A L B U M
I FA C C I O N I , GLI SGUARDI, LA DOMANDA
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I faccioni di Eva Macali sono nella tradizione ma anche fuori della tradizione. Sono nuovi e insieme antichi. Perché sono nella tradizione e perché ne sono fuori? Vi interessa saperlo? Sono nella tradizione perché rientrano nello spirito Dada e in quello del Nouveau Réalisme. Ecco come definisce Pierre Restany questo movimento: “…un modo piuttosto diretto di mettere i piedi per terra, ma a quaranta gradi sopra lo zero dada e a quel livello in cui l’uomo, se giunge a reintegrarsi nel reale, lo identifica con la sua trascendenza che è emozione, sentimento e infine poesia”. Due degli artisti di punta di questa neoavanguardia, Mimmo Rotella e Raymond Hains, misero mano con i loro decollages ai prodotti della pubblicità che fasciavano i muri delle metropoli. Lacerandoli e redigendo un vero e proprio “rapporto sulla modernità”, una summa dell’iconografia del consumo destinata a divenire classica. Nessun’opera più di un decollage di Rotella restituisce il senso profondo degli anni Sessanta. Anche se, a sua volta, Rotella si nutre della intenzionalità tutta italiana della forma, della composizione, della proporzione, del colore, insomma, della pittura e delle sue radici rinascimentali. Esattamente come fece Alberto Burri più o meno negli stessi anni: inarrivabili pittori senza essere
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pittori! Lo intuì fra i primi Emilio Villa che amò entrambi e che, fra i primi, osservò i lavori di Mimmo Rotella cogliendone la straordinarietà rivoluzionaria. “Strappare manifesti è la sola compensazione, l’unico modo di protestare contro una società che ha perduto il gusto del cambiamento e delle trasformazioni favolose”. Con la semplicità dei grandi, Rotella ci spiega la sua relazione con la realtà, quella relazione imperdibile per l’arte che vuole continuare a essere arte. Una realtà che celebra il consumismo degli anni frenetici del boom, ma celebra anche il funerale delle illusioni di cambiare il mondo con l’arte, con la politica, con la rivoluzione. Rotella quella realtà non la nega ma l’aggredisce. Nei suoi strappi c’è tutto ciò che collega la Magna Grecia (lui era calabrese) alla Piazza del Popolo degli anni ’60, quella di Schifano, di Jean Paul Sartre, di Moravia, di
Parise, di Plinio De Martiis. Ecco, è nel solco di questa tradizione che, non so quanto consapevolmente, si colloca la ricerca di Eva Macali che riattualizza, una volta di più, la circolarità di un’arte che non può non ritornare, sempre. Anche lei è affascinata dai muri delle grandi città, da quelli di Roma in particolare. Anche lei attinge dal profondo degli abissi di un mare che si rinnova sempre, che è quello che ogni giorno ci restituisce i messaggi dell’iper-consumo. Ha la fortuna di avere degli amici che sono per lei come pescatori di perle. Ogni due settimane sostituiscono le affissioni pubblicitarie, che invecchiano rapidissimamente, con nuove affissioni. In questo turnover continuo, ritmico come la risacca, nello studio di Eva arrivano in regalo, come per miracolo, le immagini di risulta di questo processo. Queste immagini, quasi sempre volti di donne –
go asso ogni se ne pubbli ria – invecc quasi prima di scere e apparten a personaggi noti o noti. È su questo mate le che Eva lavora, lavora mondo che, ancora di più r ai tempi del Nouveau Réalism vittima dell’impero delle merci. P questi motivi Eva Macali è nella tra ne, anche se di una tradizione sovve tratta. Ma Eva, come si diceva, è che fuori delle trad Quel tanto che è nec
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sario ad ogni nuovo autore per conquistarsi il diritto di essere in un flusso. Una corrente che non sia solo stanca ripetizione. Quel flusso nel quale stanno non i furbetti dell’epigonismo professionale, che abbondano soprattutto nei territori del neo-concettuale, ma gli artisti veri e talentuosi che si fanno in quattro anche solo per aggiungere una virgola alla lunga sequela di capitoli che compongono la storia dell’arte. Ecco di questo impegno Eva è una portatrice sana e giustamente nervosa (ultimamente, senza prenderle mai, porta in borsa le gocce di Valpinax, come Linus la sua coperta). Giustamente nervosa perché non si può non esserlo, oggi molto più di ieri, in un mondo che si è incarognito, banalizzato, volgarizzato e che rischia di andare in fumo, non solo per i danni all’ecosistema ma per la perdita di senso complessiva prodotta da un trionfante ultracapitalismo sive natura, naturalizzato come il Dio di Spinoza, che tutto brucia, senza fare prigionieri e spargendo sale come su Cartagine sulle province (anche culturali e morali) del suo impero. Ma non è solo l’impegno e l’attenzione al reale che contraddistingue quest’artista produttivamente inquieta. La sua prerogativa, che è anche la cifra più genuina della sua originalità, è quella di restituire uno sguardo agli occhi dei suoi volti, dei suoi faccioni più o meno grandi. Faccioni, dissotterrati dal cimitero della pubblicità che dopo essere morti due volte (la prima per essere sostanza di un processo di reificazione, la seconda per la rapida consunzione che li ha ghermiti), ritornano a vivere ritrovando uno sguardo sugli altri, sull’altro. Come quelli di Lévinas, questi volti di donna tornano a vivere ribaltando, come dice l’autrice, “la relazione gerarchica fra chi guarda e chi è guardato”. Un morto che riprende a vivere, come Lazzaro, compiendo quel “misfatto” che avrebbe fatto impazzire di gioia Pasolini: usare i simulacri del
consumo contro la società del consumo! Che i faccioni di Macali siano tutti femminili non è un caso naturalmente. Prima di tutto perché è la bellezza e l’avvenenza femminile, più di ogni altra cosa, ad essere fatta oggetto dalla pubblicità che conosce da decenni la sua produttività, la sua efficacia nel farsi tramite del messaggio commerciale. E, in secondo luogo, perché l’operazione dell’artista vuole fortemente radicarsi nel solco di un femminismo che non trova ristoro e soddisfazione nelle autostrade elettroniche del cyberspazio (Virilio). Che non si limita a semplici e tardive declamazioni, ma della condizione della donna studia le influenze del patriarcato residuale e quelle del capitale. Ma poi c’è un dato che mi preme sottolineare: il popolo dei volti di Eva riempie un universo che mi piace, che soddisfa le mie esigenze estetiche, che mette d’accordo idea e manufatto. In questo c’è un equilibrio fra nuovo e vecchio. Perché nella ricerca del nuovo, si parva licet, viene ricondotta tutta quell’attenzione che fu dei grandi, quelli già citati e tanti altri, per quei canoni che, se pur nelle fughe più avventurose in avanti, hanno a che vedere con quello che di noi c’è di più profondo e antico. I faccioni di Eva Macali sono nella tradizione ma anche fuori della tradizione, si diceva. Realizzati da quella che potremmo definire una energica gazzella del post-pop, e che è anti-pop com’è naturale per un’artista che ha a che vedere con una cultura mediterranea. Una cultura che da millenni, piuttosto che dare risposte, preferisce farsi domande. Le stesse che nascono dalle traiettorie degli sguardi dei faccioni che oggi si incrociano al Centro Di Sarro. In ogni sguardo c’è una domanda. E in quella domanda è riposto il senso più profondo della vita.
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PiÚ che vedere il quadro, io vedo secondo il quadro Maurice Merleau-Ponty L’occhio e lo spirito
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L A M AT E R I A L I Z Z A Z I O N E DELLO SGUARDO
In apparenza i volti delle pubblicità sono pensati per essere oggetto di sguardi. Ma qui avviene un ribaltamento. I faccioni di Eva sono volti vedenti e il loro sguardo è materializzato. Sguardi come vettori, indici che dipartono dagli occhi verso il mondo mentre anche il mondo li colpisce. I faccioni sono qui per interrogarci su cosa sia la visione: vediamo ciò che possiamo guardare tramite il movimento degli occhi, tramite uno strumento del corpo che possiede un proprio spazio, una propria direzione. Uno strumento non neutro: una scelta di voler guardare e di essere guardati. Con i faccioni abbiamo davanti a noi “tracciati visibili” in cui ogni altro sguardo ritrova “i motivi che sostengono la sua ispezione del mondo” (Merleau-Ponty). Volti che si sono liberati della loro finta capacità di somigliare o di replicare e che invece si assumono la responsabilità di essere non più “immagini di” qualcosa, ma iniziano davvero ad essere qualcosa. Ci mostrano che nella visione esterna tutto appare omogeneo, ma « la nature est à l’intérieur » (Cezanne). E la forza di queste figure sta nel rompere il limite e riuscire a portare l’interno all’esterno.
Come funzioni la visione, quale sia la sua posta in gioco, il pittore o l’artista lo comprendono attraverso l’esercizio, attraverso la la messa in opera visiva. Come fanno le ombre, i colori, le linee di un’immagine a dire ciò che dicono? È il visibile che possiede i mezzi per dare senso ad un’immagine. I volti dei faccioni sono segnati dagli sguardi, percorsi da tracce, indici, vettori in grado di raccontare il loro impatto con il mondo ben al di là di ciò che normalmente è visibile.
Interrogati, sono qui a rivelare quali siano i “mezzi visibili” che danno vita ad un volto. Ci fanno “vedere il visibile”. Questi volti guardano e ci indicano il modo in cui una figura è in grado di guardare, cercando, per astrazione e sottrazione, di raccontare più cose di quelle che normalmente vediamo. te
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Katie Hornstein
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C E C I N ’ E S T PA S U N E P U B L I C I T É
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Nell’ambito mass mediale il linguaggio pubblicitario fa riferimento a una propria grammatica e a degli stili facilmente riconoscibili. Si tratta di messaggi, più propriamente di contenuti che hanno valenze funzionali specifiche, facilmente riconoscibili da un utente medio. La pubblicità serve per vendere, un prodotto, un servizio, o un desiderio che ammanta il prodotto o il servizio di una ulteriore valorizzazione. In modo tale che il gioco dei rimandi di significato a volte fa perdere il punto di vista originario. Ci ricordiamo la pubblicità, l’atmosfera che determina e ci dimentichiamo il prodotto che veicola. La sua primaria funzione viene talvolta offuscata dal sogno che produce. Il lavoro di Eva Macali pone in risalto proprio queste stratificazioni di senso dei manifesti pubblicitari, andando a stravolgerne il significato originario. Cosa resta della pubblicità-senza pubblicità? La negazione dello sguardo sognante della pubblicità lascia il posto a nuove direzioni, ampie ma puntuali in alcuni casi, completamente aperte e sconfinate in altri. In antitesi con le regole tipiche del linguaggio pubblicitario, i faccioni non ci indicano infatti precisi percorsi di significato. Piuttosto scardinano i messaggi precedenti. Pur continuando ad utilizzare la stessa materia testuale, creano delle destabilizzazioni di senso che conducono il fruitore verso nuove direzioni, nuove domande, ragionamenti critici, opposizioni, contraddizioni, altri sguardi. Come se si fosse in presenza di uno
specchio capace di rivelare l’altrove di quei messaggi pubblicitari che a livello manifesto appaiono spesso banali e prevedibili. Ma come può configurarsi questo “altrove”? I Faccioni propongono a noi di riempire questi vuoti di senso. Di inserire lo sguardo entro quei coni di luce, per orientarlo e osservare nuovi punti di vista. O per entrare da quelle fessure, per riguardare quei volti e immaginare altre narrazioni, altre storie – quelle che la pubblicità non aveva raccontato. Un gioco multi-prospettico nel quale è proprio l’osservatore a fare da guida, spostando il proprio occhio e cogliendo l’occasione di quei vuoti per poter anche muoversi – al contrario del clamore voluto dalla pubblicità – in uno spazio di silenzio, di assenza, di riservatezza.
Eppure il resto dei volti produce ancora ammiccamento: tracce di quel discorso così noto e festoso creano discrepanza cognitiva con tutto il resto. Si tratta di rimandi, rinvii a mondi possibili determinati dalla pubblicità, mondi senza tempo che difficilmente riusciamo a collocare entro quadri spazio-temporali definiti. Alcuni Faccioni ricordano pubblicità classiche, quasi datate, o forse senza tempo. Le valenze simboliche tipiche della pubblicità entrano in contrasto con la percezione dell’assenza, della privazione, della necessità di determinare un nuovo significato. Uno sforzo che viene dunque richiesto a chi osserva queste opere che pongono in essere la simulazione di un dinamismo,
Lella Mascio
basato sullo scambio con il proprio fruitore: ciò che richiedono per vibrare è soprattutto la partecipazione a un contratto. Si tratta in fondo di volti deturpati nello sguardo, a cui uno sguardo si vuole restituire. E la costruzione del senso non può che realizzarsi proprio nell’incontro tra chi è guardato (l’opera) e chi guarda (il suo pubblico).
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CUT OUT / WORKING IT
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Chi sono queste donne? A chi appartengono questi faccioni? Una certa inerzia passiva caratterizza di norma il nostro stare in relazione con l’esposizione del corpo femminile dei cartelloni pubblicitari. I nostri occhi si depositano sulle immagini che popolano lo spazio costruito; raramente ci si chiede a chi appartenga il volto femminile che sembra riprodursi in diverse e infinite forme. È un solo viso o tanti diversi volti? Un faccione o mille faccioni? L’inerzia ci condiziona. Non ci interroghiamo, non seguiamo le tracce del vivente presenti in questi faccioni. Nei casi in cui riconosciamo i volti - dunque i visi di persone note - ciò che vediamo è la loro circolazione nel nostro immaginario collettivo più che un riconoscimento del loro percorso vissuto, di quello che la filosofa Adriana Cavarero, seguendo Hannah Arendt, definirebbe l’unicità del loro essere in quanto singoli. Non cos’è qualcuno ma chi e qualcuno. Davanti al propagarsi delle immagini del volto nelle città ci assentiamo, rimaniamo nelle nostre posizioni assegnate, come pedoni, autisti o spettatori; allo stesso modo anche i faccioni rimangono nella loro posizione, nel loro ruolo/
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funzione: immagini commerciali che valgono come dispositivi visuali che offrono, o accompagnano, qualcosa da vendere. Forse la domanda “chi?” potrebbe apparire ottusa considerando ciò che sappiamo sulle modalità di circolazione dell’immagine femminile (in Italia e altrove). I faccioni testimoniano il naufragio di ogni tentativo di collocazione ordinata delle immagini e di identificazione delle tracce di singolarità appartenenti a coloro che sono rappresentate. La selezione dei volti non segue una logica organizzativa ma costituisce un mélange eclettico. Gli occhi, tradizionale sito semiotico dell’unicità, sono in parte tolti. L’opera non si interessa a recuperare l’unicità dei volti, non critica o denuncia l’anonimia dei faccioni, ma al contrario esplora il modo in cui tali volti si aprono allo spazio della parete che li ospita. Tutt’altro che una violenza, il taglio dell’artista si configura come un lavoro giocoso interessato ad aprire il volto ad altre spazialità. Le linee-taglio che si estendono dagli occhi—o che agli occhi arrivano dall’esterno—permeano i volti di una tensione visiva che carica gli spazi circostanti. Nelle spazialità aperte è presente una precisa linearità, spesso in contrasto con la torsione curvilinea di alcuni sorrisi e la posa più rilassata di altri. Ad animare questa tensione è la congiuntura di due forme di lavoro, come se l’artista volesse portare in primo piano il “lavoro affettivo” che scaturisce dalla nostra visione del faccione e dalla donna che si lascia osservare nell’immagine. È l’inerzia che ostacola la percezione/comprensione di tale lavoro, presente sia nell’atto di essere fotografati che nella circolazione dei faccioni nello spazio costruito. Grazie alle linee originate dal tipo di taglio utilizzato (vettori che hanno la loro origine sia all’esterno che all’interno dell’immagine) - i faccioni interrompono l’inerzia ed emergono cosi le tracce del lavoro affettivo che rimane di norma una presenza immateriale nei volti che circondano i nostri percorsi all’interno dello spazio urbano. 13
A L B U M D E I FA C C I O N I Realizzato in occasione della mostra di Eva Macali Faccioni al Centro Luigi Di Sarro a Roma, dal 16 giugno al 9 luglio 2016, a cura di Roberto Gramiccia. Album realizzato da Eva Macali, Giovanni Gigante e Fratelli Walter. Testi di Roberto Gramiccia, Katie Hornstein, Lella Mascio, Lucio Spaziante, Jonathan Mullins. Produzione: David Lewis. Stampato da Cartolinea MAF a Salerno.
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Elenco delle immagini: pag.6 locandina del film Faccione, di Christian De Sica, pag.6 “I’m a contemporary painter”, immagine da Manifesta 11 diffusa su Instagram, pag.11 altare di Massimo Petrucci, pag.12 faccione di Donald Trump diffuso su Twitter, pag.13 fermo immagine dal film Faccione, di Christian De Sica, pag.15 immagine da affissione della Galleria Commerciale Porta di Roma, campagna di marzo 2016.
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