo e il quarto si concentrano sul cristianesimo di Péguy e, in particolare, sulla speranza, mentre il quinto offre qualche spunto su tematiche educative. Nell’ultimo raccolgo interventi «sparsi» su tematiche diverse.

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Capitolo secondo «La sovranità dell’avvenimento»

Qualsiasi riflessione sull’opera di Péguy, qualsiasi tentativo di comprenderne lo spirito profondo deve focalizzarsi intorno alla parola «avvenimento». È necessario non solo per capire qualcosa di Péguy – il che, in fondo, potrebbe interessarci relativamente –, ma soprattutto per trarre dal suo pensiero qualche significativo suggerimento per il nostro presente. Quello che mi interessa non è dare una «definizione» di avvenimento, perché così si rischierebbe di trattare la questione con un metodo che contraddice il contenuto. Vorrei solo fare delle esemplificazioni della «sovranità dell’avvenimento»1 così come emerge dalla vita e dagli scritti di Péguy. Da ognuna di esse si può cogliere una sfaccettatura di che cosa sia l’avvenimento e quindi ricomporne una immagine il meno approssimativa possibile.

Imprevedibilità In La nostra patria troviamo espressa la caratteristica che forse più immediatamente colpisce di un avvenimento: la sua 1

Un poète l’a dit (postumo 1907), II, p. 871.

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assoluta imprevedibilità. Péguy sta raccontando di una giornata particolare a Parigi: molta gente era allegramente scesa in strada – trattandosi di una bella giornata di primavera – per festeggiare la visita del re di Spagna. Improvvisamente, imprevedibilmente, c’è stato un attentato, fallito, alla vita del sovrano: Un attentato, il più stupido e il più criminale degli attentati, rompendo la sicurezza universale, aveva rotto la gioia; [...] fu come un primo offuscamento e un primo sconcerto; una irruzione della realtà ribelle; ma qualcuno turbò la festa; si ebbe l’impressione che della gente che non era stata invitata entrasse nel corso degli avvenimenti [corsivo mio]; gli accordi così ben presi cadevano; non solo questo attentato era criminale e odioso, ma soprattutto non faceva parte del gioco; rompeva una sicurezza contrattuale comunemente concessa; con lui e attraverso di lui ritornavano per tutti le comuni preoccupazioni, i fastidi, gli imbarazzi, le seccature delle nostre vite ordinarie. [...] Questo odioso, questo criminale attentato non aveva soltanto oscurato la fine delle feste, non aveva soltanto rivelato il pericolo permanente, ma, cosa più grave, aveva rotto la tregua; si ebbe immediatamente l’impressione che questo intervento brusco aveva rotto un incanto, che era lui, l’attentato, che era reale, e che erano le feste che erano immaginarie, finte2.

L’avvenimento, infatti, è un pezzo di realtà che si presenta ultimamente inaspettato davanti ai nostri occhi e l’uomo realista sa «che la realtà non si ricomincia, che l’avvenimento della realtà non avviene mai due volte; [...] che la realtà non viene che una volta, la volta che viene»3. Il realista è di fronte a «un avvenimento che succede o che non succede, che viene fatto, che si fa o che non si fa. Quando è fatto, è fatto una volta per 2 3

Notre patrie, cahier del 22 ottobre 1905, II, pp. 57-58. Débats parlamentaires, cahier del 12 maggio 1903, I, p. 1109.

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tutte»4; non si può disfare, come pretenderebbe quel «povero giovane che voleva dare le dimissioni da ex allievo del Politecnico»5. In definitiva: «Quello che c’è di più imprevisto è sempre l’avvenimento»6. Se dunque l’avvenimento è «non-prevedibile, non-previsto, non-conseguenza di fattori antecedenti»7, qual è l’atteggiamento giusto di fronte a esso? Péguy risponde raccontando un episodio della vita di san Luigi Gonzaga8: si narra che mentre il santo giocava a palla, lui e i suoi amici si chiesero cosa avrebbero fatto se avessero saputo che di lì a venticinque minuti ci sarebbe stata la fine del mondo e il giudizio universale; gli altri dissero che si sarebbero confessati, avrebbero pregato eccetera, Luigi rispose che avrebbe continuato a giocare a palla. Siamo nel 1905 e Péguy è oramai sicuro che la guerra con la Germania è inevitabile, ma lui continuerà a fare quello per cui si sentiva destinato: il faticoso lavoro dei «Cahiers». Per altri nove anni resterà fedele a questa impostazione; scriverà nel 1913: Dal 1905 siamo in questo regime di avvenimento sospeso. Cumuliamo la crisi della guerra e la durata della pace. [...] Essere costantemente caricati per la guerra, nel senso in cui un fucile è caricato; ed essere costantemente caricati dai lavori detti della pace, nel senso in cui un asino è caricato, tale è la doppia sorte cui dobbiamo provvedere. [...] È una veglia d’armi che si prolunga indefinitamente. Riprendendo il Luigi Gonzaga dopo questa prova di otto anni possiamo renderci questa giusti-

Cahiers de la quinzaine, cahier del 3 febbraio 1907, II, p. 664. Note conjointe sur M. Descartes et la philosophie cartésienne (postumo 1914), III, p. 1281. 6 Notre jeunesse, cahier del 17 luglio 1910, III, p. 124. 7 Luigi Giussani, In cammino (1992-1998), Rizzoli, Milano 2014, p. 103. 8 Louis de Gonzague, cahier del 31 dicembre 1905, II, pp. 380-381. 4 5

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zia, che ci siamo comportati bene. Abbiamo lavorato come se niente fosse9.

Nel periodo intercorso tra i due testi appena citati Péguy era tornato alla fede cattolica e significativamente l’atteggiamento che da ateo aveva stimato in san Luigi Gonzaga lo attribuisce, da credente, alla piccola Hauviette, uno dei tre personaggi del Mistero della carità di Giovanna D’Arco: Se fossi a casa occupata a filare il mio contrappeso di lana, oppure, è la stessa cosa, se fossi a giocare ai birilli, perché è l’ora di giocare; e se venissero a dirmi, se qualcuno accorresse: Hauviette, Hauviette è l’ora del giudizio, l’ora del giudizio universale, tra mezz’ora l’angelo comincerà a suonare la tromba [...] continuerei a filare la mia lana, e, è la stessa cosa, continuerei a giocare ai birilli. [...] Tutta la preghiera è di Dio, tutto il lavoro è di Dio: e anche tutto il gioco è di Dio, quando è l’ora di giocare. Io sono una piccola francese, non ho paura di Dio, perché egli è nostro padre10.

Occorrerebbe, a questo punto, trattare di come Péguy percepisce e descrive il cristianesimo come avvenimento, ma rimando al prossimo capitolo.

Rispetto L’avvenimento che ci si propone nella sua imprevedibilità richiede a noi anzitutto la lealtà di riconoscerlo come dato. «Questa passività originaria, questo stare al mondo accogliendolo, non solo non ci esime dalla fatica del riconoscimento, ma

L’Argent suite, cahier del 27 aprile 1913, III, pp. 992-995 passim. Le Mystère de la charité de Jeanne d’Arc, cahier del 16 gennaio 1910, P, pp. 427-428. 9

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anzi è ciò che inaugura il vero lavoro del pensiero»11. Nell’opera di Péguy si possono trovare numerose esemplificazioni di questo rispetto del dato; ne cito solo qualcuna. La parola. Péguy non amava parlare in pubblico e aveva repulsione per ogni forma di retorica oratoria. Solo una volta fece un breve ciclo di tre conferenze; ecco come lo descrive Daniel Halévy che vi ha partecipato: Seduto alla cattedra professorale così, semplicemente, come al tavolo del suo negozio, lui parlava, con la sua voce precisa e poco vibrante, giusto il tempo usuale, un’ora, maneggiando, sfogliando come un saggio scolaro un dizionario che aveva portato per essere ben munito di definizioni sicure. Dopo aver parlato si alzò, sparì con una tale tranquillità che non ci fu neppure un applauso. Gli uditori, sul suo esempio, si alzarono, se ne andarono, la maggior parte di loro molto scontenti, protestando che ancora una volta Péguy s’era preso gioco del mondo e che loro avevano superato l’età di cercare nei dizionari. Se fossero stati più attenti, si sarebbero accorti di aver appena ascoltato una conferenza molto sostanziosa; il che è raro12.

Il rispetto della parola si vede soprattutto da come Péguy non accetta modi di dire scontati o superficialmente usati. Ecco un esempio. Un amico socialista gli aveva obiettato: «La tua critica impietosa e imprudente contro coloro che in un modo o in un altro lavorano per una causa che è la nostra mi ha inquietato», e Péguy risponde:

11 Costantino Esposito, presentazione della mostra «Storia di un’anima carnale», Rimini, 24 agosto 2014, http://www.meetingrimini.org/default. asp?id=673&item=6057. 12 Daniel Halévy, Péguy et les Cahiers de la quinzaine, Grasset, Paris 1941, pp. 203-204.

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In un modo o in un altro: tutto il dibattito è qui, compagno mio. O queste parole non hanno alcun senso, oppure significano [...] che il fine giustifica i mezzi, che il fine socialista giustifica i mezzi politici. Io qui mi separo assolutamente dal mio compagno. Credo che mai il fine giustifica i mezzi; credo in particolare che mai il fine socialista giustifica i mezzi politici; credo che non si avanza verso la giustizia, nella giustizia, per la via dell’ingiustizia, che non si avanza verso la verità, nella verità, per la via della menzogna e dell’errore13.

La materia. In un’opera del 1908 Péguy osserva che il «mondo moderno» ha la pretesa di manipolare il dato reale, la materia stessa, in funzione delle proprie idee «sistematiche». Esso usa il ferro, che è indefinitamente malleabile, e se un manufatto non funziona lo si fonde di nuovo e si rifà il pezzo venuto male. Ciò induce a pensare, appunto, che il dato reale sia assolutamente – cioè senza limitazione alcuna – alle nostre dipendenze. È facile vedere come oggi questa logica si sia allargata allo stesso dato biologico: il colore degli occhi, il sesso, le caratteristiche genetiche possono essere manipolate a piacimento. Non era così per l’uomo pre-moderno, che aveva prevalentemente a che fare non col malleabile metallo ma col legno o la dura pietra: Se un Italiano di una cava di Carrara [...] dava un solo colpo di martello di traverso, era sufficiente questo solo colpo di martello di traverso perché attraverso questa decisione irrevocabile quell’operaio, questo cavapietre decidesse per l’eternità temporale di quel marmo. Nell’operazione della vecchia materia tutto conta. E tutto conta per sempre. E l’operaio lo sa bene. [...] Tutto è irrevocabile. Tutto è non disfacibile. Tutto è inesorabile: dunque tutto è eterno. Da qui il rispetto14. 13 14

Désabonnements, cahier del 20 novembre 1902, I, p. 1081. Deuxième élégie XXX (postumo 1908), II, p. 955.

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Il lavoro. Contro certi sindacalisti che istigavano al sabotaggio Péguy scrive: «Il socialismo, la rivoluzione sociale, non consiste affatto, come i nostri intellettuali, rivoluzionari di alta e di bassa borghesia vorrebbero farci credere, nell’introdurre nelle relazioni economiche dei disordini là dove non ce ne sono affatto, là dove c’è ancora un po’ di ordine»15. Rivoluzione, al contrario, è rivalutare il senso del lavoro ben fatto che Péguy dice di aver conosciuto tra gli operai e gli artigiani del sobborgo di Orléans in cui ha vissuto: Io mi ricordo, per quanto posso, gli operai delle vecchie generazioni, i vecchi artigiani onesti e attenti, puntuali e seri [...] che mettevano infinitamente più coscienza per tornire uno stemma e per fare la gamba di una sedia di quanto non se ne metta oggi per elaborare tutta una scienza; gente povera e semplice, più profondamente rivoluzionaria, e più realmente, di tutta la Confederazione Generale del Lavoro [sindacati socialisti], essendo profondamente e realmente del lavoro, profondamente e realmente lavoratori. [...] Questi vecchi operai, questi veri rivoluzionari, questi uomini di esperienza e di realtà, questi uomini di vita buona, questi grandi uomini e questi grandi cittadini avrebbero considerato quel che sono, un crimine, le malversazioni del moderno sabotaggio. Un istinto profondo, un istinto di esperienza e di realtà li avvertiva, questi vecchi Francesi, questi vecchi rivoluzionari, che tutto è perduto, nell’ordine del lavoro, e particolarmente nell’ordine della rivoluzione, che era evidentemente per loro un caso particolare dell’ordine del lavoro, quando si è perduto il gusto e il senso del lavoro. [...] Sentivano d’istinto, questi vecchi operai, questi soli veri rivoluzionari, sentivano confusamente, ma con quel vecchio fondo di perspicacia, che ogni lavoro fatto male, che ogni lavoro non fatto è al fondo essenzialmente un’operazione reazionaria16. Cahiers de la quinzaine, cahier del 5 novembre 1905, I, p. 64. Testo postumo preparato per il cahier del 25 febbraio 1906, II, pp. 456-460 passim. 15 16

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Il proprio passato. Nel «cahier delle scuse» col quale ha cercato di riappacificarsi con Daniel Halévy che si era sentito offeso da La nostra giovinezza, Péguy evidenzia la differenza sociale che intercorre tra lui e l’amico: «Non dobbiamo nascondercelo, Halévy, noi apparteniamo a due classi differenti [...]. Voi appartenete a una delle più alte, delle più antiche, delle più vecchie, delle più grandi [...] famiglie della vecchia tradizione borghese liberale repubblicana orleanista. [...] Io, lo sapete bene. I tenaci avi, contadini, vignaioli [...] non ci hanno messo molto a riconquistare contro il mondo borghese, contro la società borghese il loro nipotino indegno, bevitore d’acqua in bottiglia»17. Péguy non può e non vuole dimenticare di aver avuto il passato che ha avuto; trasferirsi da Orléans a Parigi, passare dal lavoro nei campi degli antenati a uno prevalentemente intellettuale non l’hanno cambiato al fondo. «Già non so più cosa dire, né come comportarmi nei salotti amici dove andavo qualche volta. Non ho mai saputo sedermi su una poltrona, non per paura della voluttà, ma perché non lo so. Son tutto rigido. A me serve una sedia, o un buon sgabello»18. Péguy sa bene che – al contrario della posizione fin qui descritta – è possibile, anzi facile, non accettare il dato come l’avvenimento lo pone, ma piegarlo al proprio sistema di pensiero. Troviamo descritto questo atteggiamento in uno dei primissimi cahier. Affaticato dal superlavoro (condizione che ritornerà ciclicamente in tutta la sua vita), Péguy nel febbraio del 1900 si ammala di influenza (allora mortale). È l’occasione per una serie di importanti riflessioni che lo scrittore sintetizza 17 Victor-Marie, comte Hugo, cahier del 23 ottobre 1910, III, pp. 168-170 passim. 18 Ivi, p. 171.

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in tre scritti nei quali discute con un immaginario «dottore rivoluzionario». Nel primo, del 20 febbraio, avviene questo interessante dialogo: – Quali sono stati i vostri sentimenti [durante la malattia]? – Ero seriamente infastidito perché ero sempre vissuto con l’idea che non sarei mai stato malato [Péguy ha soltanto 27 anni]. – Ah sì! E su che cosa fondavate quest’idea? – Non la fondavo affatto; credevo vagamente e profondamente di essere forte. [...] – Era dunque una semplice ipotesi? – Una semplice ipotesi, che gli avvenimenti [corsivo mio] hanno smentito. – Avete rinunciato a questa ipotesi vana? – Ho rinunciato a questa vanità. – Non avete pensato che ad aver torto fossero gli avvenimenti e che l’ipotesi invece fosse giusta?19.

In quest’ultima, subdola, domanda è sintetizzato il principio di ogni ideologia, quello per cui se la realtà avviene in modo diverso da quello che noi avevamo previsto (in base a un’analisi scientifica oppure semplicemente per il prevalere di un’aspettativa), invece di piegarci a questo dato selezioniamo arbitrariamente: Quando il teorico, quando il ragionatore si trova in presenza di una realtà complessa, non soltanto piena di complicazioni, ma complessa di complessità, particolarmente quando si trova in presenza di una realtà doppia, il suo primo movimento, cui si attiene, perché è quello cattivo, è di prendere in considerazione solo una parte di questa realtà complessa, particolarmente una delle due parti delle realtà doppie; egli elimina istintivamente, automaticamente, tutto il resto, ciò che lo disturba, particolarmente l’altra delle due parti; senza nessuna inquietudine; al 19

De la grippe, cahier del 20 gennaio 1900, I, pp. 402-403.

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contrario, lo fa di buon grado, se ne vanta, si misura in base a quello, si sente molto forte: sarebbe inquieto se al contrario conservasse molta realtà, se rispettasse la realtà, non si riconoscerebbe: così nascono i sistemi20.

Eccolo il vero nemico del rispetto del dato come si presenta nell’avvenimento: il sistema di pensiero precostituito, ideologico. Nell’intervista rilasciata nel giugno del 2014, trasmessa poco dopo ad agosto in occasione della mostra che il Meeting di Rimini ha dedicato a Péguy, Alain Finkielkraut ha detto: «L’avvenimento è l’irriducibilità dell’essere al concetto, è il fatto che la storia non si lascia condurre a colpi di bastone. Péguy, lo dice molto spesso, era costretto a seguire gli eventi e questo lo distingue dagli intellettuali. L’intellettuale è colui che crede che l’evento lo possa seguire, colui che crede di avere l’ultima parola sulla storia». Perché ci insegna una posizione di rispetto «Péguy ci dà il coraggio di resistere all’ideologia»21.

Implicazione personale Nel cahier del 21 dicembre 1900 Péguy ricostruisce la storia del suo turbolento rapporto col socialismo francese e ad un certo punto racconta la sua decisione di fondare una libreria. Scrive: Negli ultimi mesi del 1897, un avvenimento privato [il matrimonio; il corsivo è mio] mise a mia disposizione, per la prima e ultima volta nella mia vita, una somma abbastanza considerevole. Quei quarantamila e rotti franchi non erano miei, ma dei miei Heureux les systématiques (postumo 1905), II, p. 223. Storia di un’anima carnale. Charles Péguy a cento anni dalla morte, Edizioni di Pagina, Bari 2014, pp. 92-93. 20 21

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parenti. La mia nuova famiglia era d’accordo con me sul fatto che io dovessi buttare nell’azione socialista questi quarantamila franchi. La mia nuova famiglia pensava con me che un socialista non può conservare un capitale individuale. Fu allora che commisi un errore imperdonabile. [...] Invece di fondare questi cahiers, ho fondato una libreria22.

La libreria, nel giro di un anno, fallirà e Péguy – in forza di un altro avvenimento: lo scandalo per la delibera del Congresso socialista che aveva imbavagliato la stampa – deciderà di fondare i «Cahiers de la quinzaine», che portò avanti per tutta la vita sempre sull’orlo del fallimento e nel terrore di non riuscire a mantenere la famiglia; cosa che non sarebbe successa se avesse conservato quei 40.000 franchi. Quello che mi interessa osservare – e che la scelta di Péguy evidenzia – è che un avvenimento non è percepito come tale se non produce una implicazione personale. Péguy era faticosamente riuscito a entrare nella più prestigiosa università francese, l’École normale supérieure, ma l’avvenimento di trovarsi a disposizione dei soldi lo mobilita in una direzione diversa: lascia la sicura carriera universitaria e si butta nell’azione politica in funzione del proprio ideale. Si comprende, allora, da dove deriva a Péguy il suo modo particolare di concepire la rivoluzione: non un piano prestabilito da realizzare ad ogni costo (come fanno tutte le ideologie; e quelle che hanno trionfato nel secolo scorso ci hanno mostrato tutta la violenza di un simile metodo), ma una implicazione personale che incomincia da sé a realizzare quello che si ritiene buono per tutti. Dunque l’avvenimento si percepisce quando ci si implica esistenzialmente con esso e non se ci si pensa e basta. Péguy lo scriverà parlando del padre di famiglia: 22

Pour ma maison, cahier del 21 dicembre 1900, I, pp. 644-645.

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Solo il padre di famiglia è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Letteralmente lui solo è avventuriero, corre un’avventura. Perché gli altri, al maximum, ci sono coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece ci è coinvolto con tutte le sue membra. [...] Niente di quello che succede [nessun avvenimento], niente di storico è per i padri indifferente. Soffrono di tutto. A causa di tutto. Essi soli hanno esaurito, possono vantarsi d’aver esaurito la sofferenza temporale, ciò che io, la Storia, posso apportare di dolore a quel che capita nel tempo. Chi non ha mai avuto un bambino malato non sa cosa sia la malattia23.

Leggendo queste righe non si può non riflettere sull’abuso oggi frequente della parola «evento» (sinonimo di avvenimento) per descrivere ogni cosa, da una sfilata di moda a un happy hour, da un corteo di protesta a uno spettacolo; senza però che in tutto questo ci sia un reale coinvolgimento personale né dei proponenti né dei partecipanti. L’implicazione porta spesso con sé un sacrificio. Péguy ne era già perfettamente consapevole nel 1902 quando scriveva: «So che faccio un lavoro miserabile. [...] Passo un buon terzo del mio tempo alla fabbricazione industriale dei quaderni, alla correzione delle bozze. Correggo le bozze con una sollecitudine così meticolosa che mi ha reso leggermente ridicolo, soprattutto quando tante cure non sono sufficienti a evitare qualche refuso»24. Nel 1910 lo confermerà: Da dodici anni ammasso su me solo tutte le responsabilità commerciali, tutte le preoccupazioni per le scadenze, tutte le cure e tutte le preoccupazioni della fabbricazione, della costruzione e della vendita, tutte le fatiche del lavoro e tutte quelle della 23 Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle [Véronique] (postumo 19091912), III, pp. 656, 658. 24 Personnalités, cahier del 5 aprile 1902, I, p. 920.

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responsabilità. [...] Sono infinitamente meno sicuro del domani di quando avevo 25 anni. Devo salire altrettante scale. Ma non ho più le gambe dei 25 anni. [...] È un mestiere così difficile chiedere soldi, e tanto più duro quanto più s’invecchia. Ho in me, ho conservato il vecchio orgoglio dell’antico operaio francese, la più grande nobiltà che aveva, di non chieder niente a nessuno. Quand’ero piccolo mia mamma mi diceva: Chi lavora non ha bisogno di chiedere niente a nessuno. Sono stato allevato così. Da quando mi conosco lavoro e produco, ho sempre bisogno di chiedere tutto a tutti. È un mestiere duro, quando s’invecchia25.

Al contrario gli uomini «moderni» fanno di tutto per non aver fastidi: Avere pace, il grande motto di tutte le viltà civiche e intellettuali. [...] Essi vogliono anzitutto essere tranquilli. Essi voglio anzitutto essere sedentari. La stessa tentazione di pigrizia, la stessa fatica, lo stesso bisogno di tranquillità per il domani che li fa tutti funzionari è anche lo stesso che li fa tutti intellettuali. Come corrono tutti dietro le cattedre, non perché vi si insegni, ma perché vi si sta seduti, così vogliono prima di tutto una filosofia, un sistema di pensiero, un sistema di conoscenza in cui si stia seduti. [...] Tutta la loro vita è per essi soltanto un incamminarsi verso la pensione, una preparazione alla pensione, una giustificazione per la pensione. Come il cristiano si prepara alla morte, il moderno si prepara alla pensione. Per avere la pace domani, non si hanno figli oggi. [...] Per avere la pace l’istante successivo, facciamo del presente un tempo di saggezza, di previdenza, di infecondità, un tempo morto e mortuario, un tempo passato. [...] Questa tranquillità, che è l’ultimo oggetto degli intellettuali e a cui vanno tutti i voti dei moderni, è essenzialmente un principio di schiavitù. È sempre la libertà che paga26. 25 «Les Amis des Cahiers», cahier del 20 novembre 1910, III, pp. 349, 352, 356-357. 26 Note conjointe..., cit., pp. 1413-1418 passim.

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Per di più essere implicati con la realtà, col lavoro, nei rapporti, non garantisce affatto il successo mondano. Anche questo Péguy lo ha sperimentato in prima persona: Noi siamo dei vinti. Il mondo è contro di noi. [...] Tutto ciò che noi abbiamo sostenuto, tutto ciò che abbiamo difeso, i costumi e le leggi, la serietà e la severità, i princìpi e le idee, le realtà e il bel linguaggio, la proprietà, la probità del linguaggio, la probità del pensiero, la giustizia e l’armonia, la giustezza, una certa tenuta, l’intelligenza e il buon francese, la rivoluzione e il nostro vecchio socialismo, la verità, il diritto, l’intesa semplice, il buon lavoro, l’opera bella, tutto quello che abbiamo sostenuto, tutto ciò che abbiamo difeso indietreggia giorno per giorno davanti a una barbarie, davanti a una incultura crescente, davanti all’invasione della corruzione politica e sociale. Non facciamo finta: siamo dei vinti27.

Per questo «La storia non si occuperà di noi. Ci dimenticherà, ci ignorerà. Se si occupasse di noi, tutto quello che potrebbe fare per noi sarebbe trattarci negligentemente come imbecilli»28.

Umiltà Nel cahier del 24 gennaio 1905 Péguy dice che la sua rivista individuerà alcuni testi dell’ampio dibattito del mondo politico – e socialista in particolare – e li pubblicherà; è ovvio che ciò comporta fare delle scelte. Ma per chi è attento alla dinamica dell’avvenimento nulla è ovvio o banale; scrive infatti Péguy: Terribile responsabilità di scegliere. [...] Alla fine è arrogarsi il 27 28

À nos amis, à nos abonnés, cahier del 20 giugno 1909, II, p. 1273. Ivi, p. 1284.

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diritto di decidere se degli uomini sono più o meno reali di altri uomini, e per così dire se sono più o meno nati, se degli avvenimenti [corsivo mio] sono più o meno reali di altri avvenimenti, e per così dire se sono più o meno accaduti, se degli elementi sono più o meno reali di altri elementi, e per così dire se hanno più o meno essere; come se noi avessimo qualche diritto di crederci, o qualche ragione d’essere, noi deboli, i fabbricatori, gli autori, i padri della realtà; cioè alla fin fine – e ci torneremo – come se noi fossimo dei creatori, degli dèi29.

Abbiamo già visto prima che il sistematico – l’uomo che non conosce per avvenimento – seleziona nella realtà quello che più gli aggrada; qui Péguy aggiunge un elemento che svilupperà approfonditamente, come annuncia lui stesso, in seguito: il sistematico finisce per credersi lui stesso il costruttore – meglio, il creatore – della realtà. In sostanza, finisce per credersi Dio. E si noti che mentre fa queste acute osservazioni Péguy è ancora ateo. Tra i molti brani che si potrebbero citare a riguardo mi limito a un estratto dal cahier del 25 ottobre 1904 dove Péguy parla della presunzione auto-divinizzante dello storico, ma si può pensare allo scienziato, al pedagogista, al sociologo, al filosofo, al giornalista e persino all’uomo comune. Di fronte agli dèi dell’Olimpo, di fronte a un Dio Tutto, di fronte a un Dio cristiano, lo storico era un uomo, restava un uomo; di fronte a niente, di fronte a uno zero Dio, il vecchio orgoglio ha svolto il suo compito; lo spirito umano ha perduto il suo punto di equilibrio; la bussola è impazzita; lo storico moderno è diventato un Dio; egli si è fatto, semi-incoscientemente, semi-compiacentemente, lui stesso un Dio; non dico un dio come i nostri dèi frivoli, insensibili e sordi, impotenti, mutilati; egli si è fatto Dio,

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Textes formant dossier, cahier del 24 gennaio 1905, I, p. 1519.

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semplicemente, Dio eterno, Dio assoluto, Dio onnipotente, tutto giusto e onnisciente30.

È la totale mancanza di realismo. Il realista sa, infatti, di non poter esaurire l’avvenimento e, quindi è umile in quanto riconosce che noi riceviamo da tutte le parti; [...] che le nostre conoscenze non sono niente di fronte alla realtà conoscibile, e, tanto meno, forse, rispetto alla realtà inconoscibile; [...] che resta immensamente da fare e ancor più immensamente da conoscere; che tutto è immenso, eccetto il sapere; soprattutto che bisogna aspettarsi di tutto; che tutto arriva [ancora l’avvenimento, e questa volta il corsivo è di Péguy]; [...] che noi siamo davanti a uno spettacolo immenso e di cui conosciamo solo effimeri incidenti; che questo spettacolo può riservarci tutte le sorprese; che noi siamo impegnati in un’azione immensa e di cui non vediamo il capo e il fine; che forse non ha affatto un capo o un fine; che questa azione ci riserverà tutte le sorprese; che tutto è grande, inesauribile; che il mondo è vasto; e ancor più il mondo del tempo; che la madre natura è indefinitamente feconda; che il mondo ha della risorsa; più di noi; che non bisogna fare i furbi; che l’infima parte non è niente rispetto al tutto; che noi non sappiamo niente, o quasi niente; che noi abbiamo solo da lavorare modestamente; che bisogna guardare bene; che bisogna agire bene; e non credere che si sorprenderà, né che si arresterà il grande avvenimento31.

Dotato di tale umile consapevolezza, Péguy non si definirà mai uno storico, piuttosto un giornalista o, meglio, un cronachista: Attraverso il ministero di questi cahiers io sono diventato un po’ giornalista; cioè un uomo che segue gli avvenimenti [corsivo

30 31

Zangwill, cahier del 25 ottobre 1904, I, p. 1401. Ivi, pp. 1446-1447.

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mio]; non me ne difendo; non devo averne né vergogna né rimorsi; giornalista dei quindici giorni, se così si può dire, non rinnegherò il mestiere che faccio; giornalista del mese o del semestre, giornalista alla fine, la mia miseria è la miseria comune: bisogna che io segua gli avvenimenti, eccellente esercizio per finire di convincersi che veramente gli avvenimenti non ci seguono. Essi hanno indubbiamente altro da fare32.

L’umile atteggiamento del cronachista che registra l’avvenimento che si pone davanti ai suoi occhi – in opposizione alla spocchia dello storico che lo piega alle sue interpretazioni – è riaffermato da Péguy quando parla delle sue opere che trattano di Giovanna d’Arco. Per me ho preso da subito in questa materia l’attitudine che sarà la mia attitudine definitiva. Sono il cronachista e non voglio essere altro che il cronachista. Ma non mi nascondo che il cronachista e l’essere cronachista è quanto ci sia di più grave. E tutto quanto c’è di più grave, nel secondo ordine, nell’ordine di coloro che non sono essi stessi, ma che relazionano, che testimoniano di coloro che sono. Il cronachista è il testimone storico. Il testimone dell’essere e dell’avvenimento33.

È stato osservato che «qui Péguy introduce una distinzione fondamentale in ciò che chiama il sistema cristiano: il primo ordine sono coloro che vivono della grazia; il secondo ordine sono coloro che vivono del riverbero di chi vive la grazia e così vivono della grazia»34. Notre patrie, cit., pp. 10-11. Un nouveau théologien, M. Fernand Laudet, cahier del 24 settembre 1911, III, p. 174. 34 Giacomo Tantardini, Quell’incontro meraviglioso: l’eterno nel temporale, Postfazione a Charles Péguy, Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale, Marietti 1820, Genova-Milano 2013, pp. 189-190. 32 33

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