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Imprinting necessario, di Wilma Minotti Cerini, pag

Il Racconto

IMPRINTING NECESSARIO

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di Wilma Minotti Cerini

UNA nube bassa sopra Stresa ha oscurato un tratto del lago accessibile al mio occhio, ma nel suo lato destro uno squarcio fa intravedere un cielo cilestrino chiaro e queste differenza di luce e ombre crea sul lago una strana fantasmagoria di colori: torvi e leggiadri nel contempo. E’ presto, solo qualche rara voce umana tra gli ultimi turisti che s’incamminano veloci nei loro impermeabili trasparenti sulla mia riva, per sparire oltre la casa vicina che chiude il mio orizzonte. Poi un battere d’ali di anatre selvatiche sciama verso l’onda nel rituale lavaggio delle piume. Ma più alto si palesa una freccia perfetta che buca l’aria, allineati a distanza matematica le anatre selvatiche vanno altrove, e allora penso a quel piccolo paleo encefalo che sa orientarsi con le stelle e con le distanze come solo un matematico sa fare e mi torna la malinconia per la presuntuosità umana del credersi chissà che cosa.

Chi avrebbe mai detto che avrei lasciato la città di Milano per vivere quel che resta del mio futuro a Pallanza, città nella quale sono nata e cresciuta, per una scelta di vita che avrei una volta accettato solo per unavacanza e non per sempre! Bastava andare all’indietro di tre anni per ritrovare tutta la mia angoscia per non riuscire a trovare un appartamento un po’ decente e adeguato alla cifra possibile. Ogni anno dovevo decentrare un po’, e poi sempre più lontano verso quelle periferie anonime, senza alcun riferimento alla tua storia, per trovare un’abitazione che avesse la cucina abitabile a parte e non a vista all’americana come ormai si usa e che ti propongono come una ricercatezza moderna. Voglio vedere se il soffritto di cipolla non si deposita su un divano! e hai un bel spruzzare deodorante.

La casa nella quale ancora vivremo per gli ultimi due anni, e saranno quarantasette dall’inizio, la vivo come se un ladro fosse già penetrato per rubare. Non un furto qualsiasi, un furto della memoria, dei momenti di gioia e di dolore, di lacrime e risate, momenti di innamoramento e amore, il tempo degli amici, delle persone care.

Non potrò più dire: casa mia. Eppure era lei la mia casa, quella nella quale avrei voluto vivere e morire. E poi la via, un po’ proletaria una volta ed ora un corso con negozi di moda e di gioielli. Ieri l’ortolano, la pescheria, il macellaio, il panettiere, il droghiere. Oggi devi andare sempre più lontano a meno che tu non voglia mangiare un gioiello.

E’ come se mi preparassi a un funerale, essendo il malato assai grave, e dovrò dire addio ai muri, a quel corridoio così strano che noi abbiamo trasformato in una galleria arredata. Ho già dato un addio ai merli e al pettirosso che ogni anno veniva nel terrazzo pensile sotto la siepe di lauro cerasus. Forse è da quel giorno che ho deciso che piuttosto che in periferia me ne sarei andata altrove. Quel giorno sono venuti in forza del diritto di fare ciò che vogliono coloro che sono padroni di tutto lo stabile, e senza alcun preavviso hanno strappato ogni cosa. Mi si è stretto il cuore quando hanno strappato le tue povere radici, ancora avevi i tuoi racemi fioriti mio povero lauro cerasus!

Mi sono ritrovata all’improvviso un terrazzo che tanto somigliava ad un retro di una casa del Bronxs, una distesa di cemento con un comignolo grigio per lo sfiatatoio dell’aria condizionata della banca sottostante, una desolazione assoluta, salvo vedere ancor meglio le finestre ormai logore dal tempo della casa antistante. Perché il luccichio delle vetrine è sotto, all’altezza dell’occhio ma basta alzare gli occhi per vedere scemare questo prodigio, quando la casa diventata vetusta tanto assomiglia ad una persona curva sugli anni.

Eppure quella era la casa che avevo pensato di vivere, invecchiando insieme, forse morendo insieme.

Milano, mia affascinante Milano di un tempo, così viva di idee realizzate, così cantata

da D’Anzi,, da Gaber, da Jannacci, da Celentano, città dal cuore grande che tutti accoglieva e dava lavoro e speranza! Città d’artisti e di scrittori, di commediografi e da quella Nouvelle Vague che si formava nei dintorni di Brera, che prendeva l’aperitivo al Giamaica e si fermava a discutere di letteratura, di quell’arte capace di sconvolgere le forme note, la pennellata entro i limiti, arte rivoluzionaria e anarchica insieme che si volgeva al surreale e al nucleare, che derideva il susseguo dei generali, che parlava di Patafisica e di Ubu Re.

Era il tempo dei più noti galleristi: La Galleria del Naviglio di Cardazzo con i suoi Campigli, Morandi, Crippa, Fontana; la galleria di Arturo Shwartz nella quale prendevano forma le mostre più discutibilmente avveniristiche e dove il meccano di Enrico Baj si rifaceva al volto di un Generale, oppure di una rubinetteria composta a forma d’arte e D’Angelo diveniva noto per le sue macchie nucleari, mentre Fontana faceva i famosi buchi e tagli; la Galleria Blu con il Dova, la Galleria delle Ore, la galleria di Toninelli di via S. Andrea per le mostre più importanti con il suo Azuma dai gioielli di metallo nobile e non nobile con le sue forme che rammentavano l’estremo oriente e con la sua firma del sole irraggiato, oppure la Minima di via Bagutta per le mostre estemporanee e meno impegnative dove ritrovavi i dipinti e i disegni di Riccardo Manzi, la Galleria di via Montenapoleone 6,( dove potevi trovare tra tanti i disegni del padre di Lauretta Masiero.)

Milano del Premio Bagutta, alla Trattoria dei Pepori. Tu ci andavi e ti mettevi seduta al tavolo a forma di cenacolo, stando ben attenta a non occupare dei posti sacri, quello del Decano : un vecchio scultore di quasi novant’anni e al suo arrivo era d’uso alzarsi in segno di grande deferenza; quello di Mario Vellani Marchi e di sua moglie Isotta, lasciando anche un posto per Giuseppe Novello che poteva sopraggiungere in qualsiasi momento a mangiarsi una vaga insalata con la sua amata cartella di carta di Fabriano per un disegno estemporaneo dei presenti.

Ma era in gran segreto che Vellani Marchi preparava la lista dedicatoria per il festeggiamento di qualche personaggio famoso, ed io ero presente per quella di Indro Montanelli, e tra tante firme c’è pure la mia.

Poi fu la volta di Luciano Lanfranconi che faceva i suoi schizzi satirici sul Corriere della Sera venire al Bagutta ed essere riconosciuto tra gli artisti.

Come per l’oro che non può mai essere purissimo ed ha bisogno di una percentuale di argento, così pure al Bagutta vi era l’oro degli artisti, scrittori, commediografi veri e l’argento di quelli in erba dal valore ancora da verificare.

Ma passata l’euforia del momento ci si ritrovava a parlare più seriamente di letteratura e d’arte con Giansiro Ferrata e il suo inseparabile amico Tono Dini e la mia amica eruditissima Michela Rosada a ristorante chiuso, con Enzo Pepori e la moglie in forma più familiare, mentre si sbucciava tutti insieme una cassetta di piselli. Fu in quell’occasione che i Pepori ci invitarono a mangiare i gioielli del Toro in lieve salsa di pomodoro con l’entusiasmo dei presenti e con un senso di repulsione da parte mia.

Mi piaceva Milano di allora, meno sfolgorante, con i muri un po’ scrostati, ma più umana, colta, proiettata al futuro.

In via Montenapoleone, vi era Moretti che vendeva i suoi frutti a peso d’oro, e più avanti il Salumaio altrettanto caro, ma bastava superare la via S. Andrea, per portarsi in via Spiga o in via Bagutta per avere tutti i negozi alimentari e i bar a prezzi normali a disposizione.

E debbo rammentare la latteria della Betty, dove ci si ritrovava al mezzogiorno per mangiare al primo piano, e dove lei teneva conto di figlio chiunque andasse da lei con i suoi problemi digestivi, ed eravamo sempre i soliti ad andarci, tutti amici di pranzo, più raramente ci si trovava oltre il caffè preso al bar Mario se non per amicizia vera e affinità d’intenti: ed erano commessi o gerenti dei negozi in via Montenapoleone, segretarie, giornalisti, modelle delle varie sartorie di allora: La Biki, Fercioni, Mila Schon e poche altre, ed erano di passaggio personaggi che avrebbero fatto grande la moda in Italia e che arrivavano da

Roma o da Parigi come Valentino ( si diceva su sollecitazione di Jaqueline Kennedy) che stava per aprire in via Montenapoleone il suo primo atelier e che avrebbe attirato nella zona le altre grandi firme francesi, facendo traslocare da via S. Andrea i negozi d’antiquariato.

Si respirava un’aria sospesa tra vecchio e nuovo e la luce di ieri si proiettava nel futuro come un valore da conservare, almeno ancora per qualche anno.

Poi c’era la vasca. L’andirivieni del su e giù di via Montenapoleone. L’esibizione dello stupefacente, che si fermava come punto d’arrivo al Cova, sia dentro che fuori. L’importante era farsi notare a tutti i costi. Anche l’automobile faceva parte del gioco, e non era raro vedere una MG rivestita di pelle di leopardo verniciata di un rosa pallido, con dentro una pantera dai capelli arzigogolati a tempio cambogiano. Spesso si incontrava Lucia Rizzoli che come trasognata camminava cantando. Oppure la dea del teatro con la sua magica voce che ti incantava come Valentina Cortese con il suo foulard che copriva metà fronte e che ti prendeva sottobraccio per portarti a bere un caffè al Sant’Ambroeus. Ma pure vi era il passaggio di persone dell’alta borghesia e della nobiltà con gli abiti sobri ed eleganti tailleurs, dei più noti giornalisti ed era facile ritrovare i personaggi che incominciavano ad essere conosciuti ed amati: come la Vanoni che cantava la Mala, o il Gino Bramieri che ti faceva sorridere anche lungo la strada, e Giorgio Gaber che ti faceva sognare con la sua voce calda e ironica. Ma poco più in là vi erano i nascenti che facevano colazione con il Rock and Roll come Celentano, oppure Milva la rossa con la sua voce appassionata, e Mina con le sue corde canore che prendevano due ottave. Milano era il luogo di passaggio se non la meta ambita di allora.

Ma bastava portarti verso la periferia per vedere ampie distese di granoturco, di patate di biete, e ancora le rogge erano la casa delle rane e di qualche gambero d’acqua dolce, e sopra svolazzano le farfalle e le libellule e di sera un luccichio di lucciole.

Certo la periferia era triste alla sera, non luci sfolgoranti, ma piccole luci con lampadine di basso voltaggio che rimanevano accese fino a tardi per consentire alla padrona di casa di fare quel lavoro supplementare per tutta la famiglia dormiente. Bisogna riconoscere a queste donne milanesi o immigrate un esemplare eroismo.

Tutte queste emozioni debbo necessariamente accantonare nella memoria e d’altronde il vissuto non torna, ed è anche vero che la città che ti è appartenuta vivendola pienamente, alla fine si trasforma talmente che non ti riconosci. Devi lasciare il guiderdone ai più giovani perché ora è loro la città cresciuta di pari passi con il traffico caotico. Ma c’è comunque un velo di tristezza per la loro giovinezza che deve affrontare un futuro pieno di incertezze, il lavoro precario, l’impossibilità di avere una casa a prezzi calmierati e comunque in armonia con il loro stipendio, chediviene ogni giorno insufficiente. Ai miei tempi le case erano accessibili pur con un sacrificio equilibrato e gli affitti bassi ti permettevano lo spazio per una cena al ristorante. Poi dopo gli anni ’80 sono rapidamente saliti di giorno in giorno a vantaggio di costruttori senza scrupoli, e così pure gli affitti e per chi, come me, ha perso l’occasione di un tempo non è stato più possibile raggiungere una meta via via sempre più irraggiungibile. Ma loro no, per i giovani il problema è serio se non si è figli di papà, e non c’è lo spostarsi sempre più in periferia, i prezzi salgono man mano che le persone si spostano. E si debbono godere pure il deterioramento della qualità di vita, una città sempre più inquinata dalle polveri sottili che non trovano barriere al respiro.

Me ne vado, sono tra quelle persone anziane che cercano una località umana, dove il ritmo della vita va di pari passo con i tuoi acciacchi, dove ritrovi lo spazio del pensiero, della lettura, della bellezza, della contemplazione Sono assetata di natura, di quel mondo vegetale che porge ad ogni stagione i suoi meravigliosi fiori. Un modo per rendere giustizia al mio lauro cerasus con il quale ero in simbiosi.

Ma occorre un Imprinting necessario per lasciare tutto il tuo passato alle spalle.

Anche Isabella ha lasciato da tempo Milano,

insegna scienza dell’alimentazione a Stresa ed è ancora giovane: “Quando si è a Milano pare che non ci sia altra città al mondo in cui vivere, poi ci si accorge che si può vivere benissimo anche altrove”

La nube si è alzata. Rapidamente il cielo si modifica in continuazione. Ora una barca porge la vela al vento, i canottieri si cimentano nella lunga ritmica vogata in questo inizio d’ottobre calmo: C’è una serenità che ti avvolge e che commuove: “il mio imprinting si è realizzato”. I passeri svolazzano da un terrazzo al tetto della casa accanto. Rimarranno per tutto l’inverno con le anatre, i gabbiani e i cigni.

Il fogliame degli alberi stanno arrossendo sul loro autunno.

Questa sera attenderò quel momento magico nel quale la luna lascerà strie d’argento nel lago e tra gli alberi a ridosso della riva brilleranno tante piccole luci.

Wilma MInotti Cerini

BEATO DON CARLO GNOCCHI

Come luce che penetra L’ombra che la foresta Fa sulla clematide alpina E la rischiara

Come acqua sorgiva da polla Che disseta Gole inaridite

Come neve che scende pura E che ti camminò accanto Col vento sibilante Nell’immensa steppa Russa Basterebbero i tuoi occhi Di una dolcezza materna Basterebbe quel tuo sorriso Che penetra l’anima Tu che partisti puro E tornasti col cuore Di tutti i cuori che rimasero Non fu invano quel dolore Di chi compatisce il dolore raccogliendolo in sé per divenire una sola anima

E’ ben difficile Il cammino che ci porta Sul Golgota!

Ma lì risorge a nuova vita L’anima di tutte le anime Perché il Cristo le rinnova mirabilmente integre

Il cielo sopra di noi Ha spalancato da tempo le porte al tuo spirito. E tu da lassù puoi guardare la moltitudine che ti ama E ti proclama: “BEATO” Noi tratteniamo solo due occhi Che guardano con i tuoi occhi

Wilma Minotti Cerini

Pallanza, VB

Un libro da leggere e da regalare:

Nel libro Non circo l’aria oltre a intensi momenti di vita paesana, ho trovato una Roma del primo dopoguerra che era anche la mia, con conoscenze comuni.

Emerico Giachery

Genesi Editrice – via Nuoro 3 – 10137 Torino –genesi@genesi.org; http://www.genesi.org–Pagine 210, € 12,00

Recensioni

FABIO DAINOTTI

POESIE CONTROCORRENTE e racconti in versi

Biblioteca dei Leoni, Anno 2020, Euro 10,00, pagg. 65

La sfida d’un annunciato anticonformismo letterario lanciata a mo’ di guanto dal poeta di Pavia, Fabio Dainotti, attraverso la pubblicazione dell’ulteriore sua silloge Poesie controcorrente e racconti in versi, si basa su una scelta di versi le cui ispirazioni verosimilmente hanno a che fare con un antico-non troppo antico, di quando si stava oltrepassando la soglia della modernità e si appendevano negli armadi le vecchie tradizioni, ripiegando nei cassetti le mentalità obsolete per lasciare il posto, ad esempio, alle concezioni dei Futuristi, a quella che è stata la sempre più emancipata figura femminile, all’uomo senza più gli orpelli delle buone maniere e del suo borghesismo.

A conferma di ciò vi è anche l’immagine della copertina dello stesso volumetto, riproducente una Signora con cappello del pittore veneziano, morto a Parigi nel 1917, Federico Zandomeneghi, prima macchiaiolo, poi, una volta in Francia col favoreggiamento di Edgar Degas, influenzato alquanto dallo stile impressionista non dimenticò mai il verismo pittorico da cui era partito per realizzare ritratti femminili di donne perbene. Questo per dire che si avverte nelle poesie di Fabio Dainotti un’aria di relativo Ottocento con tutti i possibili nessi e connessi fin dalla prima lirica, allorquando si rinnovava quotidianamente una gradita visita, forse di un innamorato che veniva a cavallo e di una lei in compagnia della madre, nella casa considerata dalla madre non adatta nemmeno come stalla/ per il cavallo del tuo amico Fabio.

L’originalità dainottiana si riveste del passato per essere apprezzata nel nostro presente privo di quelle premure che hanno reso privilegiato il secolo del Romanticismo, dell’Impressionismo francese, del Congresso di Vienna, del Risorgimento italiano con la spedizione dei Mille di Garibaldi, a cui fece parte anche lo stesso giovane patriota Zandomeneghi, prima di entrare a far parte della cerchia degli artisti del Caffè di Michelangelo a Firenze, i cosiddetti Macchiaioli capeggiati da Giovanni Fattori.

Così, senza accorgersene, s’intercetta uno spaziotempo completamente diverso dal nostro attuale, che invita al sogno e al distacco poesia dopo poesia, come in una passeggiata fuori del razionale. «La littorina fermava/ in un viale alberato di Milano;/ era giugno, la luce dilagava.// Vimercate: fermata in pieno centro,/ tra un’edicola in fiore di giornali/ e il chiosco per la musica d’estate.// Le signore sfilavano eleganti/ con ombrellini al braccio. » (Pag. 29).

L’eleganza, innanzitutto, è stata una delle massime prerogative di quel secolo ancora con le crinoline, ma già Zandomeneghi, come anche l’altro importante pittore italiano trasferitosi a Parigi, Giovanni Boldini, hanno ritratto bellissime donne con gli abiti più lineari non più ingombranti pronte per entrare, ad esempio, nell’automobile – il cui primo motore a scoppio risalirebbe al 1854 –proprio per una vita più dinamica.

Di sicuro ci sono evidenti orme autobiografiche tra questi versi, perché non mancano descrizioni di circostanze fin troppo particolareggiate come quella volta di un lungo viaggio in treno, Da un umile paesello del Bresciano, fino al paese di Padre Pio, «[…] su quella linea ferroviaria scomoda,/ lei donna, sola, negli anni Quaranta,/ con quello strazio in cuore che durava.// Però la ricompensa, infine, l’ebbe,/ quando il santo, guardandola negli occhi:/ ‟Non preoccuparti”, le rispose, ‟è salvo”. (Pag. 48).

Il poeta Dainotti si diverte a mistificare i fatti inserendoli ogni tanto in qualche contesto di vita diverso, come se Egli incorporasse due epoche lontane tra loro alfine di suscitare positiva nostalgia, «[…] levità fluttuante di un tempo ritrovato, alla maniera proustiana. La memoria involontaria del poeta interagisce con le immagini limpide ed icastiche, correlate al vulnus esistenziale e a dilaceranti brandelli di ricordi. Il sortilegio dell’immaginazione, nelle liriche di Fabio Dainotti, è determinato dal sentimento dell’assenza e dal vuoto della mancanza, che va ‟oltre la coltre del silenzio”.» (Dalla Postfazione di Carlo Di Lieto, pag. 61).

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