aristotele_la_rettorica(versione toscana di annibal caro)

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chè d'una parte è il dir che s'appartiene ai prosatori, e d'un'altra quel che si conviene a' poeti. Di che fa fede l'usanza che è seguita di poi; perchè gli scrittori delle tragedie non usano più quel medesimo modo di comporre. Ma sì come dagli ottonarj si sono gittati ai jambici senarj, come a numero più somigliante alla prosa, così hanno dismessi quei vocaboli che sono fuor dell'uso del parlare ordinario; e quelli che ancor oggi son compositori d'esametri non usano più quelle voci, con che ornavano prima le lor composizioni. E per questo è una vanità a voler imitare quel lor modo di dire, il qual da essi medesimi è stato rifiutato. Chiara cosa è dunque che non ci bisogna ragionar compitamente tutto che si può dire intorno all'elocuzione, ma solamente intorno a quella che diciamo appartenere al prosatore; perchè dell'altra abbiamo ragionato nella poetica. E quel che se n'è detto sia ben detto. CAPITOLO II. ORA abbiasi per diffinito che la virtù del parlare consista nell'esser chiaro, e che, sia vero; vedere, che se non s'intende, non fa l'offizio suo. Dipoi, che non sia nè troppo basso, nè troppo sopra la dignità della cosa, ma secondo che si conviene a quel che si dice; perchè lo stil poetico non darà forse nel basso, e nondimeno non avrà convenienza col parlare della prosa. Questa chiarezza del dire si fa quando le parole sono proprie, e l'altezza e l'ornamento del parlare procede da quell'altra sorte di parole, delle quali abbiamo trattato nella poetica; perciocchè in questo le traslazioni e 255


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