«La materia della poesia». Raccolta di poesie

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Indice

Introduzione

p. 5

Raccolta di poesie

p. 11

Bibliografia

p. 41


Introduzione Spesso il poeta sembra voler rispondere al bisogno, forse sempre presente in forma inespressa, di qualificare la natura della poesia e il valore che essa riveste all’interno di tutta la sua opera. Con frequenza crescente, in epoca contemporanea, molti poeti lo fanno lasciando da parte la saggistica e mettendo mano alla poesia come strumento di identificazione di se stessa, tendendo spesso a fare di questa operazione il soggetto privilegiato di ogni via di ricerca. Senza che temi di sempre come l’amore (magari declinato nella rievocazione di care figure familiari), la natura, l’esperienza di vita abbiano a perdere di attenzione, sembra di sentir vibrare nelle dediche rivolte alla poesia un valore aggiunto di creatività e di sentimento. Una delle partiture presenti in questa breve raccolta ha come tratto distintivo la distanza del poeta dalla cosiddetta posizione comune, a cominciare dalla propria quando sente decadere qualcosa in sé. Esemplare in questo senso l’esperienza di Antonia Pozzi nella sua Preghiera alla poesia in cui la poesia, personalizzata, rappresenta la voce profonda che, sola, può aiutarla a «ritrovare l’alto paese abbandonato». Ma risultano anche ben visibili le posizioni di quei poeti che esprimono inconfondibilmente la loro diversità dall’uomo comune, sentito 5


come altro da sé per struttura, scopi, senso. Su questa linea Baudelaire, col suo famoso Albatros, da molta critica considerato l’inizio della poesia contemporanea, evoca il disagio della dimensione poetica a calarsi in quella esistenziale: lì dove gli «uomini dell’equipaggio» si fanno beffe del re degli spazi, che non teme le tempeste e sfida il destino, ma che, a bordo, è goffo e impedito dall’ampia misura delle ali. In posizione ribaltata, invece, l’uomo comune di Lee Masters viene impietosamente osservato da una figura di poeta che, con curiosità da studioso, lo vede venir fuori dalle «tane del fato fra grandi città» e si interroga senza risposta su come viva e per che cosa e perché «strisci così in faccende», come faceva lui da ragazzo osservando i gamberi del fiume. Con Magrelli, poi, il poeta segna un’incolmabile distanza da quei suoi simili, facilmente identificabili con l’uomo comune che «tramonta solo col suo corpo», privo com’è della facoltà concessa dalla poesia di operare, in chi la produce, la grande metamorfosi: «diventare così da carne segno» e «nella carta restare in altra nuova forma suscitato». Come si vede, nella radicalità dei tratti distintivi del poeta figura sempre un richiamo al destino. Un’altra partitura della raccolta è rappresentata dal grado assegnato alla poesia, ai suoi fini e alle sue possibilità. Insieme a permanenti testi6


monianze di una dimensione assoluta, che cioè non possa coinvolgere nulla meno del tutto (cfr. Roberto Calasso, La letteratura e gli dèi) si trovano, specie, ancora una volta, in autori della seconda metà del Novecento, profili più contenuti, attestazioni di valori relativi. «Al passo di strada la voce», dice Umberto Bellintani, figura di poeta contadino, che canta la condizione di scoprirsi privi di «liuto», quando in petto si agita un «senso (...) del chiaro e del buio» che vuole essere detto. Caproni, nello stato di pena di una condizione intima e sociale che la poesia non dissolve, ma nella quale essa sa aprire «una vela timida nella tenebra», lascia la testimonianza accorata di un potere di consolazione che si trasforma in impegno di creatività e di riscatto: «(...) accendo cauto una candela / bianca nella mia mente / (...) e il pennino /strusciando che mi scricchiola, anch’io scrivo / e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto / che mi bagna la mente...». E perfino Montale testimonia un abbassamento di profilo. Non sarebbe che cenere di una luminescenza ciò che rimane di un vasto e profondo processo di ricerca compiuto con la sua poesia, non «un’eredità (...) che può reggere all’urto dei monsoni». Avvolto nella propria immagine «l’urto dei monsoni» rimane così, senza altre specificazioni, suscitando ipotesi di senso all’impegno interpretativo del lettore, che si chiede quale fosse la pretesa insoddisfatta 7


della sua opera. Il Piccolo testamento conclude le ardue visionarie composizioni di La bufera e altro, dove i temi della guerra in atto e di una vicenda sentimentale personale si intrecciano tra loro e con la funzione della poesia, a tratti intesa come asse di Umanesimo, ultima fonte di salvezza individuale e storico-sociale. Infine, qualche citazione di dediche incondizionate alla virtù della poesia e della sua forza, con animo rivolto alla ricerca del sublime. Non senza prima accennare al ritratto ideale del poeta di Marina Cvetaeva, che lo vuole un avventuriero spirituale. E quindi un passeggero cosmico che si muove con «passo di cometa» nei dispersi anelli della causalità, allievo impertinente che «interroga dal banco», uno che sta in bellezza «nella bara di Bastiglie», che non lascia tracce perché è già altrove e sui calendari non c’è segno dei suoi sentieri di cometa. I sentieri del sublime di seguito rappresentati vanno da Rilke a Auden, a Nuno Júdice, un portoghese contemporaneo autore della poesia da cui prende il titolo questa raccolta. Nel secolo di distanza fra gli autori nulla va perso del fascinans di una poesia che è andata misurandosi nel Novecento con profondità psicoanalitiche e con vertici filosofici, sempre riuscendo a farne materia della propria unicità. Nei primi anni del secolo Rilke, inebriato dal proprio carisma, fonde in una sola essenza la sua stanza con la vastità cosmica, preparandosi alla grande 8


opera evocata in Al margine della notte. Le cose non sono che materiale da costruzione e le percorre un oscuro murmure, dolente ed erratico, in attesa di una tramutazione in armonia. L’unica condizione è legata alla tensione lirica del poeta che infonda vita vera alle cose e riscatti il loro stato. Risponde allo stesso mandato l’inno di Auden, scritto in occasione della morte del poeta Yeats. Parole quasi sorprendenti per la provenienza da tale corrosivo critico dell’esistenza, autore dell’Età dell’ansia. L’invocazione al poeta è un’investitura tanto più solenne quanto più lontane la società e la storia si mostrano dagli ideali umani. E la dedica di Auden svela una fede profonda nella poesia: la volontà del poeta di avanzare fino al fondo della notte intende riportare alla gioia, per un’ultima redenzione che al senso religioso non viene chiesta più. Nuno Júdice riprende, in un certo senso, il tema di Rilke sulla vicenda delle cose, qui però fondata su di una loro qualificata sostanza che non vuole andare persa quando noi giriamo «gli angoli della vita». La materia della poesia è questa: rispondere al desiderio di permanenza delle cose che ci contamina con un’infezione divina di eternità. I poeti lavorano questa materia e dai loro versi «si leva un fumo che il cielo disperde, in mezzo all’azzurro, lasciando appena un eco di ciò che è essenziale, e permane». 9



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