La mia vita tra i gorilla

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Capitolo 1

NIENTE BESTIE IN QUESTA CASA!

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ella mia infanzia ricordo soprattutto Goldie, il mio amato pesciolino rosso. O forse preferisco ricordare solo lui. Lo stavo a guardare per ore e ore e, anche se sapevo che non mi poteva rispondere, io gli parlavo lo stesso. Quando è morto ho pianto per un’intera settimana. Avevo faticato così a lungo per averlo e ora Goldie mi lasciava.


– Mamma, ti prego, comprami un altro pesciolino o qualsiasi altro animale che possa tenere in casa – avevo supplicato. Ma mamma era stata irremovibile. – Basta, a casa mia quelle bestiacce sporche non le voglio più vedere! Inutile cercare solidarietà. Anche con il mio patrigno, Richard Price, non ero mai andata molto d’accordo. Altre persone in casa, oltre a lui e a mia madre, non c’erano. C’era la donna di servizio, ma la sua opinione contava poco. Fu così che, nella mia infanzia, il capitolo animali si chiuse definitivamente con la morte di Goldie. Una vera ingiustizia! Tante volte mi sono chiesta come sarebbe stata la mia vita se, da bambina, avessi potuto tenere con me un cane, un gatto e magari anche un criceto, oltre a un acquario pieno di tanti piccoli Goldie. Forse sarebbe stata diversa. Comunque mi sono rifatta da grande. Del mio vero padre, George Fossey, ho sempre avuto pochi ricordi e molta nostalgia. Se ne andò quando io ero troppo piccola per raccontare come eravamo io e lui insieme. Eppure quegli anni mi sembrano gli unici in cui sono stata davvero felice a casa mia. – Mamma, perché hai divorziato da papà? – le avevo chiesto in uno dei rari momenti di confidenza. Di solito mamma non aveva mai tempo di parlarmi. Andava sempre di corsa. O così diceva. Avevo però capito da poche frasi che papà beveva troppo e che aveva avuto anche

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qualche guaio con la polizia. Insomma, lei si era stufata di quella vita e aveva deciso di troncare il matrimonio. Di papà ricordo che era molto alto e che amava stare all’aria aperta. Dei suoi affari andati male, come assicuratore, seppi solo molto più tardi. Da grande capii anche che non era stato fortunato: negli anni della Grande Depressione, quando non c’era un soldo in giro e i disoccupati crescevano come funghi, ben pochi avevano voglia di sborsare i quattrini per un’assicurazione. L’alcool era stato la sua risposta al fallimento professionale e io – nata a San Francisco, in California, il 16 gennaio del 1932, nel periodo economicamente più buio della Grande Depressione – avevo perso un padre senza averne colpa. Dopo il divorzio, i giudici mi avevano affidato alle cure di mia madre e papà decise di partire, arruolato in Marina. Sembrò che il mare lo avesse definitivamente allontanato da noi, tanto poche erano le notizie che ci giungevano di lui. Durò poco la mia vita solitaria con mamma. Dopo solo un anno, mia madre si era già risposata con un signore alto e occhialuto di nome Richard Price, di professione imprenditore edile. Credo avesse anche abbastanza soldi. Di sicuro era molto ambizioso. Mi sforzavo di chiamarlo papà per far piacere a mia mamma, ma non l’ho mai sentito come uno della famiglia. Né lui, credo, abbia mai provato per me l’affetto che, in genere, si prova per una figlia o anche solo per

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una parente stretta. Meglio così. Se mi avesse adottato legalmente avrei perso il mio cognome, Fossey, di cui da piccola andavo molto orgogliosa. Il suo arrivo nella nostra famiglia mi rubò, comunque, anche quella poca attenzione che mia madre mi dedicava. – Kitty – aveva detto Richard Price a mia madre – Dian non deve cenare a tavola con noi. I bambini devono stare in cucina con i domestici. Così aveva deciso il mio patrigno, fin dai primi giorni della nostra convivenza. Stupita, avevo guardato mamma, sicura che lei gli avrebbe risposto un secco no. Invece si rivolse a me con calma: – Dian, vai in cucina, starai molto più comoda anche tu. I discorsi degli adulti non sono fatti per i piccoli. Fu tutto. Non dissi una parola. Mi voltai per andarmene e da quel giorno, sino a quando compii dieci anni, quasi tutti i miei pranzi li ho consumati in cucina, con la domestica. Fossi stata una ragazzina monella, una che disturba e non sa stare a tavola... Al contrario, a parte la mia insistente richiesta di avere un animale, cercavo di comportarmi come piaceva ai grandi e di non dare fastidio. Non era facile andare d’accordo con il mio patrigno che era severo e di idee antiquate. Mamma si adattava e gli dava sempre ragione. Io mi sentivo a disagio. Capivo che, in qualche modo, li stavo deludendo. A partire dal mio aspetto fisico che, sicuramente, non piaceva

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a mia madre. Lei era bella, con il viso lungo e i capelli biondi. Aveva una naturale grazia nel portamento, mentre io dovevo sembrarle sgraziata. Ero troppo alta per la mia età. Ma non era colpa mia se, a dieci anni, ero una spanna più alta delle mie compagne di scuola. Anche sui miei capelli rosso ramato, lunghi e ricci, storceva il naso. – Troppo appariscenti e disordinati per una signorina della buona società – di sicuro pensava, anche se non me lo diceva. Avevo diciassette anni quando, finite le scuole superiori, si trattò di scegliere il college. – Ti devi occupare di business, di economia – mi disse severo il mio patrigno – quello è il futuro di voi giovani. – Ma io odio studiare quelle cose! Non mi interessano. Mi voglio occupare degli altri, anzi, mi voglio occupare di animali. Magari potrei iscrivermi a veterinaria… – Assolutamente no! Non butto i soldi dalla finestra per mantenerti al college a seguire dei corsi inutili. Quella volta, come sempre d’altronde, era stato irremovibile e mia madre assolutamente attenta a non dispiacerlo. Fu così che mi ritrovai a frequentare il Marin Junior College, odiando ogni giorno di più quelle aride nozioni di economia e di bilanci aziendali. Sognavo gli spazi aperti, il contatto con la natura... Al pomeriggio facevo dei lavoretti part time. Di denaro ne vedevo ben poco e, se non fosse stato per i miei zii materni che ogni tanto

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mi mandavano qualche soldo, avrei dovuto davvero tirare la cinghia. Dopo un anno di quella odiosa vita al college, mi capitò un colpo di fortuna. Erano cominciate le vacanze estive. Seppi che cercavano un tuttofare in una fattoria nel Montana, frequentata da turisti. Senza pensarci due volte mi candidai. – Voglio lavorare con voi alla fattoria – furono le mie semplici parole. – Cosa sai fare? – Mi piacciono gli animali. Ero inesperta ma decisa ad avere quel posto. La mia determinazione funzionò. Dopo pochi giorni ero già lì a occuparmi di animali. Lo ricordo come uno dei più bei lavori della mia vita. L’estate alla fattoria mi aveva anche permesso di mettere da parte un po’ di soldi; abbastanza per decidere di fare di testa mia. Poco prima di iniziare l’anno scolastico ne parlai a casa. Questa volta ero decisa. – A quel college non ci torno più. Non mi piace studiare economia. Voglio fare veterinaria – dissi a mia madre e al mio patrigno che, severi, mi guardavano. – Te l’ho già detto l’anno scorso. Non approvo! – disse il patrigno, rigido come un manico di scopa, guardandomi da dietro le spesse lenti. – Non importa. Mi arrangerò – fu la mia risposta che non ammetteva repliche.

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Quel giorno mi sentii finalmente libera da una famiglia che, in fondo, non mi aveva mai accettato per quella che ero. Ci fosse stato il mio vero papà, sarebbe stato diverso. Ma lui era scomparso da tempo dalla mia vita. Fu dura. Dovevo arrangiarmi a pagare le tasse scolastiche, il mangiare, l’alloggio. Tutto. Lavoravo i sabati, le domeniche e ogni altra festa per raggranellare un po’ di soldi. Ma ero felice perché, finalmente, realizzavo il mio sogno. Sarei diventata un medico degli animali e avrei potuto vivere in mezzo a loro. Ma non avevo messo in conto le difficoltà. In botanica e in tutte le materie che avevano a che fare con gli animali, prendevo voti bellissimi, ero una delle prime del corso. Chimica e fisica erano, invece, degli ossi duri. Tentai più e più volte di superare quegli esami. Alla fine cedetti. Abbandonai veterinaria. Ma non i miei progetti. Avrei trovato un altro modo per occuparmi di animali. Nel frattempo avevo deciso di dedicarmi alle persone, a qualcuno che avesse davvero bisogno di me. Volevo aiutare chi soffriva, chi aveva problemi fisici o psichici. Se erano bambini, ancora meglio. Mi sarei sentita più a mio agio. Questa volta gli studi li conclusi in fretta. Non avevo più voglia di ammuffire in un’aula scolastica. Nel 1954, a ventidue anni, avevo già in tasca il diploma di terapista. Adesso si trattava di cominciare una nuova vita. Di una cosa ero certa: volevo andarmene dalla California.

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