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Recensioni

ANTONIO CRECCHIA GIUSEPPE IULIANO

POETA IN VENA LIRICA E SATIRICA

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Delta 3 Edizioni (AV), 2022, pp 159, € 10,00.

Ci sono parole, ad esempio quando risultano collocate in versi, alcune volte che riescono a mettere in ‘ginocchio’ la ragione, che ‘ossificano’ le parti molli dei sentimenti instabili, ovvero quegli umani impulsi che non si sono accreditati abbastanza nel tempo così da restare ardenti patimenti per qualcuno, per qualcosa, per una causa di cui valga la pena lottare anche con la penna.

E parafrasando un’opera saggistica di Carlo Levi del 1955, Le parole sono pietre nel momento in cui riescono a soverchiare l’ordinaria intelligenza andando al di là degli stessi intendimenti di chi le aveva vergate su carta, nel senso che una volta raggiunto il foglio bianco si spera che le parole intraprendano una corsa verso la direzione dettata dall’autore verso il probabile cambiamento positivo da lui agognato.

Quando lo scrittore e pittore torinese (laureato in medicina), Carlo Levi (1902-1975), scrisse il suo capolavoro del 1945, Cristo si è fermato a Eboli, dopo essere tornato dal confino ad Aliano, in Lucania, dove era stato mandato a causa delle sue idee antifasciste tra il 1935 e il 1936, la sua testimonianza scritta per essere stato relegato lì è stata ed è rimasta l’effigie di un luogo ‘inchiodato’ a sé stesso e all’inaccessibilità trasformativa per cause antropologiche e quant’altro influiva in quell’epoca difficile dell’ultimo conflitto mondiale. «[…] Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibi- le. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.» (Dal romanzo autobiografico Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, La Biblioteca di Repubblica Novecento n°92, Edizione speciale per la Repubblica del Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A di Roma, Supplemento al quotidiano “la Repubblica”, Anno 2003, pag.6).

Carlo Levi, allievo di Felice Casorati e amico di Modigliani e di Pablo Neruda, a suo tempo fece la sua notevole parte raccontando in prosa i luoghi dove non avveniva, non poteva avvenire la corsa (il progresso) in linea coi tempi che stava vivendo; in poesia forse le parole di chi vuole evidenziare gli stessi concetti possono possedere più veemenza, ‘colpire’ più direttamente le coscienze per mettere in ginocchio, appunto, la ragione. Da queste basi ma soprattutto per il forte legame amicale e di stima verso il collega irpino, deve essere sgorgato l’intento saggistico del professore poeta traduttore scrittore storiografico molisano, Antonio Crecchia, destinato alla figura letteraria contemporanea di Giuseppe (Peppino) Iuliano, poeta saggista scrittore di temi sociali politici religiosi ma soprattutto del Meridione e di critica letteraria, classe 1951, nato a Nusco, in provincia di Avellino nel territorio attraversato dall’arido Appenino meridionale se non fosse per la presenza dei fiumi Sabato e Calore e dall’alto corso dell’Ofanto, quale terra di vestigie sannite seppure tristemente ‘inchiodata’ a sé stessa per oscure cause socio-antropologiche e quant’altro ancora possa rallentare il regolare corso evolutivo della rispettiva comunità.

Leggendo – lo ha fatto per noi il saggista Crecchia riportando dei testi nella monografia in questione e commentandoli – alcune toccanti poesie di Giuseppe Iuliano, ci si accorge in relazione oggi più di ieri del peso specifico delle parole che redasse Carlo Levi nel descrivere la sua zona di confino in provincia di Matera, parlando di Eboli, in provincia di Salerno, come area off-limits (in termini di chilometri non sono così lontani i capoluoghi campani di Avellino-Salerno), lungi dagli schemi consueti di paesi sulla via dell’evoluzione sociale. Sono liriche quelle di Iuliano che scandiscono la qualità (purtroppo non buona) del tempo che scorre nella sua amata Irpinia, prima detta anche “terra dei lupi”, da hirpus in lingua osca che significa lupo, quale animale totemico seguito da una prima tribù che si staccò dalla comunità d’origine e che prese il nome di Irpini, abitanti dei monti dell’Irpinia; il battito sfortunatamente lento del cuore ‘pietroso e diffidente’ irpino che non riesce più a nutrire speranza per il domani migliore, perché tante sono state le delusioni e i fallimenti che ha dovuto per secoli subire.

Ricordiamo che gli Irpini discendono da una ramificazione del popolo antico dei Sanniti, a loro volta dai Sabini, famosi per aver messo a terra l’esercito romano nelle Forche Caudine del 321 a.C. così da imporre una tregua al Senato, quindi, forti caparbi e coraggiosi erano bravissimi come gladiatori – a Capua, provincia di Caserta, vi fu la famosa scuola per gladiatori dove fu addestrato anche il ribelle Spartacus – e fu Roma a imparare da loro questa arrischiata arte di combattimento e a portarla negli anfiteatri come passatempo pubblico, di cui il Colosseo ancora conserva la memoria.

«Siamo terragni d’Irpinia/ della striscia d’Oriente/ e di ogni altro confine/ noi, popolo di formiche,/ gente senza discrimine./ Qui Mefite mito di terra/ ara votiva degli avi pastori/ apriva le porte al regno di Dite/ e ai suoi cupi silenzi./ Ha tuttora spire di morte/ per chi sfida nel vento/ il veleno nascosto./ Maligna altra peste/ si annuncia a semina di scorie/ concimi di ossido e amianto/ oracolo di Stato, malizia di Sibilla/ che ha voce di legge e di decreto. […] Reduci ai pugni della storia/ volontari nella nostra riserva/ senza asce né penne né scalpi/ chiediamo aria pace e non gemiti/ di Washita a cocciute lingue biforcute./ S’allunga il filo, si attorce/ e si scompiglia al vento un aquilone./ Dietro gli corre la nostra voce/ amica antica disperata,/ urlo cosciente di ciò che fummo,/ Che siamo in questa nicchia di mondo.» (Dalla poesia L’urlo dietro l’ultimo aquilone, pagg.84-85).

La compagine della monografia ideata e curata dal professore Antonio Crecchia annovera una prima esposizione della Vita ed opere di Giuseppe Iuliano, a cui segue il capitolo della giustificazione de la vena satirica dello Stesso raffrontato al poeta latino aquinate, Decimo Giunio Giovenale (55 d.C. circa – 135 circa), che si distinse per essere stato un «[…] buon conservatore, odiava parimenti anarchici e agitatori, i disubbidienti e i provocatori di ribellioni. Tutto ciò che non rientrava nell’osservanza delle leggi e della morale antica dei patres, lo disgustava al punto da farlo “arrabbiare” seriamente, fino a scatenare la sua “indignatio” e a muovere il suo astio contro i graeculi arricchiti e tuttofare.» (Pag.21).

Seguono una decina di capitoli ognuno con un’approfondita indagine critica di Crecchia ad altrettante dieci opere letterarie di poesia di Iuliano, pubblicate negli anni a partire dalla silloge Rosso a sera del 2010 fino alla raccolta di versi La mia cantorìa del 2021.

Vieppiù, c’è il capitolo sulle Divagazioni critiche con la sentita identificazione del saggista in quelli che «[…] sono i luoghi dell’anima del poeta Iuliano, ai quali ha dedicato l’intera sua opera letteraria.» (Pag.77).

Ciò di cui ha versificato Iuliano nelle sue crestomazie poetiche (e non solo) è il chiaroscurale mondo irpino che gli sta dinanzi da quando è nato, con le sue problematiche che in fondo si sovrappongono a quelle dell’intero Meridione, l’altra faccia dell’Italia che, come la Luna con la sua zona non visibile costituita da pochi mari e moltissimi crateri, preferisce non mostrare ma la satira di Iuliano ne ha sfiorato le corde più intime per far udire la musica dell’eventuale giustizia che sarà, non senza spargimento di fiumi d’inchiostro suo e altrui.

«Amo questa terra/ cerchio di monti e borghi/ eco di tuoni e suoni/ specchio di lampi e stelle/ e nero che infetta gli uomini/ entro e oltre lo spazio della notte.// Amo l’Irpinia. Odio il suo silenzio muto.» (Pag.103).

Conclude la pubblicazione il lungo capitolo de La parola al poeta con la libera facoltà monologante di procedere in qualsiasi direzione da parte di Giuseppe Iuliano e si fa interessante l’apprendere direttamente dal poeta le sue vicende biografiche a partire dalla sua Prima comunione e Cresima nel maggio 1958, all’età di sette anni, allorquando ci mancò poco per commettere un involontario peccato mortale a causa del pezzetto di formaggio donatogli dalla nonna la mattina della doppia ce- rimonia e subito rigurgitato fuori dalla bocca, sempre per l’intervento della stessa nonna accortasi della distrazione poiché nulla s’ingoia prima di prendere la Santa eucarestia.

«[…] Conservo e difendo, sentinella in servizio permanente sui monti d’Irpinia, la parola d’ordine mai mutata: resistenza. Ma cuore e mente sono aperti alla promiscuità, alla multietnicità, alla diversità che non è semplice tolleranza ma la costruzione del “mondo di tutti” come auspicava Tagore.» (Pag.154).

Isabella Michela Affinito

nezza sentimentale! E, nella successiva ‘Donna’, continua la magia di un connubio felice, meritevole di essere citata: “Nessun velo potrà mai nascondere/l’ipnotico fascino dei tuoi occhi;”. Sono emozioni che sanno di appagamento che il Poeta si porta fin dall’età dei vent’anni, età paragonabile all’estate, il cui ricordo ne alimenta la linfa irrorandola sua vitalità. Ma alla “vigilia” di quest’ultima stagione della vita, s’affaccia lo spettro della senilità; sentimento molto comune alle persone anziane.

Aldo Ripert

PRIA CHE SERA A NOTTE CEDA

Prefazione di Marcello Falletti di Villafalletto, Associazione Domus, Accademia Collegio de’ Nobili Editore, Scandicci (Firenze) XXII, pp.74, € 10,00

Aldo Ripert (classe 1939) è romano, artista di arti figurative e favolista. Questa silloge Pria che sera a notte ceda, di cui ci occupiamo, comprende 46 componimenti di cui 4 sonetti nell’idioma rigorosamente romanesco che fanno ricordare Trilussa, Pasquino e Belli, come osserva nella prefazione il prof. Marcello Falletti di Villafalletto La silloge segue la precedente, che ho avuto il piacere di conoscere, “Parole in pentagramma”. Lo scrittore e critico, spiega trattarsi di poesie frutto dell’esperienza vissuta con la speranza, adesso, che la vita duri come oggi, “prima che sia troppo tardi” considerata la “caducità umana”, destinata a concludersi con una “luce perpetua”. In quest’opera l’Autore si presenta “nelle vesti del trasognato affabulatore”; perciò evoca vecchi ricordi per viverli poeticamente ritrovando sé stesso, rivelandone semplicità e purezza d’animo “senza scadere nel moralismo”, né nella pedanteria. Egli “maschera la sofferenza e il dolore” dei cari venuti a mancare, in incontri fantasiosi. Quanto alla versificazione essa si presenta libera e armoniosa.

Aldo Ripert apre la raccolta con ‘Il bacio della sera’, la cui chiusa cita il titolo della silloge “Pria che la breve sera a notte cèda, / un lieve bacio, una tenue parola, /per dir domani ci ameremo ancora.” Quanta delicatezza, romanticismo e pie-

Il Nostro eleva un elogio alla Poesia, ma si chiede deluso a chi importi oggi. Invoca la sua Calliope e prima che essa svanisca chiede in soccorso il canto di Orfeo. Elogia la solitudine perché consente di raccogliersi e di fare rivivere la stagione a lui più cara, cioè l’estate. “Nel silenzio il pensier si dipana/ ed a questo la voce sua s’affida.” Elogia la giovinezza, è bella per i bambini, perché anche se poveri sono pronti ai giochi e sono festosi; anche lui da bambino aveva gioia quando realizzava il suo giardino sul terrazzo; “ma è grato a quel fanciullo che ha nel cuore” (p.23).

Di tutte queste cose il Poeta ha nostalgia e ne sono metafora:così l’estate che si affaccia nel rosso dell’anguria; così nella mancata cura di una pianta nel vaso sul balcone in cui è nata e cresciuta l’ortica, chissà come vi è arrivata; ma certo anche i rapporti personali si inaridiscono se non vengono curati; parimenti la verbena nel vaso che non riceve le giuste cure. Il Poeta evoca l’incendio che distrusse la cattedrale di Notre Dame a Parigi (nel 2019), in cui sembra udire ancora il rintocco delle campane ad opera del “gobbo”, e dopo i restauri è tornata a nuova vita come l’araba fenice.

Ha nostalgia dell’infanzia, in cui bastava poco e molta fantasia per riuscire a giocare con niente; la sua fanciullezza negli anni quaranta (ovviamente del secolo scorso). Sembra udire il grido dell’artigiano, che in tempi ormai lontani, aggiustava la terraglia (vasellame di ceramica) di uso domestico, ricucendola, come le ‘conculine’. Egli riconosce il valore delle pur minime cose; era il tempo in cui non si buttavano via nemmeno le briciole di pane. “È buono il ricordo di vita lontana;/ lo sguardo a vedere, le mani a toccare, / quel forte richiamo, la strada laggiù. / (…) / in loco più degno innalzarlo, /ché il tempo vissuto continui a narrar.” (p.30).

Aldo Ripert considera che ci portiamo dentro l’inquietudine fin dalle origini; ma commenta quanto sia vacua l’illusione delle luci delle luminarie, mentre invece dovremmo nutrirci dei sentimenti dentro noi stessi; così“Fin quando amor al cor gentil s’apprende” (p.32) in cui avvertiamo una eco dantesca, se non erro. Ha ironia e buonumore perfino richiamando il poeta classico Fedro e la favola della volpe, la quale non riuscendo ad addentare l’uva penzolante si consola dicendo di non averlo fatto perché si trattava di “uva acerba”. È compiaciuto del fenomeno lunare di quando il satellite si avvicina alla terra nella minore distanza, ipogeo (ogni cento anni, nel 1999). Si compiace di ricordare la sua data di nascita: 9 giugno 1939. Chiude la sezione in lingua nazionale con ‘Fabiola’: “Sospiro di notte, il nome antico, /negli occhi il baglior d’un sorriso,” ritornando giovane innamorato.

Il Poeta nel suo vernacolo romanesco riesce ad essere ironico nei quadretti popolari dei quattro sonetti, in breve: lode alla poesia anche qui; dialogo spassoso e allegro con i trapassati al cimitero tra un figlio che si rivolge alla madre evocando il padre, d’altronde una volta si parlava con i morti come pure con i morenti; ed è scanzonato nel figurare due negozianti rivali; infine dice di riempire la valigia dei ricordi come quella di Gulliver.

Aldo Ripert con la silloge Pria che sera a notte ceda, che letteralmente preferisco volturare in “prima che la sera diventi notte” e quindi “prima che giunga la fine dei propri giorni”, vuole tracciare alcune sue impronte, una sorta di valigia dei ricordi. In molti componimenti si rivolge alla “poesia” fiducioso che “Una poesia potrà salvare il mondo”. Le poesie mi sembrano, ciascuna a tema (apertura, argomento, conclusione). Sono parole ricorrenti: estate quale pienezza di gioia e forza di sogni, musa, ultima età o ultima stagione o stagione matura, pensiero, giardino, seme, sole, affanni, pria; uso di parole tronche, molte rime, fra le figure retoriche molte similitudini. È presente qualche tono assertivo ma di innegabile valore morale. Mi piace l’espressione “verzura e fiori” (p.22), che sa di antico e tradisce la sua stagione di appartenenza, una stagione che si guarda con nostalgia se la raffrontiamo con i tempi frenetici attuali. Tutti elementi, questi, che offrono occasione di ulteriore riflessione.

Tito Cauchi

Rocco Salerno Nonostante Questo

Prefazione di Barbara Alberti, Postfazione di Antonio Spagnolo Macabor, Francavilla Marittina (CS) 2019, pp. 62, €12,00.

Rocco Salerno, professore di Lettere, saggista, presente in riviste e antologie, svolge la sua attività letteraria nella città di Fondi (Latina), senza dimenticare le proprie origini; è calabrese di Roseto Capo Spulico (nato nel 1952). Ma è soprattutto poeta e sotto questo aspetto ne esaminiamo il poema dal titolo Nonostante questo; opera introdotta e conclusa da due note critiche, alle quali attingo. In copertina abbiamo una foto dell’autore; il testo comprende sei canti numerati senza titoli; i versi si susseguono senza un ordine apparente. Barbara Alberti, scrittrice molto nota, capace di sondare gli anditi più nascosti della psiche umana, inizia la prefazione riferendo del poeta sovietico Vladimir Majakovskij, suicida, che rivive attraverso Rocco Salerno: “disperatamente spera, senza negare il rifiuto” e non vuole morire. E Antonio Spagnuolo, nella postfazione, spiega che Rocco Salerno indaga nella vita “aggrovigliata nelle immagini fulminanti del tradimento”, di una donna fra due uomini; quanto alla struttura del verso afferma che essa segue una “architettura neoclassica” rispettosa dei ritmi delle emozioni, che si adatta alle “pulsioni degli amanti”, tra libidine e tenerezza, in un rapporto vorticoso pericoloso, in una sorta di “rielaborazione del demone orfico”.

Confesso che, ad una prima scorsa delle pagine, mi sono sentito inadeguato, poiché non mi riusciva ricavarne una impronta; mi sembrava di trovarmi dinanzi alle più disparate voci; forse una differente stampa avrebbe giovato a distinguerne direttamente le singole fonti. Non è sempre semplice interpretare un testo, compenetrarsi nell’autore; probabilmente la rappresentazione su un palcoscenico consentirebbe di individuare i personaggi e comprenderne così i dialoghi (anche se a volte non è facile nemmeno attraverso le parole pronunciate). Sono costretto a fissare dei puntelli per reggere quello che sarà la intelaiatura del mio pensiero.

O, chissà che l’Autore non abbia voluto creare l’humus di una persona smarrita, in stato di catalessi (morte apparente), catatonico (folle dissociativo), in continue circonvoluzioni (di comportamenti). La voce narrante sembra provenire da un soggetto in trance (sotto ipnosi) o in preda al delirio, e tra le spire trova momenti di estasi. Un gor- goglio vorticoso di sentimenti contrastanti; immagini ardite; rigoglio di emozioni ora passionali, ora tenere. Perfino i nomi dei poeti russi citati sembrano piovuti per caso, a chi non ne abbia contezza (Vladimir Majakovskij, Krucenych), senza considerare i riferimenti alla cultura classica, moderna e orientale.

Tutti elementi fissati nel mio viatico (necessario) per tentare di comprendere i vaticini simili a quelli della mitica Pizia (che nomino per via degli oracoli enigmatici, anch’io ne faccio uso per entrare nello spirito del mistero). Alla fine mi tengo presente che la poesia non segue percorsi logici; nondimeno non deve costringere a dovere fare prima un corso di studi specifici: vanno oltre la comune comprensione.

Nel tentativo di raccapezzarmi, ho sfrontato e selezionato alcuni versi per me suggestivi o di comprensione più immediata. Comincio dall’incipit “I gridi sono appesi agli infissi, / si sono persi nei cortili. / Le pareti non riconoscono più la nostra storia. / Eppure cola sangue/ dal letto.” (C. I), e poco più avanti continua con queste parole: “Ed io ti parlo di un infante che attendeva la sua alba.” Abbiamo Statue che pietrificano, Najadi, Silani, e l’interrogativo: “Orfeo risusciterà Euridice?” Sembra di assistere a un alterco fra amanti che si rinfacciano reciproche accuse e lui ripete più volte che lei è “nonostante tutto” il suo sangue, il suo cancro. Questi versi contengono già una storia maturata (in un luogo, in una casa) che si sta concludendo (le pareti sono mute) e raffigurano una situazione forse violenta (di sangue) o forse triste per una nascita che non ha visto la luce (dell’alba). Per dare vigore e bellezza a queste immagini, Rocco Salerno, professore di Lettere, fa da sfondo con le citazioni del mondo classico; ma una domanda risuona terribile, quella su Orfeo. Come è noto il Cantore voleva trarre dagli inferi l’amata novella sposa; ma nulla può contro la volontà degli dei (I morti non tornano indietro).

Mi faccio prendere la mano dalla leggenda di Orfeo ed Euridice, pensando al connubio non coronato: “Ti lascio, fanciulla/ non consumata” e lei ribatte “non troverai scampo se non nel mio corpo/troppo presto profanato.” (C. II), in un misto di controsensi (non consumata e profanata). E nei toni più semplici, l’innamorato dice di essersi portato lo sguardo di lei in ogni angolo percorso del proprio paese, nonostante tutto continua ad amarla e impreca Dio per averlo reso pazzo, delirante. E come un giovane adolescente invoca la madre dicendo di non potere fare a meno dell’amata: “io che vorrei ad ogni istante/dentro di lei affogarmi/Sulle sue carni incendiarmi.” (C. III). Forse mettendo insieme l’amore filiale e una passione sfrenata, dice che lo sguardo della sua donna è veleno e che sarebbe stato disposto a cercarla ovunque se in carne e ossa, e non solo un nome scritto su carta. Linguaggio metaforico o espediente letterario, questo, per fugare ogni dubbio. Lei accende i desideri lussuriosi degli uomini; ma lui vuole difenderla contro i diffamatori, le malelingue. Continua a sfogliare “petali di ricordi” per autosostenersi ma sa che “La stanza/ è un capitolo dell’inferno di Krucenych. / (…) / in estasi, carezzai le tue mani.” (C. IV). Rocco Salerno inserisce un virgolettato che rimanda a un’opera del russo Vladimir Majakovskij di cui s’è detto nella prefazione (ma il lettore non è tenuto a saperlo). Ripete che lei è la sua cancrena, perciò è preferibile dirsi “addio adesso” nonostante questo (Aleksej Eliseevič Kručënych è altro poeta russo).

Adesso mi sembra che i contorni si delineino, mettendo in chiaro che la storia “Finirà; è troppo grande. / Tanta poesia non si può espandere/ in tre anime. / Una deve morire, morirà.” E gli altri (le voci) diranno (su di lui o su l’altro): “Era uno dei perditempo, / uno di quelli che bighellonano senza meta”(C. V). Motivo, questo, ripreso, tranne che il verbo di movimento è sostituito da “gironzolano”. Dichiara che è troppo il delirio, ma lo fa con una nota lieta “come un racconto di quei nonni tra il crepitio/ con l’ultima fiamma restia a morire, / come un sogno di Andersen o di Wilde” (C VI, p.46). Così i due sembra che decidano di lasciarsi perché “Troverai la tua stessa pace, / il tuo Siddharta.” (Siddharta fondatore del buddismo, Nepal, VI sec. a.C.). Infine la chiusa è questa: “Majakovskij pende ancora/ dalle labbra di Maria. // Nonostante. // Il mio sguardo/ nei vostri occhi/ s’è fermato, / s’è incendiato. // Nonostante.”

Osservo che il nome di Majakovskij, mi pare che compaia solo una volta, in chiusura, associato a quello di Maria, mai nominata prima. Mi chiedo che se Rocco Salerno in Nonostante questo abbia voluto fare riferimento a un poeta suicida, come si riferisce nella prefazione, forse ci deve essere una ragione che non voglio ipotizzare per non finire in ghirigori. La poesia,in generale, si lascia interpretare, bene o male, secondo l’impressione che si ricava dalla sua lettura. Il virgolettato del testo fa pensare a un dialogo, o a più voci, oppure a un soliloquio serrato, con sé stesso, indulgendo “alla menzogna per viltà o per comodo”. In ogni caso, si tratti di sogni o di incubi, dobbiamo intendere in chiave di invenzione poetica. Mi pare suggestivo pensare alle “tre anime”, quelle di: Rocco, Maria, Volodja (che è il diminutivo di Vladimir Majakovskij), delle quali “una deve morire”; forse Rocco Salerno dovrà scrollarsi di una di esse, ma non è dato sapere quale.

Tito Cauchi

to con la citazione di alcuni versi che precedono i suoi, sono di: Eugenio Montale, Dino Campana, Wislawa Szymborska, William Blake, Thomas Stearns Eliot, Italo Svevo; e nel contempo scrive dediche al cugino Mario e alla ex compagna ginnasiale Antonella Telese “Un fiore decapitato”. Anna Cimicata si raccoglie in sé stessa con otto poesie di carattere intimo, ma non intimistico. Aggiunge la sua voce alle migliaia e migliaia di persone che vivono l’attimo, che hanno imparato ad amare la vita in silenzio, a sentire più di prima il silenzio della notte ed anche del giorno. Istintivamente la nostra invoca una Voce superiore e comprende che “Il senso si trova/nella preghiera/che nulla esige/ma attende una risposta.”

VANNA CORVESE (A CURA) INVISIBILI FILI

Spazidiversi Auser, Società Editrice L’Aperia, Caserta 2021, pp. 80, S.i.p.

Spazidiversi è un “laboratorio di lettura e scrittura creativa” sorto nel 2006, da un’idea di Vanna Corvese, presso l’associazione Auser in Caserta, che elabora libri collettanei autoprodotti. La curatrice nella premessa spiega che il presente volume comprende dieci piccole raccolte di poeti e poetesse, fra le quali ultime è inclusa lei stessa. Il titolo allude alla comunicazione online resasi maggiormente necessaria durante il Covid (20202021). Invisibili Fili si intrecciano e “rinsaldano” l’amicizia che Beatrice Squeglia ha interpretato realizzando l’illustrazione di copertina. Gli autori si presentano in ordine alfabetico, sono sette donne e tre uomini; quasi tutti, risentono del doloroso periodo vissuto e i componimenti sono ordinati cronologicamente. Passo di seguito alle pagine. Silvana Cefarelli ordina i propri dieci componimenti secondo la datazione conferendo un taglio diaristico. Entra subito in argomento con ‘Ali ignote’: “Mille luci spegnendosi/incontrano un battito d’ali. / Come in un sortilegio, / uno sgraziato pipistrello/ avvia la fatale pandemia.”. Così lei stessa descrive l’ansia di quei giorni; ricordiamo tutti i cosiddetti distanziamenti sociali e quando avveniva un incontro ci si riconosceva, appena, in un barlume di umanità, dietro le mascherine. Avvertiamo logorii, ferite, “pesi di memoria sparsa”, sussulti, “Sulla soglia del ricordo/incalza inesausta/la vibrante memoria.” Dà un tocco dot-

Vanna Corvese offre quattro titoli come una unica narrazione, volgendo lo sguardo all’esterno. Ha chiara la situazione in cui ci siamo trovati, perciò commenta: “Cari amici, ci resta/l’incontro quotidiano/sul display luminoso/con nuovi assembramenti… di parole.” Il mantra di quei giorni è stato ripetere che “Andrà tutto bene”. Grande è il desiderio di libertà, di immergersi nella natura cantata da Francesco d’Assisi, calpestare il verde dei prati, respirare a pieni polmoni.

Salvatore D’Ambrosio condivide nove componimenti che sanno di nostalgia; il bisogno di libertà gli suggerisce la scelta di non fare uso di virgole e sceglie versi inizianti con lettera maiuscola. Ci presenta visioni di abbandono, di incertezza, desiderio di purezza, desiderio di vedere cieli azzurri. È consapevole del senso di abbandono e del desiderio di darsi una ragione di quello che accade; ha la speranza che ci sia qualcosa ancora, oltre una fredda lastra che indica la fine.

Maria Luisa De Camilli scompone due titoli appena, in cui si rivolge alla Madonna. Trascorre molto tempo dentro casa o sul terrazzo ad ammirare il tramonto. Pensando alla sacra Pietà, scrive:

“Maria è sola/senza il figlio suo/e non suo.

/Ora/ finalmente piange.” Sono versi di una profondità immensa, sanno di filosofia, teologia e tanto senso umano.

Anna Maria

Guarriello offre dieci poesie che sanno di tenerezza, di desiderio di incontro e sente la mancanza di carezze. I suoi sono sentimenti universali, di una consapevolezza che disarma, come la felicità avuta di cui non ci rendiamo conto; quello che manca è l’incontro fisico, è l’abbraccio; siamo pervasi da inquietudine, non possiamo tacerla; la poesia ci “esplode nel cuore” ci fa tornare indietro quando da bambini ci si scambiava un fiore. Pasquale Lombardi partecipa con otto brevi poesie aventi visioni di vita povera che ci riportano negli anni Quaranta del secolo scorso; fanno immaginare le feste paesane con piccole luminarie e bancarelle con le “noccioline americane”, la speranza di tornare come prima.

Tiberio Madonna dispone di otto poesie, di cui la prima è molto lunga, direi che ha toni iniziali fanciulleschi e leggiadri, e insieme, sornioni e quasi scioglilingua, per esempio: abbagli m’abbagliano, m’allontano lontano, cipiglio col sopracciglio, ma anche con la metafora dei petali del fiore che cadono come Icaro; inoltre ha molte rime e ripetizioni. Le poesie successive hanno temi vari e più maturi, guardano alla natura, alla festa della mamma, formulano domande come su “un’amicizia sfumata/ di un amico che ha ingannato”; a volte sono alla ricerca del senso della vita, per concludere che “Il dolore non basta/non è mai/ abbastanza”; altre volte ha il cuore oppresso, ma vuole continuare a sognare.

Rosanna Marina Russo partecipa con dieci poesie, in cui si vivono un ventaglio di emozioni, tra cui scoramento e sensibilità all’ecologia: “Suonano sul vento le campane/rimestano ricordi di piazze di paese/ (…) /Mi piego sotto il peso dei panni freddi”; forse frutto del senso di solitudine e del desiderio di incontrarsi per strada “coi volti mascherati/dimenticati dai volti chiusi”. Sembra voglia dire che l’amore vero è dare. Abbiamo un tocco dotto per una élite in grado di riconoscere in Paumanoke in Walt, titolo e autore di un libro, quello di Whitman.

Marina Sirianni ordina i suoi dieci componimenti avvertendo che contengono enigmi e indovinelli; nondimeno non dobbiamo credere che siano poesie di puro divertimento, anzi sono poesie serie e possono anche leggersi sotto l’aspetto metaforico. Forse dicendo di scherzare, dice delle verità. Così nella ‘Fine di un amore’ leggiamo la soluzione “frigorifero”; ‘Per una umanità migliore’ che solleva le braccia, risolviamo in “pale eoliche”; così nel “bar” possiamo degustare il caffè ed altro come se si trattasse de ‘L’ultima poesia’.

Ci siamo fatti compagnia con i dieci poeti e siamo entrati nell’humus di quei tristi giorni di pandemia che, purtroppo ad oggi (2023), non sono ancora finiti, ne abbiamo varcato appena la soglia e devo ammettere di non avere trovato toni di afflizione, di psicastenia, come ci si potrebbe aspettare, ma anzi ho colto toni pacati in cui vince la naturalezza. Plaudo all’iniziativa di Spazidiversi che, delle sette poetesse e dei tre poeti, ha realizzato una piccola comunità letteraria. Ho cercato di evitare commenti ulteriori limitandomi a passi scelti qua e là, per dare un senso di unitarietà.

Tito Cauchi

Lorenzo Spurio

ERA D’AGOSTO Cronedit, 2021 – versione italo-rumena, pp. 81.

TRA GLI ARANCI E LA MENTA, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 86, € 12,00

Ho finalmente letto i tuoi due preziosi libri di poesia che mi hai fatto avere ed ora finalmente posso dirtene qualche impressione a caldo.

Era d’agosto (Cronedit, Iasi, 2021 – versione italo-rumena) è una silloge che ben esprime i fuochi del tuo poiein, d’impronta decisamente civile, dove per civile intendo una superiore “essenza poetica”, di valore universale, che tu versi in forma curatissima, con punte di intenso lirismo. Spaziare dalla violenza femminicida a quella del disastro di Chernobyl, dall’omicidio di Livatino a quello di Lorca, dalla pietas per i terremotati del Centro Italia alla comprensione per le tormentate vite di Alda Merini e Antonia Pozzi, denota la tua sensibilità angosciata per le derive umane, che sai trasformare in scrittura emozionale pura, strumento di riflessione etica per chiunque legga. Spero che i traduttori possano aver traghettato tutte le vibrazioni della tua parola accorata nelle lingue d'arrivo!

Tra gli aranci e la menta (PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, I edizione 2016; II edizione 2020) mi ha poi totalmente e letteralmente attraversato di ferita irrimarginabile e sconfinato rimpianto, per questo amore assoluto che entrambi condividiamo per il Sommo Federi- co.

Dai tuoi versi mi giungono visioni e sonorità e perfino tracce dell'inarrivabile duende di Lorca. E come non sentire l’eco del canto per Ignacio, il nascondersi della luna nella notte della fucilazione, il profumo interrotto dei nardi, il pianto della chitarra gitana, come non sentire la dimensione d’immortalità che promana dalla tua asserzione«Morto è solo chi si dimentica»!

Di altissima intensità emotiva trovo il testo “Tagliami l’ombra”, che descrive la compenetrazione del lutto nella natura trascinando chi legge in un compianto pànico universale, dove il dolore indicibile si fonde confonde nella bellezza del canto. Credo che anche Federico avrebbe riconosciuto con commozione queste tue come parole ammirate di un amico fraterno.

Così ti ringrazio molto del dono-luce della tua scrittura, dei momenti comuni di com-passione provata. Ti auguro anche di continuare nel tuo studio – che so profondissimo – dell’opera di Lorca e di riceverne sempre maggiori soddisfazioni e riconoscimenti.

Roma, dicembre 2022

ROBERTO MAGGI

AnnaMaria Ferramosca

SCENE DA UN INTERNO

Terre D’Ulivi Edizioni, 2020, pp. 84, € 12,00.

La silloge Scene da un interno è divisa in quattro sezioni: “Metropolis a fuoco”, “Visioni a 180°”, “Bestiario digitale” e “Istantanee di Niente”. Contiene, inoltre, la postfazione di Floriana Coppola. Nella prima parte vi è la narrazione di tutto quello che riguarda l’esterno, il fenomenico. Nella seconda l’io poetico descrive ciò che è interno, l’introspettivo, quindi i sentimenti, le emozioni come la fragilità e la sensibilità. Nella terza si va oltre l’esterno e l’interno dell’io; Roberto Maggi, infatti, arriva fino “all’oltre immaginario”. Nell’ultima libera totalmente la sua fantasia fotografica e artistica.

Il suo è uno stile moderno, raffinato, nel quale si trova sempre una via d’uscita che è salvifica, rappresentata dal tono ironico. L’ironia, difatti, implica una critica che impegna intellettualmente il Maggi nell’interpretare ciò che accade nel mondo, ma anche nel suo profondo.

Ed è proprio la forma scelta che lo distacca dalla quotidianità e in un certo senso lo salva dalle fragilità umane.

L’autore, dunque, osserva da lontano, a volte quasi estraniandosi dalla realtà, ma vive e percepisce il suo percorso immaginario.

“… Con amarezza, non ci sono interlocutori”–scrive Floriana Coppola nella postfazione –“ma solo controfigure. Rappresentazione di una folla solitaria e persa. Il tono drammatico, man mano che la narrazione poetica procede, lascia lo spazio a un registro ironico, che si rivela strategia di salvezza. Si individua un percorso di consapevolezza che sana e guarisce da ogni autocelebrazione”. L’arco temporale di produzione lirica va dal 1983 al 2019. Apre la raccolta una fotografia, opera dello stesso Maggi, che vede una donna - unica immagine a colori, probabilmente a simboleggiare la Poesia - spalancare una tenda dietro alla quale vi è l’interno di una casa ritratta in bianco e nero. Come a voler svelare un accesso, che prima era serrato e segreto, sul mondo interiore e, forse, sulla vita stessa dell’autore.

In “Parole di sabbia” descrive come si sente un poeta in relazione al mondo: Armi del poeta/ buttate via/ vestigia fuori moda/ alchimie di parola fusa;/ pur in coda a rotte migratorie/ di specie rare/ su toponomastiche mai viste./Quando la verità tace/ e la vita è amara sottocute/sei Simeone/ nel deserto appollaiato/ tra voragini di distacco/ strazio del sé rimasto orfano;/ cantilena del bimbo accoccolato/ in campi di guerriglia/ che gioca nel fango disseccato”.

Tra toni ironici e malinconici si snocciolano i versi di questa raccolta che affronta temi e problematiche che riguardano il presente.

Il percorso poetico, al di là del momento storico, è sempre arduo e doloroso, ma soprattutto lo è per chi tenta di ricostruire il suo sé confrontandosi in una dimensione reale nella quale prolificano gli altari imbanditi dei predicatori urlanti.

Manuela Mazzola

Isabella Michela Affinito

E LA LUNA BUSSO’ ALLA MIA PORTA

Genesi Editrice, Torino, 2022, pp. 148, € 12,50.

Imprimi sulla guancia della Luna il bacio d’amore per il suo bianco, lo stesso dei fogli su cui adesso le stai scrivendo!

Cinquantasei le poesie e due le recensioni di pellicole cinematografiche, che vanno a comporre l’ultimo lavoro di Isabella Michela Affinito E la luna bussò alla mia porta ha come soggetto il satellite terrestre che da sempre ha ispirato gli animi dei più famosi artisti. E anche la nostra poetessa ne è rimasta affascinata. Scrive, infatti, nell’introduzione: “La luna per me è diventata un inseparabile alter ego perché in essa c’è l’originaria intatta figura femminile ricettiva, sensibile, emotiva, timida, mutabile, comprensiva, estrosa, docile, paziente, magnetica e quant’altro faccia riferimento all’astro bianco, musa ispiratrice per eccellenza dei poeti, degli innamorati, dei cantautori…”.La scrittrice è rapita non solo dalla bellezza, ma anche dal silenzio che circonda la Luna: “Il suo silenzio è un vascello che m’attraversa la mente scavalcando sogni tempestosi come le cime di Emily Bronte”.

Nelle poesie l’Affinito descrive l’attimo in cui la vena lirica la spinge a comporre versi e si domanda, nel caso in cui il satellite sparisse all’improvviso, come sarebbe la vita senza più la sua presenza, la quale accompagna il tragitto degli uomini e delle donne dall’inizio dei tempi.

“Non so come è successo che all’improvviso i fogli m’hanno attratto, un ritmo avvertito ma non era un ballo e c’erano parole accalcate nel mio cuore che volevano uscire…”.

Lo stile è sempre quello: musicale, scorrevole e inconfondibile. Troviamo nelle composizioni un continuo dialogo e un’empatia con tutto ciò che la circonda e dunque con la Natura stessa. Dialoga con poeti, pittori, artisti di ogni tempo. La sua è una passione irrefrenabile per l’Arte intera.

Alla fine del volume si trova la recensione del film uscito nel 1968, “2001: Odissea nello spazio”, regia di Stanley Kubrick, il quale conquistò l’Oscar per gli effetti speciali e che, nel riguardarlo oggi, fa ancora riflettere sia sulla destinazione finale dell’uomo, sia sull’uso della tecnologia che proprio all’epoca ebbe inizio. La seconda recensione tratta di “La maledizione della prima luna”, film del 2003, regia di Gregor Verbinski. Anche in questo caso – scrive l’Affinito - si vedranno mirabili effetti speciali. È una pellicola in cui la figura del pirata risulta complessa rispetto al soli- to e alla fine prevalgono i buoni sentimenti e i buoni propositi che porteranno alla redenzione del protagonista, il capitano Sparrow.

Il volume è impreziosito dall’immagin e di copertina, in cui viene ritratta la luna in veste di donna che domina il libro: elegante e magnetica. L’opera dell’autrice è stata realizzata con la tecnica pittorica e rifiniture a pennarelli, penne colorate e pastelli.

Manuela Mazzola QUANDO USCIRO’

Quando uscirò dalla tua vita ti porterò con me e non sarà tanto il dolore quanto la gioia di averti accanto Cammineremo fra luoghi conosciuti Rammenteremo i giorni lieti e quel figlio tanto sofferto Ora dormi tranquilla Io vivrò sempre vicino a te

TU SEI

Tu sei come uno spazio aperto Barlumi e tralci Attimo dopo attimo il tuo chiarore dirada tutte le mie ombre e quando ti stringo a me ascolto lo stormire delle fronde

Giannicola Ceccarossi

Da: Anima Mia, Ibiskos Ulivieri, 2020

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