Poesia e Conoscenza Numero 1 - Anno 2015

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Poesia e Conoscenza Rivista di testimonianza e di ricerca Anno I - Numero 1


POESIA E CONOSCENZA Rivista di testimonianza e di ricerca Anno I – Numero 1 – Giugno 2015 DIRETTORE Donatella Bisutti COLLABORAZIONE ARTISTICA Stefania Scarnati, Luciano Ragozzino, Mando Touraine, Silvia Venuti RESIDENZA DI SCRITTURA Carlo Severgnini PROGETTO GRAFICO Donatella Bisutti REALIZZAZIONE GRAFICA Dario Francesco Pericolosi

In copertina “Poesia e Conoscenza” (china e foglio d’oro su carta) di Stefania Scarnati. Pubblicato su gentile concessione dell’artista. I capolettera sono di Luciano Ragozzino. Le foto degli eventi sono di Silvia Venuti.


Poesia e Conoscenza

Rivista di testimonianza e di ricerca per i valori spirituali e civili


DIRETTORE RESPONSABILE Donatella Bisutti PERIODICITĂ€ Semestrale REDAZIONE via Anelli 8, 20122 Milano e-mail: rivista@poesiaeconoscenza.it REGISTRAZIONE Tribunale di Milano n.406 del 19 dicembre 2014 RIVISTA ONLINE Sito internet: http://www.poesiaeconoscenza.it Facebook: https://www.facebook.com/RivistaPoesiaeConoscenza

Si collabora alla rivista solo su invito. I manoscritti non si restituiscono. Non si ricevono libri per recensioni.


SOMMARIO

Editoriale

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Dibattito 11 in collaborazione con la Fondazione Mazzucconi La Leggerezza – Introduzione di Donatella Bisutti Interventi di Paolo Lagazzi, Vittorio Mazzucconi, Giulia Niccolai, Elio Pecora Contributi

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Mando Touraine – Alghe nello stagno delle rane Paola Di Prima – Foro di luce con piume di pavone Carlo Vita – Angoli (s)conosciuti di una città Alberto Casiraghi – Aforismi sulla Leggerezza Mehmed Yashin – Il dio del vento Sandro Boccardi – Alle quattro e venti del mattino

Testimonianze 43 Testimonianza dalla Libia Ashur Etwebi – Non restare sulla porta con il vento alle spalle… Carmen Togni – 1978-2013 Ricordo di Aldo Moro Elio Pecora – Poesia Otto Rene Castillo – Una voce dal Guatemala- Intellettuali apolitici

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Il Poeta Ospite

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Mark Strand – Diario reale e Diario immaginario Traduzioni di Massimo Bacigalupo

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Mark Strand-Massimo Bacigalupo Spiritualità, inconscio, religiosità nella poesia americana di oggi

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Ricordo di Maria Luisa Spaziani Donatella Bisutti – Il settimo sigillo Silvio Raffo – La musa lirica Donatella Bisutti – Una meditazione sulla morte

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I Poeti

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Maria Grazia Calandrone – Poesie Maura Del Serra – Poesie Vivian Lamarque – Una poesia

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Arte Oggi Pierangelo Sequeri – La Bellezza è da salvare? Pierangelo Tronconi – La Forma & il Contenuto Luisella Carretta – Incontro con la Sibilla Cumana

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Poeti in Ombra Adelelmo Ruggieri – Tre foto nella neve di febbraio e altre poesie

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DOSSIER – Elena Bono-Un caso letterario Scheda a cura di Stefania Venturino Stefania Segatori – Elena Bono, la poetessa pro-vocata alla parola Scheda anticipazioni editoriali a cura di Stefania Segatori Poesie da Invito a Palazzo – Introduzione di Viviane Ciampi Intervista a Elio Gioanola a cura di Viviane Ciampi Un film su Elena Bono – Incontro con Gabriella Bairo Elena Bono – Tempo di Dio Testimonianze: Viviane Ciampi-Rosa Elisa Giangoia-Elvira Landò

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Testi a Fronte

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Christine Lavant – Poesie Traduzione di Anna Ruchat Anna Ruchat – Porta via l’ombra del mio angelo

181

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Mirkka Rekola – Sopra il limite delle nevi Traduzione di Elina Suomela Jouni Inkala – Poesie Traduzione di Antonio Parente

207 215

DOSSIER – Elena Salibra Elena Salibra – Traduzioni di Franziska Raimund da Nordiche Massimo Bacigalupo – Voce, metro ed esperienza in Elena Salibra Maurizio Cucchi – Ricordo Franziska Raimund – Per Elena

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Scoprire un Poeta

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Nicola Sguera – Poesie 266

Poesia Mistica

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Maria Rosa Panté – Poesie per S.Teresa d’Avila e altre poesie

Hanno collaborato

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DITORIALE

Questo è il primo numero della rivista Poesia e Conoscenza per un mondo nuovo, che è l’ideale continuazione online della rivista cartacea da me fondata nel 2008 con il titolo Poesia e Spiritualità. Una rivista di cui sono usciti solo cinque numeri, ma che sono stati sufficienti a riservarle uno spazio nella memoria di molti, per la sua particolare impostazione e il suo rigore, anche se ormai da tempo non esce. Purtroppo, infatti, non è stato possibile trovare una soluzione editoriale per garantirne la continuità nella versione cartacea. D’altra parte mi sono convinta che un’edizione online può essere la soluzione migliore per avere visibilità, superando gli ostacoli della distribuzione. L’intenzione è comunque quella di integrare l’edizione online con alcune copie cartacee da inviare a biblioteche, università e istituzioni culturali, in modo che la rivista continui ad avere anche una sua presenza tangibile, che rimanga come traccia nel tempo. In occasione di questo passaggio dal cartaceo al web, e data la lunga pausa intercorsa, ho deciso di modificare il titolo in Poesia e Conoscenza. Infatti molte cose sono accadute nel frattempo, gravi e preoccupanti, molti cambiamenti sono sopravvenuti nella nostra vita collettiva e hanno indotto tutti, credo, a riflettere e a riesaminare le proprie convinzioni, sia per approfondirle sia per modificarle. Questo nuovo titolo vuole essere un segnale che, tenendo conto della complessa e spesso frustrante condizione esistenziale che stiamo vivendo, indichi un ampliamento per quanto riguarda i contenuti e una modifica nella prospettiva. Poesia e Conoscenza è erede di Poesia e Spiritualità, ma è anche una rivista nuova, quindi. Certo, la spiritualità rimane al centro e continuerà ad essere una linea guida, un asse portante. “Spiritualità” intesa, come fu scritto già nel primo numero di Poesia e Spiritualità, non come dimensione strettamente religiosa, ma come valore anche laico, secondo la citazione che fu messa allora in quarta di copertina del filosofo francese André Comte-Sponville, in cui si parlava di una spiritualità “atea”. Tuttavia mi pare che oggi un titolo come Poesia e Spiritualità possa dare l’idea di un recinto, sia pure eccelso, in cui ci si vuole rinchiudere per non affrontare i temi più immediati che ci assillano, una specie di ritiro dal mondo, sia pure in nome di massimi valori. La conoscenza ingloba ovviamente la spiritualità, che è una forma di conoscenza, forse la più alta, ma è un concetto (se così si può dire) meno “verticale” della spiritualità: può dilatarsi in un senso che vorrei chiamare “orizzontale”. Non che l’idea sia quella di fare una rivista impegnata su temi di attualità sociale, economica e politica (esistono già abbastanza riviste specializzate al riguardo). Così come esistono già abbastanza riviste di poesia, emanazione di diverse tendenze, perché si senta il bisogno di un’altra. E Poesia e Conoscenza, così come già Poesia e Spiritualità, – mi preme sottolinearlo per evitare possibili equivoci – non sarà una vetrina di testi poetici e uno spazio per recensioni. La poesia continuerà, invece, a essere 8


considerata un referente, una specie di stella polare, un valore guida a cui confrontare tutti gli altri, e insieme l’unica voce capace di esprimere l’inesprimibile quando tutte le altre vengono meno. Non sarà facile trovare una formula che tenga conto di tutte queste cose e si muova alla ricerca del luogo, dei luoghi, dove l’orizzontale s’interseca con la verticalità: si tratta forse di un azzardo, ma preferirei dire una sfida, che spero di vincere con l’aiuto di tutti i collaboratori e dei lettori. Credo, infatti, che proporre e sollecitare una ricerca in tal senso sia proprio il compito che oggi dobbiamo porci. Quello che Poesia e Conoscenza intende porsi. Ci sforzeremo di farlo, quindi, stimolando non solo artisti, ma anche studiosi delle più diverse discipline (come abbiamo già fatto in passato) a sondare quelle che spesso ci appaiono fessurazioni, se non addirittura buchi neri, in cerca di nuovi centri di energia che ci ridiano quella speranza di cui abbiamo bisogno per costruire una nuova spiritualità immanente, che tenga conto non solo dell’Eterno possibile, ma anche, se non soprattutto, dell’uomo nella Storia. Una nuova spiritualità non solo individuale, ma sociale? Collettiva? Il Mito dell’Uomo Nuovo, che l’umanità insegue da secoli, non ha perso la sua attualità, anzi ha oggi una sua attualità sempre più drammaticamente, concretamente presente. Cercare quindi luoghi in cui le aspirazioni delle grandi ideologie del Novecento, socialiste e marxiste, e risalendo il corso della Storia delle grandi utopie del Seicento e, ancora prima, delle grandi utopie medievali, delle grandi utopie dei filosofi antichi – per restare nell’area culturale dell’Occidente – possano confluire, fondersi, “intersecarsi” con l’alta, millenaria tradizione di una spiritualità ispirata alla trascendenza e fecondarsi a vicenda. Niente di nuovo, si dirà, ripensando alle vicende del secondo Novecento, al cattolicesimo di sinistra, alla drammatica vicenda, in Italia, della prigionia e della morte di Moro. La novità sta nel fatto che quelle che sembravano solo utopie di pochi, o pericolose derive, oggi appaiono scelte indispensabili alla nostra sopravvivenza e alla sopravvivenza del pianeta. E che si può tentare di evitare gli errori del passato facendo leva sulla convinzione che se si vuole salvare la Terra, e l’uomo nel mondo, in un momento di grave crisi in cui un intero sistema minaccia di affondare, è indispensabile cambiare le coscienze. Non dal manovrare le masse, come ha fatto il secolo che abbiamo alle spalle, ma dall’attenzione e dall’interazione dei singoli può, infatti, venire la salvezza. E la poesia deve uscire dai recinti letterari per dialogare con il mondo e contribuire a cambiare le coscienze. Questo non vuole dire necessariamente avere una tematica impegnata, vuole dire solo non considerare se stessa un semplice gioco letterario, un esercizio stilistico per pochi eletti. Ricordarsi che nel Novecento sono stati i poeti (in Russia, in Grecia, in Francia, in America latina e in molti altri luoghi) ad esprimere i grandi temi esistenziali collettivi e al tempo stesso l’intimità più profonda del cuore dell’uomo. È stata la poesia ad esprimere meglio di ogni altra cosa i grandi valori, primo fra tutti quello della libertà. Cercare di dare spazio a quest’idea di poesia, dare un sia pur piccolissimo apporto a una ricerca che appare oggi così impellente, è il compito e lo scopo che si propone dunque Poesia e Conoscenza per un mondo nuovo: ambizioso, si dirà, ma in realtà umile, in un atteggiamento che vuole essere di servizio, con il contributo di tutti.

Donatella Bisutti

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IBATTITO

LA LEGGEREZZA

In collaborazione con la Fondazione Mazzucconi

Da sinistra: Vittorio Mazzucconi, Donatella Bisutti, Giulia Niccolai, Elio Pecora, Paolo Lagazzi Foto di Silvia Venuti

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Vittorio Mazzucconi con Donatella Bisutti Foto di Silvia Venuti

Il Dibattito di questo numero è stato gentilmente ospitato dalla Fondazione Mazzucconi nella sua sede di via Andrea Ponti 1 a Milano. La Fondazione Mazzucconi è stata costituita nel 1996 con un prevalente interesse per l’arte e per una ricerca spirituale, che vede il “cammino interiore” come il vero percorso dell’uomo e dell’arte. In questo cammino, si è molto lontani dal mercato, dalle mode, dalle ideologie, dal design ludico, che producono gran parte dell’arte attuale. Come ha scritto Riccardo Barletta, nel “disfrenamento libidico del nostro tempo, l’opera di Vittorio Mazzucconi costituisce da decenni un argine morale e culturale”. Quest’opera si è espressa nella pittura, in alcuni libri, nell’architettura e nello studio della città, nei seminari, portando in tutti questi campi uno spirito di meditazione, di ricerca del divino nel centro del nostro essere. La Fondazione ne porta quindi avanti l’impegno al servizio dell’arte, della città, della società e, in particolare, della formazione dei giovani. Il tema della leggerezza ha molte implicazioni in un’epoca, la nostra, che di leggerezza è davvero carente ed è invece connotata dalla pesantezza e dalla superficialità. La superficialità, come dice l’etimologia, si situa rasoterra. La leggerezza, invece, si libra nell’aria: il viaggio che compie è già un viaggio cosmico. Poche cose sono più profonde di una leggerezza rettamente intesa. “Essere leggeri!”, raccomandava già Livia Candiani introducendo i poeti buddisti nel numero 5 di Poesia e Spiritualità e citando la raccomandazione di Paul Valery: “Leggero come un uccello / non come una piuma”. Dai vari contributi si arguisce che la leggerezza va in direzione della bellezza. Leggerezza e bellezza sono nozioni che dovrebbero sempre coniugarsi nella nostra interiorità. Ma non possiamo proporci di assumere puramente e semplicemente l’antica coincidenza platonica di bello e di buono. E su questo argomento si potrà dibattere.

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PAOLO LAGAZZI LA PESANTEZZA E LA GRAZIA

Cosa si può dire, oggi, intorno alla leggerezza? Come non vedere che il nostro mondo è inflazionato da infinite manifestazioni di leggerezza che si potrebbero meglio definire forme di frivolezza, fatuità o banalità, riverberi d’irresponsabilità, di superfluità up-to-date? Per chi non si sia ancora arreso alle lusinghe del “pensiero unico”, è evidente come queste espressioni del capriccio, dell’insulsaggine elevata a regola aurea di vita siano, in realtà, forme di pesantezza, di una pesantezza più o meno abilmente truccata o travestita, comunque greve come sono tutti gli stereotipi quando diventano partito preso, catechismo mediatico, passaparola giovanilistico, ideologia strisciante, trionfo di giostre rotanti attorno a vessilli posticci. Se può essere ancora utile cercare nella radice delle parole il seme del loro senso, vorrei ricordare come l’etimologia di leggerezza rimandi, attraverso il francese legier, al latino levis che può avere dei significati in qualche modo positivi, come “veloce”, ma anche intrinsecamente negativi, come “debole”, “incostante” o “falso”. Una sorta di radicale ambiguità, una specie di vacillante fragilità delle prospettive è dunque connaturata al concetto stesso di leggerezza, e ciò significa che forme di vacuità come quelle che ho appena evocato non sono certo specifiche del mondo contemporaneo. Ma forse mai come oggi l’irrealtà dominante attraverso i media, e il loro moltiplicare all’infinito, come in un vertiginoso labirinto di Borges, i riflessi d’immagini che rimandano ad altre immagini prodotte a loro volta da immagini concepite da chissà quali registi, ha creato e sta sempre più creando quello che è stato definito un mondo “liquido”, entro cui è ogni giorno più arduo opporre argini di verità ai vortici travolgenti, psicotici dell’irrilevanza, del superfluo e del nonsense. L’esperienza attuale della leggerezza, però, non è solo questa. Per fortuna c’è ancora chi sente il bisogno di una leggerezza diversa, cioè di orizzonti nutriti di freschezza intima, capaci di dare ali all’anima, di riaprirla alla grande danza della poesia, al mistero della bellezza, alla luce dell’altrove liberandola dall’assedio dei luoghi comuni, dalla gabbia luccicante del cinismo frivolo e bolso. Quanti spazi, quanti sentieri nascosti, quanti regni invisibili ai più si aprono ancora a chi sa quali tesori di leggerezza siano custoditi in quell’immensa, sterminata foresta che è la letteratura! Inneggiando alla leggerezza Italo Calvino non ha forse, anzitutto, cercato di ricordarci proprio questo: le alternative di bellezza, di magia e seduzione che la grande letteratura può offrire alla nostra stanchezza, alle sabbie mobili della superficialità, al peso del nostro disincanto? Quali aerostati, quali mongolfiere, quali nuvole estive hanno mai raggiunto la forza ascensionale di certe pagine dell’Ariosto, di Shakespeare o del Barone di Münchhausen? E accanto agli scrittori, quanti musicisti e pittori – da Mozart a Debussy, da Monteverdi ai Beatles, da Watteau a Monet, da Klee a Matisse – non si sono cimentati in quel gioco alchemico che consiste nel togliere peso al mondo per restituirlo più vero, terso e radioso, come rinnovato da un tocco di rugiada lunare? La ricerca della leggerezza, tuttavia, non è mai semplice neppure per coloro che ne sono innamorati, poiché nemmeno la letteratura, l’arte e la musica più ricche di potere magnetico, di forza levitante e stellare possono liberarci una volta per sempre dai pesi annidati non solo 13


nella realtà attorno a noi ma anche dentro di noi, nella parte dura, egocentrica e isterica della nostra anima. Una delle scrittrici più consapevoli del secolo scorso, Simone Weil, ci ha insegnato a capire che solo affrancandoci dalla morsa esasperata dei desideri, cioè dalle zavorre del nostro ego infantile – quell’ego che ci precipita sempre, di nuovo, nella logica consumistica, ansiosa del possesso – riusciamo a trovare l’autentica leggerezza. Ma il cammino ascetico che le opere e la stessa esistenza della Weil ci additano non è privo di rischi ideologici: invitandoci a sciogliere il peso delle illusioni fino, per così dire, a disincarnarci, un cammino simile può farci perdere di vista quella che è la nostra condizione di uomini e non di angeli, una condizione a metà tra la carne e i sogni, la terra e il cielo, la realtà e l’altrove. La scommessa cruciale per noi non è, io credo, quella di liberarci del corpo diventando puri spiriti, ma quella di riuscire a essere leggeri senza rinunciare né ai frutti della terra né ai doni della fantasia, né alla fragilità della nostra carne né al tremore dei nostri sogni. Ecco perché mi commuovono tutti quegli autori per i quali la leggerezza non è mai una meta agevole ma un fiore raro, raggiungibile solo attraverso passi da funambolo, in bilico tra i richiami rischiosi delle sirene e i soffi impalpabili dell’anima del mondo. L’aspetto che più mi affascina della leggerezza è la sua natura inclassificabile: ogni autentica forma di leggerezza si sottrae ai concetti, alle idee e alle bilance, perfino a quelle di precisione. Forse bisognerebbe dire che “leggerezza” è un altro nome per quella realtà numinosa, epifanica – sfuggente come gli angeli di Correggio o di Rilke – che non solo Simone Weil, ma molti teologi, filosofi e studiosi di pittura, dai greci ai padri della Chiesa, dagli uomini del Rinascimento ai romantici a Bergson, hanno chiamato “grazia”? Nemmeno questa domanda tollera risposte semplici, perché neppure la grazia è qualcosa di definibile una volta per tutte. La sola cosa che si può dire è forse questa: sebbene in grado di assumere volti assai diversi, cangianti come i riflessi di luce sull’acqua nel corso delle ore e delle stagioni, c’è sempre al fondo della leggerezza – della vera leggerezza, non di quella contrabbandata come tale dalla cultura dell’apparire – qualcosa che ci nutre e rinnova, anche quando filtri attraverso le esperienze più dolorose e amare. Una parte molto speciale, nella parabola troppo rapida dei miei anni in bilico fra gravità e leggerezza, hanno sempre avuto i poeti. Guidato da uno dei più grandi conoscitori dei segreti della poesia mai esistiti, Gaston Bachelard, per un’infinità di giorni e notti ho sfogliato pagine di poeti antichi e moderni assaporandone il soffio intimo, quel quid indefinibile che circola tra i loro versi increspandoli, suscitando dai loro ritmi qualcosa di molto simile a quelle “cose leggere e vaganti” di cui parla Umberto Saba in Ritratto della mia bambina. Certo non amo i poeti solo per la loro leggerezza: il loro pathos tragico mi affascina altrettanto (forse non sento “necessario” nessun altro poeta come Dante). Ma ciò che m’innamora è la loro capacità d’imprimere svolte inattese al dolore, di far fluttuare anche la morte fra la terra e il cielo, di trarre stille di grazia perfino dall’orrore (penso in particolare alle meravigliose liriche concepite da Ungaretti in trincea). Non è possibile intendere la leggerezza separata dalla pesantezza: come due facce della stessa medaglia, esse si richiamano e si respingono, dialogano e si sfuggono, si alternano e s’incontrano in un’altalena che è la stessa – pendolare, cardiaca – dell’universo. Come ci insegna la teoria dei quanti, molto di ciò che intendiamo per realtà dipende dalla posizione da cui la osserviamo. Questo vale anche per l’alternativa fra leggerezza e pesantezza. Ancora prima che un “contenuto” o una “forma”, la leggerezza è una piega dello sguardo, un modo di osservare. La magia fondamentale della poesia, della musica e dell’arte è di ridare leggerezza al nostro sguardo gonfio, affaticato, appesantito, incredulo: d’improvviso, attraverso certe parole, note o tinte, le realtà che ci parevano più grevi riacquistano il potere di alzarsi in volo 14


come l’aquilone che, in un haiku del grande Kobayashi Issa, fiorisce dal cuore della più profonda povertà: Bello l’aquilone – si leva dalla capanna del mendicante.

Nel suo libro autobiografico La notte sarà calma, Romain Gary afferma che la sola cosa che potrebbe rivoluzionare davvero il mondo sarebbe una sua conversione al femminile, alla femminilità. Ma parlando di leggerezza “al femminile” è indispensabile, io credo, la più grande cautela perché nulla più dell’universo femminile sfida sia la rigidezza di quello che Derrida ha chiamato il “logocentrismo” (di marca essenzialmente maschile) sia tutte le ideologie femministe. Cosa significa essere donne dal punto di vista letterario? Forse avere un rapporto più diretto, più naturale con l’Anima nel senso di Jung? C’è uno “specifico” femminile della scrittura, o l’idea stessa di cercarlo sarebbe un’ennesima forma di pesantezza, una forzatura, una trappola? Almeno questo si può dire per non eludere del tutto una domanda così spesso ripetuta ma, allo stesso tempo, per non concederle troppo credito: che storicamente l’esercizio della scrittura da parte delle donne ha dovuto quasi sempre scontare un prezzo, un impaccio, una difficoltà in più. Forse proprio da quest’attrito nasce quella sete di leggerezza che dà ali a tante pagine, a tante immagini femminili, ma ciò che conta è cogliere l’infinita varietà delle forme in cui questa sete si è espressa. Nel mio libro Forme della leggerezza ho evocato la capacità della Szymborska di pensare in versi senza mai, per questo, smarrire una sovrana ariosità contrappuntistica; ho ricordato la forza elastica, dionisiaca, danzante del mondo amazzonico testimoniato da Marcia Theophilo; ho raccontato in breve l’incontro di Giulia Niccolai col buddhismo; ho elogiato Fernanda Romagnoli per il suo spirito da impavida avventuriera dell’assoluto; ho descritto lo humour mercuriale, bizzarro e incontenibile di un romanzo di Tiziana Fumagalli dedicato ad un immaginario zio di Mozart; ho percorso gli haiku aspri e puntuti, ma rapinosi e acrobatici come una serie di esercizi al trapezio, di Rosalia Zabelli; ho tentato un breve ritratto di Daniela Tomerini e dei suoi racconti, testi ricchi di una speranza coltivata in forme umilissime, con la freschezza capricciosa e innocente dei piccoli gesti, dei piccoli doni. Ma avrei potuto toccare molte altre opere e pagine, dalla poesia numero 657 di Emily Dickinson su cosa significa vivere “nella Possibilità” – niente meno che avere “per Tetto Perenne / La Volta de Cielo” – alla Spaziani in grado di vedere “l’immensa piuma d’angelo / che sorregge la torre di Pisa”, dai versi di Gabriella Sica tesi a salvare la forza di fuga della fantasia attraverso il bruciore delle lacrime fino alla Bisutti, capace di spiegare la poesia ai bambini con la felicità candida e maliziosa di un prestigiatore ammantato d’argento.

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VITTORIO MAZZUCCONI LEGGEREZZA E PESANTEZZA

Quando mi è stato chiesto di ospitare una Tavola Rotonda sulla leggerezza e di partecipare al dibattito ho esitato prima di accettare perché i seminari che tengo nella mia Fondazione sembrano piuttosto ispirati ad una “pesantezza”, nel senso di investire problematiche di un certo “peso”, quali il destino dell’uomo, la conoscenza di sé, la ricerca di una nuova spiritualità. Ho infine accettato pensando che un po’ di distrazione avrebbe appunto alleggerito questo impegno e che non avrebbe magari guastato neppure un po’ d’ironia, il non prendersi troppo sul serio. Ho cominciato ad associare quindi la leggerezza a quest’approccio, ma la mia distrazione non è durata a lungo perché mi sono chiesto non solo cos’è la leggerezza, ma anche cos’è la pesantezza. L’una ci distrae, ci allieta, ma ci può anche sollevare a ciò che è più elevato. L’altra ci lega a ciò che è in basso, legato al suolo, oltre a trattenerci nell’attaccamento, nell’oscurità. È quindi come una forza di gravità, da cui invece la leggerezza cerca di liberarci. L’innamoramento, la poesia, la musica, ci invitano alla gioia, alla luce, tanto quanto la pesantezza porta spesso con sé il dolore, la chiusura in se stessi, un’oscurità interiore. Dobbiamo quindi fuggire la pesantezza e cercare di essere il più leggeri possibile? Così facendo, non rischieremmo però di essere inconsistenti, di non fare nulla di serio? Non perderemmo la forza di operare, di costruire? Anche il costruire, per quanto non possa sfuggire alle leggi della statica, tende all’elevazione, e così fanno tutte le azioni umane, che poggiano sulla realtà ma che tendono in tante forme verso il suo superamento. Dovremmo quindi ricercare piuttosto un equilibrio fra il pesante e il leggero, come se rappresentassero la terra e il cielo, il corpo e l’anima, conseguendo in questa ricerca un’armonia. A questo punto, immaginando che gli altri relatori, che sono scrittori e poeti, abbiano approfondito meglio di me la natura della leggerezza, che è propria della parola e soprattutto della parola poetica, non cercherò certo di competere con loro in un campo che non è il mio, ma parlerò invece di questo che, apparentemente, appartiene più alla pesantezza che alla leggerezza: l’architettura. In luogo di aspirare con operosa concordia al divino, noi siamo in preda delle ideologie, della brutalità, della sopraffazione economica. L’atto sacro del costruire è diventato una cementificazione generalizzata, il ritmo dei colonnati dei templi la coazione a ripetere di moduli astratti, la geometria, parente del divino, una gabbia, una prigione. Si dirà che, guardando alle architetture di questa società, vediamo le più spettacolari spinte all’elevazione, con tutti i grattacieli che si costruiscono, ma questo non è certo vero in un senso spirituale: sono le spinte al successo, alla potenza economica, al materialismo al servizio del quale si costruiscono le nuove cattedrali. 16


Edificio 22, Avenue Matignon, Parigi 1975 Un equilibrio che si realizza su diversi piani, non solo fra quello pesante e quello leggero, ma anche fra il pieno e il vuoto, il passato della nostra civiltà e il suo slancio verso il futuro.

Io ho certo ben poco da mostrare che regga il confronto con una tale realtà ma, nel mio breve cammino, ho costruito qualcosa in cui, oltre a farla servire allo scopo pratico per il quale mi era stato richiesto di progettarla, ho potuto esprimere il mio anelito interiore, che è la spinta dell’anima umana ad elevarsi. Ecco quindi la facciata di questo edificio che ho realizzato a Parigi. Pietra su pietra, ne è evidente la costruzione, l’elevazione, ma potete leggere anche il movimento contrario, di qualcosa che scende dall’alto. Sembrano invertiti i termini in cui parlavamo della pesantezza e della leggerezza: il pesante muro in pietra vuol elevarsi, così come la leggera vetrata che lo sovrasta vuole scendere con le sue verticali. Questo doppio movimento raggiunge un equilibrio. Nel progetto di un altro edificio, costruito in cima a una montagna, la sala polivalente di sport che mi era stata richiesta sembra una chiesa, è una chiesa, un tempio come, coscientemente o incoscientemente, lo sono tutte le mie architetture. 17


L’Arca delle Nevi, Lioran (Cantal) 1980 … è anche un equilibrio fra la natura (qui la sommità di un antico vulcano) e l’intervento dell’uomo: non prevaricante, non artificiale, ma che sappia esprimere la muta preghiera con cui la terra tende al cielo.

È anche un’arca, il cui significato misterioso è sempre legato, per me, all’idea di tempio. La sua chiglia punta all’oriente; le due curve, da una parte e dall’altra della chiglia, sono come un gesto di preghiera. Anche un centro commerciale che ho realizzato ad Atene va oltre la sua destinazione per raccontarci lo stesso impulso. Il piccolo tempio che ne fa parte è espresso con una vela. A Firenze, che gode di una universale reputazione di bellezza anche se ha un centro storico fra i più brutti, realizzato negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, ho proposto l’idea di una vera e propria rifondazione della città, in magica risonanza con la nascita originaria dell’antica Florentia, da cui balzo alla visione di un futuro, o di un oggi più coraggioso del presente, in cui dedicare Firenze all’arte e alla cultura, facendo del suo centro un campus universitario aperto ai giovani di tutto il mondo. In questo progetto campeggia il “Fiore”, un edificio la cui copertura è come una grande e concava piazza, che, a ben guardare, è lo stesso vicino Cupolone trasformato. Da bocciolo rovesciato, lo vediamo qui aperto, in piena fioritura. Questo impulso al rovesciamento l’ho provato ed espresso in tanti progetti. Nulla di anarchico o di rivoluzionario, ma solo l’impulso alla fioritura – i fiori non fioriscono, per l’appunto, a testa in giù – all’apertura, alla ricettività in senso spirituale e anche femminile. Ne sono esempio le piramidi rovesciate che ho proposto a Roma per il Palatino o a Milano per Piazza del Duomo. Cosa c’era di più pesante delle antiche piramidi? Non delle architetture aperte, aeree, ma al contrario, dei cumuli di pietre. O qualcosa di più chiuso e tombale? Erano infatti delle tombe. Rovesciandole, in modo che il loro vertice sia in basso e la base in alto, diventano invece un gesto di apertura, un’apertura infinita, come ci 18


auguriamo sia il cammino dello spirito umano. Questo è il mio piccolo contributo al tema della leggerezza che mi avete aiutato a capire come qualcosa non di così leggero come pensavo, ma anzi di connaturato al bisogno più profondo della mia anima. Ma poiché, nel perseguirlo con il mio lavoro, ho dovuto sperimentare e vincere anche la realtà della pesantezza, forse più di quanto possano farlo uno scrittore o un poeta, ho finito col vedere nel loro equilibrio non solo un fatto da cui la realtà non può prescindere, ma un’armonia interiore con cui noi, piccoli uomini, possiamo cercare di porci in consonanza con l’armonia divina.

La nuova Agora, Atene 1987 L’evocazione dell’agorà dell’antica Atene comprende il tempio, che è espresso sia con una immagine riflessa sia con una vela, che copre uno spazio misterioso anche se, in realtà, esso è usato come un centro commerciale.

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GIULIA NICCOLAI LEGGEREZZA E LIBERTÀ

Ho interpretato il tema in chiave personale, perché avevo inteso che così dovesse essere. Me ne scuso, ma ormai è troppo tardi per modificare il mio intervento e quindi parlerò della leggerezza in relazione a me e alla mia scrittura. La mia prima raccolta di poesia, Humpty Dumpty, del 1969, è composta di una trentina di testi concreti o di giochi di parole inglesi che, come già suggerisce il titolo, sono connessi all’Alice di Lewis Carroll. Cosa c’è di più gioioso e leggero, divertente ma anche profondo (in quanto cosparso di trabocchetti linguistici che costringono a ragionare) del Paese delle meraviglie o di Oltre lo specchio di Carroll? Quei libri, riletti da adulta, sono stati per me una rivelazione per la libertà mentale e il senso di allegria che mi hanno trasmesso. Libertà e allegria alle quali ho poi sempre cercato di rimanere fedele nella mia stessa scrittura, volendo comunicare ad altri quelle emozioni positive, quell’umorismo che Carroll era riuscito a regalare a me a piene mani, con spontanea e ininterrotta profusione. Sarà anche il caso che aggiunga che mia madre era americana e che sono cresciuta bilingue, anche perché, quando sono nata, a metà degli anni Trenta, mi pare che esistessero pochissimi libri per bambini in italiano, e ho imparato l’inglese con una dieta di Nursery Rhymes, Fairy Tales e più tardi di fumetti U.S.A. Da adulta ho poi anche lavorato come traduttrice, professione che mi portava a tradurre mentalmente, per gioco, espressioni idiomatiche tipiche di una lingua (come ad esempio “mangiare la foglia” in italiano), ma che in inglese non dicono assolutamente niente. Proprio l’insensatezza di “to eat the leaf ” e dei malintesi che una traduzione inconsapevole della frase-fatta avrebbe potuto causare, mi divertiva e divennero un piacevole passatempo delle lunghe ore di traduzione passate a tavolino. Tutto ciò si trasformò nelle mie poesie plurilinguistiche, Le ballate dell’insalata russa, (Harry’s Bar e altre poesie, Feltrinelli, 1981), che mi portarono poi ai Frisbees (Campanotto, 1994), ironici e auto-ironici, tendenzialmente brevi e quasi epigrammatici, e che sono la mia raccolta più nota. Negli anni, alcuni amici e critici mi hanno fatto notare che i miei testi si basano quasi sempre su fatti minimi, di poca importanza, come se mi permettessi di trattare solo ciò che è marginale e non ciò che è essenziale. Non posso che condividere quest’osservazione e rispondo evidenziando che anche nella vita, nella realtà, mi sono sempre mantenuta ai margini, senza mai assumere un ruolo di punta. E poi il quotidiano (che è ciò che tratto sempre in poesia), non è solitamente composto di fenomeni e situazioni normali, regolari e consuete? Questo ci porta al 1985, quando, dopo un ictus cerebrale, che mi tolse momentaneamente la parola, incontrai il Buddismo tibetano Mahayana, del quale divenni monaca nel 1990. In quello stesso anno scrissi sull’Autodizionario degli scrittori italiani a cura di Felice Piemontese (Leonardo Mondadori, 1990) che la scoperta del Buddismo mi aveva fatto sentire come se “fossi finalmente 20


tornata a casa, dopo aver combattuto per cinquant’anni (la mia età nel 1985) nella legione straniera”. Ritrovare gli insegnamenti buddisti (che avevo sicuramente già conosciuto in vite precedenti, ma dei quali non avevo una chiara memoria) mi dava finalmente un senso di compiutezza e di completezza che non avevo ancora mai provato e che attribuivo erroneamente al fatto di essere mezza italiana e mezza americana, dunque al non avere mai avuto radici ben fisse, profonde e stabili. Tuttavia, molti dei miei giochi di parole o le serie fotografiche di Facsimile (Tau/ma, Reggio Emilia, 1976) o certe poesie visive di Poema & Oggetto (Geiger, Torino, 1974) si basano sul fondamentale concetto buddista delle due verità: la verità relativa, che è come le cose ci appaiono, e la verità ultima, che è come le cose effettivamente sono (ma solo un Budda, una persona perfettamente realizzata, riesce a vederle in questo modo). Comunque, ciò che metto in evidenza in quei miei lavori è il fatto che ciò che ascoltiamo e ciò che vediamo ci appare in un determinato modo – non però necessariamente corretto – in quanto le parole possono significare più cose e nelle immagini fotografate, per esempio, è impossibile distinguere un dettaglio già fotografato in precedenza accostato a un oggetto reale, fotografato per la prima volta. In altre parole, è come se la mia mente continuasse a girare attorno a quel problema delle due verità, cercando di metterlo in luce, senza nemmeno essere consapevole del fatto che effettivamente si tratta di un concetto filosofico fondamentale del Buddismo. Nel mio ultimo testo in prosa, Le due sponde, col sottotitolo Spazio / Tempo – Oriente / Occidente (Archinto, 2006), a pagina 173 scrivo: In effetti, fino ai cinquant’anni, ho vissuto lo scorrere del tempo come una sorta di ossessione che permeava di ansietà inconsapevole la mia intera esistenza. Inconsapevole perché, non conoscendo io altra condizione, non potendo fare confronti, quel mio stato d’animo mi risultava soltanto naturale e inevitabile, e c’ero troppo “dentro” per esserne cosciente. Ho trovato una via d’uscita da questa ansietà solo grazie al cammino spirituale e ad alcune esperienze di sconfinamento spazio/temporale che mi hanno aperto, per brevissimi attimi, uno spiraglio su un tempo “altro”, facendomi provare l’esperienza di un’assenza di tempo. Che cos’è l’assenza di tempo se non il massimo della “leggerezza” e della “libertà” possibile? Una condizione così particolare e di tale compiutezza da essere impensabile e inesprimibile. La si può assaporare per brevi attimi grazie al triplice cammino di Rinuncia, Bodhicitta e Vacuità, aderendo il più possibile (secondo tutte le nostre capacità e il nostro massimo sforzo) alla Rinuncia, rinuncia del desiderio di onori e piaceri di questo mondo; a Bodhicitta, ovvero alla “mente altruistica di illuminazione”, quale unico scopo di ogni nostro impegno; e alla Vacuità, la consapevolezza radicata e costante dell’interdipendenza di tutti gli esseri e di tutti i fenomeni. Tre impegni che liberano da molte afflizioni mentali negative e pesanti: come collera, presunzione, arroganza, odio, invidia, gelosia, rendendoci più “leggeri”. Che cos’è l’assenza di tempo se non l’eternità? Manganelli la conosceva, l’aveva assaporata perché ne ha dato una definizione esemplare e commovente per perfezione e bellezza: Eternità: essere vicini, vicinissimi. Ma anche su questo fenomeno (che considero il più importante della mia esistenza), ho scritto un brevissimo testo assolutamente leggero e quasi ironico nel 1988, forse allora – che era la prima 21


volta – per parziale incredulità, o perché non l’avevo ancora compreso del tutto, in tutti i suoi vastissimi significati che ti creano dentro uno sconfinato spazio interiore nel quale l’ego perde le pretese della sua imperiosa volontà e ci si ritrova più calmi, più in pace, più beatamente impersonali: “Il tempo è denaro? / Il tempo è una convenzione / come lo è la carta moneta. / In effetti, il tempo / è gli spiccioli dello spazio”. Vorrei ora citare alcune osservazioni del grande Maestro spagnolo Raimon Panikkar su tempo e atemporalità tratte dal suo meraviglioso commento a I Veda e quindi formulate mentre egli sta esercitando il suo inestimabile ruolo di occidentale che spiega l’Oriente agli occidentali: Una forma sottile di dicotomia – e forse una delle più nocive – consiste nel conferire all’atemporale alcune caratteristiche della temporalità; per esempio, nell’immaginare che la vita “eterna” venga “dopo” questa vita temporale o che sia “oltre”, “dietro” o qualunque altra parola spaziale o temporale possiamo usare per avvicinare ciò che, per definizione, trascende sia spazio che tempo. […] Per accedervi non è necessario il movimento dinamico della nostra mente o la spinta in avanti della nostra volontà, ma la quiete statica, l’acquisizione del riposo di tutto il nostro essere nelle nostre più intime profondità. Più scendiamo in noi stessi, più tutto viene alla luce e si dissolve in beatitudine e vacuità, una pace fatta di gratitudine (per tutto e verso tutti) e che possiede la leggerezza della non-gravità (in tutti i suoi possibili significati). E anche, Ottenere la libertà significa diventare immortali, essere liberi dagli artigli del tempo, perché finché si è legati al tempo non si è realmente liberi. Terminerei, commentando e citando un mio testo del 2000, per cercare di spiegare cosa intendo per quell’“essere vicini, vicinissimi” di Manganelli. E pensare che l’eternità solitamente ci appare come la cosa più remota e distante che ci sia. Se chiudiamo gli occhi, ciò che vediamo è uno schermo grigio o nero. Quando in meditazione, quel rettangolo scuro iniziò a essere attraversato verticalmente da un taglio di luce argentea e lunare (verso la fine degli anni Ottanta), non potei non associarlo ai “tagli” di Fontana e a ciò che egli dice nel Manifesto dello Spazialismo. Così anche certe radiose fosforescenze di segmenti concentrici identici ai nostri polpastrelli, mi fecero tornare alla mente il fatto che sia Fontana che Wols avessero firmato certi loro quadri con l’impronta del dito pollice, come degli analfabeti. Perché l’avrebbero fatto? Forse perché qualcuno potesse riconoscere proprio quel dettaglio “spaziale”, dandogli il suo giusto significato, se l’aveva già vissuto nel proprio occhio della mente? In un suo spazio personale e interiore? Col passare del tempo quel taglio verticale e luminoso si accorciò allargandosi, assumendo la forma di un proiettile. Poi il proiettile riapparve leggermente trasformato, con una strozzatura a un terzo dalla cima e due triangolini sopra la sfera superiore. Un gatto o una civetta visti di spalle? Scrissi allora un testo dal titolo Meditazione 2. Naturalmente non posso essere certa che le mie associazioni/intuizioni siano valide, ma mi ha dato grande gioia sentirle aggregarsi da sole con naturalezza e spontaneità, facendomi sentire vicina, vicinissima a Lucio Fontana prima, e alla Grecia antica poi, in un gran bel balzo da stivali delle sette leghe. 22


MEDITAZIONE 2 Un’incisione netta, verticale un “taglio” di Fontana, “la non rappresentazione in favore della creazione di sensazioni spaziali” – dice il manifesto – e anche “il fatto di passare a un altro piano dietro la tela, per andare oltre ciò che è percepito”. Inoltre, sia Wols che Fontana apposero a certi loro quadri l’impronta del dito pollice e non il nome scritto, “analfabeti” che lanciano un segnale comprensibile a pochi; solo a chi ha già sperimentato nell’occhio della mente un intermittente piccolo vortice di luce, una radiosa fosforescenza di segmenti concentrici identici a quelli dei nostri polpastrelli. A volte, tra le sopracciglia al centro della fronte, un fastidioso turgore pulsante, come un ascesso, un’escrescenza da unicorno, oppure, sempre lì, ma in superficie, sulla pelle, una vistosa fiammata di rossore. Poi il taglio si allarga, assume la forma di un proiettile e ancora si trasforma, strozzandosi a un terzo dalla cima. Avremo allora una testina con due piccole orecchie sopra un corpo gonfio, arrotondato. La silhouette di una civetta? Un gufo, una civetta visti di spalle o, sempre di spalle, un gatto seduto? Validi tutti. Infatti, tutti e tre vedono al buio. Ma direi la civetta, perché sacra ad Atena e in quanto tale, non può che essere lei l’archetipo dell’apertura dell’occhio della mente: pineale funzionante, in grado di spaziare.

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ELIO PECORA LA SERENA DISPERAZIONE

Molto si può dire e scrivere della leggerezza. In tempi nei quali il più appare volatile e sfuggente, quando tutto risulta gravoso e insostenibile, “leggero” sta per volubile, incostante, mancante di riflessione, frivolo, fatuo. E ancora, di poco peso, scarsa forza, minima intensità. Il suo dominante contrario sta nella serietà, nella capacità di misurare quel che chiamiamo reale, nell’approntare gli strumenti che servono a traversare la provincia dell’uomo e prendervi posto. Ma restiamo alla leggerezza e non come mancanza, ma come vento dell’animo che soffia lieve e lontano, della mente che si libera dalle strettoie di un ordine decantato e si scioglie nelle altezze ariose, vaga e vagola in spazi senza confini, si specchia nelle superfici e ne gode le trasparenze. Allora, si svela come vaghezza e grazia nella parola cangiante: dove leggero è sottile, delicato, agile, snello, spedito nei movimenti, elegante, spensierato. Italo Calvino, nella prima delle sue Lezioni americane, acclara la leggerezza della pensosità, la sceglie contro l’inerzia del mondo. La riconosce in Perseo, l’alipede che mozza la testa alla Medusa. Ah, la “serena disperazione” di Saba, la “cheta follia” di Penna! L’uno traversa la vita avvolgendo il dolore e la pena dentro frasi e ritmi che hanno il respiro della canzone; l’altro solleva il desiderio e lo libera dentro parole fresche e chiare. Quanto la poesia può dire solo accennando! E solo accenna, non dice, il dio delfico di Eraclito. Con poche usate parole Saffo, accostata da Quasimodo, piange – anche sorridendo – l’età felice: “Fanciullezza, fanciullezza che mi lasci, dove vai? / Mai più ritornerò da te, mai più ritornerò”. E quel lacerto della Canzone di re Enzo: “Giorno non ho di posa / come nel mare l’onda. / Cuore, ché non ti smembri? / Lascia la vita e dal corpo ti parte / che assai val meglio un’ora / morir che ognor penare”? È possibile consegnare meglio a chi legge l’ansia e l’orrore e farli divenire canto tenero e durevole? Di quali alte meditazioni può essere colmo un richiamo limpido, veloce! Leopardi e la luna, eterna e breve, prossima e remota, testimone e compagna. Il suo silenzio interroga a sua volta il poetante e il pastore. Il suo chiarore fa limpido e immediato ogni fonema e ogni accento. In lei tocchiamo la prima percezione, la verità iniziale. Come ancora vuole Calvino, la leggerezza è precisione ed esattezza e sono numerosi i poeti che la raggiungono e la tengono lasciandosi estranei al grave e al pieno. Così, la tristezza diviene malinconia e va per sinuose lontananze come in Emily Dickinson. Così la fiaba e il mito – Basile e Ovidio – si districano da terribili prove e vanno incontro a chiuse felici in cui attese e affetti si ricompongono, a volte, anche solo con un distico che gioca fra invidia benevola e sorridente empatia. Ma la voce che canta, che scopre il suo dono e lo colma di verità accostate! La voce che, come scrisse Roland Barthes, esprime la sua grana, insieme di testa e di visceri, e si consegna all’ascolto! Orfeo risale sconfitto dall’Ade e porta nel canto la perdita dell’amata, ma perché duri e commuova lo rende lieve e avvolgente. 24


La leggerezza non consente gravezza e neanche il suo stesso protrarsi. Ne sanno molto i nostri comici e i nostri autori “brillanti”. Ne sanno anche di più pensatori e critici che si dilungano nelle proprie brillantezze sicuri di stupire e d’intrattenere invece conducendo il lettore alla noia per il tono “leggero” insistito e, dunque, ridotto a fatuità. Leggerezza è anche chiarezza espressiva e, in sommo grado, concisione e brevità. È leggera Lalla Romano, che racconta e si racconta con spietatezza. Conosce i tempi della sua pagina: sa quando deve solo accennare e quando deve rivelare e svelare. La sua scrittura è veloce, chiede che si entri in quel che va scrivendo e che se ne esca a se stessi manifestandosi. Sono leggeri i racconti di Parise, che indaga dentro e dietro i comportamenti e le emozioni e chiama in un comune percorso. Con quale leggerezza e con quanto risparmio di parole Kafka ci conduce dietro il messo imperiale, che traversa in poche righe una reggia immensa fra folle immobili, forse estatiche, e mai consegnerà il suo messaggio a colui che attende da un tempo infinito! In quali frasi, arse e ansimanti, l’Ecclesiaste annienta il tempo e la vanità dell’uomo! È un dono, la leggerezza. Ed è un traguardo. Richiede misura di sé e intelligenza dell’essere che di continuo si sfida, si prova per seguitare. Quanto può essere grave – di una gravezza insostenibile – e stolida la presunzione della leggerezza! Sono parole leggere quelle di Gesù di Nazareth, del Buddha, di Zaratustra. Sono leggeri, fatti d’aria e di luce i detti aurei di Pitagora. È una voce quieta e lieve quella che dice l’amore che pronuncia l’allegria. Siamo in tempi in cui sono di legge il grido e il rumore. L’ansia e la confusione stravincono. La fuga dalla paura e dall’incertezza sta nel riso facile, nella promessa da poco. Gli specchi sono appannati. La verità è una promessa irraggiungibile. Chi arriva a sollevarsi sul peso del mondo? Chi osa ancora sperare? Ma parole leggere si levano dal buio dello scontento, e sanno la brevità dell’esistere e la certezza della morte, conoscono il dubbio e la pena. Pure godono nel consegnarsi a chi sa intenderle.

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CONTRIBUTI AL DIBATTITO MANDO TOURAINE ALGHE NELLO STAGNO DELLE RANE

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PAOLA DI PRIMA FORO DI LUCE CON PIUME DI PAVONE

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CARLO VITA ANGOLI (S)CONOSCIUTI DI UNA CITTÀ

…uno degli angoli – l’angolo prediletto appunto… Henry James, L’angolo prediletto. Che cosa disse il muro all’altro muro?” Il suo viso si illuminò. “Ci vediamo all’angolo!” urlò, e corse fuori dal locale, probabilmente in stato isterico. Jerome D. Salinger, Esmé: con amore e squallore.

Gli angoli di cui si parla qui non sono quelli astratti dei testi di geometria, dove per averne uno occorre sprecarne tre, tracciando su un piano cervellotico due semirette A e B, che si “segano” (brutta parola) nel punto O, cosicché se ne formano quattro e di quelli che avanzano non si sa ché farsene, e si devono buttare. Qui discorriamo di angoli veri, concreti, più o meno di novanta gradi, concavi o convessi, che finiscono sempre per formarsi alla base di muri, archi, colonne, pilastri, basamenti, “concetti dell’architetto tradotti in atto”, secondo il Gran Lombardo e secondo un’antica, inesorabile regola costruttiva, alla quale sarebbe vano tentare di sottrarsi. Ritagli di spazi angolosi o spigolosi per i quali i lessicografi non hanno potuto rintracciare nel parlar comune o in pergamene e faldoni – e i letterati non hanno saputo escogitare nei loro voli – nomi più fantasiosi di canti, cantoni o, appunto, angoli. Essi sono destinati a raccogliere, nel bene e nel male, parecchie cose: nel bene, gli angoli ospitano le ombre, che variano col variare del giorno, dando forma alle apparenze della realtà; nel male, sono ricettacolo di rifiuti, cicche e deiezioni, la deprecata e puzzolente spazzatura, che ci è facile, almeno in questa sede cartacea, rimuovere mentalmente. Non del tutto, però, nel mondo reale. Resta sempre un po’ di polvere che non si sa precisamente se stia nel bene o nel male, ma che si accumula giorno dopo giorno e si fa, con buona pace dei responsabili dell’Ecologia Urbana, sostanza millenaria. Gli angoli, prescelti tra innumerevoli intersezioni edilizie, si sono formati nella città nel corso di molti secoli e insistono a essere lì. Sono presenti alla memoria inconscia di ogni cittadino, eppure nessuno li vede, come vuol far intendere il titolo di questa breve raccolta d’immagini. Qualcuno potrebbe sostenere che non ci sia molto da perdere a non vederli. E il Vate avrebbe addirittura occasione di rallegrarsi, una volta tanto, di questo mancato atto percettivo, del non vedere qui niente, e specialmente quella gloria che egli andava invano cercando tra le rovine storiche d’Italia. Riusciranno mai questi angoli a raggiungere e sommuovere l’animo dei poeti, a 35


divenire “the corners of my mind”, come ha cantato Barbra Streisand? Potranno ispirare parole e musiche, al pari di certi luoghi già consegnati al ricordo perenne nonché all’immaginario turistico, dove gli “angoli” sono sempre cantucci deliziosi da delibare con sensi e supersensi? Potranno collocarsi tra gli immancabili punti di riferimento della città, per la gioia dei cuori desiderosi di itinerari e di cartoline da spedire agli amici? E ancora: potranno mai sprigionarsi, da questi (in)visibili tòpoi del nostro paesaggio urbano, emozioni e ricchezze ideali come da altrettante variazioni beethoveniane su un esile tema di valzer di Anton Diabelli? Esaurite le domande (auspicabilmente retoriche), occorre aggiungere che gli angoli qui eternati sono soltanto l’avanguardia di una moltitudine silente, misconosciuta, non percepita, dimenticata, cacciata letteralmente nell’angolo. L’autore ha voluto farsene interprete e palesare a tutti il segreto anelito degli angoli: il diritto a un’identità, alla dignità della propria esistenza. Perché, si voglia o no, oltre le idee e le ideologie, oltre l’alternarsi delle parti nel (si spera) effimero gioco del potere, oltre la sorte che tutti ci attende, ahimè, come individui e come collettività, nessun cittadino potrà mai fare a meno di nessuno di questi angoli, finché il destino – o il capriccio o l’interesse dei costruttori – non deciderà altrimenti. Tanto più che saranno proprio loro, gli umili ma tenacissimi angoli, a sopravviverci (oltre l’angolo).

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ALBERTO CASIRAGHI AFORISMI SULLA LEGGEREZZA

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MEHMED YASHIN RÜZGÂR TANRISI

Rüzgâr tanrısı konuskandır konuşkandıryazsonları yazsonları ve keskindir sözleri, ağaçlaralttan agaçlar alttanalarak alarakcevap cevapverir verirona. ona. Rüzgâr tanrısı dalgaları gönderir bulutu bisiklete bindirir çağlayanakırmızı çaglayana kırmızıbir birtop topatar atarsonra. sonra. Rüzgâr tanrısı kusları kuşlarıyaratandır yaratandır kelebekleri de var, geceleyin dagda dağdakristal kristalmag’ralar mağ’ralaraçar. açar. Rüzgâr tanrısı en çok çocukları sever saçlarındaki kurdelayı çözer tuhaf bir ürperti salar içlerine de. Rüzgâr tanrısı yazlık kiralar adalarda ve ısrarla davet eder seni işinimisini isini mişinibırakıp bırakıpgelesin gelesindiye. diye. Rüzgâr tanrısı kanatlar takar insana ama yetmez yükseklere çıkmaya sen ruhunu hazırlamamıssan hazırlamamışsan uçmaya…

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MEHMED YASHIN IL DIO DEL VENTO

Il dio del vento è loquace quando l’estate va finendo e le sue parole sono pungenti, gli alberi gli rispondono gentili. Il dio del vento fa arrivare le onde spinge le nuvole su biciclette poi lancia una palla rossa alla cascata. Il dio del vento dà vita agli uccelli e alle farfalle, in montagna di notte schiude caverne di cristalli. Il dio del vento sopratutto ama i bambini tra i loro capelli slega nastrini uno strano brivido sprigiona in loro pure. Il dio del vento affitta case sulle isole d’estate ti invita, insiste lascia stare tutto e vieni qui ti dice. Il dio del vento cuce ali sulle persone ma questo non basta a farti sollevare se la tua anima non è pronta a volare… traduzione dal turco di Rosita D’Amora

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SANDRO BOCCARDI ALLE QUATTRO E VENTI DEL MATTINO

Silenzio… Si agita l’assenza del respiro e l’angelo veglia l ‘infinito giro dei mondi Qui dove muove appena un barlume di luce. Là dove si sprofonda nelle tenebre il mare Un mantice d’aria, la musica – gelata onda vibrando – rabbrividisce nell’attesa… Che serve recedere al confine tra il sonno e la veglia – in quel turbato limbo Là dove il tempo matura le avventure in un pulviscolo d’argento Qui dove si attende nuove nascite che l’angelo asseconda nel silenzio…

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ESTIMONIANZE

Questa sezione rappresenta una novità rispetto a Poesia e Spiritualità. In una recente intervista su Orizzonti affermavo: “ormai siamo lontani anni luce dalla letteratura d’impegno. Oggi non credo in un coinvolgimento politico diretto. Ma indirettamente esiste sempre un coinvolgimento anche politico, nel senso che uno scrittore parte da una visione del mondo, e questa non può non essere anche sociale e politica. Significa credere innanzitutto in determinati valori, in determinate priorità”. Credo che in un momento di crisi dei valori e di crisi politica drammatica a livello mondiale, la voce degli scrittori non possa tacere. E questo credo lo esprimano bene i testi raccolti qui. Pubblico qui un “diario” che avevo sollecitato a scrivere il poeta libico Ashur Etwebi, da me conosciuto in precedenza nel corso di un festival in Francia e che avrebbe dovuto uscire a suo tempo su Poesia e Spiritualità. Esso registrava, in un clima di smarrimento e di ansietà ma anche con speranza, gli inizi della Primavera Araba nel Paese (da allora purtroppo precipitato sempre più nella crisi e nella guerra civile e oggi al centro di gravissime tensioni e avvenimenti che ci coinvolgono tutti). Non è, chiaramente, un documento giornalistico ma lo scritto di un artista, in cui la realtà è offerta, pur nella sua immediatezza, già con il filtro di una decantazione che la schiude a valori più profondi di quelli che si possono cogliere consapevolmente nell’immediato. E, come tale, non si tratta di un documento peregrino, anche se datato: fissa momenti di un divenire confuso e li rende paradigmatici di una condizione umana traducendoli nel linguaggio della poesia. Questo, io credo, deve essere il senso della letteratura che, nascendo dal tempo, trascende il tempo. Gli avvenimenti che stiamo vivendo oggi danno a questo scritto una nuova e diversa attualità. Credo che la “cultura” si possa anche definire come una “prospettiva vertiginosa” che dal passato guarda al futuro.

d.b.

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ASHUR ETWEBI NON RESTARE SULLA PORTA CON IL VENTO ALLE SPALLE…

Come posso riunire ciò che del giorno è disperso? Dal balcone della mia stanza da letto che affaccia su un palmeto e su una strada angusta e polverosa, sento le voci di ragazzi tra i quindici e i diciassette anni. Tra queste spicca quella di mio figlio, studente dell’ultimo anno delle superiori. Le loro voci s’alzano e si intrecciano con fervido entusiasmo. Mi metto a origliare attentamente e mi accorgo che discutono della Libia del dopo-Gheddafi. Noto che ripetono parole come: democrazia, giustizia, uguaglianza, tolleranza, ingiustizia, dittatura, rivoluzione, ribelli, partiti, ideologia, società civile. Uno di essi vuole guadagnare il consenso generale su ciò che dice, e gli altri sono divisi tra sostenitori e oppositori. Sette mesi prima o poco più, nessuno di loro avrebbe parlato di simili questioni – tanto meno ci avrebbe pensato. Niente paura per la sorte di questi futuri uomini. Come fosse cieco chiuse gli occhi, e con le mani aprì la porta della vita sulla stuoia del nomadismo. Come se le scale non vedessero le lacrime mentre s’inabissava di nascosto nelle tenebre. Come se solo i colpi esplosi potessero comprendere la paura di chi ha il capo chinato su un letto o sullo schermo di un televisore. * Oggi, come ieri, c’è stato un black out elettrico, non ho potuto accendere la radio, non avevo le pile. Da lontano giungeva il rumore degli spari di cannone e di mitragliatrici; gli aerei della Nato non volteggiavano nel cielo del villaggio. Per tenermi impegnato mi sono messo a disegnare. Provavo, disegnavo, ma non mi piaceva nulla. Ho provato a dormire. Incubi, immagini di morti e feriti. Un forte senso di impotenza, un forte senso di frustrazione. “Cerchi scuse per non sentirti coinvolto”, dicevo dentro me. “Ma sei solo un codardo”, aggiungevo. * Evito di guardare negli occhi mia moglie e i miei figli, non voglio che scorgano la mia viltà e la mia impotenza, non voglio che siano come me. In serata arriva la notizia che le truppe lealiste di Gheddafi hanno invaso la città di Zawiya. Hanno ucciso molte persone, sono entrati nelle case, alcuni di essi, si dice, hanno violentato le donne. Cosa faresti se venissero in casa tua a prendere le tue figlie e tua moglie? Cosa faresti? 44


Sono rimasto fermo sotto gli aranci nel cortile di casa, da solo al buio mentre il frastuono delle bombe si faceva sempre più forte. Non sono riuscito a dormire fino al mattino. Perché il mattino arriva così rapidamente, il nostro mattino, quando scompare dalla nostra vita Muammar Gheddafi. * Ho visto sul canale al-Jazeera un mio amico, il giovane scrittore Rabi‘ Sharir, agitare in alto le mani e sorridere raggiante mentre ci confermava che i ribelli resistevano in Piazza dei Martiri a Zawiya. Aggiungeva inoltre che oggi erano stati seppelliti sei giovani tra cui suo fratello. Soltanto pochi giorni dopo le truppe di Gheddafi arrivano con un poderoso armamento, assediano Zawiya, dissotterrano le tombe dei martiri nella piazza della città e le trasportano in un luogo sconosciuto. Rabi’Sharir viene fatto prigioniero, e subisce pesanti torture. Sette mesi dopo con la definitiva conquista di Zawiya e Tripoli da parte dei ribelli, Rabi’Sharir viene liberato assieme ai suoi colleghi e nella prima dichiarazione che rilascia parla di perdono e riconciliazione. Sei straordinario Rabi’ ! * Più di dieci canali satellitari hanno incominciato a lavorare dopo diversi mesi dall’inizio della rivolta contro Muammar Gheddafi. Programmi non sottoposti alla censura di Stato. Argomenti scottanti. Emerge chiaramente che chi detiene il potere economico si sta preparando alla nuova fase attraverso i media privati. Discorsi sulla formazione dei partiti. Reti che sostengono il discorso religioso, altre che esortano alla moderazione. Emittenti liberali, manifesti di battaglie politiche e campagne elettorali. Tutto questo prima del 17 febbraio 2011 non esisteva. Attraverseremo il ponte in modo sicuro? * Questa mattina mi è giunta la notizia che i sostenitori di Gheddafi nel villaggio sono convinti che io e mio fratello maggiore siamo tra le file degli oppositori del Rais e vogliamo tutelarci issando la bandiera di Gheddafi sulle nostre case. Non ho informato la mia famiglia, ho comunicato con mio fratello. Né io né lui abbiamo issato la bandiera verde. La piazza bianca, la piazza gialla, la piazza rossa La piazza in lacrime muove spedita verso il ruscello dei piagnucoloni * Ieri sono andato con i miei figli per la preghiera del venerdì nella moschea che non frequentavamo più perché il predicatore era un chiaro sostenitore di Gheddafi e aveva definito i ribelli come “ribelli della Nato” e “ratti”. Tripoli era stata liberata da quasi un mese. Avevo detto a miei figli: “Esco dalla moschea se c’è ancora quel predicatore”. Uno di loro aveva risposto: “Io rimango, sono venuto a pregare, non mi interessa l’orientamento del predicatore”. E io: “Magari lo sostituiranno con un altro”. Allora mio 45


figlio maggiore: “Non lo sostituiranno, rimarrà ma dovrà cambiare posizione”. È arrivato un nuovo predicatore, giovane barbuto, con una paralisi all’arto superiore destro. Dalla sua breve predica appare evidente che è salafita1. Ha detto e ripetuto: “Iddio ci ha resi seguaci, non innovatori. L’innovazione è perdizione, siamo la comunità dei sunniti e dei salafiti”. La predica precedente non si distingue dall’attuale – dico tra me – sono entrambe l’espressione di un pensiero chiuso e dispotico. Tutte le moschee sono così? Vedo, cosa vedo! Anelli che luccicano da lontano, teste pendule e grumi di bava, a forma di carri armati, mezzi blindati e sepolcri con bandiere che sventolano da lontano. * Ci siamo recati in visita al noto carcere di Abu Salim di Tripoli, in cui nel 1996 Gheddafi fece giustiziare in due ore 1269 prigionieri politici. Il 20 agosto 2011 il giorno della presa di Tripoli i ribelli hanno liberato più di 10.000 prigionieri. Ho chiesto a due amici, uno scrittore di racconti e un art director di un giornale: come avete vissuto questi mesi di rivoluzione contro Gheddafi? Lo scrittore: “Non sono uscito di casa se non per sbrigare alcune faccende. Non ho frequentato nessuno del vicinato. Gran parte dei miei vicini era armata; sulle loro case sventolava la bandiera di Gheddafi. Ho dormito da solo con gli occhi aperti per paura di loro. Ora la bandiera dell’indipendenza è sopra ogni casa, ma io ho ancora paura. Non ho issato la bandiera di Gheddafi né portato armi, ero intimorito e angosciato.” L’art director: “Non sono uscito di casa se non raramente. Non ho frequentato i vicini. Non posseggo armi né lo voglio.” Nessuno di noi ha commentato. Siamo rimasti in silenzio finché non siamo arrivati al carcere. Mura di cemento alte, orribili, porte di ferro come macigni, resti di scarpe militari, elmi da guerra in disordine, rovesciati. Il posto sembrava tranquillo, almeno così mi è parso! Si dice che negli ultimi mesi siano stati ammassati più di 10.000 nuovi prigionieri. Venivano lasciati tutto il giorno in uno spazio angusto, per settimane, mesi. A migliaia di essi avrebbero fatto indossare il vestito per l’esecuzione. Si dice che qualcuno si sarebbe svegliato e avrebbe trovato un cadavere mangiato dai topi. E gli avrebbero detto: “Sei stato tu ad uccidere quest’uomo”. Qualcun altro avrebbe dormito in piedi per l’elevato numero di prigionieri rinchiusi in una sola cella. La libertà è un lungo cammino pieno di sangue. Non v’è nube che vede ciò che compiono né i loro sogni ascenderanno al cielo. Cosa vede il guardiano? Lo accolse un sole quando passò nell’angusta strada in un mattino ebbro. 1 Salafita è il seguace della Salafiyyah, scuola di pensiero sunnita che propugna un ritorno all’islam delle origini. Essa prende nome da al-salafal-ṣāliḥ i pii antenati considerati modelli esemplari di virtù religiosa. Oggi il termine salafita è genericamente usato in riferimento ai quei gruppi islamici fondamentalisti che adottano una interpretazione letterale delle fonti dell’Islamin chiave anti-occidentale. 46


Mentre ornava le trecce dell’ombra, gli disse: non abbandonare i tuoi sogni sul tavolo di un caffè di periferia, non rubare al flauto il ritmo del prossimo brano. Eri al margine del margine. Li ho visti portare il mare sulle spalle, le loro voci volteggiavano alte. Non stupirti, raccogli i freddi gemiti che hai desiderato e vai verso i deserti degli esuli. Sii emblema di un timore sprofondato negli abissi del mare. * Dopo aver scalato il monte e tirato un respiro profondo, diciamo: non è stato tanto difficile quanto credevamo. Quarantadue anni di regime di Muammar Gheddafi i cui tratti sin dall’inizio lasciavano presagire un governante anomalo, pieno di sé. Era chiaro che non amasse tre categorie di libici: i nobili – i ricchi -gli studiosi. I nobili li ha umiliati, osteggiando i simboli patriottici nella storia del paese e presentandoli come traditori e agenti del colonialismo. Li ha rimossi dalle loro funzioni costringendoli a lodarlo e omaggiarlo. Ne ha rovinato la reputazione, denunciando lo scandalo della loro immunità finanziaria e presentandoli come corrotti e ladri. I ricchi li ha impoveriti, sopprimendo il commercio che considerava una grossa trappola per i poveri. Quelli che non sono emigrati all’estero li ha arruolati nell’esercito, abbandonandoli lì senza nulla da fare. Si è impadronito delle loro fabbriche, delle abitazioni, dei campi e degli automezzi. Ha sottratto loro ogni cosa. Gli studiosi li ha degradati, scardinando il sistema dell’istruzione dalle fondamenta. Affermò pubblicamente che chi aveva studiato nei paesi occidentali aveva la mente inquinata e il pensiero retrogrado e malato. Li ha messi da parte, inserendo persone capaci solo di ripetere i dettami del suo Libro Verde. Questi ultimi li ha messi a dirigere università, facoltà, dipartimenti. Ha dato la guida del paese agli ignoranti e il paese non si è mosso di una virgola. Ha demolito ogni cosa, ribaltando i valori: il bugiardo = scaltro / il ladro= onesto / l’assassino= rivoluzionario. Quarantadue anni di arresto gravano su di noi. Quarantadue anni nuotando nell’aria e nei sogni. Quarantadue anni di arroganza. Teme il giorno, arriva tardi! Soffici canne di giunco ne portano il calore. Gli ospiti non lasciano segni sul tragitto, trascinano i sorrisi con un tè corposo e amaro. Questo i vecchi alberi di cipresso gli riferirono. * Ora sembra come se nulla fosse accaduto, come se nulla fosse mutato. Sono cambiate le bandiere e gli slogan, cambiati i prigionieri e chi sta seduto dietro le armi. Ma la nostra mente e la nostra anima sono cambiate? Di sicuro no. 47


Questo non è ancora accaduto. La strada che ci accompagnerà verso una società moderna sarà lunga e tortuosa. Una società che con onestà dica a chi sbaglia che ha sbagliato, a chi ruba che è un ladro. Una società che renda i diritti ai loro detentori senza favoritismi. Ciò sarà possibile soltanto se prenderemo le distanze da facili soluzioni. Ciò avverrà ripartendo da un’educazione moderna non contaminata da idee passatiste o ideologie chiuse, sterili di chiunque siano nel nome. Laddove il nostro obiettivo deve essere quello di vivere in una società moderna in ogni senso della parola, in cui tutti i membri e tutte le classi godano di diritti a pieno titolo. Il sangue versato sull’altare della libertà e l’immenso dolore patito dalle famiglie dei feriti e dei dispersi non sono stati invano. Tieni alta la tua bandiera, così che ti veda! Attendi che le onde s’addormentino perché io ti veda. Le senti leggere le piccole ali oppure è il vento a gemere cuori feriti? Acqua sotto di te e acqua sopra di te i desideri maturano solo su un freddo fuoco?! * Un ragazzino mi ferma ad un punto di controllo, porta un kalashnikov in spalla. Mi chiede: di dove sei? Del piccolo villaggio di Tweibia. Mi dice: puoi passare. Gli chiedo: perché volevi sapere di dove sono? Mi avvicino ancora un po’ al finestrino dell’auto. Dice: gli affari economici dei fedeli di Gheddafi sono eccellenti, hanno il viso luminoso come il tuo, non come quello dei ribelli pallido e affaticato. Mi sentii fortemente offeso. Che disastro se si giudicano le persone dal viso! Sei entrato nella piazza del tuo cuore? Se avessi reclinato leggermente il capo avresti visto l’universo riposare sereno e con la coda dell’occhio contare le stelle. Un bianco vuoto ride da lontano. Lo senti? Lasciami passare, che la penuria mi mangia le mani. Dammi la curva della strada che la immergo nel tè del mattino. Non dirmi che la strada porta al massacro! Non frantumare le parole su pietre timorose! Fa riposare il tuo cavallo all’ombra di una roccia e attendi il segnale. Tripoli con le dita dipinte di henna saluta canne di giunco che dormono abbracciate siate clementi, conchiglie, non alzatele la gonna carezzatele le mammelle con lingua ardente e umida. Vasto è l’orizzonte e la voce della giovane sdraiata sfuma a poco a poco.

traduzione dall’arabo di Simone Sibilio 48


CARMEN TOGNI 1978-2013 RICORDO DI ALDO MORO

Recentemente Ferdinando Imposimato, che era stato giudice istruttore ai tempi del rapimento e dell’uccisone di Aldo Moro, ha pubblicato un libro che dà atto delle sue successive indagini per cercare di portare alle luce elementi di un complotto che, come dice il titolo, avrebbe condotto a I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia. Sotto la spinta della forte emozione provocata in lei dalla lettura di questo libro e anche del libro scritto molti anni prima (dopo la morte del padre) con il titolo La casa dei cento Natali dalla figlia dello statista scomparso, Maria Fida Moro, giornalista e in seguito parlamentare, Carmen Togni, che coltiva come sua passione privata la scrittura, è stata indotta a scrivere due sequenze di versi che compongono un piccolo libro, dal titolo Niente e nessuno distrugge l’amore, di cui abbiamo pensato di pubblicare qui alcuni stralci. Nel primo l’Autrice, per uno straordinario effetto di immedesimazione, parla con la voce di Maria Fida, traendo spunto da episodi narrati nel libro di lei; nel secondo con la voce dello statista ucciso, ispirandosi alle lettere scritte da Moro durante la prigionia. Perché pubblicare questi versi in questa sezione di Testimonianze? Non solo perché ancora oggi questo dramma, mai del tutto chiarito e che probabilmente non lo sarà mai, pesa sulla nostra storia, che forse avrebbe potuto altrimenti avere uno svolgimento diverso (rimane quindi sempre attuale in quanto mai rimarginato, come una ferita che diventa una piaga), ma anche perché crediamo che questi versi siano una prova di come esista ancora in Italia una passione civile, che nulla chiede se non verità e giustizia, e crede nella possibilità, anzi nel dovere, di riaffermare dei valori troppo spesso dimenticati. E questa passione ha la poesia come suo veicolo privilegiato, come è sempre stato in tutti i tempi e in tutti i Paesi: la poesia civile nasce spontaneamente davanti ai grandi eventi storici che ci coinvolgono profondamente, perché la voce dell’emozione è quella da cui scaturisce la poesia. Nella poesia civile, al di là dell’aridità della cronaca, l’anima di un popolo può farsi testimone della Storia, scoprire se stessa, infiammarsi e promuovere il cambiamento. Appare una coincidenza abbastanza straordinarai e significativa che questo primo numero della rivista sia uscito proprio nel giorno dell’anniversario del rapimento di Moro. Un anniversario che ha riacceso i riflettori sugli aspetti oscuri di questo dramma, confermando l’attualità dell’argomento e sottolineando la valenza emozionale dei versi di Carmen Togni che qui pubblichiamo.

d.b.

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da NIENTE E NESSUNO DISTRUGGE L’AMORE

PRIMA PARTE Nota : Questa prima parte interpreta in prima persona il libro di Maria Fida Moro La casa dei cento Natali

Tutto il paese era in silenziosa attesa… Poi in chiesa ad aspettare mamma e papà. Un legno chiaro a ricordare l’alba radiosa a terra due spanne quasi dal mio ginocchio. Nella mano destra stringo in tasca un sonaglietto. Il maestro di canto vestito anch’egli di silenzio. Le cento braccia della bara stanno immote ricadute verso terra. La chiesa è gremita e silenziosa mia madre, mio fratello e le sorelle. Al leggio alzo gli occhi per un aiuto: “Nulla temerà il giusto, Dio è la sua forza”. Hanno ucciso il suo corpo, nulla più. Getteranno fango ma, nel tempo infinito il male non potrà mai nulla, lui ha vinto. Ricaccio le lacrime in un singulto dietro una realtà confusa e vera. L’anima di papà è dentro di me. * Non ho letto mai l’ultima sua lettera. Credo… mai la leggerò… Luca e papà uniti nella sofferenza. Piangeva e sorrideva nel sonno. Il nonno è andato via, ora è tornato. Lo vede ora qua e ora là e io ci credo. Quelle scarpe avute per morire… Sono isolata e straniera fra la mia gente. Abbiamo adempiuto alle volontà di un moribondo. La sua volontà era sacra più dei funerali di Stato. Nostro padre ha scelto e pagato a caro prezzo. Non siamo usciti dal nostro solito riserbo. Non chiedo giustizia ma solo pace. Come posso rallegrarmi della sua morte 50


delle manciate di fango gettate su di lui. Un barlume di fedeltà gli era dovuto… Non troveremo mai pace… mai… se non in paradiso… * Nella sua anima dava spazio e accoglienza a ogni uomo buono o cattivo che fosse in quanto immagine stessa di Dio. Camminava tra la gente regalando la sua intelligenza, umiltà e semplicità pur nella coscienza dei suoi umani limiti. Gli affetti per lui erano sacri e assoluti il suo amore era paziente e silenzioso quel che nulla per sé chiede, mai… La sua carica di bontà era effusiva. La silenziosa processione alla sua tomba dice chiaramente chi era papà. Lungo il cammino dei giorni risento l’odore dell’infanzia. La felicità del paradiso è con noi qui tutti insieme sullo stesso sasso sbatacchiati e un po’ sciocchi, ma… La vita è proprio una preghiera. * Seduta su un sasso in Trentino vedo scemare il gravoso fardello dell’angoscia e del dolore e più leggera è la vita in questa irreale pace… Il bivacco Aldo Moro è là arroccato sulle grigie rocce… Arrancando negli ultimi passi entriamo Demi e io nel piccolo ambiente fiocamente illuminato. Un anziano fin qui è salito solo. Siamo in nove con la Scuola Alpina come nove sono i letti che vediamo. “Noi non siamo gli uomini del passato siamo del futuro che non è dei tiranni. Il domani appartiene alla forza rivoluzionaria ma salvatrice del Cristianesimo. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti vogliamo essere diversi da un mondo che non è più”. * 51


Appendiamo una foto di papà. Qualcuno medita la frase scritta sotto scelta all’unanimità dai suoi quattro figli. In questo sperduto angolo dell’Universo la forza delle idee giuste nitida mi appare in tutta la sua bellezza misteriosa. Nella notte il vento soffia di continuo. Il 26 luglio ci meritiamo il tempo bello… Penso al mare e a mio padre e nel buio un firmamento di minuscole luci. “Le viole fioriscono in silenzio in silenzio se ne vanno gli uomini”. Il silenzio era lo stile di papà non lo straziante e rumoroso addio riservatogli in sorte dal destino. Avremo messa al campo e benedizione nastro tricolore e cori di montagna polenta e grappa in abbondanza.

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SECONDA PARTE MEDITAZIONE SULLA PRIGIONIA DI ALDO MORO – MILLENOVECENTOSETTANTOTTO DUEMILATREDICI Ora tu entri, oh rassegnato agnello La cella minuscola è lì, per capire assorbire e gestire nel suo guscio intorno raccolto all’anima e al cuore il silenzio imposto al destino dell’uomo Millenovecentosettantotto duemilatredici o duemila minuti o tremila giorni e ancora Tu raccogli il respiro Suo ancor vivo. Per noi e per loro e gli altri che verranno Aldo o Giuseppe non v’è differenza… Primi istanti di un viaggio nella meditazione I primi metri di una strada lunga e ancora lunga. Nell’universo Aldo contro il tempo immobile nell’Italia ammuffita e macerata nel sangue stesa sul bianco dei cadaveri ovunque salme nostre offese, umiliate e piagate. Le belle utopie sventolano al sole al fiorir delle false democrazie. La violenza ha un solo odore l’odore del sangue e della morte e l’uomo, ora, quel piccolo universo nel grande universo come allora giace nella sua piccola immensità dovrebbe la vita generare sempre nel sorriso. * Io ci sarò ancora tra di voi per sempre un punto irriducibile dal quale ripartire dal quale nascerà una contestazione nuova alla luce dei fatti e delle perdute illusioni alla luce dei fatti di oggi come detto i bagni di sangue non portano bene. Caro editore tu hai detto giustamente: Occorre diradare l’opprimente “nebulosa”. E il mio pensiero va a voi ragazzi Avete camminato e camminate, sì pur di lacrime vestiti, nella bellezza. E a voi amici del prima e del dopo con loro l’affetto avete spartito pur al cospetto di quegli attimi orridi 53


tanta gioia donando e coraggio e amicizia… Piccolo Luca ti penso e con ragione Un mantello lugubre di sangue La nostra famiglia tutta ricoprì Il vocabolario non ebbe più parole Non ci fu più luce è vero… né pace Non si poté più cantare né dormire Nella braccia della morte eppure Fabrizio vide l’ombra di un sorriso sul nostro viso… Nota: il riferimento è a Fabrizio De André. * Il mio cuore per Te ha palpitato sempre. Ora naufraga tra lamelle di ghiaccio… Ora qui è davvero freddo e stridore di denti… Assiso sul filo della fede, guardo il cielo. Sotto di me mille lame di rasoio… Accogli il mio dolore nel Tuo abbraccio. È il calice di chi credevo fratelli un atroce e amarissimo destino… Qui tra le mani mie un vessillo. Il ricordo dei giorni felici risplende sul mio pianto ora debole singulto. Niente e nessuno distrugge l’amore pur nel buio dell’incombente oblio. Le lacrime degli onesti un dì ricadranno brilleranno i bianchi ciottoli della via. Di là ripartirà il cammino nel futuro… * Se ci poniamo in ascolto ancora lo sentiamo “oltre ogni possibile fine…” Pier Paolo disse… “È impossibile dire che razza di urlo sia il mio. È terribile e mi sfigura il volto, o le fauci? Invoca attenzione o aiuto oltre la bestemmia in questo luogo disabitato io ancora esisto e so una certezza assolutamente assurda al di là del suo significato primo….” Urla ancora il sangue nelle vene del tempo lungo l’arco dei secoli insiste e richiama… Acqua di un fiume infinito inesorabilmente lento. Niente e nessuno distrugge l’amore, nemmeno voi nemmeno voi stramaledetti da Dio in eterno voi che avevate nelle mani il destino dell’uomo quell’uomo figlio prediletto delle mani Sue… 54


Zizzo, Iozzino, Leonardi, Rivera, Ricci e fratelli… Sotto il bianco lenzuolo il Tempo persiste. Aspetto io Madre legata al suo richiamo… Doveva egli morire e i nostri con lui senza pietà. La rabbia di Ciro è la nostra assoluta radice… I figli rimasti richiedono lumi per le vostre indegnità Ansie e disperazioni ricadranno sui secoli a venire. La lontananza è un vento leggero e persistente quell’accordo di chitarra tra le dita è un incendio senza fine…

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ELIO PECORA

Le piazze sono strapiene di uomini, donne, ragazzi; avanzano dietro striscioni che chiedono altro presente. E vanno intonando canzoni di facili rime che salgono fino ai terrazzi, che l’aria s’imbeve. In così tanto fervore perdura la pena – ognuno intende quanto sia ardua l’impresa, pure ciascuno sa: in molti paesi lontani sono strapiene le piazze di uomini, donne, ragazzi e, in lingue diverse, chiedono un altro presente. Il coro immenso si spande nel rosso tramonto come una sola nuova onesta preghiera.

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OTTO RENE CASTILLO UNA VOCE DAL GUATEMALA

Un amico letterato di Madeira ci ha inviato una poesia di Otto Rene Castillo da lui tradotta dallo spagnolo al portoghese perché l’ha considerata attuale, anche se è stata scritta alcuni decenni fa. Per la stessa ragione abbiamo pensato di tradurla anche in italiano e di pubblicarla qui di seguito. Otto Rene Castillo, guatemalteco, è stato un poeta, fondatore di un circolo letterario insieme al poeta salvadoregno Roque Dalton e un guerrigliero durante i drammatici eventi in America latina degli anni Sessanta. Dapprima attivo in Salvador e in Messico, fu barbaramente ucciso in Guatemala lottando contro la dittatura nel 1967 a soli 33 anni. Aveva pubblicato due libri di poesie, Poema Tecún Umán e Vámonos patria a caminar. INTELLETTUALI APOLITICI Un giorno, gli intellettuali apolitici del mio paese verranno interrogati dagli uomini semplici del nostro popolo. Essi chiederanno loro che cosa stavano facendo quando la patria si spegneva lentamente come un focolare estenuato, esiguo e abbandonato. Non chiederanno loro dei loro viaggi, e nemmeno delle loro lunghe sieste dopo pranzo, e tantomeno dei loro sterili combattimenti contro il nulla, o del loro ontologico modo di procurarsi denaro. 57


Nessuno farà loro domande sulla mitologia greca, o sul disgusto che provavano per se stessi, quando qualcuno di loro, nel suo intimo, si disponeva vilmente a morire. Nessuno farà loro domande sulle loro giustificazioni assurde, cresciute nell’ombra di una plateale menzogna. In quel giorno verranno gli uomini semplici. Quelli che mai si chinarono sui libri di versi degli intellettuali apolitici, ma che ogni giorno andavano a prendere per loro il latte e il pane, le uova e le tortillas, cucivano i loro vestiti, guidavano le loro automobili, si prendevano cura dei loro cani e dei loro giardini, e lavoravano per loro , e domanderanno “ Che cosa facevate quando i poveri soffrivano e dentro di loro andavano combuste, gravemente, la tenerezza e la vita?” Intellettuali apolitici del mio dolce paese, non saprete che cosa rispondere. Un avvoltoio di silenzio vi divorerà le viscere. Vi roderà l’anima la vostra stessa miseria. E tacerete, vergognandovi di voi stessi.

traduzione dal portoghese di Donatella Bisutti

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IL POETA

SPITE

La Residenza di Scrittura di Framura aveva ospitato qualche tempo fa il famoso poeta americano Mark Strand (premio Pulitzer e Poeta laureato della Library of Congress, purtroppo recentemente scomparso) insieme alla moglie (la critica d’arte Maricruz Bilbao), cui si devono le foto. Durante il soggiorno a Framura era venuto a incontrarlo il famoso americanista Massimo Bacigalupo, che ebbe con il poeta una conversazione, qui riportata, sul tema “poesia e spiritualità oggi negli Stati Uniti”. All’incontro aveva partecipato anche il pittore e scrittore Carlo Vita Fedeli. Carlo Severgnini, a sua volta scrittore e poeta (in questo caso nella veste di anfitrione) aveva fatto visitare a Mark Strand il Golfo dei Poeti, tra Lerici e Porto Venere, reso famoso da Byron e Shelley. 59


Mark Strand è nato in Canada nel 1934 da genitori statunitensi, con cui dai quattro anni ha vissuto a New York, Filadelfia e altre città. Si è laureato in Ohio, poi ha studiato pittura all’Università di Yale e scoperto la sua vocazione poetica durante un soggiorno Fulbright a Firenze, dove si è interessato fra l’altro di Leopardi. Insegna nello Iowa e poi a Rio de Janeiro, dove subisce l’influsso di Carlos Drummond de Andrade. La prima raccolta di poesie, Sleeping with One Eye Open, è del 1964. Seguono, presso Atheneum, Reasons for Moving, Darker, The Story of Our Lives (1973, premio Edgar Allan Poe), The Late Hour e la curiosa prosa “postuma” The Monument (Ecco Press, trad. ital. Il monumento, Fandango). Questi scritti si distinguono per nitore formale e vigore speculativo. Partecipano non senza ironia al clima postmoderno e non nascondono il debito nei confronti di Wallace Stevens e dei surrealisti. Dal matrimonio con Antonia Ratensky nasce la figlia Jessica; da un secondo matrimonio, con Julia Garretson, nasce il figlio Tom. Intanto Strand continua ad insegnare presso università importanti: Columbia, Mt. Holyoke, Yale, Harvard, Princeton, più tardi la Committee for Social Thought dell’Università di Chicago. Ottiene, nel 1987, il MacArthur Fellowship e, nel 1999, il Premio Pulitzer per la raccolta Blizzard of One; nel 1990-91 ricopre la carica di Poeta Laureato della Library of Congress. È spesso in Italia, presso l’Accademia Americana a Roma e la Fondazione Bogliasco e di lui escono numerose scelte tradotte da Damiano Abeni. Un altro estimatore italiano, Franco Nasi, gli dedica diversi saggi. Dopo una pausa decennale (1980-90) in cui si dedica alla critica d’arte, Strand torna alla poesia pubblicando presso Knopf The Continuous Life e il poema Dark Harbor (1993), una cui traduzione italiana integrale è inclusa nell’eccellente e ampia scelta L’uomo che cammina un passo avanti al buio. Poesie 1964-2006 (traduzione di Damiano Abeni, con un saggio di Rosanna Warren, uscito per Mondador nel 2011). Nel 2014 è uscito ne Lo Specchio di Mondadori il volume di poesia Quasi invisibile, tradotto da Damiano Abeni. Strand, che ha anche curato con Abeni una preziosa antologia della “nuova poesia americana”, West of your cities (Minimum Fax, 2003), è figura di punta della poesia fra tardo Novecento e nuovo millennio. La sua è un’opera sorvegliata e formalmente perfetta, ma anche trasparente e accessibile. Al suo antico maestro Stevens egli affermava di avere di recente affiancato l’ironico visionario di Praga, Franz Kafka. È morto a New York nel novembre del 2014.

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MARK STRAND DIARIO REALE E DIARIO IMMAGINARIO

Cena a Porto Venere da sinistra Mark Strand, Carlo Severgnini, Donatella Bisutti, Luca Boriello

Durante il suo soggiorno a Framura Mark Strand ha scritto un diario. Ma, ancora prima di venire, si era divertito a immaginare i luoghi e il soggiorno che colà avrebbe fatto e aveva scritto un diario immaginario. È abbastanza sorprendente leggerli in parallelo. Essi ci permettono di entrare nel suo “laboratorio interiore” dove il quotidiano, di una dimessa apparenza realistica molto anglosassone (che possono ricordare ricordare certi pigli delle non lectures di Cummings) è già pronto a ribaltarsi in visionarietà, non senza l’aggiunta in understatement di un ingrediente di bizzarra ironia. Un’intima coerenza, unita a una sincera umiltà, cementa questi testi e, sdrammatizzando la figura retorica del poeta-vate, ci dà la misura, io credo, di un’alta qualità umana che oggi rimpiangiamo insieme alla perdita di una importante voce della poesia. 61


IL DIARIO IMMAGINARIO DI FRAMURA 3 giugno Maricruz e io siamo arrivati a Framura e Donatella ci ha incontrati in centro e, seguendo la sua auto, siamo arrivati alla residenza. Era pomeriggio tardi e il sole a occidente gettava sul mare un manto giallo luccicante. Ci è stata mostrata la casa e siamo usciti in giardino dove ci siamo seduti con Donatella, abbiamo preso il tè, e abbiamo ricevuto una breve introduzione alla residenza, i dintorni e i posti da visitare. Piú tardi siamo saliti nella nostra camera per disfare le valigie. Il posto è straordinariamente bello. Ci era stata preparata una cena di pasta, vitello, verdure e un egregio vino rosso leggero. Dopo cena abbiamo cercato di leggere, ma eravamo troppo stanchi sicché siamo andati a letto presto.

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IL DIARIO REALE DI FRAMURA 3 giugno Qui comincia il diario del nostro soggiorno a Framura. Siamo partiti nella Toyota Prius nuova di zecca di Maricruz da Madrid alle 14 del primo del mese e abbiamo passato la notte a Girona, una città tranquilla con strette viuzze di acciottolato, molto medievale specialmente al lume pressoché inesistente dei lampioni. Siamo partiti il giorno seguente a mezzogiorno (dopo aver imparato a usare il nostro GPS) e abbiamo attraversato il paesaggio spettacolare che va da Nizza a Ventimiglia: tanti tunnel e viadotti drammatici per non dire paurosi. Abbiamo pernottato a Imperia in un simpatico alberghetto sul mare e abbiamo cenato ottimamente in un ristorante vicino dove si dava il caso stesse cenando la nazionale femminile italiana di pallanuoto. Erano molto sane, molto larghe di spalle, e molto grosse. Il viaggio per Framura è iniziato verso le dieci di mattina. Siamo usciti a Rapallo dove pensavamo di pranzare ma c’era troppo traffco e mancanza di posteggi sicché proseguimmo per Chiavari dove abbiamo trovato un posteggio e abbiamo fatto un eccellente pranzo leggero in un simpatico ristorante vecchio stile, sorprendentemente silenzioso. Abbiamo continuato per Framura e qui all’uscita ci hanno accolti Donatella e Carlo. Abbiamo appreso che Carlo è il proprietario della casa dove staremo. Li abbiamo seguiti lungo stradine per circa venti minuti, e siamo arrivati a Framura verso le 15.30. Niente — neppure le fotografe che avevamo visto — ci aveva preparati per lo spettacolo del posto. Il mare esiste con un’ intensità da me mai prima sperimentata; la sua estensione, il suo blu, le macchie di luce sull’acqua distante. Domani sarò più preciso nella mia descrizione. Carlo, che non solo è il proprietario, ma sarà pure il cuoco per tutto il nostro soggiorno, sta preparando la cena. Lo osservo al lavoro. Gli dà piacere, per la non ultima ragione che è molto bravo in questo campo. La cena è stata eccezionale: del sampietro (un grande pesce piatto), cotto su patate cosparse di capperi, ripieno di aglio e rosmarino, e circondato da pomodorini. Durante la cena la conversazione è stata vivace: si è parlato molto dei tentativi che fece Canova per recuperare le opere d’arte italiane sottratte dai francesi. Donatella e Carlo sono molto cari. Federer ha battuto Djokovic sullo schermo muto della TV.

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4 giugno Ci siamo svegliati riposati. Ho fatto un sogno in cui camminavo per una città dove le persone brillavano come lampadine da pochi watt. Il fatto che io stesso non brillassi non mi dava fastidio. Ho preso il caffè, Maricruz il té. Poi siamo andati in centro. Al ritorno abbiamo deciso di passare il pomeriggio sul bordo della piscina a leggere. Sto ancora leggendo la prima parte del Don Chisciotte. Scrivere alcunché a parte questo diario é al di sopra delle mie capacità. Mi sembra persino di non poter pensare. Mi domando come riuscirò a sostenere la conversazione che dovrò portare avanti con Massimo Bacigalupo sulla spiritualità nella poesia americana. In serata abbiamo fatto un altro giro a Framura e abbiamo deciso di esplorare le altre cittadine lungo la costa, specialmente Porto Venere, che ricordo dalla mia prima visita in Italia nel 1960, un bellissimo borgo dove si poteva sedere in uno dei caffè sul mare e guardare oltre il porto fno a Lerici. Volevo anche visitare Sestri Levanti dove nel corso di un viaggio scriteriato in Spagna la mia Lambretta si bloccò e dovetti abbandonarla. E naturalmente dobbiamo visitare Genova e mangiare la farinata.

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4 giugno Stamattina Massimo e Angela e il loro amico Popi sono venuti a trovarci a Framura e Donatella li ha incontrati alla stazione, poi li ha accompagnati al villaggio su per la collina. Noi ci siamo andati a piedi: circa 400 scalini per varie viuzze. Ero assolutamente esausto. Ma abbiamo trascorso un’ora piacevole prendendo un caffè nella piazzetta. Dopo siamo scesi a casa, Carlo ha preparato dei fusilli al pesto e pomodorini affettati. C’era anche dell’altro, ma non ricordo cosa. Poi Massimo è andato a fare una nuotata, Maricruz ha fatto un sonnellino. Non sono riuscito a far funzionare la TV, che ogni tanto va in tilt, sicché ho perso la fnale femminile del Roland Garros. Ho letto qualche pagina del Don Chisciotte. Quando Massimo è tornato dalla spiaggia, abbiamo registrato la nostra conversazione sulla spiritualità nella poesia americana, un tema in cui ho tradito la mia ignoranza. In effetti, ora che ci penso, non c’è argomento sul quale non tradisca la mia ignoranza; e questo comprende anche l’argomento eternamente sfuggente della mia poesia. Massimo ha fatto delle domande assai vivaci e ha fatto del suo meglio per tirarmi fuori qualcosa. Ma cosa c’era da tirare fuori? Bene, abbiamo parlato, e Donatella che ha assistito allo scambio, come anche Popi, è stata generosa nel suo apprezzamento. Ma era sincera? Sono sicuro che si aspettava di più. La cena era pronta. Carlo aveva fatto una succulenta grigliata di bistecche e salsicce. E abbiamo gustato un’ottima torta alla crema. Poi abbiamo accompagnato a piedi Massimo, Angela e Popi alla stazione. Per tornare abbiamo dovuto fare una bella salita. Sono esausto. E non ho nessuna idea.

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5 giugno Mi sono svegliato e mi é venuta voglia di continuare a scrivere i brani di prosa che pensavo di aver finito a febbraio. Mi è venuta un’idea su una gamba fantasma. Un uomo con una gamba sola sente un crampo nella gamba fantasma e aspetta che il dolore passi. Prova a stirarsi ma teme che il dolore torni. La sua gamba fantasma va meglio sicché si alza in piedi ma la gamba fantasma non lo sostiene. Cade. Il giorno dopo va dal dottore e prende accordi perché la gamba fantasma sia amputata. Il dottore si offre di operarlo gratis. L’uomo viene sottoposto ad anestesia. La gamba viene rimossa. Ma la gamba fantasma sviluppa una propria gamba fantasma. Anche questa provoca dolore all’uomo. Il dottore dice che l’uomo dovrà subire un’altra amputazione. La cosa va avanti per anni. Il numero delle gambe fantasma dell’uomo supera il centinaio. La storia non ha conclusione. Ho deciso di non scrivere altri pezzi in prosa. Chiaramente, la mia incapacità di trovare una soluzione al problema della gamba fantasma era un segno che dovevo rinunciare. Abbiamo deciso di visitare Ivana e Alessandra a Bogliasco. La villa a Bogliasco é bella come la ricordavo. Siamo andati in quattro a Genova in macchina per un pranzo di farinata. Deliziosa.

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5 giugno Stamattina ho fatto una lunga passeggiata in paese, per una strada diversa. E’ stato stancante come la vecchia strada. A pranzo, è arrivato Luca, un amico di Carlo, con i suoi genitori. Luca mi è parso una persona gentile e rilassata, fondamentalmente piacevole. Lui è rimasto, i genitori sono ripartiti. Ero stanchissimo. La passeggiata mi aveva distrutto. Ho continuato a leggere Don Chisciotte e ho guardato Nadal battere Federer. Non mi sentivo affatto bene, ma ho cenato soffiandomi di continuo il naso. O era una reazione allergica o mi ero preso un brutto raffreddore. Tutti gli altri erano in gran forma. Maricruz e Donatella erano particolarmente vivaci.

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6 giugno Stamattina un’altra passeggiata. Ottimo esercizio scendere la collina e risalire. Un’altra giornata splendida, per cui abbiamo decidere di andare in auto a Porto Venere per pranzo. Maricruz ha guidato e io ho meditato sull’impossibilità e l’insignificanza della fama. Beh, non la fama in senso esatto, ma il tipo di fama che si autogenera e che continua a lungo dopo la morte. In altre parole, ció che chiamiamo immortalità. Mi limito a considerare l’immortalità degli scrittori. Diciamo che ci sono cento scrittori che risiedono nella Stanza dell’Immortalitá, la sala centrale del Palazzo dell’Aldilà. Così come l’American Academy of Arts and Letters non ammette più di 250 membri, così la Stanza dell’Immortalitá non ammette piú di 100 scrittori. Uno scrittore può entrare nella stanza dei cento solo se uno dei cento ammessi è buttato fuori perché la sua fama è decresciuta o addirittura svanita. Il periodo di attesa già per il tentativo di entrare è di cinquant’anni. Molti che hanno una stima esagerata dei propri meriti si mettono in fila e bussano alla porta principale. Si apre una finestrella e la faccia dell’usciere appare e chiede il nome dell’aspirante. Gli ci vuole solo un secondo per dire sì o no, ma la risposta è quasi sempre no. Io ho aspettato in fila quasi 200 anni prima di arrivare alla porta e bussare. Il portiere chiede il mio nome. “Strand, Mark Strand”, rispondo. Con mia sorpresa la porta si apre e vengo fatto entrare. Sono curioso di sapere chi è stato cacciato per fare posto per me, ma sono troppo sbalordito dalla mia fortuna per chiederlo. Gli altri, uomini e donne, sono coricati su sedie a sdraio con gli occhi chiusi, e nessuno dice niente. Anch’io mi accomodo. Ma dopo un quarto d’ora viene da me un tizio e dice: “Signor Strand, ora deve andarsene”. “Così presto?”, mi lamento. “Temo di sì”, risponde. “Vede, uno studioso autorevole ha appena pubblicato un libro in cui dice che di tutte le poesie del secolo XX le vostre sono fra le peggiori. Questo volume persuasivo ha controbilanciato le lodi che le ha riservato uno studioso meno autorevole il quale sosteneva che gli anni seguiti alla sua morte erano stati ingenerosi nei confronti della sua reputazione la quale in realtà era meritevole di una rivalutazione”. In meno di un secondo mi trovai fuori dalla Stanza dell’Immortalità, che mi parve, dai quindici minuti che vi trascorsi, non il genere di posto che fa per me. Maricruz e io abbiamo pranzato con un buon piatto di spaghetti alle vongole veraci. Per dessert ho preso della panna cotta al mandarino. Siamo tornati a Framura a fare un sonnellino. Ho risposto ad alcune mail. Cena leggera.

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6 giugno Il mio naso tappato mi ha quasi impedito di respirare. Uno spray è stato solo parzialmente efficace. Lo Zyrtec non ha funzionato. In qualche modo sono riuscito a fare una gran bella passeggiata nella prima parte della giornata.

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7 giugno Oggi ero un po’ disturbato di stomaco. Ho deciso di non mangiare niente, prendere del tè e starmene in giardino a leggere Don Chisciotte.

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7 giugno Oggi mi sento meglio e mi sto avvicinando alla fine della parte prima di Don Chisciotte, divertendomi molto a leggere di un inganno dopo l’altro, di lacrime versate e tragedie evitate, e della folle dignità del protagonista. Carlo ci ha fatto fare un giro a Levanto, una cittadina molto tranquilla che un tempo era un porto operoso dove le barche venivano per essere riparate e armate. Abbiamo fatto un pranzo veloce, la cosa migliore era la focaccia e quella meno gustosa la farinata troppo salata. Al ritorno Carlo ci ha portati in uno dei suoi posti preferiti. Ha posteggiato sul lato della strada, dopo aver guidato per circa venti minuti, sempre salendo una delle strade più tortuose che io abbia mai visto. Questo posto di Carlo valeva l’escursione. Eravamo sul dosso in cima a un colle assai alto e la vista si estendeva per decine di miglia di colli e valli fittamente boschive e densamente verdi. Più tardi abbiamo fatto una cena semplice, preparata da Carlo con la consueta facilità ed eleganza. Il mio naso è di nuovo tappato, ma ho la sensazione di stare meglio. Domani Maricruz e io prendiamo il treno per Genova.

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8 giugno Oggi siamo andati a trovare Massimo Bacigalupo a Rapallo. Ci ha fatto fare un giro della cittadina, indicando i luoghi dove sono passati Yeats, Pound e Hemingway. Poi siamo usciti per una veleggiata sulla sua barca e quando eravamo abbastanza lontani dalla costa abbiamo fatto una nuotata. L’acqua era freddina, ma il sole era particolarmente caldo e così non mi sono venuti dei brividi come temevo. Più tardi siamo saliti a casa di Massimo, abbiamo incontrato sua moglie Angela, molto simpatica, e abbiamo cenato. Dieci anni fa avevo scritto qualche sciocchezza nel suo libro degli ospiti e questa volta ho scritto delle sciocchezze più indovinate. È stato molto bello e il viaggio di ritorno è stato piacevolissimo. Di nuovo mi è venuta un’urgenza indesiderata di scrivere, di continuare i brani in prosa che per qualche tempo mi hanno dato tanto piacere. Questa volta, con Maricruz al volante, ho pensato di continuare a lavorare su Le circostanze squisite della mia espulsione e Il Ministro della Cultura alla vigilia della sua esecuzione.

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8 giugno In effetti oggi sto meglio. Il naso non è più bloccato. Ho solo un’irritazione alla gola, probabilmente perché ho esagerato con lo spray nasale. Pur non essendo guarito al 100%, mi sento benino. E ho iniziato la parte II del Don Chisciotte, che conto di finire prima di arrivare a Civitella Ranieri fra 10 giorni. Ho paura che questo diario deluderà Donatella, nella cui rivista dovrebbe apparire, e tutti gli altri che dovessero leggerlo. Faccio questo e quest’altro, ma non mi vengono pensieri interessanti su questo e quest’altro, né alcuna idea su come salvare il mondo. Ahimè, il mondo non fa nessuna comparsa in questo diario, il primo che io abbia mai cercato di tenere. Cioè, tranne quello immaginario che ho composto prima di arrivare qui. In questo momento, sono in salotto, e guardo il mare mosso. Il vento soffia, le onde s’infrangono sugli scogli, scagliando in alto fiori di schiuma. Ieri sera e stamane, fino a circa un’ora fa, ha piovuto forte e il mare era scuro e solcato da bianche creste. Noto delle chiazze di acqua verde chiaro che i miei occhi ignoranti interpretano come segni di un fondo sabbioso. Ma dove oggi c’è il verde, ieri non c’era. Le chiazze di verde pallido sembrano migrare e ora erano proprio davanti a casa nostra. Non ho una spiegazione razionale o veridica del fenomeno. Il cielo si è schiarito abbastanza. Tratti di blu si intravedono attraverso piccolo squarcio nelle nuvole, che ora sono bianche, non grigio scure e minacciose come prima. Avevamo programmato di andare a Genova per riportare a Massimo il portamonete che ha dimenticato qui sabato. Il tempo si è messo in mezzo, così andremo domani. Ora, per la prima volta oggi, noto del sole sull’acqua. Patrizia, che fa le pulizie, lava la biancheria e a volte cucina, ha preparato un ottimo pranzo di melanzane alla milanese. Non era tutto lì, ma certo era il piatto forte e piú gustoso a parte la stupenda crostata di ciliege che ci ha offerto per dessert. Ne ho preso tre fette.

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9 giugno Un altro giorno in cui ci siamo chiesti perché mai qualcuno potrebbe scegliere di vivere in qualsiasi altro posto. Pranzo leggero, bagno in piscina. Mentre facevo il morto in acqua ho pensato di scrivere un altro brano in prosa intitolato Prove dell’infinito, ma naturalmente, e in tutta modestia, ho resistito alla tentazione. Maricruz e io decidiamo di andare in un ristorante locale, che ci è stato caldamente raccomandato da un uomo magrissimo in camicia bianca e scarpe da tennis giallo acceso. Ha detto che la focaccia è assolutamente la migliore. Dunque abbiamo cenato lì ed aveva quasi ragione, il che vuol dire che aveva un po’ torto. Ma avendo deciso che c’è di peggio che avere un po’ torto ce la siamo goduta, e abbiamo giudicato la focaccia veramente ottima. Fra qualche giorno sarà un mese che sono lontano da New York. Non ne ho sentito affatto la mancanza; tanto basta per la mia vita in America. Se Jessie e Lucian fossero trasportati qui insieme ad alcuni dei miei amici, come sarebbe perfetta la vita lontano dalla “nazione più potente del mondo”. Stasera c’è una brezza fresca dal mare e ho sconfitto la tentazione di scrivere un’ altra prosa intitolata Le impurità dello specchio in cui lo specchio è descritto come una discarica.

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9 giugno Scrivo queste righe il 10. Ieri, 9 giugno, siamo andati a Genova, abbiamo visto Massimo e gli abbiamo restituito il portamonete, abbiamo incontrato Alessandra e Ivana, e tutti e cinque abbiamo visitato la Chiesa del Gesù, una vistosa e decoratissima chiesa-scrigno con una varietà di marmi maggiore persino che nella chiesa dei Portoghesi di Roma. Poi siamo andati a prendere della farinata in un ristorante dove Ivana e Alessandra mi avevano portato l’anno scorso quando ero a Genova per il Festival Internazionale di Poesia. Tutto il tempo mi sentivo poco bene. Il naso era così tappato che non potevo respirarci. E ho cominciato a tossire finché il petto mi ha fatto male. Dopo pranzo, Massimo ci ha lasciato per tornare a Rapallo mentre noi quattro siamo andati a Bogliasco dove Alessandra conosceva una farmacia che sarebbe stata aperta, infatti erano le 14.30 e tutte le farmacie vicine di Genova erano chiuse. Mi sono procurato dei rimedi per il raffreddore che, ho scoperto dopo, hanno avuto scarsi effetti. Mi hanno portato da un dottore che Alessandra conosceva, e che mi ha prescritto i farmaci antinfluenzali che avevamo appena comprato in farmacia. Maricruz e io abbiamo preso il treno per rientrare a Framura. Abbiamo dovuto cambiare a Sestri Levante per Levanto, e poi prendere un altro treno nella direzione opposta per Framura. Siamo arrivati alle 8. Carlo aveva preparato, ancora una volta, una cena eccellente di riso e gamberi. Dopo cena ho cominciato a provare le medicine che avevamo comprato. Ho infilato la testa in un asciugamano sopra una bacinella d’acqua bollente. Nessun effetto. Ho preso l’Afrin prima di andare a letto, almeno mi ha liberato le narici. Ho dormito sostenuto da due guanciali.

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10 giugno Al risveglio mi accorgo della debolezza di questo diario. Non ho parlato a sufficienza del vero piacere di stare qui. Questo piacere è ovviamente del tutto sensuale: il contatto dell’aria, il profumo del mare, dei fiori, il canto degli uccelli. I minuti passati in uno stato di stupefatto entusiasmo nel quale si forma una relazione fra il piacere e l’infinito! E’ una relazione così potente che si pensa che essi collaborino nella creazione dell’inerzia. E questo diario? Forse dovrei scrivere una prosa intitolata Una meditazione sulla falsificazione. Ma perché? Perché scrivere qualsiasi cosa? L’evanescenza non é cosa da ridere… e fra pochi giorni ce ne andiamo da questo posto.

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10 giugno Oggi mi sento molto meglio. Luca e Donatella sono di nuovo qui, dopo un’assenza di diversi giorni. Andiamo tutti a Porto Venere dove ceniamo. Siamo andati ed è stato spettacolare come ricordavo. Il castello e la chiesa mi hanno stupito come cinquant’anni fa: ancora magnificamente posti su un promontorio con onde frangenti sulla sua base rocciosa. Ma il resto è cambiato. Nuove case, un garage sotterraneo, motoscafi dappertutto, e alcuni yacht ancorati nella baia così grossi come solo dei miliardari possono permetterseli. La Spezia, che abbiamo attraversato per arrivare a destinazione, sembrava molto più grande di quel che ricordavo. Ma la mia memoria è lacunosa. Non ricordo neppure come e con chi sono venuto a Porto Venere la prima volta. Solo la folgorazione della sua bellezza si è conservata. La fila di case medievali, alte e sottili, le barche da pesca dai colori chiari ormeggiate dirimpetto ai pochi caffè all’aperto formano ancora l’immagine del luogo che resterà con me. Abbiamo preso una lancia a motore attraverso il braccio d’acqua per raggiungere un eccellente ristorante specializzato ovviamente in pesce, e abbiamo mangiato all’aperto. Carlo ha ordinato per tutti. Tutto era ottimo. Problema: il mio naso era bloccato più che mai, la mia tosse era peggiorata, e ahimè ho ecceduto nel mangiare. Il viaggio di ritorno, come quello di andata, ha preso un’ora.

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11 giugno L’ultimo giorno tutto qui. Domani andremo in macchina a Basilea per la fiera dell’arte. Già prevedo di essere irritato non solo dall’ “arte”, ma anche dalle spiegazioni/giustificazioni offerte dai galleristi che sanno poco dell’arte e molto del denaro. Ma ecco che penso ancora a un’altra prosa basata su quello che mi disse una giovane al suo ritorno dalla Norvegia, e cioè che non c’è vento a Oslo. Potrei scrivere di Oslo qui a Framura dove il vento è forte e il mare è verde? Lo potrei ma non lo farò. La nostra ultima cena è deliziosa: spigola, ottimamente cotta al forno, patate bollite, insalata verde, vino ligure fresco. Il mare è scuro mentre scrivo queste righe. Le persiane sono abbassate. Il domani procede passo passo attraverso il globo terrestre.

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11 giugno Questo è stato il nostro ultimo giorno intero a Framura. Di mattina ho scritto un breve articolo sulla poesia per il supplemento culturale domenicale del giornale finanziario Il Sole-24-Ore. Me l’hanno chiesto, dandomi meno di 24 ore per scriverlo, e non ho la minima idea se stamperanno quel che ho scritto. Oggi sono rimasto in casa, sperando che il mio naso si liberasse e che la tosse cessasse. Entrambi sembrano in fase di miglioramento. Domani puntiamo su Lucerna. traduzione di Massimo Bacigalupo

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Da sinistra: Carlo Severgnini, Mark Strand, Massimo Bacigalupo, Carlo Vita Fedeli

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MARK STRAND – MASSIMO BACIGALUPO SPIRITUALITÀ, INCONSCIO, RELIGIOSITÀ, NELLA POESIA AMERICANA DI OGGI

Mark Strand in conversazione con Massimo Bacigalupo

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D. Cosa intende per spiritualità? R. Penso che la spiritualità vada distinta dalla religiosità. Fra i grandi predecessori, si potrebbe dire che T. S. Eliot, in quanto poeta religioso, sia un poeta spirituale. In realtà, la sua visione spirituale esiste già prima che egli aderisca a una particolare confessione, l’anglicanesimo. Anche W.H. Auden, verso la fine della vita, scrisse poesie di ispirazione anglicana, ma la sua spiritualità è di tipo esistenzialista e, nel complesso, la sua opera è più estroversa di quella di Eliot. Se si ritiene che i poeti posseggano una sorta di sapienza segreta, allora è possibile inserirli nell’ambito della spiritualità… Io sarei disposto a sostenere che sì, i poeti vivono ed esprimono ricche vite soggettive. Ma sarebbe difficile dire che un poeta è solo spirituale e un altro solo materiale. Ad esempio, Walt Whitman, con la sua passione per la gente, la vita quotidiana della città, sembra molto materiale: gli interessano le cose e di solito non pensiamo che le cose siano spirituali. Ma spesso Whitman dice che tutte queste cose di cui parla non sono lui, c’è in lui una forza segreta, accennata, quello che lo sostiene è un’energia spirituale. Nella poesia americana c’è sempre un aldilà, qualcosa aldilà del contingente, che non si sa esprimere, ma in cui si crede. Il desiderio di possedere qualcosa oltre noi stessi, qualcosa oltre l’effimero: c’è tanto che è inspiegabile. Credere nei misteri della vita non vuol dire di per sé spiritualità, ma è pur sempre un credere in qualcosa oltre a quello che si conosce. Nel grande poema sul ferry di Brooklyn, Whitman si rivolge al lettore futuro e dice: “anch’io come te ho guardato, pensato, dubitato, desiderato”. Il momento di illuminazione è difficile da esprimere sulla pagina, non ha contenuto, devi riuscire a far credere al lettore che un tale evento esiste, ma appena cominci a parlarne si dilegua. D. Che ruolo ha la lingua nell’espressione di questi sentimenti sfuggenti? R. Senza lingua non ci sarebbe amore. Ci potrebbe essere una sensazione, una sensazione piacevole, ma la caratterizzazione del sentimento lo rende più concreto, in altre parole (ma non ci giurerei) un poeta può essere “più innamorato” di una persona comune perché possiede il linguaggio per esprimerlo. Mentre una persona comune può solo dire “ti amo”, “sono innamorato”, il poeta dispone di immagini, parole, forme. Se no perché scriverebbe? Si dice che la poesia sia una forma di comunicazione. Però i poeti non scrivono per comunicare, ma per esprimere. Molti scrivono senza il pensiero di essere letti, addirittura nascondono i loro scritti. Tornando alla prima domanda, ho difficoltà con il termine “spirituale”. Non fa in realtà parte del mio vocabolario. Tuttavia, sono d’accordo che scrivere una poesia è un atto spirituale. Lo spirito è qualcosa che non ha carattere fisico, corporeo. Come trasmetti qualcosa che non ha proprietà fisiche ma risiede nel sentimento? Qualcosa che non esiste fuori dall’esperienza imponderabile che se ne ha? Come prendi una cosa di questo tipo e la trasformi in un fenomeno in qualche modo tangibile? Un poeta può dire: “Oggi sono andato a passeggio, ho visto dei fiori bellissimi etc.”. Sarebbe solo un resoconto delle sue azioni, ma se comincia a parlare di ciò che ha provato durante quella passeggiata, ecco che entra in gioco lo spirito. Quel che fanno i poeti è dare forma. Penso che la poesia sia sempre un esercizio spirituale, ma alcune poesie concernono più direttamente l’esperienza non detta. Non c’è bisogno (come fanno alcuni) di registrare tutti i dettagli della propria vita privata come per autenticare il proprio lavoro. “Questa è la mia quotidianità, io sono il sig. Tizio, detestavo mio 82


padre che vendeva automobili…”. Questo non è l’ambito spirituale, lo spirituale è tutt’altro: non mi conosceresti dal lavoro che faccio, non mi conosceresti nemmeno da quanto scrivo. Così, nei miei testi non tratto i dettagli della mia biografia. Certo, io mi alzo di mattina, bevo del succo d’arancio ecc., ma questa non è la mia vita! Io ho un’altra vita di cui parlo nelle poesie e questo potrebbe anche chiamarsi! Il lato spirituale!! Credo che la maggior parte dei poeti abbia questo in comune: raccontare quest’altra vita. Non quella privata, intima, ma quella misteriosa che scopri nell’atto di scrivere. Essa viene come liberata dalla lingua. La lingua è una grande liberatrice; quando scrivi, una frase ne suscita un’altra. D. È d’accordo che la poesia americana abbia spesso intenti didattici e religiosi (Whitman, Eliot, persino Stevens)? R. Non generalizzerei. La poesia ha qualcosa della religione. La religione codifica la fede, ma la poesia ti chiede solo di credere a quel che leggi mentre leggi e non ti censura se sei di opinione diversa. D. In quali altri poeti di oggi ravvisa questa attenzione all’ “altra vita”? R. In Charles Wright c’è una dialettica fra il fenomeno e lo spirito, ma ciò che ti fa sentire la pressione di queste forze è la retorica, lo stile, impiegati da Wright. La sua poesia è sempre nell’atto di dire addio. La spiritualità per lui sta nell’elemento del bello. Il bello è la trascendenza, ma il bello è tale in quanto è visto ed è questa la dialettica di Wright. La poesia è un atto morale, un atto spirituale, dice di qualcosa che c’è: credibile, ma non dimostrabile. L’idea che una poesia possa influenzare altri è di per sé un esempio di spiritualità. Nella mia poesia sono spesso ironico: non credo pienamente a quel che sto dicendo, d’altra parte devo scrivere versi che mi confermino nella convinzione che scrivo poesia. L’immagine della poesia con cui sono cresciuto era tradizionalmente bella, ora invece, io a volte spezzo il mio discorso per ironizzare su quanto sto facendo. Lo scrittore a un certo punto sta anche leggendo la sua poesia e commentandola mentre la scrive. D. I critici hanno indicato nella Sua opera un influsso del surrealismo. È d’accordo? R. Non mi considero un surrealista perché associo il surrealismo a un certo periodo e contesto. Io non posso programmare ciò che faccio, non parto da una decisione razionale. Invece il surrealismo è spesso più intenzionale, logico, mentre io lavoro per necessità, senza darmi giustificazioni. Pochi afferrano questa distinzione. Scrivo qualcosa che sento essere giusto, non qualcosa che ho deciso di fare. La società si aspetta da me una certa cosa, ma io non posso scrivere diversamente da come faccio. Qualcosa che sento di dover fare. Io non vado né con la corrente né controcorrente.

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D. Pensa che nello scrivere abbia un ruolo l’inconscio? Creda che esista un inconscio collettivo, sovra-personale, di tipo junghiano? R. Per me il modello freudiano, Super Io, inconscio ecc. è una mappa, una mappa che però non spiega nulla. I surrealisti fecero un uso deliberato dell’inconscio, la scrittura automatica, ma in realtà è impossibile scrivere automaticamente: puoi trascrivere i tuoi sogni, ma è una tua scelta. Io non trascrivo i miei sogni, il mio lavoro è il mio sogno. Credo che tutti posseggono un inconscio e una vita onirica, ma non credo che il mio mondo interiore sia simile al mondo interiore di John Ashbery o al mondo interiore di Charles Wright. Penso che tutti abbiamo una psiche e che percepiamo il mondo in modi molto diversi. Ci comprendiamo a vicenda. Il poeta deve rendere queste sue percezioni comprensibili ad altri. D. Ma non crede che alcune immagini appartengono a tutti? R. Siamo tutti umani, quasi tutti abbiamo paura del buio, quasi tutti ci innamoriamo, questi sono sentimenti universali. Le poesie che più ci attraggono sono quelle che esprimono meglio di altre questi sentimenti. Le poesie trattano spesso di paura, amore ecc., ma l’espressione è diversa, anche perché la lingua cambia l’espressione dei sentimenti, cambiano gli strumenti. I soggetti delle poesie restano semplici, io posso capire un altro; d’altra parte io devo prendere queste esperienze e utilizzare la lingua che posseggo. Quanto l’esperienza sia universale è un’altra questione, in ogni caso troviamo modi diversi di interpretarla. Dipende dall’abilità del poeta singolo di attingere al suo inconscio. Il nostro essere umani è universale; ciò che non è universale, comune, è la maniera in cui articoliamo i nostri sentimenti. La tecnologia ha cambiato tantissime cose, ma non il modo in cui parliamo di noi stessi, che è rimasto quello di sempre. Per questo penso che la poesia documenti la continuità della soggettività umana. La giustificazione dell’arte è che ci mette in contatto con noi stessi, non solo nel presente, ma con quello che siamo stati nel corso dei secoli. La poesia ci dice chi siamo in quanto persone, il romanzo come siamo nella società. In altre parole, la poesia, al contrario della narrativa, procede dall’interno all’esterno, esteriorizza la nostra interiorità. In questo ambito sarebbe difficile parlare di valori. Per esempio, sarei presuntuoso se cercassi dei valori assoluti. D. La poesia si riferisce solo all’umano o a qualcosa che mette in contatto uomo e mondo, oltre l’umano? R. È quello di cui sto parlando. Non lo escludo. Nella poesia di Wallace Stevens L’idea dell’ordine a Key West il canto della donna rende visibile l’ordine del mondo. Il canto dà senso al mondo in cui camminiamo. L’emozione della poesia è la scoperta di questo ordine, che appare predestinato. Si parte con l’ordine particolare e si arriva all’ordine universale… è la sola intuizione che abbiamo dell’ordine universale. Abbiamo in noi il seme di questa consapevolezza universale, i poeti lo nutrono e lo fanno fruttare. Gli esseri umani serbano il ricordo del mondo perfetto, e i poeti lo sentono fortemente. Ma non si può affrontare questo compito direttamente. 84


L’universo è così grande e in espansione che sarebbe assai presuntuoso dire: “sto parlando della totalità”. Si deve iniziare dal particolare, come Blake, che vedeva “l’eternità in una singola ora” e teneva “l’infinito nel palmo della mano”. Si parte dall’ora presente, dal palmo della mano. La soggettività è l’inizio. Le poesie non arrivano dallo spazio extraterrestre, sono generate dall’interno ma ciò che è in noi è la stessa materia che costituisce le stelle. Questa è la conversazione più ariosa che io abbia mai avuto… D. Però Lei ha scritto più volte di Orfeo… R. Orfeo è uno dei miti centrali della poesia. Parlandone collego me stesso al mito della poesia. Mi è caro anche perché inganna se stesso, si volta… Ma mi è difficile parlare della mia poesia perché non la capisco. D. Quali altri poeti scrivono una poesia di carattere riflessivo, legata al rapporto con la natura? R. Jorie Graham è una delle voci americane più filosofiche, affronta sempre il senso della vita. Gjertrud Schnackenberg è un’autrice dai contenuti di pensiero: ha scritto un poema assai bello in ricordo del marito, Questioni celesti. Henri Cole è un giovane poeta molto capace. Si situa nella tradizione confessionale americana, ma anche in quella del fantastico. Spesso conversa con animali e si rappresenta in conflitto con se stesso. Per quanto riguarda la natura, non penso che i poeti americani condividano l’idea di Wordsworth di una natura che cura. La poesia americana si è urbanizzata, mentre Wordsworth detestava la città. Nella mia opera, poi, la natura è quasi solo un fondale. Charles Wright, forse a causa della sua educazione religiosa del Sud, continua a cercare risposte nella natura, a cercarvi la trascendenza. Dei poeti inglesi non posso parlare perché li frequento poco. D. Vi è nella poesia americana attuale un ritorno alla religiosità, come avviene in qualche modo in Italia? R. Non conosco nessun poeta che tratti temi apertamente religiosi. Questo non vuol dire che non indaghino la loro identità o eredità etnica e religiosa, ebraica, cristiana ecc., ma questo è un problema intellettuale. Per esempio, nessuno dei miei colleghi ebrei è osservante. Come ho detto, la poesia mi sembra di per sé una religione più benevola, perché anche se non credi alle parole del poeta nessuno ti spedisce all’inferno. La funzione della poesia è permetterci di accedere alla nostra umanità o spiritualità essenziale. È uno specchio ininterrotto che lungo i secoli ritrae e documenta la soggettività umana. traduzione di Massimo Bacigalupo

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RICORDO DI MARIA LUISA SPAZIANI

Maria Luisa Spaziani è stata la Grande Signora della Poesia italiana. La vogliamo ricordare qui, affettuosamente, non solo come poetessa, ma come Amica.

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DONATELLA BISUTTI IL SETTIMO SIGILLO

per Maria Luisa Spaziani

Nessuno ti ha mai avuta vinta Maria Luisa gitana nemmeno la morte con cui ti sei giocata la veste ai dadi Tu le hai lasciato la prima mano ma poi te la sei ripresa da quella grande signora beffarda che eri Lei la morte era un uomo zoppicante uscito dai bassifondi nella notte si trascinava lungo gli orinatoi sui marciapiedi calpestando le ali di latta di angeli di sabbia e lacrime Lei la morte era un uomo nero di sporcizia le sue ascelle puzzavano i suoi piedi affondati in nauseabonde ciabatte da cui in cima uscivano dita dalle unghie deformate tagliate quadre in verità erano zoccoli E tu da quella grande signora che sempre sei stata da quella signora gitana vestita di un sobrio tailleur Si accomodi – gli hai detto facendo spazio fra le tue carte e i libri ammonticchiati sul tavolo che non potevi più leggere Non lo vedevi bene ma sentivi il suo odore. Si accomodi – hai detto trattandolo da signore 87


da quella grande signora che eri offrendogli una tazza di tè E lui è rimasto così disorientato che quando ha gettato i dadi li ha fatti cadere sul pavimento A tentoni tu li hai raccolti e sorridendo come sempre sorridevi li hai rovesciati a tua volta sul piatto e sono usciti non l’uno o il due né il tre o il quattro né il cinque o il sei ma le facce invisibili e nascoste che i dadi celano dall’inizio dei tempi le facce che recano ciascuna sette punti È uscito contemporaneamente due volte il sette e questo ti ha dato la vittoria Così Maria Luisa gitana ti sei giocata la morte per il più bello dei tuoi tailleur – quello rosso.

Il 77 è il numero atomico dell’iridio che è ritenuto essere il metallo più resistente alla corrosione. In particolare, si usa nel pennino delle stilografiche.

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SILVIO RAFFO LA MUSA LIRICA

Che mi resta da dire se in decenni di versi ho già infierito e saccheggiato? Su tempo e spazio fusi, corda massima, io, Paganini, ho narrato me stessa.

Maria Luisa Spaziani

Non esiste, crediamo, poeta italiano del Novecento (e del primo Duemila) che abbia coltivato la funzione del linguaggio definita da Jakobson “metalinguistica” con tanta dovizia e ricchezza di sfumature autoanalitiche come Maria Luisa Spaziani. Dotata, come non si può negare di un “ego” smisurato, a lei interessa approfondire la ricerca del “perché delle cose” prima di tutto per ciò che la riguarda come Io senziente e Io poetante. Perché scrive? Questa esigenza radicale, inesauribile e inesausta, da quali abissi dell’ego si è in lei originata? Quest’amore infinito per la poesia e i poeti, certamente favorito dalle letture che papà Spaziani (provvidenzialmente!) proponeva ogni sera alle sue figlie – da Ariosto a Leopardi, da Ada Negri a Vittoria Aganoor – ha alimentato la sua adolescenza e si è innervato nel suo organismo come linfa vitale, quasi sangue e respiro. Alla riflessione su questa simbiosi (Maria Luisa- Poesia) si torna di continuo e ogni volta si scava più in profondità. La scrittura poetica ha dei limiti? Qualche poeta (Rimbaud a ventun’anni) proprio per non sentire più questi limiti – della parola che non può essere “assoluta” come si vorrebbe – ha addirittura rinnegato la poesia. Maria Luisa non può né potrebbe mai farlo: Popoli antichi per segrete colpe Temevano l’estinguersi del Sole. Esagerato il paragone?Scrivi. Il fuoco non si spegne

Non ci si sbaglia affermando che è l’unico poeta italiano contemporaneo in cui la linfa non è mai venuta meno nell’arco di un sessantennio: l’unico le cui ultime poesie hanno la stessa freschezza delle prime, come nel verso conclusivo di Su per gli impervi scali, disperanti: “l’alba il meriggio il tramonto sono la stessa cosa”. Montale nel Quaderno e nei Diari ha innegabili cadute, la Spaziani mai e la sua investigazione della sostanza “poetica” – l’anatomia della “quiddità” del verbo – è di un acume sempre più proficuo con gli anni: 89


Risalire dal fiore sbocciato al vergine profumo del germoglio. Da un’autobiografia questo esige Il lavorio di chi si ricorda. Lungo la filogenesi, per ardui cunicoli e sinapsi, ritrovare il bimbo che sei stato, o nel subconscio linfe di padri e avi sprofondati. Questo è lo stile, magica bacchetta che dà vita alla valle di Giosafat. Estrarre il senso di fiumane antiche, pure disciolte nel tuo sangue.

Nemmeno Cardarelli, che ha definito lo stile in modo egregio, ha compiuto tale operazione in versi, ma ha scelto la prosa, nel memorabile discorso Sulla Poesia (“lo stile, fatto naturale ed ereditario come il carattere, sinonimo di personalità, non di altro”): le due definizioni andrebbero appunto accostate. E più di ogni altra raccolta questa, che dal titolo ingannevole potrebbe farci pensare a contenuti neoromantici e larmoyant, è la più ricca di riferimenti a poeti citati con ironico omaggio al postmodernismo o molto più spesso chiamati direttamente in causa. L’anguilla di Montale (per Maria Luisa “la più bella di ogni poesia”) è citata in Un giorno anch’io scriverò e in L’acqua che nasce, scorre e poi s’insinua nella seconda strofa (“Non d’altro sogna la ninfetta sterile / che paradisi di fecondazione”); il mentore insostituibile, che ricompare in un flash di Vorrei morire a teatro come Molière (“la Scala, il regno dei miei fasti / di giovinezza, in palco con Montale”); Petrarca che gli contende il primato (“Sì, consciamente oggi ho scritto l’ultima”, in clausola: “già Petrarca / supplicò di bruciare il Canzoniere” e nella bellissima Testamento: “parole d’amore ignote anche a Petrarca”); Dante, Shakespeare e Baudelaire fanno molto giudiziosamente capolino in PostModerno (“Tutto ci hanno rapito i nostri padri”), in cui si tratta di nuovo il problema del “non ancora detto in poesia” e i primi due di nuovo in Cancellando la neve, computer e visi amati; i tredici aggettivi che Leopardi dedica alla luna sono ricordati in Finché non si spenga la luna continuo a contemplarla; Lucio Piccolo è il protagonista-destinatario di Capo d’Orlando, come Kavafis in Vorrei vedere in fila accese le candele e Giorgio Caproni in un testo dal titolo volutamente prosaico Convegno Caproni (“Giorgio ritorna a me in una miriade di discorsi”); Giorgio Bassani e Attilio Bertolucci vengono salutati in un sommesso necrologio (“È morto Giorgio, è morto Attilio, i tralci / della mia vigna pendono intristiti); la divina e sdegnosa Saffo respinge la mano della poetessa che l’ha scelta a caso in Si apre una domenica di pace; Marceline Desbordes-Valmore è tenera complice di “nostalgie d’infanzia” in Sto traducendo Marceline. Quel canto; il nome di Lorca è posto all’incipit di uno dei testi della sezione Musica (“Lorca, Bizet, compagni di un mattino”); ma non mancano, ovviamente, i commediografi più amati, i francesi: Molière e Racine, romanzieri (Renard, Melville), filosofi e pensatori (Socrate, Schopenhauer, Machiavelli, Bergamin): con la coerenza che le è innata, dichiara lei stessa di saccheggiare territori altrui, “ruggini e scorie di letterature” (in Pugnalo versi miei e altrui, falliti). Ma tutto ciò, ben lungi dall’impoverire, arricchisce la sua opera: la consapevolezza di appartenere a una “famiglia”, la forte e inevitabile sympatheia che la lega ai suoi fratelli e sorelle d’anima (già avvertibile nei versi giovanili – cfr. “Sei passata di qui, Katherine cara / sei passata anche tu?”) favorisce innesti di straordinaria fecondità, è un nutrimento che “giunge alle vene, al cuore” e “illumina di grazia”: 90


Come una vasta sinfonia, autunni giovani e vecchi vanno nel ricordo Intrecciandosi in me. Qualcuno tinto del colore del lutto, altri presaghi di future sboccianti primavere. Ogni autunno una musica diversa, magnificat, gavotta, flauto e tromba. è forse in prospettiva della morte che l’affresco si compie, e si concentra l’alta curva dell’arco.

E proprio “in prospettiva della morte”, realtà per Maria Luisa inconcepibile, corteggiata e blandita in sapienti aforismi e variazioni, che possiamo leggere la sublime plaquette di Filosofia figurata (altra geniale immagine per identificare l’attività poetica). Un testo ripropone il titolo di una delle poesie più disfattiste del Montale di Satura: STORIA È un lastricato di petali morti. Leggeri camminiamo Su ciò che è stato vivo come noi. Si accatastano pagine di storia: l’antico sangue è carta. Se ti avvolge il profumo delle viole è un puro caso. Il tempo ti dà tregua. Sei e sarai per sempre quel granello di sabbia nell’infinità del deserto.

Naturalmente, mentre Montale fa un discorso spersonalizzato, oggettivo, “in negativo” – “La – la Spaziani si riferisce a un tu (se stessa) e a un noi che positivamente costituiscono granelli di sabbia nelle tregue del tempo: contributo minimo, ma plotinianamente confuso nell’infinità del deserto, inscindibile dalla totalità dell’uno (nell’autore degli Ossi radicalmente insostanziale). E perfino il rapporto con la morte è un rapporto vitale: è in grado di esorcizzarla, sono “vecchie amiche”. Con lei è possibile scendere a patti e avere delle garanzie: la più importante, “che quanto è da salvare si salverà”. storia non è magistra / di niente che ci riguarda”

TESTAMENTO Lasciatemi sola con la mia morte. Deve dirmi parole in re minore che non conoscono i vostri dizionari. Parole d’amore ignote anche a Petrarca, dove l’amore è un oro sopraffino inadatto a bracciali per polsi umani. 91


Io e la mia morte parliamo da vecchie amiche perché dalla nascita l’ho avuta vicina. Siamo state compagne di giochi e di letture E abbiamo accarezzato gli stessi uomini. Come un’aquila ebbra dall’alto dei cieli, solo lei mi svelava le misure umane. Ora m’insegnerà altre misure che stretta nella gabbia dei sei sensi invano interrogavo sbattendo la testa alle sbarre. È triste lasciare mia figlia e il libro da finire, ma Lei mi consola e ridendo mi giura che quanto è da salvare si salverà.

Difficile trovare altri esempi in poesia di altrettanto granitica sicurezza. Qui la morte non solo è considerata, sulla scia di Seneca, fedele compagna di vita, ma la si riconosce quale saggia consigliera consolatrice (la mors optima rerum petrarchesca ulteriormente riabilitata). Maria Luisa Spaziani riesce a far diventare anche il rapporto con la morte un rapporto d’amore, un amore superiore a tutti gli amori umani, “oro sopraffino”. La sua è una sfida e allo stesso tempo una forma di accoglienza, un’arrendevolezza che non ha nulla di umile (casomai è simile a un’aristocratica concessione): lei e la morte sono au pair, nel momento in cui si toglie alla morte la sua terribile maschera. Non diverso è il rapporto con Dio: alla fine è sempre meglio comportarsi come se esistesse, se poi non esiste, peggio per lui: noi saremo stati in ogni caso perfetti, “divini” anche in mancanza di lui. Maria Luisa Spaziani: il nome più rappresentativo non solo di una “sopravvivenza” – quella della Musa lirica – ma anche e soprattutto di una professione di fede: la fede nella “parola innamorata” e “assoluta”, la parola del canto in senso classico (come ricordava Sofocle, “per fortuna abbiamo questo conforto del Canto” e in senso moderno il poeta baudelairiano, decifratore di simboli). La sua è una poesia che anatomizza il mistero con un bisturi da sapientissimo chirurgo (la figura di cui parla la Dickinson in Surgeons must be very careful) e nello stesso tempo con finissima sprezzatura lascia a quel mistero una sovranità indiscutibile, giacché l’enigma più volte tentato mantiene la sua insondabile ambiguità. Da questo punto di vista, e per le innumerevoli ramificazioni del suo “albero di parole”, come sostiene ancora una volta Baldacci, “non esiste nel nostro tempo profilo di poeta più compiuto”. Nella sua testimonianza si esprime pienamente la dimensione sacrale del dire poetico – proprio la dimensione che va tristemente perdendosi a favore del lagno, del balbettìo, dell’elucubrazione intellettuale. È lei stessa a dichiarare la propria tensione all’immortalità in un testo de I fasti dell’ortica significativamente intitolato Voglio: Sistole e diastole, osanna e crucifige. Io voglio strenuamente sopravvivere, a lungo dialogare con uomini non nati, con i loro nipoti, nipoti dei nipoti – 92


Ora voglio morire, morire in ogni cellula del tempoin me e in tutti morireSistole e diastole, osanna e crucifige

“Dialogare con uomini non nati, / con i loro nipoti, / nipoti dei nipoti”: in tempi in cui dialogo e comunicazione – vocaboli già oggi obsoleti, quasi svuotati di senso – saranno ancora più ostacolati da chissà quali oscuri nemici. Non dovrebbe essere in grado di far questo, la Poesia? Quella di Maria Luisa Spaziani ci riuscirà senza dubbio.

Anticipazione da La divina differenza in uscita da LietoColle 93


DONATELLA BISUTTI UNA MEDITAZIONE SULLA MORTE

Ho pensato di ripubblicare qui una parte della mia introduzione al libro autografo di Maria Luisa Spaziani, Poesie dalla Mano Sinistra, che avevo editato nella collana A mano libera da me diretta per le Edizioni Archivi del Novecento. Si sa quanto l’essere mancino abbia costituito fino ad oggi – e forse ancora oggi? – motivo di sospetto (se non addirittura di esclusione sociale) e come nelle scuole gli allievi mancini fossero obbligati a servirsi della mano destra a costo di legare loro la sinistra dietro la schiena. Il mancino, come notava già il Pontiggia di Una morte in banca, è un asociale (se non un potenziale eversivo). Queste “poesie da poco”, scritte con tanta elegante e lieve distrazione, sarebbero dunque anche poesie sottilmente eversive, contestatrici dell’ordine preteso del mondo? Si direbbe di sì, come già subito dichiara il sottotitolo provocatorio L’inciviltà dei consumi. E già in questo risiede parte del loro fascino: nel sapiente dosaggio che mescola l’attualità più immediata, colta nella sua opacità informe e nella sua terminologia più corrente, a una struttura classica, a una poesia dalla robusta architettura portante. Una giovanile scapigliatura sembra percorrere come un venticello ironico la perfezione degli endecasillabi, solo occasionalmente e brevemente abbandonati per un ottonario o un settenario. Qui a prima vista prevale un tono basso (o meglio un sottotono), anche se la poesia di Maria Luisa Spaziani rimane sempre caratterizzata da quell’ampia, sonora e anche solenne eloquenza che le viene dalla frequentazione assidua dei classici francesi, in particolare di quel Racine, da lei amorosamente tradotto. Una spezzatura sintattica frequente a metà del verso contrasta con la regolarità metrica delle quartine e viene sottolineata, di quando in quando, dal far ricorso a un verso più breve, spesso in chiusura, che sulla pagina ha l’effetto grafico di un taglio. Il taglio epigrammatico fa pensare inevitabilmente ad un’ideale consonanza, anche nella maturità, con Montale, quello più tardo di Satura e dei Diari. Eppure queste poesie sono vicinissime nel tempo a quelle poesie d’amore pubblicate sulla rivista Poesia nel numero di luglio – agosto 1998 prima di essere raccolte, nel 2002, in un volume de Lo Specchio di Mondadori con il titolo La traversata dell’oasi, in cui il canto si fa molto alto, attingendo a una dimensione di contemplazione metafisica sorprendente e anche grandiosa. Ancor più “poesie dalla mano sinistra”, dunque, nel senso di una sorta di produzione minore? Credo, invece, che questa sia pur diversa corda occupi un posto altrettanto importante e significativo nell’opera più recente della Spaziani e che la divaricazione fra i diversi testi, oltre a essere un segno di ricchezza, risponda a una necessità interna per nulla occasionale e sia una divaricazione più apparente che sostanziale: non per nulla l’Autrice stessa annoda un filo di rimando fra un libro e l’altro inserendo nella raccolta Poesie dalla mano sinistra una poesia inedita, che riprende il titolo La traversata dell’oasi. Il tono disincantato e ironico, polemico e deluso che prevale in questi versi e che si risolve spesso in quella che si vorrebbe definire una “battuta” (vedi “Un tempo gli Innocenti erano santi, / oggi soltanto tubi” ne Gli Innocenti) trova il suo corrispettivo “alto”, nelle stesse pagine, nella visionarietà: “cavallette / terribili si annunciano e divorano / il nostro tempo sacro”, versi che assurgono di colpo a una 94


grandiosità biblica e ci ridanno la Spaziani nella dimensione di poeta epico, capace di reinventare, in pieno Novecento, il poema mistico cavalleresco. Il concetto di un “tempo sacro” appare oggi particolarmente importante nell’opera della Spaziani, che ne risulta di fatto tutta impregnata. Il “tempo sacro” può addirittura essere considerato il nucleo centrale della sua ispirazione, che a partire da lì si dispiega, variando dai toni più aulici a quelli meno alti (a seconda che il “sacro” si disveli o sia, invece, negato). Ai due antipodi stanno appunto la rivelazione amorosa che rimane, come nella Vita Nova, valore assoluto, iniziazione alla conoscenza, apparizione del divino, e “l’inciviltà dei consumi” che calpesta e imbratta la rivelazione e fa del cormorano, il cui piumaggio “bianco come la neve” è assimilato al mondo dell’innocenza e alla simbologia della spiritualità, un uccello dalle ali di pece, agonizzante per la più spaventosa delle morti, nella simbologia rovesciata del nero tenebroso/infernale: “È vero, come dice la canzone, / che un fiore nero è la morte, / che maligno il suo stelo lunghissimo / sgorga su dall’inferno”. Se si segue il filo d’Arianna della sacralità, la tonalità ultima di questi versi appare improvvisamente grave e più che l’appellativo d’ironica pare meritare quello di beffarda. Il tono beffardo è pressoché sconosciuto alla nostra poesia: il gusto della beffa è un gusto forte e nasce, spesso, da una forma di sdegno violento congiunto al disprezzo. La beffa può essere un’arma feroce. È l’arma di libertà del buffone di corte, l’unico che poteva affrontare impunemente il sovrano, dicendogli quella verità che tutti gli altri tacevano. Qui, la Spaziani rivendica quel compito e quella libertà alla poesia. Ed ecco che, con l’aria di volersi tenere a filo di understatement, con l’aria di scrivere distrattamente con la mano sinistra, in realtà qui Maria Luisa Spaziani, sia pure con quel suo tipico gusto oraziano della misura, che ne fa un autore “classico”, combatte una sua battaglia appassionata per i valori della vita e della nostra società umana. L’apparente disincanto, che pare a prima vista scivolare in un elegante cinismo – come per l’abbandono di una partita comunque persa, quella del progresso tecnologico che atrofizza l’anima con le sue feste consumistiche (“l’euforia rituale che decresce” in Torrenti di detriti), come per una visione distaccata del mondo, all’inclinare del giorno, da un punto di osservazione volutamente appartato – si rovescia allora per farsi leggere come passione contenuta, ma sempre passione – quella stessa che accende la sua poesia amorosa. Maria Luisa Spaziani, che certo ha introiettato il senso del limite come lezione di Montale (anch’essa sapiente negli “smorzati”, poeta illuminista quant’altri mai, innamorata di ragione e cultura) conserva intera in questi versi la giovinezza del cuore, quella che fa diventare poeta un poeta: l’aspirazione inesausta alla totalità, all’utopia della bellezza, della conoscenza, all’avvento di un uomo-arcangelo, sia pure del male (“Palestrina passava da un Magnificat / a orge di taverna. Ancora intriso / di arie iperuraniche, sublimi, / si voltolava fra bottiglie e femmine” ne Il Miserere). Quest’ansia, e una delusione che appare ineludibile, anima così, una volta tanto nella nostra poesia, temi civili che vanno da La Guerra del Golfo al Riciclaggio a Un fatto di cronaca (“il cellulare suona nella tasca / del morto mentre il prete benedice”) in una forte e alta lamentazione che si eleva a tratti fino a un’invocazione di dimensione cosmica: “Guarda dalla finestra la cometa / che irreversibile si sta allontanando” (in Con doppi servizi). Nella seconda parte, Poesie altre, una stessa ansia di assoluto si fa invece riflessione sulla propria vita e, al contempo, meditatio mortis. Qui, il tema è quello della fragilità e della vanità, ma anche dell’inestinguibile aspirazione dell’essere umano all’immortalità e all’infinito. La prefigurazione della morte s’intreccia, quasi, in uno stesso verso con l’affermazione della vita, l’entusiasmo con la stanchezza, la volontà (“voglio voglio voglio” in Batte un gong) con l’accettazione, l’animus con il timor, il riserbo con l’affanno, l’avidità con un senso sottile e improvviso di noia, l’esitazione 95


davanti al mistero con il desiderio spasmodico di penetrarlo. Sono poesie scritte su un discrimen della vita, quello fra la baldanza della maturità e un primo presentimento della vecchiaia e come tali sono anche poesie intensamente conflittuali, per definizione contraddittorie, ma mai ambigue: poesie della solitudine, ma anche del coraggio, dettate dal senso della dignità umana e dalla sofferenza, insieme da speranza e disperazione, mosse dalla dolorosa volontà di ripensare il proprio passato (Gli orti della Regina), ma anche da quella di esplorare, davanti a sé, la possibilità dell’eterno. Esemplare, in questo senso, è La ruota: la corda tesa verso l’infinito. Impazzisce il funambolo. Quel dente è all’agguato, mi artiglia. Inevitabile, eroica o buffa sarà la caduta Tuttavia: “Un tempo, quando il tempo era non-tempo, / eravamo immortali”. E “sono Daphne / che lotta contro il dio”. Il conflitto interiore si estrinseca più drammaticamente in testi come Kafkiana (“Mi condannano a morte, poi di colpo / cambiano idea”), La psiche (“Vorrei morire, sono stanca, ma…”), in cui il confronto fra l’anima e il corpo assume la forma di un moderno certamen, L’arte della fuga: “Un affannoso / anelito di vita, gabbia assurda / dove febbrile abbracci le tue braccia”. Esso attinge comunque sempre a una straordinaria forza, che qui vediamo efficacemente rispecchiata anche nella scrittura, tendente quasi sempre verso l’alto, netta e ben premuta sul foglio, senza sbavature, con vigorose sottolineature anch’esse ascendenti. Queste Poesie altre, in cui a volte la metafora sembra volgersi in parabola come ne I saccheggiatori e che si potrebbero forse apparentare a certi testi barocchi inglesi detti “metafisici”, ispirati alla meditazione sulla morte, ci mettono davanti a una Spaziani particolarmente scoperta, sofferta, umana, sincera fino alla nudità (Via maschere e costumi), la cui nota finale è tuttavia sempre quella, che ben conosciamo, di chi accetta la sfida tanto più è ardua o addirittura impossibile. Non per niente la raccolta si chiude proprio su questa parola, nell’ultimo verso di La scoperta del radium: “Dio manda messaggi e ci sfida a decifrarli”. Anche questi testi ci mandano un messaggio e ci chiedono di decifrarlo, ed è un messaggio in cui la fede si affaccia sicura pur dietro lo scetticismo proclamato di “Portami palloncini colorati, / le illusioni che mentono con grazia. / Li guarderemo insieme mentre salgono / dove tutto svanendo sorride” (Dicembre 1999) e prevale sulla tenebra, dandoci insieme la chiave di una poesia e di una vita: “Battezziamo / anche ciò che agonizza, che in profondo / s’intreccia a noi, e si chiama mistero.”

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POETI

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MARIA GRAZIA CALANDRONE POESIE

FRAMMENTO IN MEMORIA … ora sappiamo, poi che ne abbiamo rimosso il corpo azzurro e cedevole, che lei era stata una cosa che non opponeva resistenza [e adesso era esaudita, mentre tubercoli di larve ne intaccavano gli occhi e la canala dei liquami era stata scavata profondamente quanto il fatto che chi se n’era andato non era più con lei da molto tempo e lei aveva concluso nel corpo quel separarsi lentissimo come in presenza di ostacoli e scendendo le scale quella mattina con la fronte addolcita dal sole sulla spalla della piccola indiana con il nome da uccello aveva detto questo

essere stata in mani estranee è stata la vita mia

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ALBERI Essi hanno questo fiore dentro che comincia con l’affermazione che non sanguinano ma hanno anzi una capacità variabile di sopportare tagli tra i filamenti vivi con anelli dorsali e una frattura marginale, con qualche escoriazione per il fuoco issato una volta sulla bianca colonna del fusto come una bandiera di dolore. Tutto portava una scucitura di silenzio sulla corteccia: in quel punto non passava più la voce. Mimose e mandorli sono i primi a fiorire ma tutti se amputati, rimarginano in lance di fogliami appesi alla faretra dei tronchi con [tralci portanti e un fresco e vivo rampichìo di gambi e un clamore di stami al culmine del pomeriggio e un luccichio frontale, tutti sono strumenti per lasciare cadere lingue e lamine d’oro, processioni con croci bianche di corolle e fiaccole di stimme nel nettario, sono cose cresciute per dare e per dimenticare. Dimenticare come s’innestava la tua voce nel nettario del cuore, come i regoli e i timbri delle vocali fossero fatti per impressionare il fiore maturo. Essi sfiorano il cielo con conformazioni audaci si avvitano con una pacatezza e una competenza perfette pure nell’evidenza del corpo ferito pure a bagno nel nero e nell’amaro inverno. Dunque bisogna avvicinarsi a loro senza il cupo ruminare notturno nella morchia dell’anima ma come cinghiali, un entroterra bianco: essere terra bisogna, sotto la loro macchina da fiore.

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PARLA L’ULIVO a D.P. Oso tentare Dio con la mia solitudine nell’orto di Getsemani, perché quel figlio oltrepassava tutta la solitudine umana nella sottomissione al padre, perché quel figlio sacrificato e speso faceva scomparire nel suo cuore [le lame della corteccia. Mentre voi dormivate io raspavo le piante degli ulivi imitavo la dura solitudine corticale dei vegetali, preparavo il mio corpo con l’esempio degli alberi, facevo del mio corpo legno su legno perché nessun lamento disperdesse la mia unità di uomo nel lamento del figlio abbandonato. Ecco. Sono già solo, padre, io non posso subire più abbandono.

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PER MOTIVI ESTRANEI AI CANI Vede cani, campane e altre cose aperte sulla campagna. Vede cose trascolorare: una certa avversione, un certo silenzio, certi corpi smisurati. Gambe e attrezzi, cose che smettono di lamentarsi e lasciano scie di luce nei ghiacci, vede loro innalzarsi come radici di gioia poi si mette a baciare la consolazione di quella bellezza sulla faccia di lui nudo come la battitura del miglio. Sulla faccia di lui bacia la terra e tutta l’acqua di vegetazione bacia la tramontana e l’avere portato questa possibilità di baciare fino al mattino, bacia le masse ancora addormentate in uno smisurato sconforto le onde fatte di graniglia azzurra e di cobalto, bacia anche il corpo che si secca tra rovi di more con un rumore molle di mucose, come un fiore spiccato, una leggera anomalia del giardino, bacia il giacere del corpo tra i semi delle rosacee e il suo calmo saldarsi alla terra con un suono di fiori schiacciati e di congiungimenti, bacia il cielo in ognuno dei corpi che lo attraversano fermi nelle carlinghe; le pulegge e gli spalti del frumento bacia e lo bacia invisibilmente con il dolore e l’oro della lisca, con l’aria che ruota intorno ai corpi con coincidenze elettriche, bacia la continenza di quei corpi che, trascurati, diventano santi bacia chi ha immaginato di morire per mancanza di luce e poi ha detto sia benedetto il giorno che ti ha vista nascere, bacia la perla delle cartilagini e l’obice degli omeri abbassati sul petto, bacia il cuore che vistosamente declina, bacia chi le ha portato l’equilibrio, questo modo di mettere insieme cosa con cosa e poiché ho attraversato con la bocca indenne tutto il disequilibrio della notte, so che è stato per questo poter baciare in te ogni fenomeno, perché giungesse l’Ora Immaginaria con macchine terrestri nel fango naturale e fosse appariscente tutta la gioia e tutta la crescente riconoscenza perché, ecco, io ti amo senza dolore. 101


STUDIO CON LA LAMPADA SCIALITICA a Gottfried Benn

Adesione del corpo all’altro corpo per mezzo di una fascia di ghiandole sensibili verdi malleoli alati con imponenza di bosco. È leggera la vita, non fosse per l’ansimare della bestia. Guardala da vicino. Abbi paura. Chiedi scusa alla bestia per la musa, che non ti lascia solo nemmeno qui davanti a lei. Chiedi scusa alla musa per averla portata sul massiccio facciale della bestia. Con lei, come un sovrarespiro. Poi abbandona sul tavolo settorio gli indumenti da lavoro, accanto al corpo che era stato fatto per rimanere. Lascia qui il tascapane, il libro e ogni altro frangente. Arriva nudo, emerso come una barriera frangiflutti, imponi la colonna delle gambe. Il tavolo è un vassoio dove tu vieni esposta: hai i lembi rovesciati hai la bellezza di un ramo di una conca cava, viene toccato il saldo delle costole come un oracolo dai margini d’oro pura cornice del cuore sotto la piastra sternale e la leva del divaricatore fa come l’amore, ti espone il cuore come per amore. Dopo del nome viene la figura, dopo l’asportazione del calvarium tra lamine orbitali e sopra la farfalla dello sfenoide si manifesta l’adunata bianca, la massicciata, il vomere nella sabbia perfetta, l’inarrestabile avanzata del canto. Anche adesso, anche adesso… Fai parlare la voce di questo corpo risalendo la legge di natura, fai parlare anche il marmo, l’imperfetto, con la voce degli organi, l’uovo dell’elegia 102


che contraddice il morto mentre ti affacci su quanto di lui diventerà immutabile; fai parlare le ulcere vegetanti, le sacche ambrate e le schiumature filamentose, i reflui: i grumi, la compassione, i bozzoli, le bucce annerite dei globi e tutte le solide gocce di sangue su questo sasso umano. Non calpestate la terra dove lei ha versato tutta la suggestione del suo corpo [come una luce non finita. Il corpo fonde. Chiedi ai musi dei cani. Che ragione, e che altezza. Il suo corpo fondeva sulla terra mentre io sognavo la sua voce che mi diceva aiutami. [Per tre notti io potei solo uscire in quei fiotti di luna, in quei tornanti: stoppie che mi facevano buttare l’energia dal corpo come dal fondello di un bossolo. Quelli iniziano a nascere dal buio con tappi di materia cicatriziale e larve, quelli vengono come luci-spia quando li chiami per nome, pietre che parlano da sole in un sonno cosciente, l’improvviso di certi monumenti in direzione del mare. Tutto è allo stato grezzo. Tutto qui è senza metodo, incompiuto come un pugno di sale. Io desidero che mi veniate addosso con tralci di vite, desidero la pasta dei vostri nomi nella mia bocca. Tutto mi farà meno vivo di questo canto immortale sulla bocca dei morti.

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DAVANTI AL MORTO Sei la cosa più nuda della terra e insieme la più indecifrabile. Rilevo le tue tracce. L’abside delle orbite. Il catino pieno di un male che passa le dimensioni. Evidenzio le reazioni del sangue affiorato durante un’ascensione ora ferma. Porpora, ocra, fasce cremisi sottopelle. La vibrazione lasciata a metà sotto lo zigomo destro. Ma compiuta, come certi pallori dove insisteva l’osso scapolare. Riconosco la tua perfezione. Il peccato di superbia della fine. Ti riconosco atto del futuro. Una pre cognizione perfetta. Esamino il tuo volto. Più nessuna tendenza. L’altare immacolato della fronte alla fine del pensiero. Richiuso. Esamino che corpo viene dopo la tendenza a rinascere. Evidenzio che pure rinascerai. Richiuso. Puro suono di cosa che si disfa. Pura dissipazione. Una lanugine bianca sulle corde. Le muffe nelle pieghe vocali, il calcagno bagnato di un’erba azzurrina e la pace maggiore nel guscio del cranio. Tutta la tua tendenza a dimenticare ora in atto. Evidenzio che tutto è diventato gioia e tu sei diventato la gioia che volevi, quel non andarsene più. Sei orazione infinita. Masso calcareo. Solo la fine che ora sei. Solo la fine è infinita. Solo la maschera della solitudine. Richiuso il cerchio elementare del serpente della separazione. Così mi dissipo in tutti quelli che sono.

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MAURA DEL SERRA-POESIE

SETTE POESIE DELL’INSONDABILE

CREAZIONE Nel brulichio stellare della vita la musica solenne del pensiero: da vette e mari della conoscenza bandiere e vele battono in foglie d’oro leggero la catena di piombo che ci assorda di morte nel rimbombo.

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GIUSTIZIA Mi sono unita al vento per pregare sulla tomba invisibile di Mozart e di Ipazia; sciolta nel sale di marea ho ingemmato il cenotafio dell’ebreo esiliato Benjamin, la sua testa senza mondo profano; le ceneri del rogo di Giordano e delle vedove indiane ho raccolto e il capo, gli occhi, il seno me ne sono cosparsa prima di dare alla Giustizia un volto nei miei pensieri feriti e neri per sete di grazia‌ Alta su quelle ali di cenere mi è apparsa come la barca, a fare troppo umano il suo mare.

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LA QUARTA PARETE Fissi davanti alla quarta parete dell’eterno teatro, coperti d’invisibile, creiamo il tempo e le sue ombre inquiete, beviamo le parole del possibile, ci consigliamo con i morti amici e le morte stagioni, ridiamo quando inciampa sulla scena la vecchia mendicante di carezze, piangiamo – di noi paghi e felici – l’eroe puro, caduto sulla rampa dello show fumotecnico trionfante… Sulle ali del biglietto io volo giù dal loggione, e poso gli occhi vergini e le labbra rugose sulle mammelle delle nebulose.

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ALI2 Gli uccelli che circondano la stella della speranza fanno il nido in coro

sulle pietre dei fiumi avvelenati, nelle buie galassie dei grembi violentati, nelle radici mÚtile delle vite bonsai, nelle bussole in fiamme dei migranti, sulle gru di operai esuli dal lavoro, in ogni mente ardita che non trova sorella‌ Desiderio glorioso, quella stella in quelle ali ci chiude, feriti ed esultanti.

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Gli uccelli che circondano la stella della speranza è il titolo di un quadro di Joan Miró.

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ALGEBRA “Meno per meno, in algebra, fa più”, apprendevamo con remoto stupore su più remoti banchi, applicando quel dogma acrobatico, quel doppio salto capriolante della logica ad immersioni in labirinti di “espressioni”, a uscita ardua, prestabilita. Più tardi fu lo stesso: fu come camminare con zampe di farfalla sopra uova esplosive o, col corpo composto solamente di braccia, riattaccare i frutti scomparsi al loro ramo, quando dal nero maglio di lutti e disinganni sprizzavano i colori di veggente speranza, e noi vedemmo il sole alto sul fondo del mare venduto e violato, e l’Età dell’Acquario, affondata, trasvolare sopra bandiere e bare portate in cuore a spalla. Io, con i miei compagni di secolo e di tutti i secoli, li vidi allacciarsi con costanza logica, quegli eretici trapezisti del “meno”, e cadendo moltiplicarsi in “più”, piccole supernove e lucciole nella selva selvaggia ed aspra e forte della storia, umana sempre troppo o troppo poco. Ed ancora, randagia antica della conoscenza, ospite di tendoni, di foreste e cortili, abbaio o miagolo o canto a quel segno nella vertigine dell’accoglienza.

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ARIA In te ho il mio nido e il mio celeste segno: tu, congiunta alla luce come lo stelo al fiore, cingi il pianeta in onde di respiro e mi sollevi il seno, concorde col tuo regno, fino all’unanime pulsante giro dello spazio, e lo abbatti fino al cuore muto del tempo. Alti nella tua polvere che lenta mi acceca, sfrecciano uccelli a scrivere la tua storia segreta.

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LILA2 La giovinezza pianta fiori in cielo e la vecchiaia vi porta la terra… Gioco di un dio bambino l’altalena gremita, le stagioni, il giardino.

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“Lila” è il gioco cosmico delle apparenze, a cui si dedicano gli dèi nella religione induista. Il primo verso della quartina “corregge” il detto zen: “Non si possono piantare fiori in cielo”. 111


VIVIANE LAMARQUE

DIVENTATE TUTTE GIARDINI Diventate tutte giardini le persone care? Giardini, zolle di giardini? giardino mio padre uno e due? (Ezio, Dante) giardino mia madre una e due? (Nella, Maria Rosa) giardino anche il fratello maggiore? e ora persino il minore? e i nonni e gli zii e i maestri e gli amici e i vicini e quei vecchini che incontravo che inciampavano cadevano sempre come malfermi bambini caduti tutti? rialzati nessuno? Km e km di zolle fiorite sfiorite rifiorite, strati di anni, di foglie, di luce bassa serale, su di voi, care persone care?

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RTE OGGI

Il tema della bellezza, in quanto valore che travalica l’estetica, pur esprimendosi secondo un canone estetico, si affaccia in questo numero in un’altra sezione nuova rispetto a Poesia e Spiritualità, intitolata Arte oggi. Cito dall’articolo di monsignor Pierangelo Sequeri: ʺl’’espressione artistica lavora al livello della bellezza – ineffabile, irraggiungibile, inimmaginabile – della creatività divina”. È quanto la nostra rivista vuole esprimere, sia pure su un versante laico. Monsignor Pierangelo Sequeri, figura di primo piano nell’ambito della cultura cattolica, e non solo, famoso per i suoi studi interdisciplinari che coniugano teologia antropologia ed estetica, ci ha dato un intervento in cui, muovendo dalla teologia cattolica, si pone tuttavia in assoluta sintonia con l’intento della nostra rivista quando dice che la storia dell’arte è “storia di sensi e sensibilità delle passioni più intime e più alte, e non semplicemente storia di invenzioni stilistiche e di espedienti tecnici.ʺ Questo suo articolo è importante perché Sequeri, sulle orme di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, interpreta la volontà almeno di una parte della cultura cattolica di aprire un dialogo con quel mondo dell’arte contemporanea che non si vuole riconoscere in una matrice cristiana e fa un’ammissione coraggiosa: “È nel passaggio fra Ottocento e Novecento che si è realmente prodotta la frattura dei mondi e il contatto fra arte alta e religione di Chiesa ha conseguito assetto prevalente di estraneità e conflittualità. Le responsabilità, con i relativi effetti di azione e reazione, possono essere certo condivise, senza comodi esoneri”. Sempre nella sezione dedicata all’arte, figura un piccolo pamphlet di Pierangelo Tronconi, un pittore che non esita ad andare controcorrente affermando la necessità di ritornare, certo attualizzandola, a una visione “classica” dell’arte, che abbia al suo centro l’uomo. L’arte di Tronconi, insieme realistica e potentemente visionaria, è tuttavia prepotentemente calata nelle contraddizioni del mondo d’oggi, eminentemente etica. I suoi quadri violentemente icastici vanno a colpire debolezze, illusioni e nefandezze, sono lo sguardo di un uomo felicemente libero. Ho voluto aggiungere anche un testo di Luisella Carretta che ci trasmette una sua esperienza “medianica” nella grotta della Sibilla Cumana – luogo che emana suggestioni particolari, intense e inquietanti. Ci fa così entrare in un suo laboratorio interiore, dove la visionarietà e anche la medianità si trasformano in opera d’arte. Spesso le sue opere e le sue performances sono nate così, ricercando stati limite di coscienza. Luisella Carretta ha studiato questi fenomeni, che in lei sono spontanei, insieme all’antropologo Vincenzo Ampolo. In questa sezione vengono così toccati temi essenziali per un discorso sull’arte collegato alla spiritualità: dall’arte come bellezza e chiave di conoscenza metafisica, all’arte come etica, all’arte come visionarietà in rapporto con il Mito e con l’inconscio, e anche con una dimensione profetica.

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PIERANGELO SEQUERI LA BELLEZZA È DA SALVARE? Variazioni extra-canoniche su Chiesa e Arte

1 Nella sua importante Lettera agli Artisti del 1999, Giovanni Paolo II ha enunciato lapidariamente che la Chiesa, in quanto tale, non ha un suo proprio “stile artistico”. L’asserto, che esprime sinteticamente la “coscienza transculturale” della fede cristiana, corrisponde a un’evidenza di fatto che è piuttosto agevole da cogliere storicamente. Eppure, un simile pronunciamento formale, nella perdurante inerzia delle tensioni innescate nei secoli della tarda modernità, non può mancare di sorprendere. L’apertura, ormai assodata, andrebbe in verità più generosamente sviluppata in termini d’impegno teorico (teologico, filosofico, estetico); e anche nell’esuberanza di più liete avventure dello spirito creativo. Non si tratta qui semplicemente della coerenza dell’immagine devozionale con la fede confessante o con la dignità del culto. È questo un tema che ogni spirito non fazioso può ben comprendere, naturalmente, in quanto capitolo dell’ethos ecclesiale dell’arte che riguarda la formazione della fede, la celebrazione del rito sacro, la spiritualità popolare. Ma rimane il fatto che, nella logica del cristianesimo, il ripensamento artistico del divino e del sacro, è destinato ad occupare uno spazio ben più ampio. Il confronto fra l’invenzione creativa e l’immaginario religioso deve arricchire certamente, oltre i confini dell’opera destinata per l’espressione della fede confessante, l’ampio orizzonte del confronto dell’umano e del divino. Le innumerevoli varianti della sensibilità, dell’interrogazione, della ricerca e dell’emozione personalmente vissuta, che fanno la storia dei tratti più alti dell’arte, sono le tracce di una reciproca frequentazione dell’umana esperienza e della tradizione religiosa che pervade l’intero habitat della cultura e della fede. La genuinità dell’invenzione e la sincerità dell’espressione, che vengono investite in questa frequentazione, diventano un patrimonio generale della ricerca del senso. Ormai, il cristianesimo stesso si è aperto uno spazio per questa frequentazione che va generosamente oltre l’area specifica delle sue funzioni liturgiche e catechetiche. L’ampiezza di quest’orizzonte stimola la stessa coscienza credente. Fra lo spazio specificamente liturgico e quello puramente profano, un ampio spessore della storia degli effetti nel nesso del sacro e dell’arte occupa infinite gradazioni delle dialettiche in transito tra invenzione estetica della fede religiosa (non necessariamente artistica) ed esercizio creativo dei sensi spirituali (non necessariamente confessante). Le sue dialettiche vitali esaltano interrogativi in movimento, risonanze inesplorate, sensi nascosti, esperienze inedite della ricerca di Dio. Naturalmente, affinché questo immenso territorio possa essere indagato e apprezzato criticamente, anche dal punto di vista teologico, si deve supporre che il cristianesimo stesso non sia l’oggetto passivo, più o meno disponibile e interessante, di un approccio estetico o di un’interpretazione artistica. Esso deve al contrario essere percepito (dagli stessi credenti e da tutti) come una religione non soltanto affettivamente coinvolgente, ma anche riflessivamente attrezzata. In altri termini, è necessario considerare il cristianesimo come una fede animata, sin dall’inizio, da un’insopprimibile vocazione a interagire – attivamente e anche dialetticamente – con le forme dell’ethos contestuale mediante la condivisione di vere e proprie grammatiche del logos, e non 114


soltanto d’inafferrabili mistiche del pathos (o addirittura del nomos). Considerata da questo punto di vista, la storia del pensiero cristiano appare interamente abitata da una straordinaria complessità di elaborazioni teoriche e pratiche dell’espressione, nei più diversi registri e domini del pensiero estetico- creativo. In larghissima parte, questa storia coincide con la storia dell’Occidente. Dopo tutto, se l’Occidente ha una coscienza storica del significare e ha sviluppato una coscienza evolutiva delle espressioni del pensiero e dell’arte, lo deve alla legittimazione cristiana dell’impulso creativo in cui l’umano si appropria delle modalità ermeneutiche – e non puramente dogmatiche, o disciplinari, o rituali – dell’esperienza del sacro. Sullo sfondo di questa lunga tradizione occidentale opera un gesto di vera e propria rifondazione teologica dell’estetico, che appare inestirpabile dal destino del cristianesimo: come anche delle tradizioni artistiche che esso ha nutrito nella nostra cultura, compresa quelle che si sono separate dall’identità confessante della fede. Il gesto di cui parlo è la miracolosa decisione anti-gnostica del cristianesimo, audacemente formulata sin dal principio della sua elaborazione culturale. Una simile decisione può ben essere intesa come l’atto di fondazione di una teologia del sensibile. Dico decisione “miracolosa”, perché l’improbabilità del gesto teorico non finirà mai di stupirci. La decisione anti- gnostica è pura invenzione controcorrente nei confronti del pensiero filosofico e religioso più alto dell’epoca contestuale agli inizi cristiani. Il suo fondamento è, anzitutto, il più roccioso realismo della veritas hebraica circa la bontà della creazione, compreso il mondo materiale. Il suo vertice è il realismo della notitia evangelica dell’incarnazione umana del Figlio, che non si scioglie neppure in Dio. E il suo approdo, la convinzione della risurrezione dei morti, che misteriosamente riscatta e trasfigura in pura bellezza l’elemento sensibile, nel quale hanno preso “corpo” le più alte invenzioni della mente e le migliori affezioni dello spirito. Emozioni indisgiungibili dalla vita eterna, che la vita dell’arte incide nell’anima per la sua destinazione. Decisione improbabile, dicevo, per un cristianesimo assediato dalla nobile tradizione delle più antiche religioni del mondo, che avevano affinato le loro pratiche di rimozione del sensibile come via della redenzione e della luce dell’anima. Decisione culturalmente imbarazzante, per un cristianesimo osservato dall’alto di una sapienza filosofica illuminata, che raccoglieva nella vita della mente, e nella via di una theoria affatto indifferente al logos del sensibile (oggi ereditata dall’ideale della mathesis scientifica). Ebbene, il cristianesimo, sollecitato dalla cultura dominante a nobilitarsi per la via di una trasformazione in religione dello pneuma incorruttibile, ostile e alternativa nei confronti dell’irredimibile volgarità dell’aisthesis mondana, rifiutò semplicemente l’alternativa. Nel lunghissimo passaggio del metabolismo e della maturazione di questo sconvolgente passaggio (fosse generosamente ripercorso in questa chiave, nell’ambito delle stesse discipline ecclesiastiche) si potrebbero scorgere i segni, tutt’altro che timidi, del germe della singolarità cristiana di un’estetica teologica virtualmente al lavoro. La storia dell’arte, indagata lungo questo solco, è infinitamente più eloquente della convenzionale storia della teologia e della spiritualità, considerate separatamente e selettivamente, in base alle convenzioni di un codice scolastico (filosofico come teologico) ormai palesemente inadeguato a dar conto della realtà. Purché la storia dell’arte, a sua volta, incominci di nuovo a raccontarsi in tutta la sua larghezza, altezza, profondità: come storia di sensi e sensibilità delle passioni più intime e più alte, e non semplicemente come storia d’invenzioni stilistiche e di espedienti tecnici. Nel flusso di questo racconto, troverebbe facile collocazione anche la liquidazione di una memoria stereotipa che ha ridotto a spenta citazione – apologetica o subalterna – i sobri canoni ecclesiastici sull’argomento. L’ispirazione anti-gnostica è quella che fornisce, infatti, l’impulso decisivo alla risoluzione del Concilio Secondo di Nicea, del 787, il quale sancisce l’illegittimità del principio iconoclasta, pur riconoscendo la verità dei fraintendimenti che esso colpiva (idolatria, superstizione, manipolazione 115


e mercanteggiamento dell’icona sacra). La fedeltà alla logica dell’incarnazione del Figlio è il fuoco dell’argomentazione risolutiva. L’esito dell’ortodossia, come del resto l’intero contenzioso della polemica iconoclasta, non ha comunque nulla a che fare con il tema della qualità tecnica e stilistica dell’immagine artistica, nel senso in cui noi lo intendiamo ora, nella maturata libertà cristianooccidentale dell’espressione estetica. È vero d’altra parte, come ormai la cultura della religione riconosce di nuovo chiaramente, che il pronunciamento in favore della rappresentazione sensibile del sacro, ha dignità di teologia. Il mondo non è una caduta del divino nelle regioni della corporeità spregevole, bensì il riflesso dell’amorevole condiscendenza divina che lo mette a disposizione di una creatura che porta la sua “immagine e somiglianza”. L’espressione artistica, nel regime anti-gnostico della verità cristiana della creazione e dell’incarnazione, lavora al livello della bellezza – ineffabile, irraggiungibile, inimmaginabile – della creatività divina. Perché è proprio di quella bellezza, e non meno di quella, ciò di cui la creatura mondana e l’essere umano accendono l’immaginazione. È l’asintoto radicalmente sfuggente di quest’utopia teologica, che rende illimitata l’audacia dell’immaginazione umana. 2 La storia degli effetti di quest’apertura, indagata anche da un punto di vista specificamente esteticoteologico, sarebbe assai istruttiva. Essa anticipa sistematicamente il lungo processo degli sviluppi del principio antignostico nella dottrina e nell’ethos religioso medesimo. È nel passaggio fra Ottocento e Novecento che si è realmente prodotta la frattura dei mondi, e il contatto fra arte alta e religione-di-chiesa ha conseguito assetto prevalente di estraneità e conflittualità. Le responsabilità, con i relativi effetti di azione e reazione, possono essere certo condivise, senza comodi esoneri. Rimane il fatto che ci sarebbe anzitutto da conoscere e capire, con strumenti di storia della cultura differenziati. E tuttavia, è un fatto che, nello spazio intermedio fra l’arte religiosa funzionale all’esercizio del culto e l’arte che celebra semplicemente la bellezza dell’invenzione indispensabile ai sensi spirituali, è apparsa una terza costellazione. Le sue opere, celeberrime o del tutto ignorate, non si lasciano agevolmente ricondurre alla rigidità di quella partizione. La stessa romantica “religione dell’arte”, per esempio, con il suo investimento musicale di elezione (Wackenroder), è certamente un’euforia sostitutiva della religione confessante. Ma mira pur sempre a sostituirla in vista del migliore conseguimento del suo scopo ultimo, che è quello della mistica comunione con l’Assoluto. Nell’ampio spazio degli esperimenti guidati da questo progetto, talora francamente dialettici e critici nei confronti dell’istituzione religiosa, è pur sempre il canone religioso che viene sondato e convocato nel regime del senso. In questa regione, per altro, conducono la loro onesta ricerca presenze, soggettività convintamente religiose, che percepiscono il nuovo spazio estetico come un’opportunità per la dilatazione dei sensi spirituali della fede medesima. Dobbiamo continuare a iscrivere questo enorme volume di arte- pensiero, nel suo serrato corpo-a-corpo col sacro, nella sfera dell’ibrido senza definita collocazione e conciliazione? O non dovremo piuttosto salutare in esso l’avvento del luogo realmente universale dell’incontro e della sperimentazione, dell’interrogazione e della supplica, del grido e della testimonianza, dove si raccoglie l’ipersensibilità dell’umano a tutti i passaggi sensibili del divino? Forse dovremo abitare più rigorosamente e più generosamente il tratto sperimentale di questo laboratorio spirituale del genio artistico, che si è costituito nel passaggio fra Ottocento e Novecento. Nel momento in cui la ragione è divenuta perfettamente insensibile e una religione incongruamente 116


anestetica, le resistenze dell’anima alla dissociazione hanno trovato nell’arte lo spazio che teologia, filosofia e scienza negavano. In attesa di tempi migliori. L’ha riconosciuto Paolo VI, nei memorabili interventi che hanno spregiudicatamente dato voce e riaperto il bisogno – reciproco – di sconfiggere l’estraneità dei mondi. Le opere di questa costellazione moderna e contemporanea, che sono per lo più le migliori, e in ogni caso quelle più appassionatamente condivise dalle molte tribù del contemporaneo, interpretano – non senza contraddizione, talora, con la loro stessa istruzione ideologica di complemento – una funzione indispensabile dell’arte: che è quella di tenere aperta, persino drammaticamente, la soglia della speranza di non aver abitato la terra invano. L’ha riconosciuto Giovanni Paolo II, continuando nel solco di un impulso alla ricerca di nuova conoscenza e nuova alleanza che proprio il magistero papale del Novecento – è giusto riconoscerlo – ha inopinatamente acceso fra le chiese. Molti, anche ecclesiastici, deplorano oggi l’eccessiva sobrietà del canone ecclesiastico nel campo dell’arte. Personalmente la ritengo, invece, un tratto di stile. E un’eccellente premessa a una nuova stagione di reciproca ospitalità e di felice frequentazione a tutto campo fra creativi e studiosi, di ogni tendenza. Nel frattempo, molti segni incoraggianti sono già apparsi a premiare la pazienza dell’attesa di generazioni più intelligenti e appassionate. Nell’ambito della riflessione, anche teologica, come nell’ambito di nuovi percorsi formativi, anche istituzionali. Le vesti strappate di un’ossessiva estetica della “morte di Dio” non si addicono all’arte. Né portano al cristianesimo forme migliori, le isteriche lamentazioni sull’ineluttabile “irreligione dell’arte”.

NOTA BIBLIOGRAFICA Diamo soltanto scarne indicazioni essenziali, utili a circoscrivere documentalmente l’orizzonte di riflessione presentato nel testo. Per una visione d’insieme della storia del “canone ecclesiastico”, con preciso inquadramento dei suoi momenti storici determinanti, e istruttiva antologia dei documenti, rimane insostituibile il lavoro di D. Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai giorni nostri, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995. Ampi strumenti di consultazione, relativi rispettivamente al magistero recente e alla riflessione teologica: G. Grasso, a c. di, Chiesa e Arte. Documenti della Chiesa. Testi canonici e commenti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001. N. Benazzi, a c. di, Arte e Teologia. Dire e fare la bellezza nella Chiesa: un’antologia su estetica, architettura, arti figurative, musica e arredo sacro, Dehoniane, Bologna 2003. Per la storia del movimento di pensiero che si riferisce alla storia degli effetti della decisiva vittoria sulla tendenza iconoclasta: L. Russo, a c. di, Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto delle immagini, Aesthetica, Palermo 1999; Piergiorgio M. Di Domenico, traduzione e cura di, Atti del Concilio Niceno Secondo Ecumenico Settimo, 3 voll., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004; Hans Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medio Evo, Carocci, Roma 2001. Documenti dei papi recenti: Paolo VI, Su l’arte e gli artisti. Discorsi, messaggi e scritti (1963-1978), a c. di G. Ravasi e Pier Virgilio Begni Redona, Istituto Paolo VI – Editrice Studium, Brescia- Roma 2000; G. Borgonovo – A. Cattaneo, Prendere il largo con Cristo. Esortazioni e Lettere apostoliche di Giovanni Paolo II, Cantagalli, Siena 2006. Per un’esposizione più analitica e circostanziata del punto di vista espresso in questo intervento e delle linee di sviluppo teorico conferente, sia permesso rimandare a più specifici saggi dello scrivente: L’estro di Dio. Saggi di estetica, Glossa, Milano 2000; Sensibili allo Spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti, Glossa, Milano 2001; Musica e mistica. Percorsi nella storia occidentale delle pratiche estetiche e religiose, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006. 117


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PIERANGELO TRONCONI LA FORMA & IL CONTENUTO Riflessioni, divulgazini di un pittore sulla diade che divide il campo dell’arte È vulgatissima nozione quella che riconosce all’arte di aver mutato nel corso della storia le ragioni dei suoi obiettivi: se – ad esempio – nel Medioevo era stata “didascalica” perché si proponeva, come Biblia pauperum, la divulgazione del messaggio evangelico, nel Rinascimento fu “celebrativa” del principe e della Chiesa. E se poi (panta rei) ricordiamo che nel Sei-Settecento, nel tempo in cui si affermava una ricca e illuminata borghesia accanto a un’aristocrazia godereccia, il fine dell’arte fu la d e l e c t a t i o. Non ci diffonderemo sulle tesi innovative del Romanticismo esaltatore, nell’Ottocento, dell’intuizione e delle espressioni della creatività soggettiva che approdarono ad altri mirabili esiti, i quali furono possibili perché l’atto creativo di un’opera si realizzava naturalmente con la sintesi di quella diade costituita dalla forma e dal contenuto, la quale pur consentiva la ventata di chi privilegiava la forma a cui succedeva la voga di chi privilegiava il contenuto. E ora ci viene da ricordare gli incontri, le impegnative discussioni del Papa con Michelangelo prima che costui salisse sui ponti della Sistina e dai concetti concordati trovasse le immagini della sua pittura. Per altro è bello ricordare il pensiero del sommo artista su quest’argomento che apprendiamo dal famoso sonetto: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo in sé non circoscriva / col suo soperchio e solo a quello arriva / la man che obbedisce all’intelletto”. E come dimenticare le appassionate conversazioni che il Botticelli si dice avesse col Poliziano fra gli studi e i lieti ozi alla corte di Lorenzo il Magnifico? Figura schietta di letteratopoeta, il Poliziano aveva “uno squisito senso della forma e pure una spiccata indifferenza dei contenuti” (F. De Sanctis), nondimeno era prodigo di consigli per l’amico Sandro di Mariano di Vanni Filipepi detto il Botticelli per avvertirlo sulla funzione degli “oggetti”, sull’efficacia degli atteggiamenti delle persone ritratte e per indicargli i più adatti a riecheggiare e a rispecchiare significati. E così la mammola, la rosa, l’ellera, l’erba con i coloriti fiori (propri della sua immaginazione idillica) apparvero dipinti con la Primavera, “che vuol l’uom s’innamori”, nel favoloso capolavoro. Ma tanta era l’attenzione per il contenuto da costituire una vera disciplina chiamata “iconologia”. Ed è giusto dire qui almeno il nome di Erwin Panofsky, uno dei più celebrati studiosi in questo campo, sfociato poi in vari metodi interdisciplinari d’indagine e interpretazione a vari livelli, fra conscio e inconscio, intesi a mettere in luce i significati offerti dall’opera d’arte. Tutto ciò perché avveniva? A mio avviso tutto ciò fu possibile finché non fu posta in oblio una nozione capitalissima: quella che riconosce all’arte la sua dimensione gnoseologica, vale a dire una forma di conoscenza seppur non concettuale, non fondata sulla razionalità del “due più due fa quattro”. E, infatti, l’arte non si propone di convincere ma di sedurre. Il primo a riconoscere l’arte come forma di conoscenza fu il filosofo tedesco Alexander Baumgarten (1714 – 1772) che si era occupato della teoria della conoscenza, che chiamò “gnoseologia” e similmente del bello e dell’arte che chiamò “estetica”. Baumgarten – in breve – affermava che l’arte produce, con la bellezza, una forma di conoscenza che proviene dalle percezioni sensibili insieme alla mozione degli affetti, dai 119


rispecchiamenti dell’immaginazione che si lega alla mnemonica, dalla fantasia che i romantici riconosceranno come attività spirituale chiamandola “respiro dell’anima” e pure dal vigore dell’intelletto quando produce concetti. E poiché noi viviamo in una selva di segni, di simboli, di metafore, di allegorie, di similitudini delle quali l’arte si è sempre “servita” per le loro funzioni rappresentative, è accaduto che gli studi di estetica e psicologia abbiano posto in luce, con gli aspetti simbolici, anche la qualità, l’efficacia comunicativa dell’arte. John Dewey (1859-1952), caposcuola del pragmatismo americano, nel suo saggio Art as experience, scrisse queste memorabili parole, “art is the most effective mode of communication because the objects of art are expressive”, che, a un dipresso vuole dire “l’arte è la forma più efficace di comunicazione perché gli stessi suoi strumenti sono espressivi, significativi”. Ma ecco che, come verità apodittica, risuonò nella prima metà del Novecento questa folgorante proposizione: “La forma è il sommo contenuto”, che aveva tutta l’aria di essere di Hobbes, ma sembrava coniata apposta per la pittura Informale, trionfante con le opere affascinanti di Sam Francis, Clyfford Still, Rothko, Wols, Pollok e tanti altri seguaci italiani e francesi, delle quali era giusto dire tutto il bene possibile, ma non che avessero un contenuto. Infatti, nella stessa opera (aperta) un fruitore vi poteva sentire l’aria del mattino verso mezzogiorno e un altro vedere una mucca che allatta il vitellino. “Quest’arte si caratterizza per l’astrazione dal contenuto o oggetto o realtà e giunge al formalismo più esasperato e all’indifferenza per i valori umani e sociali”, aveva sentenziato il filosofo Galvano della Volpe. Ammirevole era la sincerità di quegli artisti che dichiaravano “senza titolo” le loro opere, il che equivaleva ad ammettere l’assenza nella loro testa di qualche significato da comunicare. Ancor più ammirevole era l’arguzia di quei pittori che davano alle proprie opere il titolo di Noumeno e così, scegliendo la più problematica delle parole che tout court significa “cosa pensata”, ma non rivelando quale fosse questa “cosa”, ammettevano, fingendo il contrario, di avere un bel nulla da dire che corrispondesse a qualche verità o realtà. Per soprammercato c’è giunta poche settimane fa una notizia mozzafiato pubblicata dal “Corriere della Sera”: il Direttore del Museo d’Arte Moderna di New York arricchirà la sua raccolta “solo con opere che non significano nulla” (sic) e così per gli americani (e per chi “vuo’ fa” l’americano) la parola contenuta sarà solo flatus vocis. L’arte non sarà più una forma di conoscenza, non sarà più uno strumento di comunicazione, non esprimerà appercezioni, impulsi, volizioni, intuizioni, nonché concetti e allora la critica, il cui compito era di valutare dialetticamente il rapporto fra la forma e il contenuto, si ridurranno a giudicare l’arte tanto più meritevole quanto più ricca è l’esperienza percettiva ed emotiva che essa procura: e allora il critico dovrà essere una specie di sensitivo. Viene così sancito che, senza contenuti, arte è ciò che si presta alla sola fruizione estetica o di gusto e alle parole fantasiose di certi critici nonché di certe lobbies imbonitrici. Contemporaneamente altri artisti, che a loro volta avevano abbandonata, cacciata l’immagine dell’uomo dalla rappresentazione artistica (forse perché ritenuta angosciante), seguivano altri sentieri della modernità, la quale doveva identificarsi col progresso inteso come fine del “vivere bene”. E così, nel trasporto estetico, ci fu chi rispose dipingendo bottiglie tutta la vita (Morandi), chi cercò il sublime accostando due colori (Rothko), chi, riprendendo la poetica degli orinatoi (Duchamp), si affidò allo sberleffo proponendo alla contemplazione scatolette di merda (Piero 120


Manzoni), chi si profuse in gestualità ardite trafiggendo, infilzando tele col gesto fulmineo dei samurai (Fontana) e non vorrò dimenticare la genialità dell’Arte Concettuale e dell’Arte Povera che più povera non si può, ma riuscì a dissolvere le nebbie che occultavano la realtà accatastando alla rinfusa oggetti disparati e rifiuti in sineddoche (Pistoletto). Ora non so se dobbiamo rimpiangere “il mondo che abbiamo perduto”, non so se a voce alta debba dire con le parole di Leopardi “o venturose e care e benedette / l’antiche età”, che tenevano in onore la piena umanità dell’arte che si realizzava con la sacrosanta diade formacontenuto.

Disadattato

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Homo homini lupus

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I trasalimenti di Don Chisciotte

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Il gatto e il topo

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Le streghe della falsa informazione

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Maschere che rendono omaggio a un ritratto di James Ensor

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Quousque tandem 127


Vecchio che si strappa le vesti credendo di lavorare

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LUISELLA CARRETTA INCONTRO CON LA SIBILLA CUMANA

Cuma, agosto 2011 Entriamo nell’antica città, camminiamo lentamente lungo il corridoio tra gli alti e massicci muri di pietra. Improvvisamente a sinistra si apre un varco e vedo la grotta. Entro e mi sembra di aver già perso i contatti con il mondo. Mi trovo nel buio, ma poi riesco a vedere una stretta fessura nella roccia che proietta lame di luce all’interno. Forse la Sibilla non se n’è mai andata da qui. Nel mito è descritta come una figura profetica che offriva un’interpretazione dei fenomeni naturali, delle posizioni degli astri, dei sogni, del volo degli uccelli. Qui ancora si potrà percepire la sua sottile, evanescente presenza? Intorno al Vesuvio si contano 350 microscosse al giorno e quest’energia rende diversi. Mi è difficile pensare che non si sia fermata a lungo qui. Ma sicuramente, aveva il dono dell’ubiquità. Le persone entrano in silenzio senza avvicinarsi troppo, offrono fiori, alcuni accendono delle torce e la grotta si riempie di un odore di fumo acre e le ombre si muovono sulle pareti…Tutti sono come me, in attesa. Perdiamo il senso del tempo: poter attraversare il tempo significa anche questo. Mi sembra di vederla apparire, nella penombra, vestita di bianco, immobile, gli occhi chiusi. Parla in una lingua che non conosco, ma, non so come, comprendo. Dice e dice ancora e so che contemporaneamente può comunicare agli altri cose diverse: messaggi che si accumulano. Ora si forma davanti a lei una semisfera di lettere d’idiomi diversi che, muovendosi in varie direzioni, compongono e ricompongono parole semplici, frasi complesse e parole e ancora parole mescolate a sibili e sussurri… Sono vibrazioni che mi colpiscono con forza al petto. Improvvisamente ritrovo quell’energia forte e incomprensibile di tanti anni fa, a Delfi, nel Tempio di Apollo, davanti alla pietra sacra della Sibilla. Come se, all’improvviso, qualcosa dovesse accadere… Rimango in ascolto. Aprire la porta per attraversare il tempo. Il silenzio si farà suono e voce. Il giorno dopo andiamo nel bosco di lecci tra il mare e il lago di Averno. È una foresta fitta con piccole radure circondate e quasi protette da scuri rami intrecciati e irregolari. Cammino a lungo, cerco il luogo del mio possibile incontro con la Sibilla. Trovo una radura separata dal mare da un muro e una torretta costruita dai Saraceni. Mi fermo e mi siedo sull’erba coperta dalle foglie secche. Mi guardo intorno. La luce, quasi al tramonto, s’infila irregolarmente tra i rami creando suggestioni e isioni. Socchiudo gli occhi e vedo una figura bianco lucente nel folto scuro degli 129


alberi: l’abito è di garza, corroso ormai dal tempo e impregnato, in basso, dal colore della terra. Mi alzo, e di nuovo mi metto in ascolto. Domani. Ma cosa sarà il domani? La Sibilla conosce il messaggio del volo degli uccelli, anche noi potremmo avere questo potere, ma non osiamo leggere quei segni: forse abbiamo paura di porre domande per non sentire risposte che non sapremmo comprendere… Questo è il nostro limite. Lei vede l’Oltre, dà risposte fulminee, oppure lentissime e misteriose. Dovremmo cominciare a interpretare sequenze di parole, un Non-Senso che si rivela. Sento frasi spezzate nascere dentro di me: “Vento, pioggia, pietre, alberi e foglie: loro sono testimoni e sanno. Accarezzare gli alberi, inspirare i loro umori che cambiano nel vento e nella pioggia. A volte urlano rompendo il silenzio. Parlano del loro contatto con la terra e il cielo si apre su di loro nero o splendente, coperto da nuvole bianche trascinate dal vento. Anche lui racconta, si muove negli spazi ampi, ma anche nelle fessure dove sibila e produce suoni mutevoli. Contare i numeri delle nervature delle foglie, le rughe delle pietre, i granelli di sabbia, numeri piccoli e grandi: una volta decifrati saprete… Le pietre serbano lontane memorie: sanno cosa è successo nei millenni, sono apparentemente immobili, ma si sono mosse e trasformate molte volte per volare in altri luoghi”. Dopo, solo un lungo silenzio. Al di là del muro di pietra si ode il fruscio del mare che si confonde con il vento tra gli alberi: ora mi sento in una sfera protetta da un intreccio di rami sempre più scuri. Mi muovo nella radura e vedo un avallamento nel terreno, pieno di foglie vicino all’albero della Sibilla. D’istinto mi inginocchio e poi mi sdraio. Mi sento come in una culla. Rimango a lungo immobile: nel silenzio anche il cadere di una foglia è un rumore. Ora sento forte il contatto con lei. Poi una voce sembra uscire dall’interno del mio petto e farsi suono, la sento forte come se fosse la mia: “E verrà un giorno quando tutto intorno a noi sarà di nuovo luminoso”

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OETI IN OMBRA

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ADEDELMO RUGGIERI TRE FOTO NELLA NEVE DI FEBBRAIO E ALTRE POESIE

TRE FOTO NELLA NEVE DI FEBBRAIO Nella prima il ghiaccio sull’asfalto è giallo come la luce del laon si vedeva tutto quel giallo e la luna nella foto con il suo alone ha l’aspetto di una cosa mirabile. In questa non è ancora giorno. I lampioni non si sono ancora spenti e qui i colori sono quelli che erano mentre feci la discesa. Nella terza è notte tre lampioni hanno preso la forma di tre rondini luminose e non è la mia miopia a mostrarmi questa cosa a questo modo. È un difetto della macchina che non riconosce si vede come stanno di notte tra di loro riferite le cose. Una signora della mia età intanto sta salendo. Quando c’incontriamo a metà del cammino che prima ci divise giro un poco il volto magari le dispiacque poco fa la foto che feci e invece no. Dura la salita, mi dice a me che scendo. ** 133


Nella quarta foto, ma non fu fatta è trascorso del tempo, è sciolto tutto disattorcigliato, l’asfalto asciutto e ruvido, le parole mutate. Un tale cammina. Il sole è sfumato. Conta i passi, ogni cento mette un segno.

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MARZO Lunedì 9

Non lo conoscono il tempo le onde ma per noi che stamattina siamo qui a passi lenti, a ognuno il suo motivo è il tempo il mare. Lo credevi smarrito, siedi. Guarda il mare, guarda l’ora. Sono le otto e trenta. Venerdì 14

Oggi il mare è quieto, ma dove sto passando questo inverno le burrasche hanno sfasciato la soletta, e adesso le tamerici, annegate come erano nel conglomerato, respirano libere. Qui invece la scogliera ha retto. Un ponticello a schiena d’asino, con le balaustre di legno impregnato, la scavalca sano com’era gli anni passati. Domenica 16, ore 13:15

Delle volte vorrei partire per un lungo viaggio Onde immense lembi di terra sperduta Poi la mente frena Esco salgo in macchina Guardo gli alberi in fiore. Per strada dove capita prendo un panino e una bottiglietta d’acqua. Raggiungo il mare.

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DOSSIER ELENA BONO UN CASO LETTERARIO

Dedichiamo un Dossier a Elena Bono, scomparsa di recente all’età di novantadue anni: eroina della resistenza, scrittrice e poetessa, un tempo famosa in Italia e all’estero e poi dimenticata, che viveva da tempo in un quasi totale isolamento dopo che i suoi libri erano stati rifiutati dai maggiori editori. Adesso, dopo la sua morte, molte cose si stanno muovendo (come testimonia l’importante contributo dato in queste pagine da Stefania Segatori): la sua opera viene ristampata, si pubblicano saggi e una regista, Gabriella Bairo, si accinge a girare un film sulla sua vita. Si profila un vero e proprio caso letterario che fa già discutere. Abbiamo raccolto testimonianze e documentazioni da parte di persone che la conobbero e le furono vicine e intervistato il professor Elio Gioanola che ha prefato l’Opera Omnia poetica della Bono. Ringraziamo Francangelo Scapolla, editore dell’Opera Omnia, uscita nelle sue edizioni Le Mani nel 2007, per averci concesso l’autorizzazione di pubblicare alcune poesie, così come ringraziamo la press agent Stefania Venturini, che tanto si è prodigata negli ultimi anni al fine di riportare Elena Bono sulla scena letteraria, per averci fornito un’accurata nota biobibliografica e materiale fotografico. 137


Nata a Sonnino (LT) il 29 ottobre 1921, figlia di un noto studioso di letteratura classica, Francesco Bono, Elena Bono si trasferisce (ancora adolescente) in Liguria, a Chiavari, dove ha sempre vissuto e dove ha scritto tutte le sue opere di poesia, teatro, narrativa, critica, saggistica oltre che le sue traduzioni di Sofocle. Nel 1959 sposa Gianmaria Mazzini, discendente di Giuseppe Mazzini, che sarà suo preziosissimo e insostituibile compagno fino alla sua morte, nel 2009, nonché il suo critico più fidato e autorevole. Le opere della Bono, tradotte in inglese, francese, spagnolo, portoghese e persino arabo, polacco, svedese, greco, sono state oggetto di diverse tesi di laurea e d’innumerevoli interventi critici e giornalistici in Italia e all’estero. Determinanti, nella sua formazione umana e spirituale e per la maturazione della sua vocazione letteraria, sono stati gli anni dell’infanzia trascorsi a Recanati, dove la piccola Elena sviluppò una straordinaria familiarità con la figura di Giacomo Leopardi. Negli anni 1943-45 (durante i quali la Bono, sfollata a Bertigaro, nell’entroterra chiavarese) fu staffetta partigiana nella sesta zona operativa comandata da Aldo Gastaldi “Bisagno” (Medaglia d’Oro al valore militare nonché primo partigiano d’Italia). Figura di straordinaria cultura classica e appassionata d’arte, Elena Bono ha sempre avuto una particolare attenzione verso i giovani, con i quali ha saputo intessere rapporti di straordinaria sintonia, trasmettendo quei valori umani e cristiani di cui lei stessa si è nutrita e che ha testimoniato tanto nella sua vita quanto nelle sue opere. È mancata nell’ospedale di Lavagna, dopo soli due giorni di ricovero, il 26 febbraio 2014. I funerali si sono svolti in forma solenne, religiosa e civile, nella Cattedrale di N.S. dell’Orto a Chiavari il 28 febbraio 2014. Considerata da alcuni la scrittrice italiana più importante della seconda metà del XX secolo (Giovanni Casoli, Novecento Letterario italiano ed europeo, ed. Città Nuova, 2004), è autrice dalle molteplici sfaccettature. Dopo gli esordi poetici con Garzanti nel 1952 con I galli notturni e Alzati Orfeo (1958), il testo teatrale Ippolito (1954, rappresentato a Roma da Emma Gramatica al Teatro Quirino nel 1957), Elena Bono arriva al grande successo internazionale con il suo capolavoro assoluto Morte di Adamo (Garzanti 1956; Emme E 1998), oggi esaurito e recentemente pubblicato in formato e-book con note inedite (sul sito www.breviariodigitale.it). Dagli anni Ottanta è pubblicata interamente dalla casa editrice Le Mani (Recco). Tutte le sue opere poetiche sono state raccolte nel 2007 nel volume Poesie Opera Omnia. Opere di teatro: La testa del profeta; La grande e la piccola morte; I templari; El entierro del Rey; Ritratto di principe con gatto; Ultima estate dei Fieschi; Le spade e le ferite; L’ombra di Lepanto; Lo zar delle farfalle nere; Flamenco matto; Giuseppe Garibaldi; Storia di un padre e di due figli (diventato un musical con la compagnia Star Rose Academy, regia di Claudia Koll); Sera di Emmaus; L’erba e le stelle (questo, del 2011, è l’ultimo suo libro, dedicato ai giovani, contenente tre racconti e dieci pièce di teatro da camera). Opere di narrativa: la trilogia Uomo e Superuomo, che ha richiesto un trentennio di lavorazione, composta da Come un fiume come un sogno; Una valigia di cuoio nero; e, in 138


due volumi, I tomo, Fanuel Nuti. Giorni davanti a Dio. 1921-1940; II tomo, Fanuel Nuti. Giorni davanti a Dio. 1940-1958. Le sue opere teatrali sono state messe in scena da registi quali Ugo Gregoretti, Orazio Costa Giovangigli, Pino Manzari, Paolo Paoloni, Daniela Ardini, Sophie Elert, Salvatore Ciulla, Carmelo Rifici e interpretate da attori quali Emma Gramatica, Luigi Vannucchi, Francesco Tumiati, Carlo d’Angelo, Anna Miserocchi, Giorgio Albertazzi, Irene Papas, Sandro Bobbio, Eros Pagni, Massimo Foschi, Claudia Koll. La casa editrice Le Mani ha altresì pubblicato il primo volume critico-divulgativo su Elena Bono e la sua opera (corredato dal dvd Vengono i giorni, realizzato da Salvatore Ciulla) ideato e curato da Stefania Venturino: Il castello in fiamme e l’unguento della parola in www.elenabono.it, a cura di Stefania Venturino.

a cura di Stefania Venturino

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Elena Bono con la press agent Stefania Venturino

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Elena Bono con Gian Carlo Menotti a Rapallo

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Elena Bono con Gabriella Bairo e il giornalista Pier Antonio Zannoni presidente del Premio “La donna scrittrice�

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Francangelo Scapolla editore dell’opera omnia della Bono con la regista Bairo

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STEFANIA SEGATORI ELENA BONO, LA POETESSA PRO-VOCATA ALLA PAROLA TESTIMONIANZA Ricordare oggi Elena Bono (1921-2014), scrittrice cattolica, poetessa, drammaturga, traduttrice del secondo Novecento, significa per me rientrare nelle ampie e arredatissime stanze della sua dimora ligure e rivivere istanti, conversazioni e preghiere di rara intensità. Ho conosciuto Elena Bono negli ultimi tre anni della sua vita. Donna di fede e di lettere, dal marcato guizzo creativo, la poetessa di Chiavari ha saputo cogliere nel suo incontro quotidiano con Cristo il significato più profondo del vivere e del soffrire. Una donna dalla vivida forza intellettuale, con una memoria di ferro ed un coraggio che mai si è piegato a compromessi. Sono stati incontri intensi, i nostri. Nella sua casa-museo, Elena mi ha sempre ricevuto con entusiasmo e disponibilità a svelarsi. Dopo pochi minuti trascorsi insieme, la profondità umana e spirituale delle nostre amichevoli chiacchierate ci alleggeriva lentamente, ci smaterializzava del peso dell’esistenza per condurci in un altrove, fatto solo di condivisione di esperienze e di vissuti. Colloquiando con lei, spesso mi dimenticavo di quanto fosse malata: a poco a poco, i miei occhi non la percepivano distesa, ma sospesa in momenti di eternità. Io pensavo di condurre le interviste, ma alla fine le occasioni, gli spunti, gli stimoli li creava lei, passando da un argomento all’altro con una semplicità, una chiarezza ed un rigore logico tipici di chi possiede una cultura sconfinata. Donna d’insopprimibile pace interiore che ha concepito la scrittura come missione, come una vocazione, ma lontano dai vacui clamori editoriali. Una scrittrice fuori da ogni gruppo e da ogni scuola. I suoi scritti affondano e nutrono le proprie radici nella sua stessa vita. La Bono aveva esordito nel 1952 con la raccolta poetica I galli notturni e, qualche anno dopo, la fortunata collaborazione con Garzanti si intensificò tant’è che, nel giro di pochi anni, uscirono per l’editore milanese veri e propri successi editoriali, tra i quali Morte di Adamo (1956), recensito positivamente dalla critica nazionale ed internazionale e tradotto in inglese, francese e spagnolo. Per tutto il decennio successivo, Elena Bono venne considerata la scrittrice di punta, insieme a Pasolini, della Garzanti. La lenta parabola discendente inizia a partire dagli anni Settanta, nel decennio in cui la scrittrice conosce una fase di rallentamento e pubblica con minore assiduità. Dagli anni Ottanta, i suoi scritti vengono pubblicati esclusivamente da una piccola casa editrice di Recco (Le Mani). Ma avvicinandosi alla vicenda biografica e artistica boniana, si percepisce il sentore di un allontanamento voluto. Un’interpretazione sostenuta in primis dalla stessa scrittrice, la quale considerava il sentimento cristiano-cattolico, che anima le sue 144


opere, la causa principale dell’atteggiamento miope della critica che per anni non ha sufficientemente preso in considerazione quegli intellettuali che hanno parlato di Cristo nei loro testi. Quando le ho chiesto di ripercorrere i giorni della propria esistenza, Elena non è mai apparsa né triste né amareggiata; al contrario mi rispondeva manzonianamente: “il mancato riconoscimento da parte della critica non mi tocca affatto, perché io ho sempre quei miei venticinque lettori”. Ciò che contava per lei era la costante e personale relazione con i propri lettori: il suo epistolario, conservato presso la Società Economica di Chiavari, contiene circa quattromila lettere e molti giovani, anche negli ultimi anni di vita, andavano a farle visita. Alla vastità della sua opera, dunque, non è corrisposto un successo duraturo. Elena Bono è uno strano caso nel panorama editoriale italiano. Eppure alcuni dati oggettivi testimoniano il suo spessore: la carriera più che cinquantennale; il suo essersi confrontata con diversi generi letterari raggiungendo sempre risultati originali (riconosciuti anche da prestigiosi premi); le oltre trecento liriche, recentemente raccolte in un unico volume da Elio Gioanola; la potente produzione drammatica, apprezzata da Pasolini e portata in scena dai maggiori registi teatrali (Ugo Gregoretti, Giorgio Albertazzi, Carmelo Rifici, Vittoriano De Ferrari, Nino De Reliquis, Pino Manzari, Sandro Bobbio, Domenico Galasso). E, infine, lo confermano il realismo carnale delle vicende, la complessità umana dei personaggi e la forza cinematografica di alcuni plots, come, ad esempio, La moglie del Procuratore. Ho sottolineato recentemente, in un bel volume dedicato alla scrittrice, come le sue opere siano: Costruite e messe in scena quasi fossero tragedie greche moderne: esperienze umane individuali che diventano collettive per la loro acuta dimensione psicologica. Proprio partendo dalla letteratura classica, primo amore della scrittrice, è possibile comprendere l’intensità della drammaturgia e della prosa boniana, cruda, asciutta, mai retorica che si distingue per la capacità di riecheggiare nella mente di chi legge e di scardinare certezze che mai appaiono così fragili. Elena Bono ri-racconta e ri-attualizza, con una scrittura spesso sanguigna, violenta, fulminea, un mondo, in linea di principio remoto e a volte indecifrabile, eppure oggetto di un’irrinunciabile tensione, che sola può dare senso all’uso letterario della parola/Parola. La scrittrice narra alcune intime vicende familiari intrecciandole all’incontro con Gesù, uomo che affascina, inquieta e pone interrogativi. Così, nei suoi personaggi, ella tratteggia la coscienza dell’uomo moderno, i suoi dubbi, le sue angosce, le sue attese ed ogni aspetto contraddittorio dell’animo umano1. La scrittrice immagina la storia e i sentimenti di coloro i quali nei Vangeli vengono solo citati: ecco allora che conosciamo il piccolo Abi, il padrone mite e devoto del Cenacolo; seguiamo da un piccolo cantone, quasi ci sembra di essere lì, i dialoghi tra i familiari della piccola figlia di Giairo, tutti intenti a sminuire il miracolo compiuto da Gesù per non urtare il Sinedrio e i sacerdoti; accompagniamo Claudia Procula, moglie di Pilato, nel percorso di conversione che compie, tra ansia di 145


sapere ed inquietudini notturne, mentre a Roma conversa con l’amico Seneca e si prepara all’incontro con Paolo di Tarso. Per immergersi nelle pagine boniane, bisogna essere pronti a mettersi in discussione, a lasciarsi turbare dall’incontro con Cristo, a comprendere la spada più che la pace. La rivoluzione della coscienza, la capacità di guardare al passato e al futuro nello stesso istante permettono al centurione, alla guardia al sepolcro, a Claudia, ma anche ai servitori moderni del male (si pensi alla trilogia Uomo e Superuomo) di confrontarsi con il perché delle proprie scelte. Tutto ciò può avvenire anche un attimo solo prima di morire. È così, secondo la scrittrice, che si definiscono la coscienza umana e l’uomo stesso. I personaggi boniani sono ritratti in momenti epifanici dell’esistenza; ciò che non accade per anni o, addirittura per decenni, può accadere in un attimo: solo in questo modo, malgrado l’opacità del tempo, si riesce ad intravedere l’eternità. Per ciò che concerne la poesia di Elena Bono, se fosse possibile condurne una sorta di analisi grafologica dei motivi e dei temi, un’analisi capace di rivelarne anche il tratto, il ritmo e l’inclinazione, senza dubbio, il primo elemento a balzare agli occhi sarebbe la sacralità della parola. Un tratto lapidario, scavato, capace di mettere in risalto l’essenziale, attraverso quel gioco di luce e ombra che ben conoscono i pittori. Elena Bono è poetessa della parola, in una totale indipendenza da ogni schematismo e possiede un proprio bagaglio di formazione culturale, nonché una rigida onestà intellettuale, che mai le ha consentito di porsi al traino delle forme retoriche convenzionali: la Bono non ha cercato costrutti arabescanti o melodiose assonanze, non si è adagiata in formule rassicuranti né ha forgiato neologismi. Le sue poesie inglobano il rispetto verso la natura, verso gli altri e, soprattutto, verso la parola, che tende all’essenziale, è nitida, priva di astrazioni o di complicazioni stilistiche, ricca di rimandi e metafore che danno vigore al potere evocativo dei particolari. In ogni verso è scolpita un’immagine o un gesto, che è di per sé un tentativo di interrogare e scuotere la coscienza del lettore. Il linguaggio boniano si basa su una complessa semplicità, su una scrittura caratterizzata da una forte valenza simbolica: ogni oggetto può farsi specchio, ogni visione essere spunto di riflessione e secernere saggezza. Per Elena Bono la parola (e, a maggior ragione, la parola “poetica”) non può essere snaturata attraverso esercizi metrico-stilistici, come hanno fatto gli sperimentalismi e le operazioni compiute sul linguaggio negli anni del dopoguerra. La parola deve rimandare alle basi archetipiche dell’umano e, quindi, all’elemento spirituale. Il respiro unificante che può trasmettere il messaggio poetico, attingendo ad un elemento spirituale universalmente umano, è per la Bono un contributo prezioso e indispensabile. L’ascolto regna millenario sulla parola e c’è bisogno di semplicità, si avverte la necessità di un ritorno alla parola, dopo la lunga stagione delle avanguardie e delle post-avanguardie. In altre parole, c’è l’urgenza di una religione della parola: la pronuncia interiore assume un’importanza decisiva per quanto riguarda la capacità di cogliere il significato più complesso e profondo delle parole, nella ricchezza delle loro risonanze più intime. La parola boniana è in primis 146


parola religiosa e quindi parola efficace, realizzante, non vana. Elena Bono si è sentita provocata e pro-vocata alla scrittura: “la mia è una lingua allo stato nascente”, ha affermato spesso durante interviste e colloqui privati. La parola è intuita più che capita. L’atto poetico è atto di liberazione e di ricongiungimento con la purezza originaria, perciò è atto che fa incontrare Dio e la poesia diventa espressione di umanità piena. Poche righe non bastano a descrivere un’esistenza così profonda e cristianamente vissuta come quella di Elena Bono. Non si dimentichi il suo impegno francescano di sorella nella dolorosa esperienza tra gli sfollati e al fianco dei partigiani rifugiatisi sull’Appenino ligure. Ciò che oggi ricordo con maggiore emozione e commozione sono i momenti in cui lasciavo quella dimora silenziosa, eppure così intrisa di Parola, ai miei occhi tanto affascinante con la Sala della Musica, i manifesti teatrali lungo i corridoi, le migliaia di libri e le pregevoli opere d’arte. E ogni volta che salutavo Elena, mi ritrovavo a spigolare nel mio vissuto, a riflettere sul valore di ogni nostra singola parola e a meditare sull’innata religiosità di ogni uomo: “così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare”.

S. Segatori, Quello che le Scritture non dicono: i Vangeli del Novecento e il caso “Morte di Adamo”, in “Le nevi del Fujiyama”. La via della catarsi. Studi critici su Elena Bono, a c. di L. Casella e D. Cerrato, Roma, Aracne, 2013, p. 131

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SCHEDA ANTICIPAZIONI EDITORIALI

In occasione del primo anniversario della scomparsa di Elena Bono, si riannodano i fili del rapporto tra la grande scrittrice e i circuiti dell’editoria nazionale di vasto pubblico. A inizio marzo saranno disponibili in libreria due volumi, entrambi editi da Marietti: il racconto-romanzo La moglie del Procuratore1 (tratto dalla silloge Morte di Adamo, il capolavoro riconosciuto della poetessa) e la miscellanea Quando io ti chiamo2 (titolo che riecheggia un verso della Bono). L’operazione editoriale si configura come una suggestiva porta d’ingresso con segnaletica in evidenza, un accesso facilitato per introdursi nell’opera della scrittrice, e raccoglie il testimone fin qui portato dall’editrice Le Mani di Recco (Genova). La moglie del Procuratore è il plot più famoso di Elena Bono, il racconto di cui è protagonista Claudia Serena Procula. La vedova di Ponzio Pilato, in un appassionato dialogo con Seneca, ripercorre i momenti salienti e drammatici del processo-farsa più discusso della storia. Il romanzo s’inserisce nella scia delle produzioni narrative di Gertrude Von Le Fort e Anatole France, con uguale – se non superiore, a detta dei critici – riuscita. La raccolta originale Morte di Adamo comprendeva, oltre al racconto citato, altri sette episodi a sfondo biblico-evangelico: in tale cornice è bello immaginare che La moglie del Procuratore sia il prequel di una storia di ricongiungimento letterario, coronamento di un sogno per tutti gli estimatori della Bono. Quando io ti chiamo è il corredo di segnaletica, invito all’evento sotto forma d’invito alla lettura. I diversi contributi di cui è composto il volume segnano, come perimetro di una geografia, i punti cardine che formano la “mappa del tesoro”. Il corpus letterario della scrittrice è, infatti, presentato nelle sue quattro pietre miliari: la poesia, il teatro, la trilogia narrativa Uomo e Superuomo e – distinta dal resto – la raccolta Morte di Adamo. A introdurre i saggi tematici vi è una biografia per episodi, una sorta di cronaca degli eventi notevoli che hanno accompagnato la parabola artistica ed esistenziale di Elena Bono. Quando io ti chiamo anticipa, seppur in minima misura, il lavoro monografico a cura di Stefania Segatori che sarà pubblicato prossimamente. Prima monografia dedicata alla Bono, il volume ripercorrerà la vita e le opere della scrittrice ligure d’adozione, dagli esordi con Garzanti (1952), attraverso l’ampia produzione di saggi, poesie e racconti sull’esperienza partigiana, fino agli scritti degli ultimi anni (2011), ai romanzi sul tramonto della coscienza umana e civile dell’uomo al servizio del male (periodo nazifascista) e alle più recenti prove drammatiche, dominate dal tema della memoria storica e dei rapporti intergenerazionali. Nello specifico, s’insiste sulla prima ricezione con un’attenta indagine sulla cronaca del tempo e si ampliano i motivi portanti e trasversali dell’intera poetica. Stefania Segatori, dottore di ricerca (attualmente collabora con il Centro di Ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia Unita” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia), ha lavorato direttamente con l’autrice per circa tre anni, cadenzati da incontri rego148


lari presso la sua abitazione di Chiavari. La Bono era a conoscenza della struttura del volume a lei consacrato e, mossa da una profonda intesa con la Segatori e da un ritrovato entusiasmo, si è sempre svelata in maniera autentica e sincera, pronta a rispondere ad ogni dubbio e sforzandosi di ricordare quanti più possibili aneddoti sulla sua lunga ed intensa vita. Amante della ricerca erudita e del labor limae, profonda conoscitrice delle Sacre Scritture e della cultura classica, protagonista della vita intellettuale degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, collaboratrice proficua di Aldo Garzanti, legata al mito di Leopardi e ad Emilio Cecchi, Elena Bono ha alle spalle una vicenda umana ed artistica che rappresenta un itinerario attraverso la storia letteraria, culturale e politica italiana dalla Seconda Guerra Mondiale ai nostri giorni. E la monografia muove proprio da qui, dalla ricostruzione della vicenda biografica (con notizie inedite), passaggio obbligato per comprendere meglio la sua opera, che ad essa è strettamente legata. I capitoli tracciano un iter ben preciso (biografia, poetica, narrativa, teatro, saggistica, traduzioni, epistolario) e all’interno di essi vengono indagate alcune tematiche care alla poetessa: la scrittura come vocazione, la poesia come musica, l’attimo e l’eterno, la sacralità della parola/Parola, la Resistenza bianca e l’impegno civile, le esistenze in limine mortis, le donne della Resurrezione, l’esperienza traduttologica). Un contributo, dunque, frutto di lunghe ed emozionanti chiacchierate e di appassionate ricerche tra le carte donate dalla stessa alla Società Economica di Chiavari. Chiude il volume una consistente e approfondita bibliografia, che non trascura la stampa e le traduzioni internazionali. In un’ottica più ampia, la monografia sulla vita e l’opera di Elena Bono intende aggiungere un tassello a quel vasto e ancora inesplorato mosaico che è la dicotomia letteratura-religione, oggi declinato in diverse sottocategorie: letteratura e sacro, letteratura e fede, letteratura e teologia, letteratura religiosa, teologia narrativa. a cura di Stefania Segatori

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E. Bono, La moglie del Procuratore, prefazione di Armando Torno, postfazione di Stefania Segatori, Marietti, Genova, 2015.

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F. Marchitti, a c. di, Quando io ti chiamo. Invito alla lettura di Elena Bono (contributi di S. Segatori, G.M. Veneziano, S. Guidi, A.M. Roda, P. Amelio), Marietti, Genova, 2015. 149


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ELENA BONO POESIE DA INVITO A PALAZZO

Introduzione di Viviane Ciampi

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VIVIANE CIAMPI DOVE ABITA IL MISTERO

Elena Bono è una poetessa dalla vocazione particolarissima che trae linfa sia dal sentimento della vita sia da quello della morte. Ma la sua vasta opera trova grandezza nel rapporto con il Divino in un desiderio di ricerca della verità che non le ha impedito gli stati di oscillazione e qualche migrazione nel dubbio. Tuttavia – mi sia permessa una piccola incursione puramente biografica –, il percorso della poetessa di Chiavari (nata nel Lazio, a Sonnino nel 1929) resta in un certo senso un mistero: dopo aver pubblicato tre libri per Garzanti (e traduzioni dai classici latini e greci, sempre per Garzanti), affida il resto della sua produzione letteraria (teatro, romanzi e poesia) a una piccola e pregiata casa editrice di Recco (Le mani) che nel maggio 2007 consegna ai lettori l’Opera Omnia poetica dell’autrice. Nell’introduzione a questo libro, frutto di un’esperienza più che cinquantennale, il critico Elio Gioanola scrive: Non che siano mancati all’opera della Bono riconoscimenti anche molto alti, specialmente per quanto riguarda il lavoro teatrale e narrativo, ma non c’è stato lo spontaneo e generoso consenso che spetta ai veri poeti1. Per chi non conoscesse Elena Bono va detto che Morte di Adamo, opera di narrativa uscita nel 1956 (Garzanti) fu tradotta in varie lingue e salutata dal Times come “opera potente e commovente”, mentre Nazareno Fabbretti scrisse: “È tempo di rendersi conto che lo scrittore che attendevamo nel dopoguerra è giunto”. Non tenterò di eludere qui gli enigmi di questo “non totale consenso” e mi sembra che la miglior cosa da fare sia allargare la cerchia dei lettori presentando alcune poesie della raccolta forse più affascinante di Elena Bono Invito a Palazzo che apparvero in un primo tempo nella rivista Conoscenza Religiosa diretta da Elémire Zolla2 prima di essere pubblicate come libro. Esse fanno parte del filone cosiddetto “orientale” della sua scrittura. Ci offre così un libro compatto, lirico e narrante, dal tono leggero e – a tratti – altamente drammatico. I nomi dei personaggi rappresentati nelle poesie – a detta dell’autrice – le furono tutti dettati in sogno. Il Palazzo Misterioso di cui si narra appartiene all’Imperatore Celeste ma non è difficile individuarvi la possibilità della dimora del Divino che alberga nel cuore della gente. L’Io narrante (in cui è possibile scorgere la figura del lettore) sarà quindi convocato al “Palazzo che splende / sull’alta remota città dalle Mura di Giada”, una struggente allegoria di chiamata verso “l’Alto”, una scelta, il nodo centrale nell’esistenza degli esseri pensanti. Molte vicissitudini, tuttavia, incontrerà colui che è stato invitato a Palazzo e ha perduto dignità vendendo l’anello regale per pochi bocconi di pane e sorsi di vino. Per prima cosa non troverà sulla soglia di casa la portantina che avrebbe dovuto portarlo al luogo misterioso né egli ha la minima idea di dove dirigersi per trovarlo. Lasciando dietro di sé ogni consuetudine e certezza, inizierà per lui una lunga e faticosa avventura in sentieri che lo condurranno verso l’ignoto e l’estraneo, alla ricerca della Luce. Il tutto si dipana su una scena colma di apparizioni, in una poesia fiabesca, dove il senso del Divino è il segreto nutrimento che corre sotto traccia. 1 2

Opera Omnia, p.19

Apparse nel n.4, 1973

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POESIE DA INVITO A PALAZZO INVITO A PALAZZO Il Figlio del Sole il Lucente l’Imperatore Celeste mandò quel suo messaggero quella sera lontana per invitarmi a Palazzo il Palazzo che splende sull’alta remota città delle Mura di Giada. Io misi in fretta la veste listata di porpora e d’oro ai piedi i calzari di seta all’anulare l’anello del Privilegio Regale il nastro intorno alla fronte dell’Ossequio Perfetto. Ma quando discesi non c’era la portantina alla soglia: il messaggero sparito, non fiaccole non portatori. Buia la strada frettolosi i passanti, al vento e alla notte soltanto potevo io domandare dove il Palazzo, dove la sacra mai vista città delle Mura di Giada. Da tempo ho cambiato l’anello del Privilegio Regale per pochi bocconi di pane per poche sorsate di vino, ma molta ma molta di più la polvere che ho masticata e l’acqua bevuta nei fossi dal morto sapore di rane. A brandelli la veste disfatti i calzari di seta, di quella tenuta di Corte non rimane che il nastro ancora legato alla fronte, 153


il logoro segno ingrigito dell’ Ossequio Perfetto rapide occhiate irridenti mi sfiorano il nastro, qualcuno si scosta come a un segno di lebbra, qualcuno mi insulta o mi aizza dei cani. Non oso a nessuno a nessuno domandare il cammino, neppure agli uccelli e alle stelle: stelle e uccelli non sanno che andare e tornare nel cerchio di Eterni Ritorni. Procedo alla cieca. e dubito della Chiamata, mi dico che tutto fu sogno: messaggero e messaggio, e infine che non esiste nessuna remota città delle Mura di Giada né il Palazzo che splende né il Figlio del Sole il Celeste seduto sul trono abbagliante. Eppure talvolta giacendo qua e là per le selve o lungo i fossati, nei vicoli, negli angiporti spalla a spalla coi nomadi e i servi fuggiti tra imprecazioni e lamenti fetore di febbre e di piaghe formicolanti di vermi mi è accaduto sì di sentire qualcuno che in sogno parlava di un grande invito a lui giunto una sera lontana, di un messaggero sparito di un anello venduto e di un Palazzo, un Palazzo che splende alto sopra le mura di purissima giada. 154


HO IL CUORE DIVISO

Mi inchino davanti agli immutabili dei. Sospiro guardando la nebbia che sale dal fiume. Ho il cuore diviso fra il tempo e le eterne certezze. SerenitĂ e tristezza: un unico vino lentamente bevuto. Voglio intrecciare stasera ghirlande di tenere rose, incoronarne le fronti di bronzo degli Immortali. Tenere rose morenti su fronti di bronzo.

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LE AEREE CAMPANE DEL MONASTERO DI LHANG

Le aeree campane del monastero di Lhang e i miei passi pazienti che salgono al Tetto del Mondo. – Ancora un poco ancora un poco, straniero, – dicono le campane. – Presto sull’alta terrazza siederete voi tre: tu la tua solitudine il tuo silenzio.–

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IL SORRIDENTE SIGNORE DEL TEMPO

Il sorridente signore del tempo mi ascolta parlare; alla speranze ai timori alle affannate domande non dice sì né no. Richiudo infine le labbra, mi incanto a guardare l’altissima fronte lontana le mani d’avorio i grani delle ore che scorrono fra le sue dita. Così a poco a poco s’acqueta l’inestricabile cuore, sospiro appena poi bevo il mio limpido the.

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LA FONTANA NEL GIARDINO

Le lamine dorate lievi battendo tra soffi d’acqua ed aria. Odi l’acqua giuocare e soffi d’aria e qualche lamina d’oro. E dove ormai quel che con te sedeva vicino alla fontana? dov’è il tuo dolore?

Nota: Amano i cinesi costruire fontane dove lamine dorate e colorate, di forme diverse, stanno sospese a fili invisibili ed oscillano secondo che le muova il vaporoso cadere dell’acqua dall’alto, producendo tenui e dolci suoni. 158


INVITO A BERE

Presso le grandi coppe lucenti dei T’ang – uccelli e draghi d’oro e profondissimo vino – Ti aspetto, o caro. Invito i signori discreti che ti dimorano in cuore: i muti dolori e le rughe sottili ed il sospiro che solo dagli occhi appare. E sulla bocca il silenzio che molto dice e qualche parola sul tempo e qualche sorriso.

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PREGHIERA DI UN MONACO ZEN PRIMA DI DIPINGERE

Tu senza volto e senza possibile nome, Nudità gaudiosa e perfetta, spoglia me di me stesso e di ogni vista l’occhio e di ogni arte la mano, rendimi notte e nulla per chiudere il Tutto in un unico segno di questo pennello su carta di riso.

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PAROLE DI UN MAESTRO DEL TIRO CON L’ARCO

Non guardare il bersaglio. Oltre lo spazio e il tempo guarda il Punto dove si trova tutto anche il bersaglio. La freccia partirà calamitata. Ma se il cuore ti sfugge inorgoglito e si chiude nell’arco brucia l’arco e disperdi le ceneri nel vento.

da Invito a Palazzo, Ed. EmmeE 1982 Ristampa Ed. Le Mani, Recco 2007 (per gentile concessione dell’editore)

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UNA LETTERATURA DEL SÍ INTERVISTA A ELIO GIOANOLA

D – Si può dire parlando di Elena Bono, che siamo alla presenza di un “caso letterario”? R – Eccome! Senz’altro, un caso letterario lo è stato quando era in vita e lo è tuttora che ci ha lasciati, perché mi sembra che meriti di essere seriamente riconsiderata. D – Elena Bono aveva detto di no al Nulla… R – Nel modo più assoluto. Basti pensare al fatto che la letteratura del Novecento è stata una letteratura del Nulla, una letteratura della mancanza dei valori, dell’assenza di Dio: la letteratura di Elena Bono era invece una letteratura del sì, dell’affermazione, dell’essere. D – Lei ha scritto nel 2005 un libro importante intitolato: Psicoanalisi e interpretazione letteraria in cui ha analizzato l’opera di Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Saba, Montale, Penna, Quasimodo, Caproni, Sanguineti, Mussapi. Potrebbe dare un’interpretazione psicoanalitica anche dell’opera di Elena Bono? R – Il problema è molto semplice: io faccio queste operazioni critiche soltanto quando sono alla presenza dell’autore e ne conosco vita morte e miracoli, mentre per Elena Bono personalmente di lei non conosco nulla, non ho letto diari, dove un autore si confessa in qualche modo. Elena, è vero che l’ho frequentata di persona, ma per la verità non ne so nulla sul piano personale e quindi non sarei in grado di fare una critica psicanalitica anche perché dovrei rileggermi tutta l’opera, questo non è un lavoro dilettantesco. Per darle un’idea, quest’estate ho scritto un libro sul Manzoni e Manzoni è un altro scrittore difficilmente affrontabile con il metodo psicanalitico perché come Elena Bono sta tutto nella sua opera. I promessi sposi non hanno niente di autobiografico e quindi sono difficili da analizzare psicanaliticamente… D – Tuttavia Lei che ha avuto davanti agli occhi tutta la produzione poetica della Bono, essendo in particolare il prefatore della sua Opera Omnia, può dire di essersi trovato alla presenza di una poetessa – per usare una parola un poco desueta – “ispirata”? 162


R – La parola “ispirata” credo che sia il termine più esatto per parlare della Bono perché lei mi disse di essere “visitata” dai suoi personaggi, dalle situazioni delle quali scriveva, non andava a cercare motivi o pretesti per scrivere ciò che aveva in testa. Lei credeva fermamente in qualcosa che venisse da altrove. D – Vorrei terminare questa intervista con un suo ricordo personale della poetessa di Chiavari. R – L’ho incontrata in tante occasioni, ma ho un ricordo molto bello relativo a un seminario che feci tanti anni fa su un libro di racconti Morte di Adamo: sono racconti evangelici di grande suggestione perché è una materia difficile, una materia in cui si rischia la retorica, ma lei con grande semplicità seppe rendere magnificamente il clima, l’atmosfera del mondo di Gesù. Particolarmente la scena dell’Ultima cena. Veniva sempre suo marito Gian Maria Mazzini a sentire queste lezioni. D – Ha quindi ancora molto da dirci la letteratura di Elena Bono? R – Ritengo che Elena Bono sia da riscoprire proprio in questo periodo. La storia del Nulla è finita e bisogna ricominciare a scrivere su qualcosa di più positivo. Lei seppe guardare solo ai modelli alti della lirica universale. intervista a cura di Viviane Ciampi

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UN FILM SU ELENA BONO INCONTRO CON GABRIELLA BAIRO

Gabriella Bairo, scrittrice, sceneggiatrice e regista (è cugina di Paolo Genovese), che ha realizzato numerosi film per la televisione e anche per la distribuzione nelle sale, in particolare documentari che vogliono essere una rilettura delle Avanguardie Storiche, sta preparando un film sulla vita di Elena Bono. In realtà si tratta di un progetto che data da molti anni fa e che era stato avviato con la collaborazione della poetessa scomparsa. La Bairo e la Bono divennero amiche quando la Bono era ancora al massimo della sua fama, prima che fosse dimenticata progressivamente a partire dagli anni Settanta, e fin da allora fu la stessa poetessa a sollecitare Gabriella perché facesse un film sulla sua partecipazione alla Resistenza. Ma questo film non fu mai realizzato e più tardi, nonostante ulteriori sollecitazioni della Bono, la regista continuò a rimandare aspettando un momento opportuno, perché nel frattempo la fama della Bono si era oscurata, lei era stata quasi completamente dimenticata e quindi c’era da sperare in un ritorno di notorietà che potesse giustificare presso il pubblico la proiezione del film. Nel frattempo tuttavia Gabriella Bairo, nel corso di una sua assidua frequentazione della scrittrice, di cui fu una delle persone più intime, aveva cominciato a registrare episodi raccontati dalla sua viva voce che ora potrà utilizzare per il film, di cui ha già pronta la sceneggiatura. L’abbiamo incontrata a Rapallo, dove vive, occupandosi anche di prestigiosi progetti artistici e culturali a livello internazionale. É, infatti, presidente del COMAC (Consiglio Organizzativo Mondiale Arte e Cultura) che opera in ventotto Nazioni, con Sede a Città del Messico, e referente Culturale in Europa per Eco Global Arte, con sede a Tlaxcala Messico. D – A che punto è il film? R – È quasi pronto. D – Si tratterà di un cortometraggio? R – No, di un vero e proprio lungometraggio che uscirà nelle sale. D – Quando? R – Sto solo aspettando il momento giusto perché la sua uscita possa attirare la dovuta attenzione. 164


D – E questo momento sarà quello in cui si accenderanno di nuovo i riflettori sulla Bono? R – Proprio così. E spero che accadrà presto. Ci sono libri importanti che stanno per uscire. Si fanno tesi di laurea su di lei. Ma anche spettacoli: ci sono compagnie teatrali che hanno in cartellone suoi testi. L’attrice Claudia Koll, che sarà anche la protagonista del mio film, sta portando in giro per l’Italia un musical, Un padre e due fratelli, che Elena Bono aveva scritto proprio per lei. Nella recente conversione religiosa della Koll l’incontro con la Bono ha avuto una parte importante. Altri spettacoli sono stati realizzati da Salvatore Ciulla, che nel 2009 aveva presentato Fiori rossi, memorie della Resistenza, liberamente tratto dall’opera della Bono. Anch’io ho recentemente rappresentato suoi testi alla Fondazione del Teatro Popolare di San Miniato. D – Ha scritto Lei la sceneggiatura del film? R – Sì. L’avevo fatta vedere a Elena, che ne era contentissima. Nella sceneggiatura c’è anche una parte di fantasia ma i fatti salienti sono tutti aderenti alla realtà. Ho intenzione di inserire direttamente la sua voce, quando si tratta degli eventi più importanti della sua vita, sarà lei a raccontarli. Spesso si trattava di episodi che conoscevo già, ma glieli facevo ripetere, le dicevo: “Questo deve andare nel film”. Ho accumulato ore e ore di registrazione. Lei aveva una voce chiara e una memoria formidabile. D – Come pensa di realizzare la parte della sua vita relativa alla Resistenza? R – Questa parte avrà senz’altro un grande rilievo. Molti mi hanno spinto a narrare questo periodo della sua vita e mi servirò anche di molte foto d’epoca che mi sono state date, sono in possesso di documenti importanti. Sono anche stata a Genova a fare delle riprese nella tipografia dove si stampavano i volantini della Resistenza, perché ho saputo che presto la tipografia verrà smantellata e trasferiranno i macchinari in un museo. D – Ma sarà un film più sull’eroina della Resistenza o sulla poetessa? R – Certamente più sulla poetessa. Il film si aprirà su una canzone tratta dalla poesia Tempo di Dio cantata da Claudia Koll e danzata da Liliana Cosi che impersonerà un angelo. Prima di tutto mi interessa far conoscere al grande pubblico Elena Boni come poetessa e anche per la sua umanità. Comunque il film seguirà tutta la storia della sua vita, iniziando da quando lei era bambina fino alla sua morte. 165


D – In quali luoghi ha girato? R – Ho girato delle scene a Sonnino nel Lazio, dove lei era nata, e poi a Recanati, un luogo d’importanza centrale per lei. Lì era stato trasferito suo padre, come preside del locale liceo classico e lì avvenne, per la Bono, la scoperta del Leopardi, che sarebbe stato il suo maestro, il grande amore letterario della sua vita. Fu l’incontro con Leopardi, quando era ancora piccola, a schiuderle il mondo della poesia. In quanto studioso, il padre di Elena si recava spesso a casa Leopardi per consultare la biblioteca e la bambina, che aveva allora tre o quattro anni, si sedeva per terra davanti all’immagine del grande poeta recanatese e restava a contemplarlo, gli parlava. Suo padre, nello scorgere nella figlia quella passione precoce, se ne preoccupava, diceva: “Povera bambina mia”. Sognava per la figlia un avvenire diverso, più inserito nella realtà di tutti i giorni. Ma nonostante la sua adorazione per il padre, Elena su questo non gli diede mai retta. Il suo amore per Leopardi sarebbe continuato sempre, tanto che, anni dopo, ritornando a Recanati con la madre e la sorella, una notte, in albergo, fu visitata da un’apparizione: lo spirito di Leopardi le parlò, disse di esserle grato di quell’amore che lei gli aveva portato fin da bambina, e la incoraggiò a dedicarsi alla poesia. D – Quali furono i suoi altri maestri letterari? R – I grandi classici – aveva tradotto molto Sofocle – e i profeti. Ma fra i poeti solo Leopardi. D – Ma al di fuori delle vicende della Resistenza, la vita della Bono, che negli ultimi anni anche per la sua malattia soffrì una vera e propria reclusone, non sembra essere ricca di episodi. Una vita dedicata solo alla scrittura. R – In realtà gli episodi ci sono. Per esempio, quelli che riguardano la sua fede religiosa. Anche in questo caso si tratta di una vocazione precocissima. Racconterò per esempio come, sempre da piccola, suo padre la portasse in chiesa e lei piangeva sulla Via Crucis, tanto che la madre voleva impedirle queste visite. Ma il padre in questo caso le disse: “Se questo è quello che desidera, dobbiamo lasciarla fare.” D – Sembra la vita di una piccola santa. R – In effetti intorno ai vent’anni Elena aveva desiderato farsi suora. Con questa intenzione, era andata a Roma a confessarsi, ma trovò un uomo di Chiesa, un personaggio molto importante, di cui svelerò l’identità solo nel film, che le consigliò di continuare a fare quello che stava facendo: scrivere. Lei aveva avuto una visione di Cristo e la sua prima opera, il suo capolavoro, Morte di Adamo, è nata da questo fatto 166


paranormale e fu allora che il padre smise di osteggiare la sua carriera letteraria, si è convinto che lei dovesse seguire quella strada. D – Sembra difficile tuttavia trarre un film da una vita che appare così riservata e povera di eventi esterni. Non si rischia di fare una pellicola agiografica? R – Ma gli spunti imprevisti non mancano. Per esempio, quando da bambina strappa l’erba e la mangia per gelosia della sorellina e fa la spia alla governante che di nascosto va a bere nelle cantine: era una bambina anche capricciosa, che voleva primeggiare. E poi c’è una storia d’amore di cui lei per riservatezza non amava parlare, quando conobbe quello che sarebbe diventato suo marito, che per straordinaria combinazione era un discendente di una famiglia imparentata sia con Giuseppe Mazzini sia con Garibaldi. Nel film la racconterò. E poi lei, fino circa alla metà degli anni Settanta, si era occupata attivamente di politica, era stata candidata per il partito repubblicano. Diceva che in politica ciascuno doveva fare la sua parte. D – E come parlare degli ultimi anni, della sua vita di reclusa? R – Voglio far vedere che nonostante lei fosse costretta in casa, la sua voce si sentiva, almeno a livello locale: persone la andavano a trovare, professori portavano scolaresche a conoscerla, a farle domande, la sua era una casa sempre animata, un salotto letterario, anche se negli ultimi tempi era diventata cieca e aveva bisogno di aiuto per sollevarsi dal letto. D – Ma secondo lei Elena Bono era stata più esclusa o si era più autoesclusa? R – Entrambe le cose. Non amava frequentare l’ambiente letterario, diciamo che sotto quest’aspetto era autosufficiente. Preferiva andare a teatro. Ha scritto molto per il teatro. Nel teatro è sempre stata presente ed è stata messa in scena dai migliori registi. Amava gli attori più di quanto amasse i poeti, per esempio ammirava molto Benigni e forse Benigni avrebbe voluto fare qualcosa con lei, ma non c’è stato il tempo. Anche Pasolini le aveva fatto una proposta, ma lei non si sentiva in sintonia con lui. D – Lei crede, come molti ritengono, che la sua esclusione dalla scena letteraria per tanti decenni sia stata dovuta alla sua fede religiosa così esclusiva? R – Anche lei lo pensava. Ma all’inizio degli anni Settanta, con il sopraggiungere della neoavanguardia, lei aveva rifiutato di aprirsi a queste nuove forme di espressione: io credo che sia stato per questo che a poco a poco è stata messa da parte. Elena rimase sempre legata ai classici. Riteneva che ci si dovesse esprimere in modo chiaro, alla portata di tutti. Per questo non amava nemmeno Pound, per esempio. 167


E poi la sua grande ispirazione era la fede. Diceva: “Ritengo di avere sempre scritto sotto dettatura”. D – Soffriva della sua emarginazione? R – Per un po’ non se n’è curata, ma poi a un certo punto ha cercato di recuperare e ha proposto i suoi testi ai maggiori editori, ma questi li hanno rifiutati, ha chiesto a personaggi che conosceva di scrivere una presentazione ai suoi testi e nemmeno loro le hanno risposto. Lei ne era dispiaciuta ma attribuiva questo fatto all’abbassamento del livello morale e spirituale del nostro tempo. Certo lei non faceva compromessi. D – Cosa ricorda soprattutto di lei? R – Quella sua passione, quel suo desiderio di trasmettere un messaggio, di dire agli altri che cosa vale veramente. Il suo messaggio era: Dio prima di tutto. Senza Dio l’uomo non può fare niente. intervista a cura di Donatella Bisutti

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ELENA BONO TEMPO DI DIO

Finite di piangere su di voi e sopra i morti finite di ballare sulle tombe non vi accorgete che a noi è richiesto più che ai figli di ogni altro tempo? Ora bisogna ricreare il mondo in ciascuno di noi o finiremo. Ricordarci la nostra somiglianza con Dio e indurre Dio a ricordarla. Ora bisogna avere tanta forza da imporre al cuore la speranza, amore più che umano agli umani, volontà di vita per tutti. Non è tempo di lutti né di follie. Questo è tempo di Dio. Che aspettiamo? Quale segno? Quale miracolo? Eppure abbiamo visto crocifisso in migliaia di corpi Gesù Cristo. da Poesie Opera Omnia ed. Le Mani 2007 (per gentile concessione dell’editore)

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TESTIMONIANZE

Viviane Ciampi Rosa Elisa Giangoia Elvira Landò

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VIVIANE CIAMPI L’AMORE PER IL TEATRO

Conobbi Elena Bono nel 1996 in occasione della rappresentazione teatrale di un suo dramma Flamenco Matto poi, ebbi occasione d’incontrarla molte volte nella bella casa di Chiavari dove si era ritirata in quasi ascetica dedizione alla scrittura. E del mio primo vero incontro con la romanziera-poetessa-drammaturga vorrei far partecipe il lettore che non la conoscesse, per inquadrarne la figura e la personalità. Un sabato di fine giugno a Chiavari. Elena Bono mi aspetta per un progetto di traduzione in francese del poemetto Invito a Palazzo apparso in seguito sulla rivista canadese Estuaire e sul sito Mouvances. Poemetto che, al pari di altre sue opere – le è stato “dettato” in sogno, come dettati in sogno sono i nomi orientali i quali – racconta Elena – “arrivavano di notte e talvolta mi svegliavano per la smania di essere scritti sulla pagina”. Quella prima volta mi accoglie il marito Gian Maria Mazzini, figura importante dell’imprenditoria ligure e della cultura. Tra i suoi avi Giuseppe Mazzini. È al marito negli ultimi anni della sua vita che (a causa di un ictus che colpirà Elena nel corpo ma non nella mente) detterà le sue opere poetiche e teatrali, i suoi saggi, i suoi romanzi. Gian Maria mi fa strada: percorro un lungo corridoio di libri e quadri antichi alle pareti, corridoio impreziosito da una fitta collezione di stampe del Seicento, da medaglieri con le onorificenze dei personaggi di spicco di casa Mazzini e in quel medagliere figura anche Elena Bono insignita dell’Ordine della Commenda dall’allora presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Elena, che arriva poco dopo nel salotto, non ama i convenevoli e si dimostra subito interessata a l’air du temps che si respira oggi in Francia dal punto di vista politico e culturale, alla musica che potrebbe accompagnare future sue opere teatrali “anche se da parecchio tempo ascolto soprattutto il silenzio!”, agli abiti di scena che ha immaginato per tale personaggio e mi fa partecipe del suo grande amore per la cultura greco-latina – con suo padre preside di una scuola di Chiavari parlava abitualmente in latino non per sfoggio ma per reale amore di quella lingua. Elena è dotata di particolare religiosità e questo traspare in tutta la sua opera pur non escludendo il dubbio da cui è stata assalita molte volte e l’intervento della ragione. Per Elio Gioanola, prefatore dell’Opera Omnia il percorso mentale della poetessa, è chiaro: “Forse non c’è stata altra vita d’artista, nella nostra modernità poetica, così radicalmente offerta ad una vocazione”. Mi parla di come fu gioiosa – pur se sofferta – una sua traduzione di Sofocle, di quanto la traduzione sia di stimolo al nascere delle sue opere e quanto la figura del traduttore, specialmente in poesia sia poco capita non solo dai lettori 172


ma da molti poeti non traduttori. E nel mentre mi prende le mani tra le sue s’interrompe, per osservare la stoffa del mio vestito, la sfiora con le dita quasi per un sussulto di levità. Ma non è frivolezza quest’atteggiamento, in quanto tutto va riportato alla sua creatività, all’amore per il teatro che estendeva non solo alla sceneggiatura ma anche alla scenografia e ai costumi. Quando mi saluta, mi confida in un buon francese – amava, per vezzo utilizzarlo ogni tanto così come i dialetti –: “J’ai demandé à Dieu de ne jamais écrire des bêtises! (“Ho chiesto a Dio di non scrivere mai sciocchezze!”). Una delle ultime volte che la vidi fu alla Festa del Teatro di San Miniato (a Pisa) una bella estate di qualche anno fa, dove si rappresentava il suo dramma teatrale Le spade e le ferite per la regia di Ugo Gregoretti in cima alla Torre Saracena in cui convocava Pier delle Vigne (Marco Spiga), Innocenzo IV (Eros Pagni) e Federico II (Massimo Foschi). Rivedo Elena, stanca ma felice, con le scarpe basse e di raso che uscivano dalla doppia gonna. “Guarda quanti spettatori!”, dice Gian Maria in attesa della rappresentazione. A quel punto un giornalista chiede alla drammaturga: “Chi sono i buoni e chi i cattivi?”, e poi “Che cosa significa stare in bilico tra il bene e il male?”. Elena risponde scherzosa: “Questo non lo sappiamo e neppure la scienza può dipanarlo”. Vederla attendere la notte toscana a testa china sul programma, è un vero privilegio. Più tardi, a notte fonda, il calore degli applausi copre un fitto tramare di rane.

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ROSA ELISA GIANGOIA UN REALISMO SPIRITUALE

Conoscevo da tempo la poesia di Elena Bono, di cui avevo letto alcuni libri soprattutto su indicazione della mia cara amica poetessa, Margherita Faustini, ed avevo molta ammirazione nei suoi confronti per cui, quando venne l’occasione di incontrarla, ero molto contenta, ma anche piuttosto emozionata. L’avevo invitata, insieme con altri poeti genovesi (Elio Andriuoli, Aldo G.B Rossi, Margherita Faustini e forse qualche altro che ora non ricordo) alla Biblioteca Servitana, per un recital di poesie religiose in omaggio al servita e poeta padre David Maria Turoldo. Elena Bono accettò volentieri l’invito e mi disse che avrebbe letto almeno una poesia sulla Madonna, perché era sua abitudine, in ogni recital, in qualunque occasione e ambiente, dedicare una poesia a Maria. Mi piacque questa sua esplicita dichiarazione, mi diede l’impressione di una persona determinata e decisa, sicura nella sua fede, un testimone, insomma. Poi ci furono varie altre occasioni d’incontro e si stabilì un certo dialogo, per cui capii che per lei due cose erano particolarmente importanti, la sua fede religiosa e la sua giovanile ammirazione ed adesione ideologica alla Resistenza partigiana. Mi disse, infatti, che a lei giovinetta (e si riferiva al periodo di sfollamento sull’appennino ligure), tramite il sacrificio dei suoi compagni e coetanei, la Resistenza aveva «rivelato l’eterno ripetersi della Passione redentrice di Cristo attraverso la storia e il dovere per ognuno di noi di essere presente e facitore (non semplice spettatore) nella Storia». A questo proposito riprendo con precisione le parole dell’intervista compresa nel n.10 di Lettera in Versi dell’ottobre 2004 che le ho dedicato, anche se sono concetti che le ho sentito ripetere diverse volte. Capii così che per lei la Storia era molto importante, erano soprattutto molto rilevanti i comportamenti degli uomini, in particolare di quelli che avevano avuto responsabilità in eventi determinanti, in cui, schierandosi da una parte o dall’altra, avevano preso posizione, per loro, ma anche per altri, per il Bene o per il Male. Di qui era nato quel suo realismo spirituale, via d’uscita dalle ideologie, posizione imperdonabile nel milieu letterario del momento, che l’aveva portata a riflettere sulla drammatica contrapposizione nella recente coscienza europea tra tentazioni superomistiche e fedeltà alla morale, impersonata, a suo giudizio, dall’azione dei partigiani. Ma dalla sua visone di contrapposizione e necessità di scelta tra Bene e Male, con senso di responsabilità in prospettiva escatologica, erano nate anche le sue opere di narrativa e di teatro, sempre di alto livello etico, in cui l’uomo, agendo nella Storia, si trova a doversi porre di fronte all’Assoluto, pur nella consapevolezza 174


della presenza e dell’azione della Provvidenza nella Storia. Capii che per Elena Bono nella Storia tutto era contemporaneo, perché immutato è lo spirito dell’uomo di fronte al Bene e al Male. Nel volgere di pochi anni le condizioni di salute di Elena Bono divennero quanto mai difficili e qui ci fu da parte sua, pur con quel suo corpo minuto e fragile, una grande lezione di accettazione e di pazienza, per quel suo sopportare, non tanto con rassegnazione, ma piuttosto con energia intellettuale e spirituale, tutte le limitazioni della sua condizione, tenendo sempre vigile e attento il suo mondo interiore, cosa che dimostrava la sua abitudine ed attitudine a nutrirlo, ad arricchirlo con la sua Fede, per mantenerlo forte. Si capiva, come disse ancora nell’intervista a Lettera in Versi, quanto fosse importante per lei il fatto di aver imparato “da Dio la Misericordia non solo verso gli altri ma anche verso la nostra povera persona con tutte le sue molte miserie corporali e spirituali”. Così, infatti, ha guardato a se stessa e alla sua vita, anche dopo la morte dolorosa del marito, lungo le difficoltà e le sofferenze che l’esistenza le ha riservato fino alla fine. Questo perché credeva fermamente che l’uomo, nella pienezza della sua umanità, condividesse con Dio una somiglianza e perciò il senso di tutti i Valori. Una volta ebbi a chiederle chi poteva essere per lei un esempio di quest’uomo veramente umano, chi poteva rappresentare, a suo giudizio, una figura ideale. La sua risposta subito mi stupì, mi sorprese, perché avrei immaginato m’indicasse un grande del passato, invece mi disse: “Bisagno”. Era questo il nome di battaglia durante la Resistenza di Aldo Gastaldi, il primo partigiano d’Italia, cattolico, morto subito dopo la Liberazione a seguito di un incidente su cui permangono molti dubbi. Poi, ripensando alla sua valorizzazione della Resistenza, capii le ragioni della sua scelta, quelle che ben chiarisce nella lirica O Bisagno, in cui tratteggia la figura di questo giovane che si è impegnato per il bene di tutti, partendo dalle idee di giustizia, libertà e fratellanza apprese dai Vangeli. L’adesione alla Resistenza rimase viva per Elena Bono per tutta la vita. Per lei l’8 settembre del 1943 era stato il giorno del ridestarsi alla Storia, di fronte a cui aveva capito che non bisognava chiudere gli occhi di fronte alla realtà, ma guardarla bene dentro di sé per comprenderla e capire che cosa si dovesse fare. Infatti, la poesia che mi diede per l’antologia Notte di Natale (2005) rievocava ancora un Natale di guerra, quello del 1943, appunto. Quest’attenzione alla realtà, però, per lei era anche l’atteggiamento che si doveva continuare ad avere al giorno d’oggi, dato che ormai «tutto rischia di esteriorizzarsi». Anche la fedeltà al culto della Madonna l’accompagnò fino alla fine. Infatti, l’ultima poesia che mi diede per l’antologia Ti prego (2011) era dedicata a Maria (Ecco già la fanciulla). Una grande lezione di fedeltà la sua, fedeltà alla Fede capace di orientare nella vita e nella Storia.

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ELVIRA LANDÒ L’ASSOLUTO NEL QUOTIDIANO

Elena Bono, la più alta e originale voce poetica del secondo Novecento, si è spenta la sera del 26 febbraio 2014. Da quando il padre Francesco Bono vi era giunto quale preside del liceo Federico Delpino, nel 1931, era vissuta a Chiavari, nel quartiere più occidentale, tra il mare e le ombre scure dei monti che vi discendono a picco – I monti neri della mia terra… questo nero Appennino, mandria di tori neri che corre al mare e quando il tuono va di monte in monte ha fragore di zoccoli”. Così inizia Fanuel Nuti, il terzo volume della trilogia Uomo e Superuomo, cui Elena Bono si dedicò dal 1957 e così certamente apparve (a lei bambina) quello scorcio di paesaggio, tra luci d’acciaio e rupi alternate ad olivi e pini, tragicamente duro ed evocativo di drammi. Poi Chiavari le piacque e scrivere della sua storia e dei suoi segreti con sguardo attento e sensibilità senza pari fu per lei intrapresa appassionata: in Fanuel Nuti oltre al dramma di quella lotta fratricida e al funesto scontro di civiltà, quella della morte e quella della libertà, Chiavari, il suo entroterra e i diversi personaggi sono raffigurati con icastica seduttiva verità. Alla Bono staffetta partigiana dobbiamo, infatti, le più belle e originali pagine sulla Resistenza. E Chiavari, emblematico di mondi più vasti, restò il suo luogo reale, dove in quasi ascetica semplicità, ma attorniata sempre dalla bellezza, compose le sue opere, ininterrottamente, sino agli ultimi anni, dettandole poi quando gli occhi del corpo non l’aiutarono più, sostituiti da uno sguardo capace di scavare sino alle soglie del mistero. Del resto, così empaticamente ricettiva di emozioni ed esperienze, al punto di piangere sotto il busto di Giacomo Leopardi – Giacomino come lo chiamerà sempre – nella villa frequentata da Francesco Bono preside a Recanati quando lei era ancora di cinque, sei anni, Elena avrà sempre di Chiavari una visione più tragica che idillica, come mi raccontava quando ripensava con me le passeggiate che, bambina, faceva con il padre. Lungo i sentieri che li portavano mano nella mano verso le colline di Bacezza, Ri Alto, S. Giulia, passava fra loro il musicale mistero della parola. Ritmi arcani, che a lei suonavano forse come presagi, cifra di verità che si andavano svelando, mentre il cuore cresceva, e già evocavano gli spiriti magni, e Antigone e Cassandra, e Medea, e Catullo e Virgilio… ma anche Adamo, e Pilato e il centurione…e il Cristo – sofferente e amoroso. E mentre dall’alto insieme guardavano il mare pezzato di porpora e gli olivi che si piegavano al vento, le diverse favelle (greco, latino, italiano) erano tra loro veicolo di vita e di conoscenza. Il senso ultimo dell’esistere, l’ansia di libertà, la dignità anche dell’ultimo degli uomini, il coraggio e il dolore – retaggi di una civiltà che dai poeti giungeva ad Elena, vennero illuminati 176


dal messaggio di Cristo: ma questa di Elena fu sempre una religiosità incentrata sulla conoscenza senza illusioni o falsi pudori, e sulla pietà, più vicina all’esempio evangelico e francescano che ad ogni altra corrente o esperienza o ideologia. Alla verità che nasce nella carne che soffre, nella coscienza che sceglie, Elena dedica tutta la sua vita, mettendo a frutto il dono della poesia che il padre le ha trasmesso: poesia che non ignora nulla del male e dell’abiezione più turpe, poesia come limpida insostituibile parola, che nella sua fedele lucidità tende incessantemente ad un oltre, ad un più pieno significato ed è, sempre, pietà nel dolore, e libertà di fronte ad ogni abisso nullificante, come ad esempio quella religione del nulla che del nazismo è l’ultimo significato, e non è scomparsa dall’orizzonte del nostro vivere. Elena Bono ha proposto in forma nuovissima, raffigurando percorsi e vissuti concreti, tematiche e propositi, protagonisti e miti del mondo classico come della più tragica contemporaneità, portando nelle sue opere l’orizzonte culturale greco e romano, le origini della cristianità, vicende medievali, donne e dee, uomini abbietti ed eroi e il mondo fascinoso e misterioso del Tigullio: e nel rappresentare il complesso e drammatico cosmo della condizione umana, ha saputo redimerne la negatività nella misericordia, ha reso presente nel quotidiano l’Assoluto. Liriche, teatro, come anche le opere di narrativa, mettono in scena quel mondo interiore a noi tramandato nei secoli con la scrittura, ma che Elena Bono intuisce e rappresenta nel nascere, facendolo rivivere direttamente nei protagonisti. Ai giovani la sua scrittura può offrire la cifra per entrare negli orizzonti più diversi, dove la storia diventa storia di uomini e i sentimenti, le idee, le lotte si lasciano scoprire nella loro grandezza. E per tanto la storia può, se proposta così nel suo farsi, nella sua genesi, aiutare a dar forma ed espressione alle emozioni, ai desideri, ai progetti e diventare contemporaneità da decifrare. Tutto questo nella bellezza di una parola che appare semplice perché efficace, limpida e vera, che non rifugge dagli abissi orrendi del male, che non mistifica e non tradisce, non addolcisce e non inganna. E pertanto non è mai banale e sa gettare, su ogni contenuto espresso, una luce nuova e rivelatrice. Un solo esempio: leggiamo Morte di Adamo, una delle più drammatiche evocazioni, nelle ultime ore di Adamo, del dramma che unisce per sempre anche nel male l’uomo e Dio, l’uomo che uccide Dio perché ha avuto la libertà. Il racconto incentrato sul dialogo tra Dio e Adamo che si appressa alla morte prepara al sentimento della colpa e al mistero della Redenzione. Il dramma sacro che vi si celebra eterna il dolore che riecheggia nel cosmo tutto, per l’uomo che uccide il fratello e in lui uccide Dio. La vicenda va oltre il tempo, si fa attuale con la morte di ogni uomo, si consacra nel mistero della morte di Cristo. Adamo si fa responsabile del delitto di Caino e piangerà per sempre il dramma di ognuno dei suoi figli. L’innocenza violata, il mistero del male, del dolore e in ultimo il senso 177


della libertà assumono in questo breve scritto una dimensione potentemente universale. Non è possibile reggere a un tale strazio, se non affidandosi ad un aiuto che trascenda le forze umane. Morte di Adamo si eleva a simbolo del drammatico ultimo confronto nella libertà tra l’uomo e Dio. Molto altro ha scritto Elena Bono, continuando nella solitudine, nella meditazione e pure nella gioia dell’amore e delle amicizie che le tessevano attorno una rete profonda, e soprattutto ascoltando, ché una potente visione o una voce autorevole dal suo profondo Sé le dettava quelle pagine che restano adesione intima alla realtà e movimento continuo verso l’altrove, verso il mistero. Mistica, certo, la sua capacità evocativa, ma insieme realistica, come nella bellissima traduzione da Sofocle di Antigone, Edipo re ed Edipo a Colono, esemplare per la semplicità, la naturalezza, la vivacità schietta e popolare del linguaggio, al punto che Pasolini ne apprezzò e ne apprese la lezione. Tradotta in inglese, francese, spagnolo, greco, ceco, portoghese, arabo, svedese, Elena Bono ha incontrato forse più attenti lettori all’estero che in Italia, anche se già Emilio Cecchi, poi Stas’ Gawronsky, Elio Gioanola, Francesco De Nicola, Roberto Trovato, Giovanni Casoli, Daniele Capuano, Andrea Monda. E ancora, registi e attori, come Ugo Gregoretti, Salvatore Ciulla, Daniela Ardini le hanno riconosciuto l’autorevolezza che travalica il tempo.

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ESTI A FRONTE

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CHRISTINE LAVANT (pseudonimo di Christine Habernig-Thonhauser) è nata a St. Stefan, nella Valle del Lavant, in Austria, il 4 luglio 1915. Ultima dei nove figli di una poverissima famiglia carinziana, è gracile, malata fin dalla prima infanzia – di polmonite e poi di tubercolosi – con problemi all’udito e alla vista, e vive, anche a causa dei ripetuti ricoveri, in grande solitudine. Le molte malattie la costringono a interrompere di continuo gli studi regolari e a rimanere a lungo a casa dove si dedica al disegno nonché alla maglia e al taglio e cucito, che diventeranno la sua prima fonte di sostentamento. A partire dal 1931 la Lavant è inoltre soggetta a pesanti depressioni. Nelle fasi produttive tra una depressione e l’altra scrive il suo primo romanzo che però distrugge, dopo che l’editore l’ha rifiutato, ripromettendosi di non scrivere più. Nel 1935, poiché gli stati depressivi persistono, si presenta spontaneamente presso l’ospedale psichiatrico di Klagenfurt e più tardi racconterà quella sua esperienza nelle Aufzeichnungen aus einem Irrenhaus, pubblicati postumi (Appunti da un manicomio, Forum, Udine 2008). Nel 1937, anno della morte dei suoi genitori, la Lavant conosce Josef Habering, un pittore di trentaquattro anni più anziano di lei che diventerà suo marito. Nel 1945 riprende a scrivere e comincia a far circolare tra gli amici le sue poesie. Così nel 1948 pubblica una prima plaquette Die Nacht an den Tag (La notte nel giorno) che andrà persa. Spinta dall’editore la Lavant comincia a scrivere in prosa; esce il racconto Das Kind (La bambina, Gallio, Ferrara 1992) e un anno più tardi Das Krüglein (La piccola brocca). Segue nel 1956 la raccolta di poesia Die Bettlerschale (La ciotola del mendicante) nel 1959, sempre poesie, Spindel im Mond (Un fuso nella luna), nel 1960 la raccolta di poesie e racconti Wirf ab den Lehm (Getta via l’argilla), nel 1962 Der Pfauenschrei (Il grido del pavone). Dopo la morte del marito (1966) la Lavant si trasferisce a Klagenfurt (1966-68), dove pubblica nel 1967 la silloge Hälfte des Herzens (La metà del cuore). Dopo il rientro a St. Stefan, nel 1969 esce invece una raccolta di racconti dal titolo Nell (Zandonai, Rovereto 2009). Fin dal 1954 i suoi libri sono insigniti di premi e riconoscimenti, tra i quali: lo Staatlicher Förderungspreis für Lyrik e il Lyrik-Preis dei Neue deutschen Hefte e per ben due volte (nel 1954 e nel 1964) il Georg Trakl-Preis per la lirica. Christine Lavant muore di un colpo apoplettico il 7 giugno 1973.

Traduzioni italiane poesia: Poesie scelte, a cura di Hans Kitzmuller, Braitan, Cormòns 1986. Traduzioni italiane in prosa: La bambina, Gallio, Ferrara 1992. Appunti da un manicomio, a cura di Elena Polledri, Forum, Udine 2008; Nell, Zandonai, Rovereto 2009. Ultima puntata della serie Salmi tedeschi , a cura di Luigi Reitani per Uomini e profeti, 06/02/2005.

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CHRISTINE LAVANT POESIE

Traduzione dal tedesco di Anna Ruchat Un’importante traduzione, dovuta alla germanista e scrittrice Anna Ruchat, di una scrittrice austriaca la cui opera poetica figura tradotta in italiano solo in una piccola edizione degli anni Ottanta: Christine Lavant, scomparsa nel 1973 a soli cinquantotto anni, figura drammatica, di grande intensità mistica pur nella sua dissacrante disperazione. La scelta di poesie presentata qui è l’anticipazione di un volume che Anna Ruchat intende pubblicare e mi auguro che possa favorirla.

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7 Während ich, Betrübte, schreibe, funkelt in der Vollmondscheibe jenes Wort, das ich betrachte, seit die Taube mich verlachte, Tweil ich aus dem Wasserspiegel ohne Namen, ohne Siegel in die Einschicht trat. Wäre nicht die Saat der Betrachtung groß geworden, müsst ich Mond und Taube morden, die mich ständig überlisten und in meinem Schlafbaum nisten, der davon verdorrt. Oft brennt sich ein Wort ganz von selbst in seine Rinde, und dann schicke ich solch blinde Botschaft, die sich dreht, nutzlos deinem Schlaf zu Leibe, während in der Mondesscheibe heil die Antwort steht

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7 Mentre io, turbata, scrivo, nel disco della luna piena brilla la parola che osservo da quando la colomba mi ha deriso perché dallo specchio dell’acqua senza nome, senza sigillo, entravo nell’arido. Non fosse cresciuta la semina dell’osservazione avrei dovuto uccidere luna e colomba che sempre m’ingannano e fanno il nido nel mio albero del sonno che per questo rinsecchisce. Spesso una parola brucia da sé nella sua corteccia, e allora mando quel cieco messaggio, che inutilmente si rigira, aggredendo il tuo sonno mentre nel disco della luna è in salvo la risposta.

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10 Über so hauchdünnen Schlaf können nur Vögeln gehen. Unten im wachen Wasser pflanzt sich das Hastige fort ihrer halb schon fliegenden Schritte. Oh, meine Seele ist schwer! Wer hat ihr den Stein um den Hals gehängt und die Flügel verknotet? Sie allein muss unten verharren und ist doch die Mutter der hastigen Vögel und kam einst über die tiefsten Wasser zu der schimmernden Insel hinüber. Jetzt horcht sie hinauf, Jetzt horcht sie hinab, und während über den hauchdünnen Schlaf die leichten Gedanken wie Vögeln stelzen, trommelt sie unten auf ihrem Stein: Ehre sei Gott in der Höhe!

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10 Sopra un sonno tanto sottile possono camminare solo gli uccelli. Sotto, nell’acqua viva, quel che ha fretta si riproduce con passi già mezzo volanti. Oh, quant’è pesante la mia anima! Chi le ha legato al collo quella pietra e annodato le ali? Lei sola deve rimanere ferma là sotto eppure è la madre degli uccelli frettolosi e un tempo su profondissime acque raggiunse l’isola luccicante. Ora tende l’orecchio verso l’alto ora lo tende verso il basso, e mentre su quel sottilissimo sonno camminano impettiti come uccelli i pensieri lievi, lei sotto tamburella sulla sua pietra: sia lode a Dio nell’alto dei Cieli!

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12 Ich habe dich in meinem Zorn getaucht! Jetzt bist du stählern oberhalb der Erde und unten schlagen deine Wurzeln sich sanftmütig durch das knirschende Gestein. Trag mir kein Korn! Ich hab dich nicht gestählt, um satt zu werden oder einzuschlafen, mir steht die Hälfte jenes Apfels zu, der im Gezweig des Natterbaumes reift. Schwert oder Lilie – beides bist du halb! Ich will nach oben deine Schärfe schleudern und mit der Erde sanft verschwistert sein und Gott versuchen, wie er mich versuchte. Er hat dich dreimal in mein Herz getaucht und dir befohlen, ihm zu widersagen – ich aber habe dich im Zorn gestählt; bring meine Apfelhälfte seinem Sohn!

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12 Ti ho tuffato nella mia rabbia! E ora sei d’acciaio sopra la terra e sotto, mansuete, avanzano le tue radici tra pietre cigolanti. Non portarmi il grano! Non sono io che ti ho reso acciaio per saziarmi o addormentarmi a me spetta la metà di quella mela che matura ora tra i rami dell’albero del serpente. Spada o giglio – tu li sei entrambi, voglio scagliare in alto la tua affilatezza ed essere dolce sorella della terra e indurre in tentazione Dio come lui ha fatto con me. Ti ha tuffato tre volte nel mio cuore e ti ha ordinato di contraddirlo ma io ti ho ricoperto con l’acciaio della rabbia; ora porta a suo figlio la mia metà della mela!

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13 Du hast mich aus aller Freude geholt. Aber ich werde dennoch genau, ganz genau nur so lange darunter leiden, als es mir selbst gefällig ist, Herr. Du hast mich im Zustand der wildesten Hoffart Und des zornigen Mutes vor dir. Heb deine Hand und schlage mich nieder, ich werde dann nur um so hÜher springen, und du wirst mich ewig vor Augen haben, den kleinen, roten zornigen Ball. Jede Stelle wirft mich zu dir zurßck, weil du mich von jener einzigen Stelle, wo ich Herz war und freudig und weich wie ein Vogel, wegholtest, um mich zusammenzuballen und ins ewige Leiden zu werfen.

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13 Mi hai strappato fuori da ogni gioia, ma io soffrirò soltanto, solo e unicamente, finché ne avrò voglia io, Signore. In uno stato di ferocissima superbia e di coraggio iracondo ti sto davanti. Solleva la tua mano e fustigami, vedrai che salterò sempre più in alto e tu mi avrai sempre davanti agli occhi, una piccola sfera rossa e iraconda. Ogni punto mi scaglia di nuovo verso te perché tu mi hai strappato via da quell’unico punto in cui io ero cuore, gioiosa e tenera come un uccello, per poi appallottolarmi e scagliarmi nel dolore eterno.

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18 So eine kopflose Nacht! Kein Hund verbellt den gedunsenen Mond, vor dem offenen Fenster verdreht sich der Wind zurück, von wo er gekommen. Kehrichtgeruch wohnt in allem ein und kommt zu Würden und richtet sich auf zu einem winzigen Babel aus Staub, in dem meine durstigen Augensterne die Geißel Gottes erblicken. Niemand zeigt auf mein Herz, ich kann seine Stunde nicht wissen. Die Nacht ohne Kopf ist eine zu winzige Wunde, in der niemand stirbt oder fromm wird. O Gott meiner Angst, o gehorchsamer Gott, geh hin und löse die Hundezungen, bis der Mond vor Schreck sich verdichtet und schmal und schneidend dem Wind befiehlt den Turm von Babel zu tilgen, diese Würde im Staube. Ich atme lieber erniedrigten Staub, ich möchte nirgends zu Würde kommen! Niemand zeigt auf mein Herz und ohne verlässliche Stunde überfällt mich ein kopfloser Schlaf.

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18 Che notte senza testa! Non un cane che abbai contro la luna turgida, davanti alla finestra aperta il vento si volta e torna da dove è venuto. Odore d’immondizia sta in tutte le cose e ottiene dignità e si solleva in una minuscola Babele di polvere in cui le stelle delle mie pupille assetate intravedono il flagello di Dio. Nessuno indica il mio cuore, non posso conoscere la sua ora. La notte senza testa è una ferita troppo piccola in cui nessuno muore o si fa pio. Oh Dio della mia paura, oh Dio che pretendi obbedienza vai lì e sciogli la lingua ai cani, finché la luna non si rapprenderà per lo spavento e stretta e tagliente non ordinerà al vento di eliminare la torre di Babele, questa dignità finita nella polvere. Preferisco respirare la polvere umiliata dignità non ne voglio, in nessun luogo! Nessuno indica il mio cuore e senza che ci sia un’ora affidabile mi assale un sonno senza testa.

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24 Wenn du mich einlässt, bevor deine Hähne erwachen, werde ich dienen für dich in dem knöchernen Haus, will die Herztrommel schlagen, den Atem dir schöpfen und dreimal die geistliche Rose begießen am Morgen, am Mittag, am Abend. Wenn du mich einlässt, bevor meine Augen verbrennen schmelze ich drinnen für dich dein Spiegelbild frei und mach es zum König über die Engel und schlage es Gott als sein Ebenbild vor voll Glauben, voll Hoffnung, voll Liebe. Wenn du mich einläßt, bevor meine Flügel zerbrechen, köpfe ich neunmal für dich mit der Schlange den Tod, grab die Gramwurzel aus und esse sie selber und hole dir dann aus dem Sonnengeflecht das Brot, den Wein und die Taube.

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24 Se mi lasci entrare, prima che si sveglino i tuoi galli, starò al tuo servizio nella casa di ossa batterò il tamburo del cuore, prosciugherò il tuo respiro e innaffierò tre volte la rosa sacra al mattino, a mezzogiorno, la sera. Se mi lasci entrare, prima che i miei occhi brucino, scioglierò dentro di me la tua immagine riflessa e lo libererò per renderlo re sopra gli angeli e lo proporrò a Dio come sua copia piena di fede, di speranza, di amore. Se mi lasci entrare, prima che le mie ali si spezzino decapiterò per te la morte con la serpe nove volte estirperò la radice della pena e la mangerò poi prenderò per te dal plesso solare il pane, il vino e la colomba.

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26 Hol den Apfel aus der Schale ohne Messer, ohne Zähne, hol dein Herz aus dieser Träne, die ich für den Wahnsinn male in sein Bilderbuch. Dann durchquer den Fluch, den ich nächtelang bewohne unter einer Natternkrone auf dem welken Halbmond-Stengel, überwirf dich mit dem Engel, der um deiner Lauheit willen anfing sein Gemüt zu stillen und dir doch nie gleicht. Hoffe dich ins Hoffnungslosehier mein Hirn, die Neumond-Rose, hat es schon erreicht. Neunmal will ich dein Gedenken und dir jede Prüfung schenken bis auf eine, die ich brauche, wenn ich für dich untertauche in den Aber-Sinn. Brich entzwei die Natternkrone überm Fluch, den ich bewohne, seit ich einsam bin.

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26 Togli la mela dalla buccia senza coltello, senza denti togli il tuo cuore da questa lacrima che dipingo per la follia nel suo libro delle immagini. Poi attraversa la maledizione in cui dimoro per notti e notti sotto una corona di serpi sullo stelo appassito della mezza luna, e litiga con l’angelo che per via della tua aridità ha cominciato a nutrire il suo animo senza però mai somigliarti. Spero tu sia dove non c’è speranza – ecco il mio cervello, la rosa della luna nuova l’ha già raggiunto. Nove volte penserò a te e ti regalerò ogni prova salvo una che mi servirà quando mi tufferò per te nella de-menza. Spezza in due la corona di serpi sopra la maledizione in cui dimoro, da che son sola.

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33 Trotzdem der Himmel ein Bleisarg wird und die Erde steinern auf dein Geheiß, beleibt und behauptet sich meine Seele mit furchtsam erworbenem Fleisch und Blut und seltsam verläßlichen Knochen, die in Finsternis leuchten. Es geht schon längst ein Geheimnis um innerhalb meiner Verlassenheit und verstellt ihre neunerlei Lichter bis fast keins mehr verrückt ist. Erleuchtet, freilich, bleibt immer nur Der von dir errichtete Fegfeuerstand, dem Himmel und Hölle gleich fremd sind und wo Gott sich nie einmengt. Und trotzdem weiß vielleicht Gott allein, wovon seither meine Seele lebt und wer zwischen Bleisarg und Felsen deiner Blume ins Licht hilft.

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33 Anche se il cielo diventa una bara di piombo per ordine tuo, e la terra di pietra, la mia anima riceve un corpo e una testa con carne e sangue timidamente conquistati e ossa stranamente affidabili, che brillano al buio. Già da tempo si aggira un segreto dentro la mia solitudine e sposta le sue luci di nove tipi, finché quasi nessuna è più fuori posto. Illuminato, si sa, rimane sempre soltanto il purgatorio, che tu hai fondato cui terra e cielo sono entrambi estranei e in cui Dio non s’intromette. E tuttavia forse soltanto Dio sa di cosa vive, da allora, la mia anima e chi aiuta il tuo fiore a raggiungere la luce tra la bara di piombo e le rocce.

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35 Jag doch den Stern mir fort, du meines Nachbars Hund, er grinst so ohne Grund! Sag ihm ein Hundewort! Bell ihm was Böses zu, verjag ihn wie ein Wild, ich brauch kein Sternenbild, mein Hundsstern bist jetzt du! Denkst das genüge nicht für dieses schwarze Herz? Es findet blind den Schmerz und frißt ihn, bis es bricht. Hast du nicht Hunger, Hund? Geht, freßt zu zweit! Der Stern verzog sich weit, jetzt wein ich ohne Grund.

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35 Caccia via da me, la stella, che sghignazza cosĂŹ, senza motivo, tu, cane del vicino! Dille una parola di cane! Gridale abbaiando qualcosa di cattivo, inseguila come fosse selvaggina, non mi serve una vera stella, il mio Cane Minore ora sei tu! Pensi forse che non basti per questo cuore nero? Lei trova, alla cieca, il dolore e lo morde finchĂŠ non si spezza. Non hai fame, cane? Andate e mangiate entrambi! La stella s’è ritirata lontano e ora io piango senza motivo.

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37 Nun hast du auch mein Unglück noch verlegt. Soll ich dir leuchten mit den Aber-Augen, die mir ein Halbtraum durch das Gitter schob als Totenäpfel oder Grablaternen? Du horchst nicht her. Bist du vielleicht auch taub? In meinen Ohren läutet überzählig Ein Glockenpaar, noch immer aus der Zeit, da mich das Unglück tränkte und ernährte. Was redest du? Ich soll ganz steinern sein und Wasser sammeln unterm Brunnengitter bis du zurückkommst mit der Spiegelschrift für meine unverdienten Aber-Augen

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37 Ora hai messo fuori posto anche la mia disgrazia. Devo forse farti luce con gli altri occhi occhi alieni,che un mezzo sogno mi ha infilato tra le grate come mele dei morti o lumi delle tombe? Non stai ascoltando. Sei forse sordo anche tu? Nelle mie orecchie rintocca oltre misura una coppia di campane, da quel tempo, quando la disgrazia m’impregnava e mi nutriva. Cosa dici? Che sono tutta di pietra e raccolgo l’acqua sotto la grata della fontana finchÊ tu non tornerai con la scrittura speculare per i miei altri occhi immeritati.

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88 Ich will vom Leiden endlich alles wissen! Zerschlag den Glassturz der Ergebenheit und nimm den Schatten meines Engels fort. Dort will ich hin, wo deine Hand verdorrt, ins Hirn der Irren, in die Grausamkeit verkümmerter Herzen, die vom Zorn gebissen sich selbst zerfetzen, um die tolle Wut hineinzusteuern in das Blut der Welt. Mein Engel geht, er trägt das Gnadenzelt auf seinen Schultern, und von deiner Glut hat jetzt ein Funken alles Glas zerschmolzen. Ich bin voll Hoffart und zerkau den stolzen verrückten Mut, mein letztes Stücklein Brot aus aller Ernte der Ergebenheit. Du warst sehr gnädig, Herr, und sehr gescheit, denn meinen Glassturz hätt ich sonst zerschlagen. Ich will mein Herz jetzt mit den Hunden jagen und es zerreißen lassen, um dem Tod ein widerliches Handwerk zu ersparen. Du sei bedankt – ich hab genug erfahren.

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88 Voglio finalmente sapere tutto del dolore! Rompi la campana di vetro della devozione e porta via l’ombra del mio angelo. Voglio andare là, dove la tua mano rinsecchisce nel cervello dei pazzi, nella crudeltà di cuori rattrappiti che, morsi dall’ira, si lacerano da soli per spargere la rabbia nel sangue del mondo. Il mio angelo se ne va, con la tenda della grazia sulle spalle, e una scintilla delle tue braci ha fuso ora ogni cosa di vetro. Sono colma di superbia e rumino il coraggio pazzo e borioso, l’ultimo pezzetto di pane che mi resta da tutto il raccolto della devozione. Sei stato molto benevolo, Signore, e molto intelligente, perché senza di te la campana di vetro l’avrei rotta io. Adesso voglio dare la caccia al mio cuore con i cani e farlo sbranare, per risparmiare un lavoro ributtante alla morte. Sia grazie a te – ora ne so abbastanza. a Gedichte, Suhrkamp Verlag, 1987

Ringrazio Stefan Hyner, Paola Quadrelli e Giusi Drago per la rilettura critica e il confronto aperto sulla traduzione delle poesie. -ndt Ringraziamo per la gentile concessione della pubblicazione die testi la Fondazione Hans Schmid Privatstiftung Wien, Kärtner Strasse 6, 1010 Wien che ne detiene i diritti. – ndr 203


ANNA RUCHAT PORTA VIA L’OMBRA DEL MIO ANGELO

…è lunga la notte davanti a Dio immorale è la stella vespertina Thomas Bernhard

Le dieci liriche qui tradotte provengono da una scelta di ottantuno poesie – tratte a loro volta dalle quattro principali raccolte di Christine Lavant – curata nel 1987 da Thomas Bernhard che probabilmente voleva in questo modo non solo, come ebbe a dire, far conoscere la poetessa al «mondo intero», ma anche tributarle una prova di riconoscenza. “Nelle valli inaridite / tu conduci il dialogo dei morti, / su tetri nomi hai / fondato il tuo tacere: / due ombre di uccelli / due mani / due senza fine”: figure del martirio, figure piegate dalla sofferenza nella mortificazione, si aggirano nelle valli che attraversano questi versi di Bernhard scritti intorno al 1960 (Ave Virgilio, traduzione di Anna Maria Carpi), figure che potrebbero essere la stessa Lavant, personificazioni di quell’odiatissima-amatissima Austria orizzonte imprescindibile di tutta la prosa e la poesia bernhardiana. A proposito di questa raccolta, ancora inedita in Italia ma, speriamo, di prossima pubblicazione, Thomas Bernhard scriveva alla redattrice di Suhrkamp, suo editore, il 13 aprile del 1987: La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di essere conosciuta nel mondo intero. La Carinzia che rende malinconici, privi di spirito, lontani dal mondo ed estranei a esso, è stata fatale per le due sorelle nella poesia, Bachmann e Lavant. Ma “è da questa Carinzia terribile e priva di spirito che le due poetesse sono nate“. Per quanto riguarda la Lavant – scrive ancora il curatore della raccolta – tra l’uno e l’altro dei suoi vertici assoluti, […] c’è anche una gran quantità di kitsch e spazzatura […]. Il buon Dio mi perdoni se l’ho cacciato via il più possibile dai quattro libri Die Bettlerschale (La ciotola del mendicante) Spindel im Mond (Un fuso nella luna), Der Pfauenschrei (Il grido del pavone) e Kunst wie meine ist nur verstümmeltes Leben (Un’arte come la mia è solo vita mutilata). Tanto lui non smette di far danni, anche nella mia antologia. “La Lavant” prosegue Bernhard in questa lettera pubblicata un anno fa nello splendido e ricchissimo carteggio tra l’autore austriaco e il suo editore Siegfrid Unseld che speriamo possa vedere presto la luce anche in Italia, “era un essere assolutamente terreno, molto intelligente, 204


raffinato. Viveva sopra il tetto di cemento di un supermercato e batteva le sue poesie direttamente a macchina. Per me tutto questo è molto più significativo di tutte le menzogne raccontate sulla sua estraneità al mondo, sul suo romanticismo valligiano e su un destino voluto da Dio, tutte cose che sono state dette e ripetute continuamente su di lei fino a oggi”. Un essere raffinato, scrive dunque Bernhard. In effetti, Christine Lavant non è un “Ligabue” della poesia: legge la Bibbia e Rilke – un’antologia che le fu regalata da un medico durante uno dei primi ricoveri in ospedale – fin da giovanissima. E biblici e rilkiani i versi della Lavant non smetteranno di essere in tutta la sua produzione, nonostante i solidi rapporti con artisti e musicisti austriaci, in particolare l’amicizia con Gerhard Lampersberg, che la metterà in contatto con i rappresentanti dell’avanguardia viennese. Sempre più negli anni, infatti, il suo isolamento si configura come una segregazione geografica, non però culturale, anzi è proprio dalla convergenza, a volte dall’esplosivo e doloroso scontro, tra il peso e la ricchezza della tradizione biblica e liturgica, l’animismo contadino, il folklore e, d’altro lato, la poesia anche d’avanguardia che scaturisce la potenza oscura della sua poesia. Pietra e mele, piombo e radici, un paesaggio fossile, minerale, tutto animato di presenze, Adamo, Eva (in uno eppure in lotta), un Dio lontano ma geloso, vendicativo, alto testamentario. Ossa pensanti, occhi che non vedono, orecchie che non sentono: un mondo tutto chiuso sul dolore, su un vissuto di povertà e sofferenza fisica che risuona nell’invettiva dei versi come amplificato dall’eco della valle carinziana. Creatura singola, che risponde al supplizio nel corpo con parola stretta nella litania: Christine Lavant restituisce il dolore nei versi, con gesti di rassegnata sottomissione, più spesso invocando il diritto alla rabbia, in uno spazio mistico che non è di dialogo ma di feroce e minuziosa accusa. Se in Giobbe la colpa è un disperato artificio, una gabbia per poter far coesistere l’Onnipotente misericordioso con il dolore, nella poesia della Lavant la colpa sembra essere la sostanza stessa del dolore e si la può davvero guardare in faccia soltanto quando l’angelo “se ne va, con la tenda della grazia sulle spalle”.

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MIRKKA REKOLA (1931-) non solo è la più importante esponente della poesia in lingua finnica di oggi, ma è anche in assoluto uno dei poeti più importanti della Finlandia. La raccolta d’esordio Vedessä palaa (Brucia nell’acqua), che fu giudicata difficile per i suoi contenuti filosofici (la poetessa aveva iniziato allora studi di filosofia all’università di Helsinki, rimasti incompiuti), risale al 1954. La terza raccolta Syksy muuttaa linnut (1961; L’autunno fa emigrare gli uccelli) segnò una svolta: accanto alle poesie in versi apparvero quelle in prosa. Anche questa volta la critica fu tiepida: gli anni Sessanta non furono facili per chi, come Rekola, scriveva poesie interiorizzate e “verticali”. Nel 1969 uscì una raccolta di aforismi, Muistikirja (1969; Il taccuino), che segnala l’inizio della moderna letteratura aforistica in Finlandia. Nella sua opera gli aforismi sono accompagnati da poesie in prosa e formano delle serie, come per esempio nella raccolta Tuoreessa muistissa kevät (1987; Fresca nella memoria, la primavera). La pluralità dei generi si rispecchia anche nei sottotitoli delle opere di Rekola (Annotazioni; Paesaggi), così come nella raccolta Maskuja, pieniä elämänpituisia juttuja (Piccoli aneddoti lunghi quanto la vita; il sostantivo Maskuja, creazione della stessa Rekola, è intraducibile). L’opera di Rekola consta di più di venti titoli; inoltre ha fatto traduzioni e collaborato alle riviste culturali. Delle sue poesie sono state pubblicate traduzioni in svedese, in tedesco, in inglese e in francese. Rekola ha ottenuto numerosi premi nazionali, è stata nominata doctor honoris causa all’università di Helsinki e nel 1999 è stata candidata al premio Neustadt. L’opera della poetessa si è diffusa lentamente ma a partire dagli anni Novanta ha conquistato un pubblico sempre più vasto.

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MIRKKA REKOLA SOPRA IL LIMITE DELLE NEVI

Traduzione dal finlandese di Elina Suomela-H채rm채

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MIRKKA REKOLA SOPRA IL LIMITE DELLE NEVI

da Taivas päivystää (Il cielo assicura la permanenza): Juuri kun olen sanoa mitä kaikkea minulla on takana, selkäni väsyy kevään auringossa, j uuri kun olen sanoa, alan vanheta, muistan miten se väsyi lapsuudessa. ** Syksy Kaivopuistossa, ja omenat. “Kun olet noin pitkä heiitele niitä meille!” Syksy ja omenat, ja omenat kirkuivat, puu ravisti minua, minä puuta. Monta syksyä, monta lasta. Niist tuli yksi ja kysyi olinko se minä. Niistä tuli yksi ja kysyi. Mutta sit puuta ei löydy enää. ** Mikä pyöreä varis tuulenpuhalluksessa nurmikolla, nokka pientä päivänkukkaa kohti se lurittelee, puhuu kukalle kukankieltä, kääntyy sitten ja rääkäisee omalla äänellään. Minkä päivän pyöreä kukka, kun siitä myöhemmin kulkee nainen joka työntää kaksosten vaunuja, nelipyöräisiä, ja pysähtyy poimimaan sen variksen kukan, ja variksen kukan vierestä toisen ja kolmannen, neljännen kukan. 208


Nel momento in cui sto per raccontare tutto ciò che è dietro di me, la mia schiena si stanca nel sole della primavera, nel momento in cui sto per raccontare, comincio ad invecchiare, mi ricordo come si stancava nell’infanzia. ** L’autunno a Kaivopuisto e le mele. “Tu che sei così alto lanciacene!” L’autunno e le mele, e le mele gridarono, l’albero mi scosse, ed io scossi l’albero. Tanti autunni, tanti bambini. Di questi se ne presentò uno e chiese se fossi io. Di questi se ne presentò uno e chiese. Ma quell’albero non si trova più. ** Quale cornacchia tutta rotonda sull’erba, in una burrasca di vento, il becco diretto verso una piccola margherita, canta, parla al fiore nella lingua dei fiori, poi si volta e gracchia con la propria voce. Di quale giorno il fiore rotondo quando più tardi passa una donna che spinge una carrozzina di gemelli, a quattro ruote, e poi si ferma a cogliere il fiore della cornacchia, e accanto al fiore della cornacchia un altro e un terzo, un quarto fiore. 209


da Vesi on maailman muisti (L’acqua è la memoria del mondo): Kaupungin rannassa orpo valkoinen vene, airot vapaina, perätuhdolla sauvan nenässä pieni lyhty. Jonkun piti lähteä vielä. Laiturilla on makuupussi. Vesi on tyyni, se jäätyy tänä yönä. ** Aika unohtuu häneltä, ja paikka, hän ei muista. Mutta aina kun hän kulkee puistossa, sama poika leikkii siellä pallonsa kanssa, sama nainen istuu penkillä, ja männynoksalla aina se sama pieni lintu. Ja kevät on aina vasta tulossa, kukat auennneet vasta. Ja aina sama vanhus kulkee siit ohi. ** Lämmitetty kevät ja syksy yhtä talvea, ja sinä erehdyt luulemaan sitä toiseksi, sinä melkein luulet että se voi viedä sinulta jotakin, outo ajatus, niin outo että jos siitä tulee teko se kumoaa toisen teon. Niin kuin on tapana sanoa siitä tulee työtapaturma. Talvi ei tee niin. Se kantaa yli.

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In riva alla città una barca bianca orfana, i remi in libertà, sul sedile posteriore legata a un bastoncino, una piccola lanterna. Qualcuno doveva ancora partire. Sul ponte c’è un sacco a pelo. L’acqua è calma, gelerà stanotte. ** Dimentica il tempo, e il luogo, non si ricorda. Ma ogni volta che cammina nel parco, lo stesso ragazzo gioca lì con il suo palloncino, la stessa donna siede sulla panchina, e sul ramo del pino sempre lo stesso uccellino. E la primavera sta sempre solo per arrivare, i fiori sbocciati appena. E passa sempre lo stesso vecchietto. ** Una primavera e un autunno riscaldati sono tutt’un inverno e tu lo prendi per qualcosa d’altro, quasi quasi pensi che ti possa portar via qualcosa, strana idea, così strana che se diventa un’azione annulla un’altra azione. Come si suole dire diventa un infortunio sul lavoro. L’inverno non fa così. Fa passare dall’altra parte.

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Lumipilvet putoavat alas. Äkkiä olemme ylhäällä, olemme lumirajan yläpuolella. Aurinko sokaisee. Lumi, joka lepää niin tyynenä, on alituisessa liikkeessä pyörivä sateenkaari. Kaikki ne ajat laaksossa, kun kuljimme pieninä puitten alla, ovat nousseet tänne ** Se on täällä kuin solmu valkeassa liinassa, talvi, ja kukkii minun kesässäni, tuomi, pihlaja. ** Sanojasi leijuu ilmassa, hiutaleita. Enkä minä erota sinun nuoruuttasi talvesta. Ei ole talven syy ettei se voi jäädä.

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Le nuvole di neve cadono in giù. Subito ci troviamo in alto, siamo sopra il limite delle nevi. Il sole abbaglia. La neve che riposa così calma è un arcobaleno che gira in un movimento sempiterno. Tutti quei tempi nella valle, quando da piccoli camminavamo sotto gli alberi, sono saliti qui. ** È qui come un nodo in un fazzoletto bianco, l’inverno, e nella mia estate fioriscono il marasco, il sorbo. ** Parole tue sventolano nell’aria, fiocchi. E io non posso distinguere la tua gioventù dall’inverno. Non è colpa dell’inverno se non può rimanere.

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JUONI INKALA nasce a Kemi nel 1966. L’esordio poetico avviene con la raccolta Qui il suo limite (Tässä sen reuna, 1992) che gli vale il premio “J. H. Erkko”. Nella sua seconda raccolta, Della stanza e della famiglia (Huonetta ja sukua, 1994) il teatro della narrazione non è più il “limite del mondo” (la Finlandia e il nord Europa), come nella precedente, ma l’Europa orientale e meridionale. Una particolare raffinatezza linguistica e di pensiero Inkala la esibisce nella sua terza raccolta, La compagnia dei Santi (Pyhien seura, 1996), dove l’autore si sofferma, sommessamente e devotamente, sui temi della fede e della religione, in una maniera insolitamente esplicita per un poeta della sua generazione. Il tema dell’amore sacro e profano viene approfondito nelle raccolte, Per ciò che rimane (Sille joka jää, 1998) e Viaggio nel deserto (Autiomaaretki, 2000). Nel 2002 pubblica Non scritto (Kirjoittamaton), nel 2005 Tempi di corno (Sarveisaikoja), nel 2008 Quale sapere è indispensabile all’essere umano (Minkä tietäminen on ihmiselle välttämätöntä) e nel 2011 Chemiosintesi (Kemosynteesi). La sua ultima raccolta è Durata aperta (Kesto avoin), pubblicata nel 2013.

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JOUNI INKALA POESIE

Traduzione dal finlandese di Antonio Parente

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KIILAUS Kiusa juttuko? Ei, ei olla kaupan kassalla. Tämä tapahtuu lähempänä. Muisto tunkee ensimmäisenä mieleen juolahtaneen kylkeen. Uusrikas, numeroa tekevä, nousukas ja käy kuten tavallisesti. Arempi taipuu toisen tahtoon, antaa tilaa vierellään. Kaksi muistoa virtaa hetken rinnakkain eri kokoisina, eri lämpöisinä. Ne ovat keskenään eri veriryhmää samaan suoneen sopimattomia. Vaikka kuinka ovat saman suvun kasvatteja toinen tuskin asettaa toisen puolesta etu- ja keskisormeaan pyhän kirjan kannelle.

Kesto avoin 2013

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INCUNEARSI Una cosa fastidiosa? No, non siamo alla cassa del negozio. Ciò accade più vicino. Il ricordo balugina a fianco del ricordo sovvenuto per primo. Nouveau riche, borioso, arrampicatore sociale e va come al solito. Più sensibile si piega alla volontà altrui, fa spazio accanto a sé. Due ricordi scivolano per un istante in parallelo di dimensioni diverse, a temperature differenti. Reciprocamente appartenenti a diversi gruppi sanguigni inadatti alla stessa vena. Pur essendo pupilli della stessa famiglia è improbabile che uno sistemi per l’altro il suo dito indice e medio sulla copertina del libro sacro.

Durata aperta, 2013

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(…

Elämänlanka pujottautuu vitkaan oviaukon lävitse. Sen täytyy aina johdattaa jotakuta solmuun menemisen uhalla. Onnistumisen kipinät kalpenevat eräänä näköalattomana päivänä perussyytösten ja puoltoäänien laumassa ja antavat tilaa virheille jotka ovat kykenemättömiä tekemään kenestäkään pilaa. Siihen virheet ovat liian täynnä itseään. Pullistellen ne osoittavat tästä hetkestä käsin alkukiihdytykseen päin johtavia jarrutusjälkiä.

Kesto avoin 2013

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(...

Il filo della vita lentamente passa per la porta aperta. Deve sempre condurre qualcuno oltre l’annodamento. Le scintille del successo impallidiscono in una giornata senza vista in una mandria di accuse di base di voci in difesa e lasciano spazio ad errori che sono incapaci di farsi beffa di chiunque. Per questo gli errori sono troppo pieni di sÊ. Gonfiandosi indicano le tracce primarie della frenata che vanno da questo istante verso l’accelerazione iniziale.

Durata aperta, 2013

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YKSIÖ Pariskunta tuijottaa vierastaan. Tänä iltana he vanhenevat tasangoiksi. Heidän vaikenemisensa aiheet sinkoilevat kuin virukset. Miten helppoa olisi jos ne ommeltaisiin heidän mantteleittensa vuorten sisään. Dialogiin, silloin kun se kuuluu ei pidä lisätä yhtään. Viemäriputkesta tuli kaivettua

naapurin naurishaudikas

koiran karvaa. Ei siinä mitään. Pelko on toista maata. Sen kanssa voi elää.

Kesto avoin, 2013

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MONOLOCALE La coppia fissa il loro ospite. Questa sera invecchiano appiattendosi. I motivi del loro silenzio svolazzano come virus. Come sarebbe facile se qualcuno li cucisse nelle fodere dei loro mantelli. Al dialogo, qualora si senta non bisogna aggiungere affatto dello zucchero. Dal canale di scolo emerge alla luce Non importa.

la rapa lessata del vicino i peli del cane.

Il timore è tutt’altro. Ci puoi convivere.

Durata aperta, 2013

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VASTAAJAT I (Mies) ”Rituaali, uhrikivelle kokoontuminen. Veriuhri, joka säilyi mykkänä, sai tiiliverhoilun. Jumalan vihan leppyminen. Ukkosen pelko, vain kirkaisu, ynähdys, nännin pureskelu. Pikaistuksissa päätetty liitto. Pikaistuksissa päätetty ja päätetty.” II (Nainen) ”Kuvaelma, jonka tarkoitus on esittää talvea, lunta, sitä lepää kaikkialla haarat levällään. Voisiko se esittää sittenkin iltaa, jolloin kompassineula jännittyy kohti Pohjantähteä, luottamusta, joka hikoaa kämmenkuoppaan, sulanesteeksi.” III (Tieto) ”Kun valloittajat anastivat kaupungin, sydämenne eivät sykkineet heidän marssivien saappaittensa tahdissa.”

Kesto avoin, 2013

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INTERROGATI I (Uomo) “Un rituale, adunanza alla pietra sacrificale. Per il sacrificio di sangue, che si preserva muto, un pannello di mattoni. La riconciliazione dell’odio divino. La paura del tuono, solo uno strillo, un gemito, mordicchiare il capezzolo. L’alleanza che si conclude con precipitazione. Decisa e conclusa con precipitazione.” II (Donna) “Un quadro vivente, il cui scopo è mostrare l’inverno, la neve, giace dappertutto con le estremità dispiegate. Può darsi che mostri anche la sera, quando l’ago della bussola è teso verso la stella polare, la fiducia che trasuda nell’incavo della palma, liquido sciolto.” III (Informazione) “Quando i conquistatori presero la città, i vostri cuori non scandirono la cadenza dei loro stivali in marcia.”

Durata aperta, 2013

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XXXIII

Jossain yössä miehen luotilanka putoaa seitsemän tuumaa naisen lantion mereen. Mies laskee maitinsa nainen mätinsä yhdessä uutteet nostavat hetkestä muiston. Sen sisällä verisuonet haarautuvat kuin kämmenet. Analyysi on lapsuutta, synteesi aikuisuutta. Heitäkin vastoinkäymiset ovat vuoroin koetelleet vuoroin vahvistaneet myötäkäymiset kieltäytyneet kuolemasta heissä sukupuuttoon.

Vakiot ja muuttujat 2015 (julkaisematon)

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XXXIII

Da qualche parte nella notte il filo a piombo dell’uomo affonda sette pollici nel mare della pelvi femminile. L’uomo depone il suo latte di pesce la donna le sue uova di pesce insieme gli estratti accrescono la memoria dell’istante. Al suo interno i vasi sanguigni si diramano come i palmi. L’analisi è fanciullezza, la sintesi adultezza. Le avversità hanno a volte messo alla prova a volte rafforzato anche loro le fortune rifiutato di estinguersi in loro.

Costanti e variabili 2015 (raccolta inedita)

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SONETTI

Pysyvä todistus auringon vedystä: savu nousee pellolla, ilmaan kirjoittaa, päärynäpuu kukassa, rastas oksallaan. Olemme kaikki tulleet tähtipölystä! Käyn kyljelleni maahan, nautin näystä: päivä liikkuu eri puolella mannertaan, riippusilta paimentaa rekkajonojaan, kaivos tyhjentyy sorasta ja kivistä. Punarinnan puuha on hengen ja aineen. Miten voi ihminen kuolettaa huolensa jos ne saavat sielussa sijan ja maineen? Oppii kävelemään halvaantunut nainen! Elämän sitkeys kuiskaa, pitää puolensa, yhdessä ensiaskelten pallon lasten.

(julkaisematon)

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SONETTO

La prova dell’idrogeno solare: sul campo il fumo sale e scarabocchia il pero in fiore, il tordo vi si innocchia. La nostra vita, polvere stellare! Affianco la terra, vista ancor più gaia: altrove il giorno si sposta palese, il ponte a guardia di file sospese, la miniera già senza pietre né ghiaia. Spirito e materia il passero ha a cura. Sopprimer le pene, chi ne è capace se nell’anima han buon nome e le mura? L’inferma già percorre la via dura! Vocia e s’arrocca la vita tenace, coi bimbi del globo, prima ventura.

(inedita)

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ELENA SALIBRA (10.8.1949 – 4.12.2014), siracusana di nascita, è stata docente di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Pisa e studiosa della tradizione poetica italiana tra Otto e Novecento, cui ha dedicato numerosi saggi e volumi, tra cui, Voci in fuga. Poeti italiani del Primo Novecento, Liguori, Napoli, 2005. Ha partecipato alla fondazione (1999) e direzione della rivista di poesia Soglie, dove ha anche curato la sezione di poesia straniera del Novecento e redatto interviste a vari poeti del Novecento (Sanguineti, Amato, Neri, Risi). Ha diretto la rubrica Poesia in volo per la rivista Aliante dal 2008 al 2012. Dal 2004 al 2014 ha pubblicato cinque libri di poesie: Vers.es, Diabasis, Reggio Emilia, 2004 (postfazione di Paolo Ruffilli); Sulla via di Genoard, Lecce, Manni, 2010 (introduzione di Marco Santagata); Il martirio di Ortigia, Lecce, Manni 2010 (introduzione di Maria Cristina Cabani); La svista, A&B, Catania 2011 (postfazione di Marco Santagata); Nordiche, Stampa2009, Milano 2014 (prefazione di Maurizio Cucchi.) La prima raccolta, Vers.es è entrata nella Cinquina del Premio Viareggio-Répaci. Il nucleo centrale dell’opera era già apparso in Paragone (Agosto-Dicembre 2001) per iniziativa di Cesare Garboli. La seconda raccolta, Sulla via di Genoard è risultata finalista al Premio Mondello, mentre La svista ha ricevuto il premio Contini Bonacossi 2012, e Nordiche ha ricevuto, nel 2014, sia il premio ViareggioRepaci, selezione della giuria, che il premio Pisa. Suoi testi poetici sono stati tradotti in inglese, rumeno, danese, tedesco, francese, spagnolo e serbo. Autotraduzioni in inglese da Genoard sono apparse nel Journal of Italian Translation e la plaquette La svista è stata autotradotta in inglese, come The oversight. Franziska Raimund ha tradotto interamente in tedesco i tre libri più recenti (Il martirio, La svista, Nordiche) e la traduzione tedesca de La svista è apparsa, in copie numerate, nella collana I diamantini della casa editrice Il Girasole (Catania, 2013), con immagini a stampa calcografica realizzate con acquaforte da Vincenzo Piazza. Suoi inediti sono usciti ne L’Almanacco dello Specchio, a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi (Milano, Mondadori, 2008) e nelle riviste Nuovi Argomenti, Paragone, L’immaginazione, Caffè Michelangiolo, Il Portolano, Polimnia, poi confluiti nella raccolta Il martirio di Ortigia. Altri inediti, raccolti in Potature e altri versi, sono usciti negli Atti di un convegno caproniano, (Livorno nel maggio 2012). Il poemetto Tragitti è stato pubblicato nella rivista fiorentina Caffè Michelangiolo (gennaio-aprile 2012). Su Paragone è apparsa una serie d’inediti riuniti nella sezione Il fiume sotterraneo.

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DOSSIER ELENA SALIBRA POESIE DA NORDICHE

Traduzione in tedesco di Franziska Raimund

Un male crudele ha spento qualche mese fa la vita di Elena Salibra strappandola agli affetti, ai suoi amati studi universitari e alla poesia. Era una morte da tempo annunciata, che aveva affrontato con grande coraggio nel suo ultimo libro Nordiche (titolo da lei dato alla raccolta in consonanza con le Mediterranee di Saba), nato dai suoi viaggi in Svezia dove si recava per seguire una nuova cura, che purtroppo non è stato sufficiente a salvarla. La traduttrice austriaca Franziska Raimund, che dopo aver tradotto la sua raccolta La svista, traduzione pubblicata in Italia nei Diamantini (Il Girasole edizioni, Catania, 2013) e, successivamente, Il martirio di Ortigia si era legata a lei di profonda amicizia e ha iniziato con grande partecipazione la traduzione di Nordiche, di cui abbiamo il piacere di pubblicare alcune poesie in anteprima, e si ripropone di far pubblicare presto in Austria il volume completo. 229


Premio Pisa 2014

In Cina 2006 230


Biblioteca “A. Frinzi”, Verona 2010, Presentazione de Il martirio di Ortigia

In Norvegia-2009 231


da IL RICETTARIO

L’AGONIA DELLA CICALA dentro il cartoccio si avvoltolava la cicala muovendo le antenne. la chiusi in frigo nello scaffale in alto. con un salto cercò spazio altrove. la ritrovai la mattina accanto alla pentola di coccio con i fagioli a mollo ancora viva. per un agonia veloce - consigliava l’artusi - è meglio usare olio bollente un battuto d’aglio prezzemolo quanto basta. contorse la cicala il guscio a scaglie si crogiolò nel calore e rimase indenne. quando sopravvenne il sugo rosso sangue allora gli riuscì d’annegare e mi lasciò sola col cucchiaio stretto nella mano…

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aus REZEPTSAMMLUNG

DIE AGONIE DES HEUSCHRECKENKREBSES Im Papiersack wälzte sich der Heuschreckenkrebs und bewegte die Fühler. Ich schloss ihn im Kühlschrank ein im oberen Fach. Mit einem Sprung suchte er anderswo Platz. Am Morgen fand ich ihn wieder, neben dem Tontopf mit den eingeweichten Fisolen, noch immer lebendig. Für eine schnelle Agonie – rät der Artusi – ist es besser, siedendes Öl zu verwenden, gehackten Knoblauch, ein wenig Petersilie. Der Heuschreckenkrebs wölbte die schuppige Schale, räkelte sich in der Wärme und blieb unversehrt. Erst als sich der blutrote Saft über ihm ergoss, gelang es ihm zu ertrinken, und er ließ mich allein, den Kochlöffel hielt ich umklammert…

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PER UN CONGEDO BREVE dissolve frigus ligna super foco large reponens… hai lasciato il convivio prima della fine. nessuno se lo aspettava. non era usuale per te né secondo il galateo. ti sei alzata di scatto stringendo la mano a ciascun commensale. hai guardato negli occhi il capotavola per scusarti. ma sei rimasta a lungo immobile davanti a loro…non volevi andare via. ti rimaneva in bocca il sapore acidulo del vino d’oro che t’inebriò in quel convivio invernale. come nella parabola del vangelo di marco che leggevi l’altra notte il finale non ti era chiaro

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FÜR EINEN RASCHEN ABSCHIED dissolve frigus ligna super fuoco large reponens… Das Essen mit den Freunden hast du vor dessen Ende verlassen. Niemand hatte das erwartet. Weder war man es von dir gewöhnt, noch entsprach es den guten Sitten. Plötzlich bist du aufgesprungen, hast jedem am Tisch die Hand gedrückt. Dem Gastgeber am Kopfende des Tischs hast du in die Augen geblickt, um dich zu entschuldigen. Aber lange bist du reglos vor ihnen gestanden…du wolltest nicht weggehen. Im Mund blieb dir der säuerliche Geschmack des goldfarbenen Weins, der dich bei jenem Essen mit Freunden im Winter berauschte. Wie in dem Gleichnis des Markusevangeliums, das du vor kurzem nachts gelesen hast, war dir das Finale nicht klar.

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LA CAMERIERA

fulminea ti sbirciò di schiena la cameriera quando mi portò la colazione in camera quella mattina nella guantiera d’abete finto. i frutti di bosco in cima alla scodella di plexiglass erano sparsi tra le palline di polistirolo quasi fossero burro non ancora fuso. tutto sembrava non essere stato mai vero. un sonno cupo veniva con la luce tarda della vetrata a nord mentre la luna era appena tramontata

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DAS ZIMMMERMÄDCHEN

Blitzschnell musterte dich verstohlen über ihre Schulter hinweg das Zimmermädchen, als sie mir an jenem Morgen das Frühstück aufs Zimmer brachte, auf dem Tablett aus HolzImitat. Die Waldbeeren ganz oben in der Schüssel aus Plexiglas waren zwischen Polystyrolkügelchen ausgestreut, die aussahen wie noch nicht geschmolzene Butter. Alles schien niemals wahr gewesen zu sein. Dumpfer Schlaf kam mit dem späten Licht der Glasfront gen Norden, der Mond war eben erst untergegangen.

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- ALLA MATALOTTA -

l’ha abbandonata un giovane matelot tanto tempo fa l’antica ricetta siciliana sulla spalletta del lungomare d’alfeo lì dove la strada si biforca e si chiude. la vecchia cuoca dell’osteria d’ortigia sventolava tra le dita un foglio con la scritta sbiadita alla matalotta. non vi si leggeva avanti. il resto s’immaginava - pomodoro quanto basta capperi al sale un battuto di cipolle abbinati con sapienza a pochi tocchi di spada cernia tonno triglie - mi crogiolavo al sole meridiano quell’estate nuotando a intervalli da forte vigliena allo scoglio dei cani quando le tue papille s’impegnarono in una lotta di sapori. non era nostalgia ma l’inedita cattura di un mix di voglie ancora in vita. dal mare l’isola mi si distorceva un po’. sghembo sulla battigia del porto uno sgangherio di gru nascondeva i ciuffi dei papiri della fonte aretusa. almeno gustare potevo un pane di casa che sa d’alga marina e si sfarina in bocca caldo di forno a legna - no - si svisava anche quello in una battaglia di giorno in giorno condotta con tanti a che scopo per combatterla meglio. forse riesumando i sudori nell’afa cittadina qualcosa rimarrà d’un martirio d’ortigia non goduto a pieno 238


- ALLA MATALOTTA -

Ein junger Matrose hat das uralte sizilianische Rezept vor langer Zeit auf dem Damm der Uferstraße von Alfeo zurückgelassen, dort wo die Straße sich gabelt und aufhört. Die alte Köchin des Wirtshauses in Ortigia schwenkte zwischen den Fingern ein Blatt mit der verblassten Aufschrift alla matalotta. Mehr gab es nicht zu lesen. Den Rest stellte man sich vor – ein paar Tomaten, Kapern in Salzlake, gehackte Zwiebel, mit Bedacht wenigen Stücken Schwertfisch, Barsch, Thunfisch und Meerbarbe beigegeben - Ich rekelte mich in der Mittagssonne in jenem Sommer, schwamm in Intervallen vom Forte Vigliena zum Scoglio dei Cani, als deine Papillen sich auf einen Kampf der Geschmacksempfindungen einließen. Es war nicht Nostalgie sondern ein bisher nicht gekanntes Verlangen nach einer Mischung von noch lebendigen Lustgefühlen. Vom Meer aus war der Anblick der Insel für mich ein wenig verzerrt. Schräg am Küstenstreifen des Hafens verdeckte eine Ansammlung von Kränen die Büschel der Papyrusstauden der Fonte Aretusa. Wenigstens kosten konnte ich ein Stück Hausbrot, das nach Meeresalgen schmeckt und im Munde zergeht, heiß aus dem Holzofen - nein – es entstellte sich auch jenes in einem Tag für Tag geführten Kampf mit so vielen zu welchem Zweck, um ihn besser zu bekämpfen. Wenn man vielleicht die Mühsal in der Schwüle des Städtchens wieder ausgräbt, wird etwas vom Martyrium von Ortigia bleiben, das nicht zur Gänze ausgekostet wurde. 239


da POTATURE

UN COLIBRÌ …come una navicella in secca sulla battigia aspetto di raggiungere la flottiglia… a mezzo della notte mi ritrovo in un tunnel di passaggio per arrivare di là oltre la spiaggia… e il respiro si ferma e la gola si strozza egli occhi non vedono e gli occhiali non servono e le papille non palpano odo un chiù che canta o un colibrì che tace. la tosse mi schianta. t’aggiri in dormiveglia nella stanza. spalanchi gli scuri della finestra. insieme aspettiamo le prime luci riflesse nella tempera sopra il capezzale. silenzio intorno solo un colibrì che canta…

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aus BESCHNEIDUNGEN

EIN KOLIBRI ….wie ein kleines Schiff, das am Küstenrand auf dem Trockenen liegt, warte ich darauf, die Flotte wieder zu erreichen… In der Mitte der Nacht finde ich mich in einem Tunneldurchgang wieder und möchte über den Strand hinaus gelangen… Und der Atem stockt und die Kehle wird zugeschnürt und die Augen sehen nicht und die Brille nützt nichts und die Papillen schmecken nichts. Ich höre eine Ohreule, die singt oder einen Kolibri, der schweigt. Der Husten zerreißt mich. In halbwachem Zustand gehst du im Zimmer auf und ab. Du reißt das Dunkel des Fensters auf. Gemeinsam warten wir auf die erste Helligkeit, die sich im Ölbild über dem Kopfende des Betts spiegelt. Rundum Stille, nur ein Kolibri, der singt…

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…DELLA POLTRONA

mi sveglio vecchia stamattina. è l’alba è già passato il tempo pronosticato prima. sospesa sul crinale della poltrona penso a quella primavera che volevo forzare la porta stretta e affacciarmi di là con discrezione. erano i giorni dell’Emergenza. nell’androne tu attendevi un cenno da me on arretravi davanti ai minuti spicciolati o agli attimi in saldo quando il mio tempo ancora era a buon mercato. ora il prezzo è salito alle stelle… e si è inceppato il tasto pochi mesi la vita quanti quelle ore ribattute che tornano indietro nel display il nome si frantuma. ci rimangono solo le iniziali. o forse un tafferuglio di numeri per contare i crucci d’un amore in parte superati - separati nella stanza lui e lei gli oggetti in fila come le parole…

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…DES LEHNSTUHLS

Heute früh wache ich alt auf. Es ist Morgendämmerung, die vorher prognostizierte Zeit ist schon vergangen. An den Rand des Lehnstuhls gekauert, denke ich an jenen Frühling, als ich die schmale Tür mit Gewalt aufbrechen und mich unauffällig dort drüben zeigen wollte. Es waren die Tage des Notfalls. Im Hausflur wartetest du auf ein Zeichen von mir, du wichst nicht zurück vor den wie Kleingeld gewechselten Minuten oder den Augenblicken im Ausverkauf, als meine Lebenszeit noch billig zu haben war. Nun ist der Preis unerschwinglich geworden… und die Taste klemmt wenige Monate das Leben wie viele jene zurückgewiesenen Stunden, die umkehren, auf dem Display zersplittert der Name. Es bleiben uns nur die Initialen. Oder vielleicht eine Ansammlung von Zahlen, um die teilweise überwundenen Schwierigkeiten einer Liebe zu zählen – getrennt voneinander im Zimmer er und sie, die Dinge aufgefädelt wie die Wörter…

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L’APPARTAMENTO

tutto è scaduto nell’appartamento al sesto piano che guarda dall’alto il ventre delle case vicine. - palazzo signorile fine anni sessanta facciata ad alveare balconi sul porto piccolo - ci arrivo in ascensore passando dal varco a. sul cavalletto sotto la finestra il pennello ancora intinto di grigiorosea tempera sta davanti alla tela lasciata a mezzo. - come stai…forse sei ancora dalla parte dei vivi - una voce al telefono riprende a parlare. di là dal parco un rudere chiude la vista del molo dove s’affollano barche a vela come ragazze dialoganti a frotte. scrivi il nome sull’elenco. fermati aspetta. lento arriverà il traghetto che ti porterà all’altra riva prima che il viaggio termini…ora il vento di scirocco accresce la calura…

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DIE WOHNUNG

Alles ist heruntergekommen in der Wohnung im sechsten Stock, die von oben den Bauch der Nachbarhäuser anschaut. - Herrschaftliches Haus aus den späten Sechzigerjahren, bienenstockähnliche Fassade, Balkone gehen auf den Porto Piccolo – ich komme im Aufzug, benutze den Aufgang a. Auf der Staffelei unter dem Fenster ist der Pinsel noch getränkt mit graurosa Temperafarbe, liegt vor der halb fertig bemalten Leinwand. - Wie geht es dir…vielleicht gehörst du noch zu den Lebenden – eine Stimme am Telefon beginnt wieder zu sprechen. Jenseits des Parks versperrt eine Ruine die Sicht auf die Mole, wo sich Segelboote drängen wie ein Schwarm sich miteinander unterhaltender Mädchen. Schreib den Namen ins Verzeichnis. Bleib stehen, warte. Langsam wird die Fähre kommen, die dich ans andere Ufer bringt, bevor die Reise endet…Nun verstärkt der Schirokko die Hitze…

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- non preoccuparti asciuga il tuo male il sole di qui - mi rassicuri. forse una notte troppo breve custodisce la mia estate appena iniziata - non perderla s’allunga quanto il sonno del mattino - e già ti prendi gioco di me ridendo rimuovi con la mano la polvere dal volto poi mi ripeti piano il nome e un carissimo saluto. d’un tratto si increspa il mare e riavvolge su di sé il richiamo di questa terra che non dà riparo - non è così ogni volta - spiegano - non sempre negli arenili d’alghe le ombre vanno alla deriva senza voltarsi. non servirà cercarti riperderti e trovarti. resta a raggomitolarmi mentre enumeri i miei torti e mi disarmi ancora

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- Mach dir keine Sorgen. Die Sonne hier trocknet dein Leiden aus – beruhigst du mich. Vielleicht hütet eine zu kurze Nacht meinen eben begonnenen Sommer - versäume ihn nicht, er dehnt sich aus wie der Schlaf am Morgen – und schon treibst du dein Spiel mit mir, lachend wischst du mit der Hand den Staub vom Gesicht, dann wiederholst du leise den Namen und einen ganz lieben Gruß. Mit einem Mal kräuselt sich das Meer und hüllt sich wieder in den Lockruf dieser Erde, die keinen Schutz gewährt. - Es ist nicht jedes Mal so – erklären sie – nicht immer stranden die Schatten auf den mit Algen bedeckten, sandigen Küsten, ohne sich umzudrehen. Es wird nichts nützen, dich zu suchen, dich wieder zu verlieren und dich zu finden. Mir bleibt, mich zusammenzukauern, während du meine schuldhaften Versäumnisse aufzählst und mich noch mehr [entwaffnest.

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da NORDICHE GIORNO 3 indugiano i sogni sulla soglia del sonno. il sogno uno ha paura di perdersi nei sentieri tortuosi che percorsi un tempo. il sapore di mandorle e cannella si mescola all’odore acre d’alga nella proda che si sporge più a sud lì dove il fiume dei papiri sul mare si distende… c’è freddo… … le mani si stringono per riscaldarsi. il sogno due ritorna alla stessa ora. si blocca oltre il vestibolo. la porta è stretta come la solita cruna d’ago del cammello. d’un tratto seguendo il raggio della luna oltre la rapida in fondo al canale sguscia sotto la malsicura crosta ghiaccia. il sogno tre rimane in disparte spiando sul guanciale ogni indizio di me. quei volti familiari sfumati dentro al buio gli s’affollano intorno… un soffio gelido si levò dalla collina l’altr’inverno… passò oltre le porte e le finestre poi arretrò improvviso e fu come il giorno del giudizio… il sogno quattro dimentica i lamenti della notte. quella sera l’araucaria in alti sul precipizio scisse il vento di maestrale. io lo rammento. vibrarono i vetri della casa rosa al tramestio dei sibili. oggi nel disfarsi delle tenebre si desta il sonno alla mia voce… non sono pronta al varco 248


aus GEN NORDEN TAG 3 Die Träume zögern an der Schwelle des Schlafs. Traum eins fürchtet, sich auf den gewundenen Wegen, auf denen du einst gegangen bist, zu verirren. Der Geschmack nach Mandeln und Zimt vermischt sich mit dem herben Duft nach Algen am Ufer, das weiter südlich hinausragt, dort wo der Papyrusfluss sich ins Meer ergießt… es ist kalt… …die Hände pressen sich aneinander um sich zu wärmen. Traum zwei kehrt zur selben Stunde wieder. Er hält jenseits des Vestibüls inne. Die Tür ist schmal wie das bekannte Nadelöhr für das Kamel. Plötzlich folgt er dem Mondstrahl über die Stromschnelle am Ende des Kanals hinaus und entwischt unter die unsichere eisige Erdkruste. Traum drei bleibt abseits und lauert auf dem Kopfkissen auf jedes meiner Zeichen. Jene vertrauten, undeutlichen Gesichter scharen sich im Dunkel rund um ihn… Ein eisiger Hauch erhob sich vom Hügel im letzten Winter… Ich bewegte mich jenseits von Türen und Fenstern, dann wich ich plötzlich zurück und es war wie der Tag des Jüngsten Gerichts… Traum vier vergisst die Klagen der Nacht. An jenem Abend schüttelte der Mistral die Araukarie hoch über dem Abgrund. Ich erinnere mich daran. Die Fensterscheiben des rosa Hauses klirrten beim Getöse dieses Zischens. Als die Finsternis sich auflöst, erwacht heute der Schlaf beim Klang meiner Stimme… Ich bin nicht bereit für den nächsten Schritt 249


II. dopo il genetliaco - il guitto è stato qui raccontava l’oste quella sera servendo la vaporata di scampi e mazzancolle. ti pensavo come una spina ficcata nel piede sullo scoglio dei ricci. sapore di sale…o una rotonda sul mare… ballavano quei due appiccicati al centro del locale. io mi spostavo piano dai più. era troppo forte l’aroma di cannella e l’amaro dei chiodi di garofano mi chiudeva la gola. come un segnatempo il treno passava mentre dal campeggio la nenia dei ragazzi cresceva sulla spiaggia - buonanotte fiorellino - festeggiavo così in sordina un compleanno qualche estate fa oltre l’appennino. ancora non ero in guerra e non vedevo la bestia che s’insediava nel mio respiro. ora la tua vita interrotta all’improvviso mi si para davanti impedendomi d’entrare. Serve un salvacondotto che non ho

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NACH DEM GEBURTSTAG - Der Schmierenkomödiant ist hier gewesen erzählte der Wirt an jenem Abend, als er gedünstete Scampi und Mazzancolle servierte. Ich dachte an dich wie an einen auf dem Seeigelfelsen in den Fuß eingetretenen Stachel. Sapore di sale…o una rotonda sul mare…Jene beiden tanzten aneinandergeschmiegt in der Mitte des Lokals. Ich entfernte mich leise von der Menge. Zu stark war der Geschmack nach Zimt und das Bittere der Gewürznelken schnürte mir die Kehle zu. Wie eine Stechuhr fuhr der Zug vorbei, während vom Campingplatz her die Nänie der jungen Leute am Strand anschwoll – buonanotte fiorellino – so heimlich feierte ich vor einigen Sommern einen Geburtstag jenseits des Appennins. Damals war ich noch nicht im Kriegszustand und sah das Untier nicht, das sich in meinem Atem niederließ. Nun baut sich dein unterbrochenes Leben plötzlich vor mir auf und hindert mich daran einzutreten. Benötigt wird ein Geleitbrief, den ich nicht habe.

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da LE TABARCHINE LE ZANZARIERE

la sirena ha suonato nel porto. si parte è l’ora ho lasciato la casa con le zanzariere aperte a metà tu sei rimasto là solo nella stanza a rileggere quel verso in fondo alla poesia. non vuoi andare via tabarca non è la tua isola. ti confonde la scia della barca che viene e va e irrequieta s’inarca alle correnti che la contendono. fischia la sirena un’altra volta. è l’ora il traghetto non attende ancora

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aus TABARCA FLIEGENGITTER

Die Sirene ertönte im Hafen. Man reist ab, es ist Zeit. Ich habe das Haus verlassen, die Fliegengitter sind halb offen. Du bist allein im Zimmer zurückgeblieben, um jenen Vers am Ende des Gedichts wieder zu lesen. Du willst nicht weggehen. Tabarca ist nicht deine Insel. Dich verwirrt das Kielwasser des Boots, das kommt und sich entfernt, und ruhelos sich zu einem Bogen krümmt in Strömungen, die darum streiten. Die Sirene ertönt noch einmal. Es ist Zeit. Die Fähre wartet nicht, noch nicht.

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SOLO SUGLI STAGNI quel fenicottero s’aggira solo sugli stagni davanti alla casa vuota che ha le finestre sempre aperte. quasi in apnea aspetta l’alta marea. non vuol volare perché ha le zampe troppo lunghe ma s’impegna ad essere normale. qualche volta si lamenta. lo guardo dall’auto che rallenta …d’un tratto cauto si ferma e affonda nell’acqua il suo becco a cucchiaio…

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ALLEIN AUF DEM WEIHER Dieser Flamingo spaziert allein auf dem Weiher vor dem leeren Haus, dessen Fenster immer offen sind. Mit fast angehaltenem Atem erwartet er die Flut. Er will nicht fliegen, weil er zu große Füße hat, aber er bemüht sich normal zu sein. Manchmal klagt er. Ich betrachte ihn vom langsamer werdenden Auto aus …plötzlich bleibt er vorsichtig stehen und taucht seinen löffelförmigen Schnabel ins Wasser…

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da COSETTE OSPEDALIERE IN GERGO mi portasti un cappuccio con un pezzo dolce (così si dice in gergo al bar dell’ospedale). non lo bevvi subito m’aveva distratta la sagoma dei monti che vedevo oltre la gronda dell’edificio di fronte. ero in ansia aspettando le tue ipotesi sui miei pensieri sospesi nella stanza undici

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aus SPITALSKLEINIGKEITEN IM JARGON Du brachtest mir einen Cappuccino mit etwas Süßem (so sagt man im Jargon des Cafés im Spital). Ich trank ihn nicht gleich, der Umriss der Berge, die ich jenseits der Dachrinne des Gebäudes gegenüber sah, hatte mich abgelenkt. Ich war unruhig und voller Angst, wartete auf deine Hypothesen, meine im Zimmer elf schwebenden Gedanken betreffend.

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MP3 stamattina non c’è scampo. tace l’mp3 trovato sotto la greppia questo natale. non riesco a caricarlo. m’ero addormentata ascoltando fino a tarda sera l’arabesque per pianoforte. buonanotte signora s. ha la febbre. dipende dalla nuova droga iniettata sotto pelle. m’accarezzi la guancia. mi rubi un po’ dell’entusiasmo. lei studia sempre. venga con noi a raccontarci dei suoi mali. penso ai miei viaggi…

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MP3 Heute Morgen gibt es keinen Ausweg. Der MP3, den ich dies Jahr zu Weihnachten unter der Krippe gefunden habe, ist stumm. Es gelingt mir nicht, ihn aufzuladen. Eingeschlafen war ich spät abends beim Anhören der Arabeske für Klavier. Gute Nacht Frau S. Sie haben Fieber. Das kommt vom neuen Medikament, das unter die Haut gespritzt wurde. Du streichelst meine Wange. Du raubst mir ein wenig von meinem Enthusiamus. Sie studieren immer. Kommen Sie doch mit uns und erzählen Sie uns von Ihren Krankheiten. Ich denke an meine Reisen…

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MASSIMO BACIGALUPO VOCE, METRO ED ESPERIENZA IN ELENA SALIBRA

La voce di Elena Salibra è ben presente nelle sue raccolte di versi, che sono una registrazione di frasi, momenti, immagini, pensieri, ridotti a una struttura poetica libera, ma anche sintetica e lampeggiante. La svista (2011) raccontava con metafore la piega drammatica data alla sua vita dalla malattia, ma tutto è metafora immediata: “mi si è spezzata tra le dita oggi / la conchiglia / che portavo al collo. Mi ci provo / a ricomporla” (p. 25). Studiosa di metrica, Elena avrebbe apprezzato che si notasse che l’inizio è composto di due perfetti endecasillabi. Il “piccolo fatto vero” (come diceva Sanguineti) è sempre il “simbolo adeguato” (come diceva Pound). La conchiglia spezzata, ma anche sempre e di nuovo ricomposta, finché regge il fiato. Negli ultimi versi di Salibra non ci sono maiuscole, il che dà alla sua voce una scioltezza non enfatica, suadente, che è proprio sua caratteristica. È una cifra molto semplice, ma che pure segna la sua spiccata individualità. Le annotazioni che ci regala in fondo all’ultima raccolta, Nordiche (2014), queste sì (le note) con le maiuscole come si deve, chiariscono semplicemente il senso di alcuni toponimi, come Genoard, il “Parco di Palermo annesso al castello normanno della Zisa (XII secolo)”, o l’Amenano, “fiume sotterraneo in corrispondenza del centro di Catania”: “sprofondò sotto terra l’Amenano / dentro quell’ansa di lava. d’un tratto / calò ancora s’arrestò in un letto / di lapilli…”. Niente maiuscole appunto, endecasillabo iniziale e – altro tratto caratteristico – il corsivo, frequente in questi testi. Cosa significa? È praticamente una citazione, una voce da altrove, un ricordo. Nel caso di questo Il fiume sotterraneo solo alla fine si arriva al presente in cui torna alla memoria quel piccolo fatto diverso: “cellule aggregate / dna il mistero di chi nasce / e muore… malinconica l’europa / guardata dall’oriente… / …tremori / sul muso del mio cane e penso a un aldilà / per lui…” (Nordiche, p. 45). La poesia diventa lo strumento perfettamente posseduto per registrare le intermittenze del pensiero che accompagna le trepidazioni e le cadute del corpo. A volte Salibra non fa sconti nella sua apparente leggerezza: “e il respiro si ferma / e la gola si strozza / e gli occhi non vedono / e gli occhiali non servono / e le papille non palpano // odo un chiù che canta / o un colibrì che tace. / la tosse mi schianta” (Un colibrì, p. 34). Qui la cantilena jacoponiana e quasi infantile rende possibile raccontare le ore terribili della psiche e del corpo. E una nota avverte: “Colibrì è il nome di un uccello tropicale variopinto di piccole dimensioni ma anche di un antalgico oppiaceo”. Al colibrì aveva dedicato diverse poesie una maestra di tutti, Emily Dickinson: “Un tragitto di evanescenza / con una ruota turbinosa — / una risonanza di smeraldo — / un impeto di cocciniglia…” (poesia J 1463). Dickinson che altrove registra le pene psichiche-fisiche con intensità memorabile: “Dopo il grande dolore, viene un sentimento compìto” (J 341). Ecco un altro endecasillabo di Salibra: “mi sveglio vecchia stamattina. È l’alba / è già passato il 260


tempo / pronosticato prima” (...Della poltrona, p. 36). Certo c’è molta fermezza in queste annotazioni: “quando il mio / tempo ancora era a buon mercato. ora / il prezzo è salito alle stelle”. La malattia, il decorso, la minaccia, fa da sfondo, ma rimane sempre come un filo in una trama tutta lucida di impressioni. Il titolo Nordiche richiama il fatto che Salibra spesso fu in Finlandia per una cura speciale che purtroppo non è bastata a conservarcela più a lungo (si è spenta il 4 dicembre 2014). Ma certo ha continuato a vedere e comunicare ed esercitare la sua arte poetica raffinata e controllata, drammatica e seducente. In Nordiche ci sono anche i ricordi della giovinezza, delle risate complici con le amiche, del “bichini” dimenticato fra gli scogli quando si faceva il bagno nudi in Grecia “per sfiorare con i seni le alghe del fondale” (Off label, p. 24). Una vita vissuta, la capacità (come in Dickinson?) di dire io, di scrivere in prima persona senza per questo acquisire autorità ingombrante. È una voce, un centro di percezione che ci parla privatamente e pubblicamente. Spesso con Elena discutemmo del mio lavoro su Wallace Stevens e le mandavo per sms qualche verso particolarmente ispirato quando mi diceva che stava per andare in terapia: “I call you by name, my green, my fluent mundo”. Un modo di condividere una cosa indistruttibile. Si parlò di una poesia intitolata Questions Are Remarks, (Le domande sono osservazioni), che inizia: “In the weed of summer comes this green spout why”: “Fra l’erbaccia estiva viene questo verde germoglio perché” (dove “perché”, why, caso mai non si capisca, è il nome del “germoglio”). Ci chiedevamo come tradurre weed (malerba?). Più avanti Stevens introduce il nipotino “Peter the voyant” che guarda il sole e chiede: “Mamma, quello cos’è?”. E nonno Stevens commenta enigmaticamente: “È l’estremo, l’esperto di anno 2” (che era l’età di Peter, nato nell’aprile del 1947, mio coetaneo e di due anni più anziano di Elena). Tutto ciò per segnalare che in Nordiche la sezione Cosette ospedaliere si apre con Leggendo Stevens: “calpestavamo la gramigna estiva / dietro la casa mentre esplodevano / nuovi germogli oltre la barriera d’alloro”. (“Gramigna” dunque per weed.) Il corsivo del testo indica che si tratta di un ricordo, stimolato forse dai versi di Stevens. Infatti, nella seconda strofa, “il sole era già alto quando la piccola / Elena di anni due s’accostò alla panchina / per chiedermi cos’era quel tondo di fuoco / in mezzo al cielo. Risposi che serviva / per riscaldare la terra ma lei // non era convinta”. Così, l’astrazione irraggiungibile di Stevens viene ripresa in questa forma dimessa eppure scandita, a introdurre quella che è l’ultima sequenza di Nordiche, appunto “cosette”, piccole annotazioni, una voce inconfondibile che si allontana col suo bagaglio di vissuto e amato. Le domande sono osservazioni, appunto. Nordiche è un libro a cui potremo spesso tornare, per iniziare a ripercorrere all’indietro il cammino poetico di Elena Salibra, e ritrovarla tranquillamente e delicatamente affacciata su un mondo condiviso: “torna ancora settembre / dopo la grande calura / e si ripete uguale come una poesia / che batte sempre sulla stessa rima. / Prima o poi la calma autunnale / cambierà il cammino che rimane” (Tragitti, p. 58).

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MAURIZIO CUCCHI UN RICORDO DI ELENA SALIBRA

Ricordo di aver conosciuto Elena Salibra in Toscana, una decina di anni fa. Ne avevo colta la dolcezza elegante, un tratto della sua figura che chiunque l’abbia incontrata ha certo avuto modo di riconoscere con piacere. Ho poi cominciato a leggere i suoi testi, ammirandone la sapienza letteraria e l’originalità, e ho cercato, per quanto era nelle mie possibilità, di diffonderli, a partire da un’uscita in Almanacco dello Specchio del 2008. In seguito abbiamo avuto diversi scambi di poesia, anche quando Elena curava una sezione di versi per una rivista dell’aeroporto di Catania, dove aveva accolto dei miei testi. Ciò che ho sempre più ammirato di lei, della sua personalità di poeta, era il coesistere di una felice vena naturale, caratterizzata da un buon gusto impeccabile, con una conoscenza profonda e ricca della nostra poesia. Certo insegnava all’Università, ma il suo modo di leggere e proporre la poesia non era freddamente professorale, ma era quello di chi possiede la sensibilità del poeta, capace di leggere nel dettaglio dei materiali usati e di cogliere insieme l’emozione interna dell’opera, senza la quale anche la poesia diventa solo un interessante esercizio retorico. Avevo avuto modo di presentarla, nella sua Pisa, insieme ad Alberto Bertoni, ed era stato, anche in quel caso, un incontro vivo e sciolto, dove insieme alla qualità dei suoi versi era emersa la grazia raffinata del suo modo di presentarsi. Una grazia, sia chiaro, per nulla di maniera o di superficie ma capace, al contrario, di veicolare senza enfasi un’energia autentica e originale. Un primo episodio triste, un primo evidente allarme, era venuto poco tempo dopo, quando era stata inserita nel programma del Festival Internazionale di Poesia di San Benedetto del Tronto, di cui mi occupavo da qualche anno. So che aveva molto gradito l’invito, e proprio per questo rimasi molto sorpreso e preoccupato quando Elena ci telefonò che non le sarebbe stato possibile partecipare per motivi di salute. Non riuscii però a pensare che potesse trattarsi di qualcosa di grave, e d’altra parte il suo modo di affrontare il male mi è sempre parso dei più nobili, avendola poi incontrata in seguito altre volte, sempre impeccabilmente sorridente, disposta al dialogo, per nulla in cerca di un pur amichevole conforto, che non le avrei certo fatto mancare. Abbiamo poi predisposto la pubblicazione di Nordiche nella collana dell’editore Stampa 2009 di Marco Borroni, e devo dire che sono molto orgoglioso di aver potuto inserire Elena Salibra nel catalogo di queste edizioni. Il libro è stato accolto molto favorevolmente, com’era giusto che fosse. Resta solo il rimpianto che la sua opera – che sono sicuro avrebbe potuto continuare a crescere – sia stata così bruscamente, ingiustamente interrotta da una sorte tanto sfortunata. Ma questa è una ragione di più per tornare a leggere i suoi versi e per ricordare con ammirazione l’insieme della sua figura.

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FRANZISKA RAIMUND PER ELENA

Nel dicembre 2012, Massimo Bacigalupo, un nostro comune amico, ci aveva mandato La svista – The oversight, poesie di Elena Salibra in italiano e inglese, con una sua dedica per mio marito Hans e per me. È stato un regalo inaspettato e bello. Forse uno di noi due potrebbe tradurre questi testi in tedesco? Questa traduzione la volevo fare io. Il mio motivo: trovavo questi testi interessanti, enigmatici, originali e molto diversi da quelli di poeti italiani contemporanei di mia conoscenza. Mi attirava una certa laconicità, asprezza, ambiguità e l’evidente desiderio di unire in modo convincente la forma al contenuto. E fin dall’inizio capivo che si trattava di “una questione di vita o di morte”. Una scelta di queste poesie e delle mie traduzioni è stata pubblicata come libro d’artista n.6 nella bella collana I diamantini (Il Girasole Edizioni, Valverde 2013). Elena ed io ci siamo scritte numerose e-mail e volevamo conoscerci meglio: l’ho invitata a Vienna, ma diceva di non poter venire. Nel maggio 2013 sono stata ospite per qualche giorno a casa sua a Pisa. Elena stava molto male. “I giorni in cui tu eri a Pisa sono stati per me particolarmente pesanti per la malattia. Tu mi hai dato molta serenità.” Malgrado la malattia continuava ad insegnare all’università. “Gli studenti non sanno niente.” Nel dicembre 2013 avevo finito la traduzione di un altro libro di Elena: Il martirio di Ortigia. La traduzione è il tuo prezioso regalo di Natale. Serve a tanto… per me ha un grande significato. Hai centrato bene l’interpretazione intuendo il mistero che c’è dietro a ciascuna poesia. Dal mistero nasce l’ambiguità che è propria di ogni comunicazione poetica. Elena trattava tutto: le persone, gli animali, le cose e persino la malattia (con la massima discrezione, con ammirevole dignità e imperturbabile rispetto). Amava la vita in tutte le sue sfumature, ma sopratutto amava la poesia: La sedia davanti alla mia scrivania è l’unica dove sono seduta comodamente. Tra di noi cresceva la simpatia, la comprensione, la stima. Siamo nate nello stesso giorno, il 10 agosto, lei a Siracusa, io a Bad Hall in Austria. “Le coincidenze apparentemente casuali sono tante.” Ci sentivamo vicine: lei a Pisa, io a Hochstrass nel Burgenland: “Alla mia quasi gemella: forse è un caso di telepatia. Mi hai pensato in un momento difficile.“ Il 27 gennaio 2014 Elena scrive: “Oggi è il giorno della memoria e ti ho pensato. In ospedale ho ascoltato molto la musica. I Lieder di Schubert mi hanno fatto pensare a te”. 263


Hans ed io decidiamo di andare in Sicilia per la Settimana Santa del 2014. Elena ci propone di stare nella casa dei suoi defunti genitori a Ortigia, Siracusa. Accettiamo con gratitudine. Grazie alla sua generosità ci andiamo non come turisti ma come ospiti privilegiati in un posto incantevole. Scrivo un Diario siciliano. Nel luglio 2014 viene pubblicato Per un congedo breve insieme alla mia traduzione. È di nuovo un bel libro d’artista (Edizioni dell’Angelo). “Questi versi ci legano ancora di più nella nostra amicizia”. Questa poesia fa parte dell’ultima raccolta di Elena Nordiche, che riceve il Premio Viareggio-Repaci e il Premio Pisa. Nell’ottobre 2014 Elena scrive: “Stai traducendo Nordiche? Ci tengo moltissimo”. Io stavo traducendo Nordiche. Volevo farle un altro regalo di Natale, ma non feci in tempo. L’ultimo messaggio di Elena del 23 novembre non contiene nessun lamento, nessuna amarezza: “Sono stata a Siracusa per cinque giorni all’inizio di novembre. Aspetto il tuo Diario siciliano con curiosità. Chiara (il mio cane) come sta? E i tuoi nipoti? Un carissimo saluto”. Elena muore il 4 dicembre a Pisa. Perdo l’amica, la mia quasi gemella. Ma Elena poeta rimane, anzi rimarrà…

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COPRIRE UN POETA

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NICOLA SGUERA POESIE A CHI CONOBBI NELLA MUSICA a Carlotta, viola d’amore

Sapessero i pittori dipingerli i martiri d’oggi e i loro dolori muti: gli occhi rivolti al cielo per un altro giorno, il liuto a terra o la viola d’amore. E invece la copia d’un santo ci ricorda, torturato, la carne crudele mentre siamo la corda che vibra, il suono che si libra nell’aria, cercando altrove l’orecchio che ascolti, uniti – io che pure seppi dopo del tuo volo breve, e chi invece il tuo volto lo vide sfiorire contro natura, contro speranza – nella forma misteriosa del tempo che ti scelse, elesse, e ora custodisce.

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DESCENDENS DE MONTE… Pregavo nelle veglie notturne, illuso che qualcuno ascoltasse. E invece non era Nessuno. Ringraziavo per i doni del giorno, per il pane e la luna. Invano. Dio morto. Per fortuna. Era un altro fantasma, un feticcio della mia fantasia di bambino pauroso. Benedico, ora, ogni cosa: non solo, come ovvio, una rosa sul giardino di casa ma il dolore degli arti, i rovesci del tempo, mia moglie e i suoi affanni. Volti e cose, la loro imperfetta bellezza, sono il “tu” cui aspiravo. Dio risorge. Non altro dalla fatica gioiosa d’esistere. Non fuggo. Abito l’attimo, la sua compiutezza. Ascolto il fluire del sangue nelle vene, assaporo, insonne, mia figlia che dorme, quieta.

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FALENE NELLA NOTTE Il fuoco trasforma in sé ciò che gli è portato

Meister Eckhart

Si fondono con cera e fiamma. Ne rimarranno resti incarboniti. Il folle volo notturno (da quali paradisi vegetali richiamate?) si chiuse in un crepitante sacrificio. Simile a loro, dunque, in attesa del fuoco che illumini la notte mia nera, reclamandomi.

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IL VENTO, ANCORA … nell’originario dominio della potenza dell’essere

Martin Heidegger

Il vento, ancora. La sua potenza rigenerante. Cercavo, un tempo, di decifrarne moniti e messaggi. Ora, tra basilico e menta, m’abbandono: che trascorra in me come tra foglie. Parole intramate siano il canto-vento. Io esposto. Io deposto.

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[INSORGENTE OGNI MATTINA CONTRO IL NIENTE] Sole/Padre, fendi le pietre dell’oscura prigione. Acqua/Madre, scorri nell’arido legno del corpo. L’orecchio sfibrato si tenda a ciò che deflagra, lo sguardo sul punto efesino in cui tutto oscuramente si tiene. [OGNI MATTINA IN SORGENTE ALLA NOTTE IMMEMORE] La legge sottesa alla natura rerum reclama anche te. Amala senza riserve.

* Grazie per lo scroscio d’acqua, inquinata. Grazie per il frinire dei grilli, divorati. Grazie per il canto d’uccelli, gelati. Che sia il mio abitare luogo illume, soglia incerta d’oscuro e chiarità. Aperti gli occhi, il cuore accordato, con carità e virtù guerriera, fra dedizione e decisione. Quanto il mondo richiede sia il tuo lavoro quotidiano. Senza mercede, cedere, erede. In bicicletta, il dì 28 dicembre 2012. Ora prima

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OESIA MISTICA

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MARIA ROSA PANTÉ POESIE A UNA MISTICA

per Teresa d’Avila

la mentalità degli esiliati… S. Teresa D’Avila

Troverò il cibo, ogni giorno alla fame profonda dell’esilio, fame di patria e radici attecchite. Ogni giorno nutrendo col cibo effimero dell’esilio questa mia fame di normalità. Ogni giorno penetrando l’esilio, esplorando la terra di nessuno, la mia. Nutro la fame d’esilio col cibo di Dio, di Lui mi nutro, della sua carne, del suo sacrificio. La croce non darà patria, ma esilio. Pensare come un’esiliata, nutrire l’aspra fame di radici, penetrando ogni giorno l’esilio dal mondo. Lampade accese, tirate le vesti sui fianchi, i sandali ai piedi la mentalità dell’esiliato. Guardata a vista da chi è stanziale, maledetta da chi soffoca nelle sue radici. Nutrire la fame 272


d’esilio soffrendo la fame del mondo. Nessun rimpianto. L’esilio ha voce calda di bivacco, sussurro di sirena, fuoco del rovo che esala la voce del Signore del mio esilio del Signore delle mie radici. L’esilio ha sfumature di mare, agro sapore sconosciuto, paura della voce acuta fuori del coro. L’esilio ha il profumo del prato maturo, del sudore aspro, di cibi cotti sul fuoco. La mentalità dell’esiliato è, tra il pianto, un sorriso.

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ENTRARE NELLA PAURA I Entrare nella paura Per incontrarvi Dio. Con quale sfrontatezza divina mi dirai: non avere paura? II Entrare nella paura come nelle proprie viscere, dove si mescolano la vita e la morte, il cibo e il rifiuto. Affrontare le proprie viscere convulse. III Entrare nella paura per incontrare le viscere convulse da spasmi di terrore. Terrore delle viscere: essere sparse senza pareti, senza villi, senza vasi sanguigni, senza le ossa, la pelle che tutte le contenga. Terrore delle viscere: non essere più mai contenute. IV Della vertigine ho paura: forse Il sasso gettato nell’acqua teme Il folle volo, i cerchi concentrici, l’orbita, lasciata dal suo affondare, dal suo perdersi nel cerchio insidioso della vertigine: come folata di vento vuole staccarmi da terra. VI Camminare sprezzante del confine sul limitare del terrore: orrore e splendore del vuoto. L’illimitato cadere nelle braccia dell’infinito: entrare nella paura. 274


da TRIDUI PASQUALI Quaresima

LE OSSA DEL CRANIO (Venerdì Santo) Sento le ossa del cranio sotto la pelle: ti hanno crocifisso in alto, lontano. Sotto la pelle le ossa delle tempie e l’orbita vuota degli occhi. Il crocifisso pende tra terra e cielo quasi diffuso, sento la mandibola e le guance molli. Carne che presto sparirà. Sotto le dita il cranio, un cranio qualsiasi, forse il mio. Perché cresci verticale? La croce quasi si sporge, l’arazzo si muove alla corrente e il Golgota vive: la croce in alto tra terra e cielo. Disegno con le dita le ossa, premo il mio profilo: tutto è vanità? Ma non le ossa, non le ossa.

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MADONNA AFASICA Sulla Madonna Addolorata ai piedi della Croce non avevo mai scritto, mai nemmeno pensato, quasi fosse un dolore da Sacro Monte, da Sacra Rappresentazione e basta, tanto si sapeva che sarebbe risorto di lì a tre giorni. Se non credeva la Madre! Poi ci ho pensato seriamente, ho pensato a lei, a una madre umana che vede morire il figlio così, il figlio innocente. L’unica immagine che ho avuto, nitida, è stata quella d’una donna afasica, muta, che, al limite, guaisce piano come un animale. Il suo è un dolore tale che è la radice di tutti i dolori. La perdita del figlio: il dolore ancestrale per eccellenza. Paradossalmente non ho trovato parole umane a dirlo, ma nemmeno divine, solo il guaito animale, sommesso, una pre-parola, un suono dalle viscere, le viscere di misericordia. Così ho scritto due riflessioni sull’afasia e ho scoperto che pochi poeti hanno scritto dell’Addolorata e uno, Claudel, ha come me immaginato per lei solo il silenzio.

m.r.p.

I Che altro potevo fare stavo lì ai piedi della croce, ammutolita. In silenzio, nessuna parola è uscita dalle mie labbra. Quasi senza respiro. Avrei voluto zittire anche gli altri: i pianti delle donne, le grida della folla, le voci dei discepoli. Io volevo ascoltare il tuo respiro, figlio, se ancora vivevi e soffrivi. Volevo tutti zittire. Persino il dolore mi era come distratto dal bisogno di udire i tuoi respiri. Gli ultimi. Ero in silenzio non mi era data voce capace di dire tanto dolore. Guaivo piano, tra i nostri respiri: io ero la Madre e tu l’Agnello.

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II Tu mi chiedi se ho mai scritto versi sulla Madonna ai piedi della croce. L’Addolorata! No, non l’ho mai fatto. E pochi, sparsi ne ho trovati, scarni e reticenti : di uomini e di santi. Mancano parole umane per dire il dolore, lo strazio disperato. C’è da impazzire, lo sanno le madri. Mancano le parole umane e anche divine se pure è vero che all’estremo grido di Cristo sulla croce nessuna voce, nessuno, ha risposto.

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HANNO COLLABORATO

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MASSIMO BACIGALUPO insegna Letteratura angloamericana presso il Dipartimento di Lingue dell’Università di Genova. È autore di L’ultimo Pound (1981), Grotta Byron (2001) e studi e traduzioni (Emily Dickinson, Poesie; Wallace Stevens, Il mondo come meditazione; Ezra Pound, Canti postumi e XXX Cantos; Henri Cole, Autoritratto con gatti; H.D., Fine al tormento, ecc.). Ha ottenuto il Premio Monselice per la traduzione letteraria con la sua versione del Preludio di William Wordsworth, il Premio Marazza con Beowulf di Seamus Heaney e il Premio Nazionale di Traduzione. Suoi testi critici sono inclusi nei volumi Letture montaliane. In memoria di Franco Croce (2010), T. S. Eliot in Context (2011), Per Edoardo Sanguineti: lavori in corso (2012). Ha in preparazione un’edizione nei Meridiani Mondadori di Tutte le poesie di Wallace Stevens.

GABRIELLA BAIRO PUCCETTI, nata a Perugia, vive a Rapallo (Ge). È Presidente del COMAC: (Consiglio Organizzativo Mondiale Arte e Cultura) che opera in ventotto Nazioni, con Sede a Città del Messico. È stata fondatrice (con Argan, Chiarini, Cucchetti, Fellini, Gatt, Pound) del Centro Internazionale per il Film d’Arte e Sperimentale, CIFAS e consulente per il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Ha fondato e diretto la Galleria d’Arte “Polymnia” in Rapallo dal 1963 al 1984. È referente culturale in Europa per Eco Global Arte con sede a Tlaxcala in Messico, membro della Commissione di Arte Sacra e co-fondatrice del Museo Diocesano di Chiavari, promotrice Culturale alla Pieve International School di Corciano (Pg) con convenzione dell’Università per Stranieri di Perugia. È stata membro per cinque anni della Giuria per la “Maschera d’Argento” a Campione d’Italia. Ha riletto i movimenti delle Avanguardie Storiche analizzandone le espressioni artistiche e i fatti storici che le hanno determinate. Ha realizzato numerosi film televisivi e per i circuiti normali e spettacoli teatrali in Italia e all’estero, di cui è stata oltre che regista anche scrittrice, sceneggiatrice e produttrice.

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DONATELLA BISUTTI di poesia ha pubblicato Inganno Ottico (Guanda, 1985, premio Montale Inedito, tradotto da Bernard Noël in Francia 1989); Penetrali (Boetti & C., 1989); Violenza (Dialogolibri, 1999); La nuit (Éditions Unes, 2000); Bestiario Fantastico (Viennepierre, 2002); La Vibración de las Cosas (Madrid); Colui che viene (Interlinea, 2005, premio Camposampiero e Davide Turoldo); The Game (New York, Gradiva, 2007), Sulla poesia: L’Albero delle Parole (Feltrinelli, 2002); Le Parole Magiche (Feltrinelli, 2008); La Poesia salva la vita (Mondadori, 1992, Feltrinelli Tascabili, 2009); il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri è uscito da Bompiani (1997). Redige La poesia italiana all’estero su “Poesia”. Nel 2011 è uscito Rosa Alchemica (Crocetti) che ha vinto il Premio Lerici Pea, Premio Camaiore, Premio Laudomia Bonanni Città de L’Aquila e nel 2013 Un amore con due braccia (Lietocolle, Premio Alda Merini, prefazione di M. L. Spaziani). Ha fondato nel 2008 la rivista “Poesia e Spiritualità”. SANDRO BOCCARDI è nato a Villanova Sillaro (Lodi) nel 1932. Il suo esordio poetico è del 1963 con A dispetto delle sentinelle (collana Oggetto e simbolo diretta da Luciano Anceschi, Magenta Ed.). Seguono quattro raccolte All’insegna del pesce d’oro di V. Scheiwiller. Nel 1965 La città (con prefazione di Carlo Bo); nel 1967 Durezze e ligature; nel 1973 Ricercari; nel 1978 Le tempora. Nel 2006 esce Sonetti per gioco e rancore (LietoColle). Nel 2008 À l’heure des cendres (Istituto Ital. di cultura, Parigi). Sempre nel 2008 Quadernetto per Giacomo Sebastiano Sisimo (ed. f.c.). Ha vinto il Premio Cervia 1969 e il Bonfiglio 1974. Del 2011 è la raccolta Partiture d’acqua e di terra (poesie, Nomos Edizioni). Appassionato di musica ha fondato e diretto per sei lustri (19762006) la rassegna Musica e poesia a S.Maurizio (Premio Franco Abbiati 1996-97 della Critica Musicale come migliore iniziativa) nell’ambito della quale sono da ricordare anche la promozione del restauro del cinquecentesco organo Antegnati di San Maurizio, la costruzione del grande organo Ahrend 1991 per la Basilica di San Simpliciano e l’ideazione del ciclo di tutte le Cantate di Bach realizzato nell’ambito di un decennio. Nel 2010 ha interpretato la figura di J.S. Bach nel film-dvd di Francesco Leprino Sul nome B.a.c.h. Per quanto concerne la poesia, si ricorda, infine, la direzione della collana del Bicordo per le edizioni Galleria 32 di Alfredo Paglione, che negli anni Settanta ha pubblicato poesie di Sereni, Gunter Grass e la prima raccolta dialettale di Franco Loi. 281


MARIA GRAZIA CALANDRONE, nata a Milano nel 1964, vive a Roma. Poetessa, drammaturga, artista visiva, performer, operatrice culturale, scrive per “Il Manifesto”, “La 27ora” del “Corriere della Sera” e cura la rubrica Cantiere Poesia su “Poesia”. Tiene laboratori di poesia nelle scuole e nelle carceri. Libri: Pietra di paragone (Tracce, 1998 – edizione-premio Nuove Scrittrici 1997), La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) La macchina responsabile (Crocetti, 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle, 2010), L’infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox cd di sue letture dei propri testi (luca sossella, 2011), La vita chiara (transeuropa, 2011) e Serie fossile (Crocetti, 2015); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012); la sua prosa Salvare Caino è in Nell’occhio di chi guarda (Donzelli, 2014). Dal 2009 porta in scena in Italia e in Europa il videoconcerto Senza bagaglio (finalista “Roma Europa webfactory” 2009), realizzato con Stefano Savi Scarponi; comincia nel 2013 una collaborazione con Cult Book (Rai 3). Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it

MARINA CANTA, nata a Milano l’11 novembre 1990, è attualmente una studentessa di laurea magistrale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove studia Filologia moderna. Laureatasi nel dicembre 2013 con una tesi di psicocritica in Letteratura moderna e contemporanea, nel maggio 2013 ha pubblicato per Educatt il saggio firmato e la prefazione a Film da sfogliare. Dalla pagina allo schermo. Ha, inoltre svolto, alcuni lavori redazionali per Mondadori come collaboratrice esterna. Nel settembre 2014 ha conseguito il diploma di Master di primo livello in Media Relations e comunicazione d’impresa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. In quest’ambito lavora dal 2009 occupandosi di giornalismo e ufficio stampa per la Croce Rossa Italiana e per alcuni privati come ufficio stampa e content editor. Collabora inoltre con la rivista letteraria online Letteratura.bit

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LUISELLA CARRETTA vive e lavora a Genova. Ha trascritto il volo degli uccelli e delle api lavorando anche con Giorgio Celli ed esponendo alla Biennale di Venezia. Ha al suo attivo molte mostre internazionali sul tema arte/ natura/scienza confluite nella Mostra Antologica al Museo d’Arte Contemporanea di Genova nel 1995. All’inizio degli anni Novanta nasce il suo progetto di creatività nomade con esperienze d’isolamento in natura. Tra i suoi libri: Atelier nomade (Campanotto, 1998); Non volevo vedere l’orso (Campanotto, 2002); Il mondo in una valigia /Atelier nomade 2 (Campanotto, 2002); Rapaci in volo (Pirella, 1988); Etogrammi nel cielo (Arti Grafiche Sobrero, 1990); Intorno ad Atlantide (Arti Grafiche Sobrero, 1992); In volo con le api (Campanotto, 2000); I Segni del Movimento (Campanotto, 2011). Con Vincenzo Ampolo ha curato Dissociazione e Creatività/ La transe dell’artista (Campanotto, 2005). Dal 1987 dirige l’attività dell’Associazione culturale Le Arie del Tempo. Il suo sito è www.luisellacarretta.it

ALBERTO CASIRAGHI vive a Osnago, in provincia di Como, in una casa che sembra uscita da un libro delle fiabe. Ha pubblicato numerose raccolte di racconti, poesie e aforismi: Nelle immediate lontananze (1983), Le ciliegie sono distratte (1985), Poesie di riserva (1987), Reliquie qualsiasi (1991), Aforismi sulla saggezza della morte (1992), Se gli angeli sono inquieti, con Alda Merini (1993), I segreti delle fragole (1993) e Aforismi amorosi (1994). Gestisce artigianalmente una casa editrice, le edizioni Pulcinoelefante, conosciuta e amata dai più raffinati cultori dell’editoria. Inoltre dipinge, ha avuto esperienze come liutaio, suona il violino. La musica la pittura e i torrenti (con i pesci) sono la sua musa ispiratrice dichiarata.

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VIVIANE CIAMPI è nata in Francia nel 1946. Vive in Italia dagli anni Settanta. Poeta e traduttrice da e per il francese è presente in antologie e riviste in Italia, in Francia e paesi francofoni. È cofondatrice della rivista d’arte e cultura online “Progettogeum” (www.progettogeum.org) e redattrice di “Fili d’Aquilone” online (www.filidacquilone.it). Collabora, dal 1998, come animatrice e traduttrice al Festival Internazionale di Poesia di Genova e ad Alliance Française della stessa città. Partecipa regolarmente a festival nazionali e internazionali di poesia sia come rappresentante della Francia sia dell’Italia (Le Printemps des poètes, Voix Vives de Méditerranée en Méditerranée di Sète, Rencontres des Suds). Ha pubblicato sette libri di poesia ed è curatrice dell’antologia Poeti del Quebec (Ed. Fili d’aquilone 2011). L’ultimo, Scritto nelle saline (Ed. Genesi 2014) ha vinto il Primo Premio assoluto “I Murazzi”, Torino.

MAURIZIO CUCCHI è nato a Milano nel 1945. Consulente editoriale e critico letterario, scrive su “La Stampa”, “Avvenire”, “Il Giorno”. Ha diretto la rivista “Poesia” (198991) e ha curato con Antonio Riccardi l’Almanacco dello Specchio (2015-12). Con Stefano Giovanardi ha curato Poeti Italiani del Secondo Novecento (Meridiani Mondadori 1996, Oscar 2004). Poesia: Il disperso, Mondadori Lo Specchio 1976; Le meraviglie dell’acqua (Mondadori 1980), Glenn (San Marco dei Giustiniani 1982 – Premio Viareggio 1983); Donna del gioco (Mondadori 1987); La luce del distacco (Crocetti 1990 – N.D. ampliata Jeanne d’Arc e il suo doppio, Guanda 2008); Poesia della fonte (Mondadori 1993, Premio Montale); L’ultimo viaggio di Glenn (Mondadori 1999); Per un secondo o un secolo (Mondadori 2003); Vite pulviscolari (Mondadori 2009); Malaspina (Mondadori, 2013, Premio Bagutta); Poesie. 1965-2000 (Oscar Mondadori 2001). Prosa: Il male è nelle cose (Mondadori 2005); La traversata di Milano (Mondadori 2007); La maschera ritratto (Mondadori 2011); L’indifferenza dell’assassino (Guanda 2012); Cronache di poesia del Novecento (Gaffi 2010.) Tra le traduzioni dal francese Stendhal (Romanzi e racconti, i Meridiani Mondadori). Dirige La collana di poesia per “La Stampa” e l’almanacco “Quadernario” per LietoColle. 284


ROSITA D’AMORA, è nata a Cava dei Tirreni nel 1971, è docente di Lingua e Letteratura Turca presso l’Università del Salento. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla storia sociale ottomana alla narrativa turca contemporanea, con particolare attenzione ai testi biografici e alle scritture che scaturiscono dalla differenza, quali quelle che riflettono tematiche di genere e quelle che vengono elaborate in aree turcofone fuor di Turchia. Tra le sue pubblicazioni vi sono le voci Letteratura Turca e Orhan Pamuk per l’Enciclopedia Italiana (Treccani XXI secolo – VII Appendice) e il saggio Percorsi orientali di scrittura femminile per l’opera Treccani Terzo Millennio (2009). Su Mehmet Yashin ha curato e tradotto la raccolta antologica Il Drago ha anche le ali (Lecce, Argo, 2008) e ha tradotto, in collaborazione con Anna Lia Proietti, il romanzo Il vostro fratello del segno dei pesci (Roma, Gremese, 2010). È inoltre autrice del saggio Writing through osmotic borders: boundaries, liminality and language in Mehmet Yashin’s poetics in Thinking on the Threshold, a cura di Subha Mukherji, London-New YorkDelhi, Anthem Press, 2011.

MAURA DEL SERRA, poetessa, drammaturga, critica letteraria e traduttrice (dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo) è comparatista nell’Università di Firenze. Dal 1978 al 2006 ha pubblicato nove raccolte poetiche, l’antologia Corale (Newton Compton 1995) e il volume L’opera del vento (Marsilio 2006) con tutti i suoi testi editi ed alcune poesie inedite. Ha dedicato volumi critici a Campana, Pascoli, Ungaretti, Rebora, Jahier, Guidacci e saggi a numerosi poeti e scrittori italiani ed europei. Ha tradotto: Q.T.Cicerone, E.LaskerSchüler, G.Kolmar, C.Koschel, G.Herbert, F.Thompson, W. B. Yeats, V.Woolf, K.Mansfield, D.Barnes, M.Hamburger, J.Wright, D.Parker, Proust, S.Weil, V.Segalen, J.Inés de la Cruz, J.L.Borges. Ha pubblicato quindici testi teatrali ambientati dal periodo ellenistico alla contemporaneità. Ha partecipato a festival e a reading poetici in Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Svezia e U.S.A. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali, fra cui il Premio Montale (poesia), il Premio Betocchi (traduzione), il Premio Flaiano (teatro). Nel 2000 le è stato assegnato il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Suoi testi poetici e teatrali sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, portoghese, catalano, greco, rumeno, russo e svedese. 285


PAOLA DI PRIMA è nata in Italia. Vive e lavora in Francia nell’Aude. Autrice multimediale, utilizza mezzi di vario genere, tra cui la fotografia, la pittura e la videoproiezione. Fin dal 1971 si è interessata sia alla fotografia, frequentando un atelier, sia al disegno, come autodidatta. Viaggia, dal 1977 al 1980 si stabilisce a Napoli, poi rientra in Francia, dove vive alternando la città alla campagna. Nel 1985 riprende gli studi alle Belle Arti e, nel 1990, ottiene il DNSEP (Diplôme National Supérieur d’Études Plastiques, con lode della giuria), sviluppa il proprio lavoro ed espone sia in Francia che all’estero. Dal 1991 al 1993 soggiorna in qualità di artista invitata in India e nel Nepal per workshop di pittura-collage e incisione contemporanea in scuole d’arte. Dal 1995 a oggi lavora in scuole medie, licei, prigioni come insegnante associata in arti lastiche. Dal 1999 al 2004 insegna arti plastiche nella scuola media. Dal 2006 crea libri d’arte, insieme a scrittori e poeti.

ASHUR ETWEBI, nato a Tripoli nel 1952, vive in un piccolo villaggio ad ovest di Tripoli. È medico, poeta e traduttore. Membro della Lega degli scrittori libici ha pubblicato sei raccolte poetiche, tra cui Le poesie del balcone (1993). Ha tradotto tre libri in lingua araba: un’antologia di poesia mondiale, le opere di Vicente Huidobro e un’antologia di Haiku giapponesi del quarto secolo. Tra le sue opere va inoltre annoverato il romanzo Dardanin (2001). Risale a quest’anno la sua raccolta antologica Poems from above the Hill: Selected Poems of Ashur Etwebi, pubblicata da Free Press Editino, Parlor Press, con traduzione a cura di Brenda Hillman e Diallah Haidar.

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ROSA ELISA GIANGOIA, insegnante, scrittrice e saggista, ha pubblicato tre romanzi (In compagnia del pensiero, 1994; Fiori di seta, 1998; Il miraggio di Paganini, 2005), un prosimetron (Agiografie floreali, 2004), un saggio di gastronomia letteraria (A convito con Dante), 2006), un’edizione delle Bucoliche di Virgilio con annotazioni in latino (2008), le raccolte poetiche Sequenza di dolore (2010) e La vita restante (2014), il volumetto di riflessioni sulla poesia Appunti di poesia (2011) ed il testo teatrale in poesia Margaritae animae ascensio (2014). Per l’Assessorato alla Cultura della Regione Liguria ha realizzato con Laura Guglielmi la collana Liguria terra di poesia (19962001) e per la Provincia di Genova, con Margherita Faustini, le antologie Sguardi su Genova (2005) e Notte di Natale (2005). Con Lucina Margherita Bovio ha curato l’antologia di poesie-preghiere Ti prego (2011). Ha pure curato le antologie di poesie su Genova Tenui bagliori di pitosforo (2012) e sulla Liguria Liguria schegge di poesia (2013) e Tra l’ulivo e la mimosa, il mare (2014); I suoi racconti sono compresi nei volumi Il delirio e la speranza (2012), Tra parole e immagini (2013) e Amori dAmare (2014). Fa parte della redazione della rivista Satura e ha ideato e cura la newsletter di Lettera in Versi.

ELIO GIOANOLA, nato a san Salvatore Monferrato nel 1934, ha insegnato Letteratura Italiana per trent’anni alla Facoltà di Lettere dell’Università di Genova. Ha pubblicato più di trenta libri, tra cui un manuale di letteratura italiana con relativa antologia, una Storia letteraria del Novecento in Italia (1975 e ristampe), Poesia italiana del Novecento, testi e commenti (1986), Il Decadentismo (1972 e ristampe), Leopardi la malinconia (1995), Pirandello la follia (1997), Giovanni Pascoli. Sentimenti filiali di un parricida (2000), Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio (2003), Carlo Emilio Gadda. Topazi e altre gioie familiari (2004), Psicanalisi e interpretazione letteraria (2005), Pirandello’s story (2007), Svevo’s story (2009), Eugenio Montale. L’arte è la forma di vita di chi veramente non vive (2011), oltre ai romanzi Prelio.Storia si oro e stricnina (1999), Martino de Nava ha visto la Madonna (2002), Giallo al Dipartimento di Psichiatria (2006), Maìno della Spinetta, re di Marengo e imperatore delle Alpi (2008), Don Chisciotte Fausto Coppi e i misteri del castello (2010), La Grande Guerra di un povero contadino (2013). 287


PAOLO LAGAZZI nato a Parma vive a Milano. Di saggistica ricordiamo Rêverie e destino (Garzanti 1993); Per un ritratto dello scrittore da mago (Diabasis 1994, Moretti & Vitali 2006); Vertigo. L’ansia moderna del tempo (Archinto 2002); La casa del poeta (Garzanti 2008); Forme della leggerezza (Archinto 2010); Otto piccoli inchini (Albatros 2011); Le lucciole nella bottiglia (Archinto 2012); La stanchezza del mondo (Moretti & Vitali 2014), oltre a un libro intervista con Attilio Bertolucci, All’improvviso ricordando (Guanda 1997), tradotto in giapponese (Shicho-sha,Tokyo 2009), due libri di fiabe (La scatola dei giochi, 2000, La fogliolina, 2006), uno di racconti (Nessuna telefonata sfugge al cielo, Aragno 2011), L’intervista immaginaria (Mondo Uovo. Dialogo veritiero con l’uovo di Colombo, La Vita Felice 2013) e il romanzo Light stone (Passigli 2014). Ha curato i Meridiani di Bertolucci, Citati e Spaziani (2012). Ha compilato quattro antologie di poesia giapponese.

VIVIAN LAMARQUE è nata a Tesero (Trento) nel 1946. È sempre vissuta a Milano, dove ha insegnato italiano agli stranieri e letteratura in istituti privati. Nel 2002 la sua opera poetica è stata integralmente raccolta nell’Oscar Mondadori Poesie 1972-2002. Nel 2007 ha pubblicato Poesie per un gatto (Mondadori, ristampato poi nel 2013), nel 2009 La Gentilèssa, versi in dialetto milanese. Tra i riconoscimenti per la sua poesia il Premio Viareggio Opera Prima (1981), il Premio Montale (1993), il Pen Club (1996), il Camaiore (2003), l’Elsa Morante (2005), il Cardarelli Tarquinia (2006). Nel 2008 le è stato conferito l’Ambrogino d’oro. Nel 2013 il premio Alda Merini e nel 2014 il Premio Giuseppe Tirinnanzi alla Carriera. È anche autrice di una quarantina di fiabe tradotte in varie lingue (Premio Rodari 1997, Premio Andersen 2000) e delle raccolte Poesie di Ghiaccio e Poesie della Notte. Per la collana musicale Fabbri ha creato testi su opere di Mozart, Stravinskij, Ciaikovskij, Prokofiev, Schumann e Chopin. Ha tradotto, tra gli altri, Valéry, Baudelaire, La Fontaine. Nel 2013 è uscito Gentilmente Milano, selezione di suoi articoli sul “Corriere della Sera”.

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ELVIRA LANDÒ, nata a Chiavari, laureata in filosofia all’Università di Genova con lode e medaglia d’argento, vinse la cattedra per l’insegnamento sia di Storia e Filosofia sia di Storia dell’Arte. Socia della Società Economica di Chiavari dal 1965, vi ha ricoperto dal 1999 al 2006 l’incarico di direttore responsabile del Museo Lorenzo Garaventa, della Quadreria e del Museo Storico, quindi ha curato la pubblicazione dei Cataloghi del Museo Garaventa (2001) e del Museo del Risorgimento (2006), la sezione più importante del Museo Storico. Ha organizzato convegni e svolto conferenze su temi filosofici, storici, artistici, pedagogici. Collabora a Riviste con saggi e ricerche. Ha pubblicato nel 1991 per l’infanzia: Le piccole storie della sera, nel 2009 il volume di poesia La farfalla e la scatola; nel 2011 Un altro sguardo, nato dalla tragedia della parola inadeguata e dalle difficoltà di sgrovigliare l’universo dei sentimenti.

VITTORIO MAZZUCCONI, nato a Grosseto nel 1929, è un umanista dai molteplici interessi. Come architetto è presente a livello internazionale con opere a Parigi, Atene, Roma, Berlino, Firenze, Milano e in altre città. Come urbanista ha elaborato una filosofia della città, che ne affronta i problemi nelle prospettive aperte da un’immaginazione creativa. Si vedano i suoi libri La Città a Immagine e Somiglianza dell’Uomo (Hoepli 1967) con il progetto di una ideale metropoli e La Città Nascente (Dedalo 1985) che ci parla di una nuova Firenze. Mazzucconi si è espresso anche in molti libri filosofici, fra cui Il Lavoro spirituale (Moretti&Vitali2010), Parlando con Benedetto, Arte e Psiche, Sentimento e Ragione (Mimesis 2012-13) e in una rilevante opera pittorica, profondamente intessuta con un’esperienza spirituale.

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GIULIA NICCOLAI è nata a Milano nel 1934, dove vive e lavora. Negli anni Settanta fondò e diresse con Adriano Spatola la rivista di poesia “Tam Tam”. Nel 1985, dopo una grave malattia, ha incontrato il Buddismo tibetano del quale è monaca dal 1990. Opere: Il grande angolo (Feltrinelli, 1966); Poema & Oggetto (Geiger, 1974); Harry’s Bar e altre poesie (Feltrinelli, 1981; Frisbees – poesie da lanciare (Campanotto, 1994 – Premio Feronia, 1995); Esoterico biliardo (Archinto, 2001); La misura del respiro (Premio speciale della giuria Lorenzo Montano – Anterem, 2002); Le due sponde (Archinto, 2006); Poemi & Oggetti (Le Lettere, 2012); Frisbees della vecchiaia (Campanotto, 2012); Cos’è ‘poesia’ (Edizioni dei verri, 2012); ripubblicazione de Il grande angolo, Oèdipus, 2014. È presente in diverse antologie italiane e straniere. Nel 2006 le fu conferita l’onorificenza di Grande Ufficiale dal Presidente Ciampi.

MARIA ROSA PANTÉ, vive a Borgosesia, dove insegna. Collabora ai siti www.personaedanno.it; www.bibliomanie. it; www.gaianews.it, www.agoravox.it e alla rivista online Griselda. Ha pubblicato la raccolta poetica L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito, Campanotto 2004, finalista ai Premi Alfonso Gatto e Gaetano Viggiani, menzione al Premio Lorenzo Montano, i racconti “Noi che non fummo Muse”, Manni 2006, il romanzo Non ho l’età, Zerounoundici Edizioni 2010, e saggi nelle antologie Animali della letteratura italiana e Banchetti letterari, ed. Carocci. Ha scritto testi per la rassegna Teatro e scienza: La strega Agnesi (sulla milanese Maria Gaetana Agnesi), Premio Città di Trieste, 2008; Intervista a Margherita Hack, 2009; Casorati arte e scienza, 2010, insieme a Lucilla Giagnoni, con cui ha collaborato anche per i testi degli spettacoli Big Bang, 2009; Apocalisse, 2011; Ecce Homo, 2013 e la Meditazione sulla Pacem in Terris (2015). Ha scritto il soggetto del video vincitore del concorso per le biblioteche “A corto di libri” del 2013 e sempre nel 2013 ha vinto il Premio “Insegnare poesia” del Festival di poesia di Genova, pubblicato in www.campustralenuvole.it, di cui è coordinatrice.

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ANTONIO PARENTE (1964) traduce testi letterari dal finlandese, dal ceco e dall’inglese. Ha pubblicato traduzioni di poesia contemporanea su molte riviste italiane e ha curato e tradotto una quindicina di volumi antologici. Come comeniologo ha scritto articoli e saggi sulla “Panglottia e alcune voci per l’Encyclopaedia Comeniana”. Ha sottotitolato un gran numero di film anche per manifestazioni internazionali come la Mostra del Cinema di Venezia, il Festival di Milano e di Karlovy Vary. Insieme alla moglie Viola Čapková ha ricevuto il Premio nazionale per la traduzione letteraria del 2004, conferito dal Ministro della Cultura Finlandese. Tiene corsi e seminari di traduzione letteraria in varie Università. Scrive anche poesie, alcune pubblicate in antologie.

ELIO PECORA, nato nel 1936 a Sant’Arsenio (Salerno), abita a Roma. Dirige il quadrimestrale internazionale “Poeti e Poesia”. Libri di poesia recenti: Simmetrie (Mondadori, 2007); La perdita e la salute (I quaderni di Orfeo, 2008); Tutto da ridere? (Empiria, 2010); Nel tempo della madre (La vita felice 2011); In margine e altro (Oedipus 2011); e nelle edizioni Orecchio Acerbo L’albergo delle fiabe (2007), Un cane in viaggio (2011), Firmino e altre poesie (2014). I suoi libri di prosa: Estate (Bompiani 1981); Sandro Penna: una biografia (Frassinelli 1984, 1990, 2006); I triambuli (Pellicano 1985); La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane (Frassinelli 1992); L’occhio corto (Il Girasole, 1995); Queste voci, queste stanze (Empiria, 2009); La scrittura immaginata (Guida, 2008). Per il teatro i testi rappresentati: Alcesti (1984); Pitagora (1987); Prima di cena (1987, Premio IDI); Nell’altra stanza (1989); Il cappello con la peonia, 1990; A metà della notte (1992); Trittico (1995). Radiocommedie trasmesse: Il giardino (Radio Tre 1996); Il segreto di Lucio (RadioTre 1997). Nel 2009 una raccolta di testi teatrali Teatro Bulzoni e una scelta di scritti letterari La scrittura immaginata (Guida). Nel 2012 La scrittura e la vita (conversazioni con Francesca Sanvitale) per Aragno.

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DARIO FRANCESCO PERICOLOSI è nato a Milano nel 1958, dove vive e lavora. Designer, blogger, storyteller, autore ed editore, ha pubblicato in proprio: Via Plinio (poesie, 1986); Parole d’acquerello (coproduzione con Maria Luca poesie, 1999); e-iliade (poesie, 2000); Poetica-mente (poesie, 2002); Lambro (poesie, 2005); Terra forzata (poesie, 2008); Poesie e racconti (antologia multimediale, 2011); Le stelle mi guardano benevole (racconto per azienda, 2011); Il profumo dei colori (racconto per azienda, 2011). Ha pubblicato con la piattaforma Narcissus gli ebook: Il rivenditore di stelle zuccherate (racconto, 2014); Il Natale del Signor Bonefeste (racconto, 2014); Viaggio nella storia della poesia italiana (racconti, 2015). Nel 2006 ha vinto il primo premio del concorso milanese “Poeti in galleria” organizzato da Alba Libri editore. Nel 2011 ha messo online il blog “Calcio alla Poesia”. Dal 2013 è blogger director del giornale web “Odissea” diretto da Angelo Gaccione. Fa parte del gruppo “I Poeti dell’Ariete”.

SILVIO RAFFO della Porta, Silvio Raffo della Porta, nato a Roma, vive a Varese, dove insegna al liceo e all’Università. Ha fondato il centro di cultura creativa “La Piccola Fenice”. Ha pubblicato libri di poesia, di narrativa, di saggistica e teatro. Per la poesia ricorderemo: Lampi della Visione (Crocetti 1988, Premio Gozzano); Canti della clausura e del deserto (Poeti del Premio Montale 1989; Maternale ( NEM 2007, Premio Città di Salò); Al fantastico abisso (Nomos 2011, Premio Valdicomino) e, in uscita da Robin, La vita irreale. Ha scritto il romanzo Mio padre René, ora edito da Robin, già vincitore nel 1971 del Premio L’Inedito e Eros degli inganni (Bietti 2013). Dal romanzo La voce della pietra (Il Saggiatore 1996) è stato tratto il film Voice from the Stone, in distribuzione nel 2015. E’ fra i traduttori del Meridiano della Dickinson (Tutte le Poesie, Mondadori 2013), e ha tradotto altre poetesse angloamericane, tra cui Christina Rossetti, Edna st.Vincent-Millay, Dorothy Parker, le sorelle Brontë, Sara Teasdale, Wendy Cope. Collabora alla rivista “Poesia” di Crocetti e a trasmissioni radiofoniche e televisive (Rai 5) sulla poesia. Della sua opera si sono occupati Natalia Ginzburg, Giorgio Barberi Squarotti, Elio Gioanola, Daria Menicanti, Margherita Guidacci e Maria Luisa Spaziani. 292


LUCIANO RAGOZZINO è nato e vive a Milano, dove ha conseguito il diploma alla Scuola superiore degli artefici di Brera. Ha collaborato, fra gli altri, con gli editori Pulcinoelefante, La Vita Felice, Interlinea, Fabrizio Mugnaini, Edizioni dell’Ombra, Lietocollelibri, Quaderni di Orfeo, illustrandone i testi con incisioni per le quali utilizza principalmente la tecnica dell’acquaforte. Vincitore di premi internazionali e del premio delle Arti e della Cultura a Milano per il settore della grafica (2005), pubblica in proprio le edizioni de Il ragazzo innocuo (anagramma del suo nome), in tiratura limitata.

FRANZISKA RAIMUND, nata nel 1944 a Bad Hall in Austria, vive a Vienna e a Hochstrass Lockenhaus nel Burgenland. Ha compiuto studi di germanistica e romanistica all’università di Vienna e ha svolto insegnamento universitario e nei licei per trenta anni in Austria, Francia e in Italia, di cui tredici anni all’United World College of the Adriatic / Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico a Duino (Trieste), prima come insegnante di tedesco e francese incaricata dal ministero austriaco, successivamente come direttore agli studi e infine come vice rettore. Ha tradotto dal francese (Marcel Proust, Kreusnach; Michael Peppiatt, Zoran Music) e dall’italiano (Elena Salibra, Guido Leotta).

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ANNA RUCHAT è nata a Zurigo nel 1959. Ha studiato filosofia e letteratura tedesca a Pavia e Zurigo. Tra gli autori che ha tradotto dal tedesco in molti anni di attività, vi sono Thomas Bernhard, Paul Celan, Nelly Sachs, Victor Klemperer, Mariella Mehr e Werner Herzog. Insegna attualmente presso le Scuole Civiche di Milano e dal 2002 si occupa della gestione dell’archivio del poeta Franco Beltrametti. Nel 2005 ha pubblicato il volume di poesie Geografia senza fiume (Campanotto) e, in collaborazione con la fotografa Elda Papa, il racconto Il male minore (Ed. Fondazione Beltrametti). Nel 2009 è uscita, in collaborazione con l’artista Giulia Fonti, la raccolta di poesie Angeli di stoffa (Pagine d’Arte) e, nel 2010, il romanzo breve Volo in ombra (Quarup). Nel 2012 sono state pubblicati la raccolta di poesie Terra taciturna e apocalisse con i disegni di Daniele Brolli (Campanotto) e il volume Il malinteso (Ibis). Da pochissimo è uscita la raccolta di prose e poesie Binomio Fantastico (Di Felice Edizioni).

ADEDELMO RUGGIERI (1954) vive e lavora a Fermo. Per l’editore peQuod ha pubblicato le raccolte di poesia La città lontana (2003), Vieni presto domani (2006) e Semprevivi (2009 e 2010). Le sue prose sparse sono raccolte nei libri: Porta marina – Il poggio (peQuod, 2008); I tetti sono semplici a Sali (Capodarco Fermano Edizioni; 2012); Subito o domani. Non è la stessa cosa (Italic, 2013).

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STEFANIA SCARNATI, scultrice, pittrice, incisore è nata a Milano, città in cui vive e lavora. Ultimati gli studi artistici, ha allestito, a partire dal 1975, innumerevoli personali di pittura, scultura ed incisione in Italia e all’estero. Numerose le rassegne d’arte a cui ha preso parte in Europa e negli Stati Uniti, conseguendo premi e riconoscimenti. Nel 2001 una sua personale con più di 80 opere viene presentata al Parlamento Europeo di Bruxelles. Nel 2002 presenta sculture e dipinti nella personale “Talismani di Luce” al Palazzo delle Stelline a Milano. Nel 2004 è inserita nel volume 40 e più donne per Milano edito da F. Motta Editore. Dal 2005 alle mostre di pittura, scultura e incisione si affiancano quelle di “sculture da indossare”: creazioni di arte orafa. Nel 2012, usando vini pregiati come pigmenti, presenta con l’Associazione Italiana Sommelier la personale dal titolo “Vino su Tela”. Nel marzo 2014, invitata dalla Provincia di Milano, è presente a Palazzo Isimbardi con la personale “Respiro” con più di 20 incisioni in acquaforte pubblicate nel libro omonimo. Nel maggio 2015 più di 70 grafiche monotipo, realizzate con tecniche sperimentali, vengono presentate nella personale allestita da Miroglio Piazza della Scala a Milano, patrocinata dal Club Zonta di cui l’artista fa parte dal 1999. Innumerevoli i Volumi e i Libri d’Artista con opere di Stefania Scarnati, corredati dai suoi testi o da composizioni poetiche di artisti contemporanei. Tutta la produzione di Stefania Scarnati è denominata Artépore® dal greco “pore, porèia”, ossia cammino, percorso. Il suo sito è www.stefaniascarnati.net STEFANIA SEGATORI è nata a Civitavecchia nel 1981 e vive a Ghedi in provincia di Brescia. È insegnante e dottore di ricerca in Culture dell’area adriatica e del Mediterraneo orientale con una tesi su Ippolito Nievo, vincitrice del Premio Fondazione Ippolito e Stanislao Nievo nel 2011 e pubblicata con Olschki nello stesso anno. Si è laureata in Lingue straniere con una tesi dal titolo Da Napoli a Parigi. Salvatore Di Giacomo traduttore dei Goncourt (Roma, Aracne, 2011), ha frequentato il Corso di Alta Formazione in Civiltà italiana presso la Fondazione Cini a Venezia, ha pubblicato il romanzo inedito Lia o la fanciulla ebrea di Giovanni Battista Intra (Bologna, Millennium, 2009). Ha pubblicato saggi su Ippolito Nievo su riviste nazionali ed internazionali (Poetiche, Esperienze letterarie, Quaderni d’Italianistica, Mosaico italiano, Incontri. Rivista europea di studi italiani) e presenta i risultati delle proprie ricerche ai Congressi nazionali ADI e MOD. Attualmente collabora con la cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia ed attende alla pubblicazione della monografia su Elena Bono. 295


PIERANGELO SEQUERI, nato a Milano il 26/12/1944, è Preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e professore ordinario di teologia fondamentale. È membro della Commissione Teologica Internazionale. La sua ricerca è principalmente dedicata alle intersezioni della teologia con l’antropologia culturale e l’estetica filosofica. Fra i volumi pubblicati si possono ricordare: Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale (Brescia 20084); Il timore di Dio (Milano 1993); L’estro di Dio. Saggi di estetica (Milano 2000); L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite (Milano 2002); La risonanza del sublime. L’idea spirituale della musica in Occidente (Studium, Roma 2008); Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento con F. Riva (Cittadella, Assisi 2009).

CARLO SEVERGNINI, nasce a Milano nel 1952. Oltre all’attività di professionale di commercialista ha diversi altri interessi e partecipa attivamente a vari enti e associazioni non profit e di volontariato. Storico dell’equitazione ha pubblicato: A cavallo nel milanese (Fucina Editori, 2000) e I cavalli, i cani, e… la volpe? (Società Milanese per la Caccia a Cavallo, 2001). Appassionato di viaggi alla ricerca de “l’altro rispetto a noi” ha pubblicato: Confini di sabbia (Edizioni Nuove Scritture, 2005), La strada del Sempione e i Visconti in Milano verso il Sempione, raccolta di saggi a cura di Roberta Cordani (CELIP 2006) e A cavallo nel Bel Paese e altrove in Viaggiar Lento, raccolta di saggi a cura di Roberto Lavarini (Hoepli, 2008). Ha pubblicato la raccolta di poesie per un Tempo più Lento (Bolzani, 2013).

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NICOLA SGUERA è nato il 20 giugno 1967 a Benevento, ove risiede ed insegna Filosofia e Storia nel Liceo “Pietro Giannone”. Di formazione classica, si laurea a Roma in Lettere con Biancamaria Frabotta, discutendo una tesi sul simbolo e l’allegoria nell’opera poetica di Franco Fortini. Nel 1992 costituisce a Benevento l’associazione “La rosa necessaria” poi divenuta anche rivista, strumento d’indagine dalla provincia meridionale della poesia e della cultura italiana. Nel 2010 ha curato la prima edizione della rassegna Poesia in forma di rosa, dedicato alla poesia contemporanea. Nella sua vita intellettuale cerca di coniugare una spiritualità post-religiosa (secondo la lezione di Bonhoeffer, Illich e la Weil), un pensiero post-filosofico (memore della lezione di Martin Heidegger), la poesia come luogo privilegiato della verità (guardando ad autori come Celan, Char e Bonnefoy) e l’impegno civile con una forte connotazione ecologica. Tracce di questa ricerca si trovano nella raccolta di saggi In quieta ricerca (Percorsi editore, 2012). Ha pubblicato una raccolta di versi: Per aspera (Delta 3 Edizioni, 2013).

SIMONE SIBILIO è assegnista di ricerca in letteratura araba contemporanea presso l’Università Ca’Foscari di Venezia. Insegna inoltre lingua e cultura araba allo IULM di Milano. Si occupa prevalentemente di letteratura, cinema e media arabi. Autore di saggi di critica letteraria e di traduzioni di poesia araba, ha recentemente pubblicato Nakba. La memoria letteraria della catastrofe palestinese (Edizioni Q, Roma 2013) e curato il volume Voci dal mondo arabo. Cronache e testimonianze delle transizioni in Egitto, Siria, Tunisia e Yemen (Apes, Roma 2014).

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ELINA SUOMELA-HÄRMÄ è nata e vive a Helsinki. Dopo essersi addottorata con una tesi sulle Structures narratives dans le Roman de Renart, è stata ricercatrice presso il CNR finlandese. Ha insegnato filologia romanza, lingua e letteratura finnica e letteratura francese medievale alle università di Helsinki, di Paris III Sorbonne La Nouvelle, di Paris VII e di Tampere (Finlandia) ed è attualmente professore di filologia italiana all’università di Helsinki. Ha pubblicato numerosi studi su lingua e letteratura francese e italiana e curato l’edizione critica della versione in prosa di Renart le Nouvel e la traduzione francese dei Trionfi di Simon Bourgouin (con Gabriella Parussa).

CARMEN TOGNI è nata a Castellarano e vive a Casalgrande in provincia di Reggio Emilia. Da sempre si è dedicata alla scrittura di prosa e poesia, occupandosi dei temi sociali e del vissuto del suo paese: l’Italia. Ha pubblicato numerosi libri e anche un dvd nel quale ha interpretato brani del musicista Paolo Gandolfi, il quale a sua volta ha messo in musica una poesia che Carmen ha scritto alcuni giorni dopo la morte della poetessa Alda Merini, dal titolo Canto ultimo per Alda Merini, primo premio al concorso nazionale “Emozioni in bianco e nero” del 2009 delle Edizioni Del Poggio. Ha in preparazione per la rappresentazione in teatro il monologo … E dal silenzio, ispirato alla strage del 2 agosto 1980 a Bologna.

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MANDO TOURAINE nata nei dintorni di Parigi, dopo avere a lungo viaggiato vive attualmente nel sud della Francia a Saorge, nelle Alpi Marittime, dove ha aperto una galleria d’arte, la Galérie Medge. Da non molto tempo ha iniziato a dedicarsi alla fotografia, specie alla macrofotografia, e le sue opere hanno attirato l’attenzione tanto che è stata invitata a partecipare ad alcune importanti mostre collettive a Nizza e nel territorio.

PIERANGELO TRONCONI è nato il 23 marzo 1921 a Rovescala (Oltrepò Pavese). Appena dodicenne ha i primi “rivoluzionari” insegnamenti da Oswaldo Bot, pittore futurista piacentino. Adolescente frequenta lo studio di Uberto Rognoni, sensibilissimo pittore milanese post impressionista, vicino a Bonnard. In realtà si può dire autodidatta. Solo nel 1962 con una “personale” alla “Galleria Vinciana” di Milano ha i primi riconoscimenti esponendo “il suo mondo” in quel contesto storicoculturale indirizzato a dare a new image of man come allora si diceva da un fortunato libro americano. Per questo Tronconi ama definirsi contenutista, secondo un aggettivo coniato da Piero Calamandrei. Da quel momento è invitato a molte delle maggiori rassegne nazionali e internazionali, segnalato da alcuni critici come uno dei più stimolanti artisti della nuova figurazione.

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SILVIA VENUTI ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Milano. Nei suoi lavori, la parola s’inserisce nel tessuto pittorico che assume una connotazione letteraria volta al trascendente. Per la qualità spirituale del suo lavoro, ha tenuto numerose personali in spazi sacri, tra i quali la Sagrestia di Santa Maria delle Grazie e la Chiesa di S. Angelo a Milano, il Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco ad Assisi, San Zenone a Brescia, San Bernardino a Vercelli, Sala Veratti, Musei Civici a Varese. Il suo percorso artistico è stato presentato da Rossana Bossaglia in I giardini dell’anima (Mondadori, 2007) e in La sacralità naturale (2008). Ha pubblicato con le Edizioni Del Leone le raccolte poetiche Allieva della vita (1999) introdotta da Silvio Raffo; Le parole necessarie (2002) da Paolo Ruffilli; Nelle ragioni della vita (2005) da Giorgio Bàrberi Squarotti. Più recentemente ha pubblicato Oltre il quotidiani (Moretti&Vitali, 2009 – Premio Mirella Cultura Ponte di Legno), introdotta da Giancarlo Pontiggia e La visione assorta, (Interlinea, 2012 – Premio Camposampiero), presentata da Tomaso Kemeny. Vive e lavora in provincia di Varese, dove è nata.

CARLO VITA, nato a Verona nel 1925, si autodefinisce un giornalista passato all’industria. Attività di comunicazione aziendale a Genova e Milano. Direttore della “Rivista Italsider” (1960-65). Nel tempo libero: poesia e prosa, pittura, incisioni, illustrazioni, collaborazioni a riviste letterarie e d’arte, iniziative artistiche, editoriali e altre “amabili fanfaluche”, come lui usa dire. Versi: Illusioni ottime (Campanotto 2006). Varie edizioni private per gli amici, tra cui: Felicità raggiunta, si cammina (1974 – n.ed. Il Canneto 2010), Hai q? (2003), Piccola antologia di Grê (2005). Premio Lerici Pea di poesia 2008 per l’inedito. È uscito Contare i sassi nel 2011 (Il Canneto).

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MEHMET YASHIN (Yaşın), è nato nel 1958 a Neapolis, Cipro, e vive fra Cambridge, Istanbul e Nicosia e insegna letterature comparate, traduzione, scrittura creativa e letteratura turca nelle università dei tre Paesi. Ha pubblicato otto raccolte poetiche, due romanzi, tre saggi e un’antologia sulla poesia cipriota. È stato tradotto in venti lingue, tra cui in Inghilterra Francia Italia Olanda e Paesi Baltici. La sua prima raccolta ha avuto il 1985 Turkish Academy Poetry Prize e il A. Kadir Poetry Prize e il suo primo romanzo, il 1995 Cevdet Kudret Novel Prize Il suo saggio su 3000 anni di poesia cipriota multilingue ha avuto il premio 2005 Memet Fuat Literary Criticism and Studya Istanbul. La sua prima raccolta di poesia in inglese ha avuto la segnalazione del British Centre for Literary Translation. Inoltte sono usciti: I nostri fratelli del segno dei pesci, romanzo (Gremese, 2010); Il drago ha anche le ali, poesia, trad, Rosita D’Amora (Argo, 2008); Le ore del confino.

Dove mancano le foto è per rispetto della volontà dell’autore.

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Christine Lavant tradotta da Anna Ruchat

Ricordo di Elena Salibra

Elena Bono: un caso letterario

I Diari di Mark Strand


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