Ontologia-etica-virtuale

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Ontologia ed etica del virtuale di Giovanni Ventimiglia 1 0.

I termini della questione

Per “ontologia del virtuale” si intende il discorso sull’essere del virtuale, che consta di due momenti: a) il discorso sull’essenza del virtuale - indagine che in molti punti coincide con la semantica dell’aggettivo “virtuale”; b) il discorso sull’esistenza del virtuale. Per “etica del virtuale” si intende qui – come suggerisce Fabris in un contesto analogo - la riflessione su “quel mutamento nei comportamenti e nel pensiero a cui siamo indotti dalle nuove potenzialità” 2 dell’esperienza virtuale. Queste tre indagini corrispondono all’incirca con le risposte a tre domande: Che cosa è il “virtuale”? Il “virtuale” esiste? Il “virtuale” è bene? E’ evidente che non è possibile rispondere alla terza e alla seconda domanda, se prima non si è dato risposta alla prima. Ora, “virtuale” è un termine inflazionato. Viene utilizzato in contesti e con significati diversi. Per esempio, se dico: “quei due hanno una relazione solo virtuale”, intendo dire che i due hanno una relazione “non reale”. Se dico però: “consulto la bacheca virtuale del docente, per conoscere la data dell’esame” non utilizzo il termine “virtuale” nello stesso identico senso di prima. Infatti, non intendo dire che consulto una bacheca “non reale” – come farei a trarne fuori la data “reale” dell’esame? – ma semplicemente che consulto la bacheca del sito internet della Facoltà visibile nel link dedicato a quel dato professore. Il termine “virtuale”, come si vede, ha nei due casi significati diversi. Chiamo A il significato che emerge nel primo esempio – cioè “non reale” - e B il significato che si evince dal secondo esempio – che ha a che fare, in senso per ora molto lato, con le nuove tecnologie. Un terzo esempio basterà a complicare la situazione. Se dico: “ho sperimentato la realtà virtuale”, il significato del termine è più simile ad A o a B? Qualche indizio parlerebbe in favore di B - perché c’è di mezzo, come in B, un computer, una nuova tecnologia, il digitale - ma è evidente invece che il significato è più simile ad A: con il termine “realtà virtuale”, infatti, si intende piuttosto una esperienza simulata, fittizia, non reale. Insomma, c’è sufficiente confusione per giustificare una indagine. 1. Obiectiones Sul virtuale esiste una piccola ma interessante polemica filosofica. C’è infatti chi sostiene che il virtuale è “meno di reale” e chi, all’opposto, sostiene che si tratta di qualcosa di “più che reale”. 1.1. Il virtuale è meno di reale (realtà potenziale) Uno dei più significativi rappresentanti di questa corrente di pensiero è Jean Baudrillard. Secondo questo filosofo francese l’avvento del virtuale coincide con la fine del reale. Il virtuale è una fuga dal reale, una de-realizzazione. Nel testo dal titolo già significativo Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, si legge: «L’unica suspense che resti consiste nel saper fino a che punto il mondo possa derealizzarsi prima di soccombere alla sua scarsissima realtà (…) . La triste conseguenza di tutto ciò è che non si sa più che fare del mondo reale. Non si comprende più la necessità di questo residuo, divenuto 1

Professore ordinario di filosofia teoretica all'Istituto di Filosofia applicata della Facoltà di Teologia di Lugano. Professore incaricato di Filosofia teoretica, di antropologia filosofica e di teoria della persona e della comunità all'Università Cattolica (sede di Piacenza); professore incaricato di ontologia ed etica del virtuale al Master in comunicazione pubblica e politica dell'Università degli studi di Pisa. 2 A. FABRIS, Etica e comunicazione in rete, in Internet e l’esperienza religiosa in rete, a cura di P. Aroldi – B. Scifo, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 106.


ingombrante. Problema filosofico cruciale: quello del reale in cassa integrazione. Questo problema è d’altra parte identico a quello dello sciopero: che fare della forza-lavoro nell’era dell’informatica? Che fare di questo scarto esponenziale? Rinviarlo nei bidoni della spazzatura della storia? Metterlo in orbita, inviarlo nello spazio? Non ci si sbarazzerà facilmente del cadavere della realtà. Come ultima risorsa, si sarà costretti a farne un’attrazione speciale, una messa in scena retrospettiva, una riserva naturale: “In diretta dalla realtà! Visitate questo strano mondo! Concedetevi il brivido del mondo reale! / Esisteranno forse più tardi delle vestigia fossili del reale, come ne esistono delle ere geologiche passate? Esisterà un culto clandestino degli oggetti reali, venerati come feticci, e che assumeranno improvvisamente un valore mitico? L’oggetto di antiquariato sembra già un oggetto reale per contrasto con gli oggetti industriali, ma non è che una prefigurazione del tempo in cui il minimo oggetto percepibile sarà prezioso quanto una reliquia egiziana. / Fin d’ora lavoriamo solamente per coloro che un giorno ci scopriranno, noi e la nostra “realtà”, come vestigia di un’epoca misteriosa, o eterogenea, come il cranio di Piltdown: mescolanza di un cranio neandertaliano con la mascella di un australopiteco – ecco quanto troveranno più tardi gli archeologi di un’età metafisica, per i quali i nostri problemi saranno diventati inintelligibili quanto per noi il modo di vivere e di pensare delle tribù neolitiche. L’unico problema sarà quello della datazione e della classificazione, del fondo delle archeoteche, divenuti i campi di scavo dell’Era del Digitale. Non si sa quale Carbonio-14 permetterà, grazie alla radioattività moribonda di queste poche vestigia, di ricostruire la genesi di tutti questi concetti, per non parlare del loro senso. Nel frattempo, infatti, un’altra cronologia sarà nata – l’anno zero della Realtà Virtuale. Tutto ciò che viene prima sarà divenuto fossile“ 3. Sulla stessa lunghezza d’onda di Baudrillard si pone Paul Virilio. Nel saggio dal titolo anch’esso significativo, La bomba informatica 4, riprende e sviluppa alcune sue tesi, tra cui quella centrale della “derealizzazione”: “La famosa ‘realtà virtuale’, dunque, non è tanto la navigazione nel cyberpazio delle reti, è innanzitutto l’amplificazione dello spessore ottico delle apparenze del mondo reale” 5. Qualche pagina prima aveva parlato di “negazione della realtà oggettiva”: “Solo alcuni secoli dopo essere stata, con Copernico e Galileo, scienza dell’apparizione di una verità relativa, la ricerca tecnoscientifica diventa ormai una scienza della sparizione di questa verità, grazie all’avvento di un sapere cibernetico più che enciclopedico, il quale nega ogni realtà oggettiva. Così, dopo aver ampiamente contribuito ad accelerare i diversi mezzi di rappresentazione del mondo, con l’ottica, l’elettroottica, fino alla recente realizzazione dello spazio della realtà virtuale, le scienze contemporanee s’impegnano a contrario nell’eclissi del reale, nell’estetica della sparizione scientifica” 6. 3

J. BAUDRILLARD, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 8 e 48-49. La edizione francese era uscita con il titolo: Le crime parfait, Éditions Galilée, Paris 1995. 4 P. VIRILIO, La bomba informatica, Raffaello Cortina, Milano 2000. L’edizione francese è uscita nel 1998: La bombe informatique, Éditions Galilée, Paris 1998. 5 Ibi, p. 14. 6 Ibi, p. 3. E’ molto interessante la tesi di Virilio secondo cui il tempo reale squalifica ogni distanza spaziale e temporale – di nuovo un concetto di Baudrillard – e di conseguenza ogni azione. In tempo reale non esisterebbe vera azione ma solo una “reazione”, perché l’azione necessita di un tempo “non reale” (paradosso delle parole!): “Ogni volta che inauguriamo un’accelerazione, non solo riduciamo l’estensione del mondo, ma sterilizziamo anche gli spostamenti e l’ampiezza dei movimenti rendendo inutile il gesto del corpo locomotore. Analogamente, perdiamo il valore mediatore dell’’azione’ a vantaggio dell’’interazione’. (…). E’ proprio questo live, il tempo reale della mondializzazione: la luce della velocità vi soppianta quella del sole e dell’alternanza giorno/notte. L’irraggiamento elettromagnetico delle onde prevale sui raggi solari e sulle loro ombre, al punto che il giorno locale del tempo del calendario cede la sua importanza storica al giorno globale del tempo universale. Esempio tra i tanti di squalifica di ogni distanza, e dunque di ogni vera azione (…). Ogni volta che introduciamo una velocità superiore screditiamo il valore di un’azione, alienando


1.2. Il virtuale è più di reale (realtà potenziata) Alla linea di Baudrillard e Virilio si oppone la interpretazione di Pierre Levy. Nel libro forse più noto riguardo al concetto di virtuale si possono leggere affermazioni di questo tipo: «C’è da temere una derealizzazione generale? Una sorta di sparizione universale, come suggerisce Jean Baudrillard? Siamo forse minacciati dall’apocalisse culturale, dalla spaventosa implosione dello spazio-tempo, preannunciata, ormai molti anni fa, da Paul Virilio? Questo libro contiene un’ipotesi diversa, non catastrofica, e cioè che, nonostante gli indiscussi lati oscuri e terribili, le evoluzioni culturali in atto al volgere di questo millennio indichino un proseguimento dell’ominazione (…). Vedremo come il virtuale, rigorosamente definito, abbia poco a che fare con il falso, l’illusorio e l’immaginario. Il virtuale non è affatto il contrario del reale, ma un modo anzi di essere fecondo e possente, che concede margine ai processi di creazione, schiude prospettive future, scava pozzi di senso al di sotto della piattezza della presenza fisica immediata» 7. Più avanti afferma: “Generalmente, la parola virtuale viene utilizzata per significare l’assenza di esistenza pura e semplice, dal momento che la “realtà” implicherebbe una effettività materiale, una presenza tangibile. Ciò che è reale rientrerebbe nell’ordine della presenza concreta e ciò che è virtuale in quello della ‘presenza differita’ o dell’illusione (…). Come vedremo più avanti, questo approccio contiene una parte considerevole di verità, ma è decisamente troppo rozzo per costituire il fondamento di una teoria generale 8. E nell’epilogo si legge: “La virtualità non ha assolutamente niente a che fare con quel che se ne sente dire alla televisione. Non è affatto vero che si tratta di un mondo falso o immaginario” 9. Prima si era letto chiaramente: “Smettiamo di demonizzare il virtuale (trattandolo come il contrario del reale!). La scelta non si pone tra la nostalgia di un reale datato e virtuale minaccioso o viceversa allettante, ma tra diverse concezioni del virtuale” 10. La pars costruens del discorso di Levy si basa sulla tesi secondo cui il virtuale non si oppone a “reale” ma ad “attuale”. Mentre a “reale” si contrapporrebbe il “possibile”. Ecco, di seguito, lo schema riassuntivo dell’ontologia del virtuale di Levy: possibile

virtuale

reale

attuale

passaggio dal possibile al reale: realizzazione passaggio dal reale al possibile: potenzializzazione passaggio dal virtuale all’attuale: attualizzazione passaggio dall’attuale al virtuale: virtualizzazione Da questa ontologia del virtuale, Levy trae alcune conseguenze. La prima è che la virtualizzazione non è il passaggio dal mondo reale a quello possibile – come sosterebbe Baudrillard – ma il passaggio dall’attuale al potenziale, una sorta di elevazione a potenza dell’attuale. La cosa trova, il nostro potere di agire a vantaggio di quello di reagire, altra denominazione meno esaltante di quanto si definisce attualmente interazione” (Ibi, p. 115/116). 7

P. LEVY, Il virtuale, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 2. Ibi, p. 5. 9 Ibi, p. 140. 10 Ibi, p 109. 8


secondo Levy, persino una conferma filologica, dal momento che “virtuale”, derivando dal latino “virtualis”, ha la sua radice linguistica nella parola “virtus”, che significa “forza, potenza”. Il virtuale sarebbe cioè una realtà “potenziata”, non “potenziale” – come, di nuovo, penserebbe Baudrillard. La “potenza” del virtuale, al di là della filologia, consiste secondo Levy nella situazione di “deterritorializzazione” che riesce a creare. Con l’ausilio del virtuale infatti, l’uomo sarebbe in grado di liberarsi dalla dipendenza dal “ci” (“da” in tedesco) di heideggeriana memoria. In breve sarebbe in grado di superare i limiti spaziali e temporali impostigli dalla sua corporeità: può essere presente in tempo reale sul tavolo dello studio della sua società, grazie ad un semplice collegamento in rete, pur trovandosi fisicamente lontano, magari a casa sua. La seconda conseguenza dell’ontologia del virtuale di Levy è che la virtualizzazione, cioè il passaggio dall’attuale al virtuale che si caratterizza per la “deterritorializzazione”, è un processo che caratterizza l’”ominizzazione” dell’uomo fin dall’inizio, tanto da riguardare tutti gli ambiti della cultura e della tecnica. Dove c’è “deterritorializzazione”, li’ c’è anche “virtualizzazione”: per questo Levy parla di: virtualizzazione del corpo (con i trapianti, per esempio), del testo (con la lettura), della memoria (con la scrittura), del presente (con il linguaggio), dell’azione (con la tecnica), della violenza (con il contratto), dell’intelligenza singola (con internet e l’intelligenza collettiva). Tanto per spiegare solo uno di questi esempi: il linguaggio, in particolare il racconto, rende presente un fatto accaduto ieri. Di conseguenza, deterritorializzando quel fatto dal qui e l’ora in cui è accaduto, lo “virtualizza” – ma Levy scrive questa ultima parola senza virgolette. Dopo Levy, è opportuno citare qui anche un altro studioso francese che si è pronunciato, seppure con toni e modi diversi, contro la teoria della “derealizzazione”: Philippe Quéau 11. In un articolo molto interessante scrive, tra l’altro: “Qu’est-ce que le virtuel? Pour la pensée classique, le virtuel est un état du réel, et non pas le contraire du réel. Ce qui est virtuel dans le réel, ce sont les essences, les formes, les causes cachées, les fins à venir… Le virtuel c’est le principe actif, le révélateur de la puissance cachée du réel. C’est ce qui est à l’oeuvre dans le réel” 12. Più avanti, dopo diverse considerazioni anche critiche sul virtuale, tuttavia ribadisce: “On l’a déja dit amintes fois: le virtuel n’est pas le contraire du réel, c’est l’une des formes du réel, l’un de ses masques.(…) En ce sens le virtuel est bien réel, il peut même être en quelque sorte plus ‘réel’ que le réel” 13. A questo punto, già da questi brevi cenni, emerge la posta in gioco. La questione è la seguente: il virtuale è meno o più del reale? E’ una derealizzazione o è un reale potenziato, più reale del reale? 2. Respondeo 2.1. Semantica Per cercare di impostare una risposta alla questione sul significato di “virtuale” basterebbe cominciare con l’aprire un dizionario.

11

P. QUEAU, Le virtuel: Vertus et Vertiges, Champ Vallon-INA, Seyssel 1993; La planèt des esprits. Per une politique du cyberspace, Odile Jacob, Paris 2000. L’autore tenta di trovare una posizione media tra Levy e Baudrillard, sostenendo da un lato che il virtuale è uno “stato del reale”, dall’altro però che il rischio è quello della “derealizzazione”. 12 P. QUEAU, Les vois virtuelles du savoir, in A. PIROMALLO GAMBARDELLA (a cura di), Costruzione e appropriazione del sapere nei nuovi scenari tecnologici, Atti del corso di perfezionamento, CUEN, Napoli 1998, p. 158. 13 Ibi, p. 175.


Se consultiamo il Devoto Oli di qualche decennio fa, precisamente quello del 1967, scopriamo che “virtuale” significa “potenziale”, non ancora reale: “le sue qualità sono più virtuali che reali” significa nient’altro che sono in potenza e non in atto 14. Se però sfogliamo un dizionario più recente, per esempio il Vocabolario della Treccani del 1994, le cose cominciano a cambiare, perché, accanto al significato antico, se ne trova uno legato all’informatica: si parla di “memoria virtuale” e di “realtà virtuale”. Questa ultima viene definita così: “simulazione al calcolatore di una particolare situazione reale con la quale il soggetto umano può interagire, anche involontariamente, per mezzo di interfacce non convenzionali estremamente sofisticate…; simili tecniche sono usate, tra l’altro, nell’addestramento militare dei piloti (di aerei, carri armati) e nella modellistica di sistemi microscopici (per es., nello studio delle proprietà di biomolecole)” 15. La introduzione del significato di virtuale nel mondo informatico e, in particolare, il neologismo “realtà virtuale” è dovuto a Jaron Lanier, fondatore della Società Vpl (Virtuale Programming Language), il quale nel 1989, lo coniò per puro caso e su due piedi, come ha rivelato egli stesso, per dare un nome ai suoi esperimenti informatici. Da quel momento i dizionari lo prevedono, come abbiamo visto, estendendo l’uso dell’aggettivo anche ad altre realtà del mondo informatico: memoria virtuale, sesso virtuale, viaggio virtuale etc. E’ il caso del più recente Grande Dizionario Italiano dell’uso, a cura di T. De Mauro, del 2000, dove si legge, tra l’altro: “virtuale: inform., che si fonda sulla simulazione del reale mediato da mezzi elettronici: viaggio v., sesso v. “ 16. Come si vede, l’aggettivo virtuale usato nella nuova accezione “informatica” conserva ancora in parte il senso originario di “non reale”, perché si tratta pur sempre di “simulazione del reale”. Tuttavia emerge un dato nuovo: non si tratta di una simulazione qualsiasi, bensì di quella che si attua mediante un “calcolatore” (Treccani) o, più in generale, un “mezzo elettronico” 17. Questo dato basterebbe qui, da solo, a insinuare qualche dubbio sulla definizione di “virtuale” data da Pierre Levy. Questi infatti, partendo dal significato di virtuale come è venuto emergendo in Vocabolario illustrato della lingua italiana, a cura di G. DEVOTO – G.C. OLI, Le Monnier – Selezione dal Reader’s Digest, Milano 1967. Virtuale: “1. genrc. Ciò che è in potenza e non in atto: le sue qualità sono più virtuali che reali (…). Part. nella terminologia filosofica (…) In fis., la contrapposizione a reale, effettivo, si intende nel riferimento a grandezze introdotte convenzionalmente, per scopi di ricerca o di rappresentazione (…) 2. Pagamento v. di una tassa di bollo, quello che viene effettuato direttamente presso un ufficio governativo senza la materiale apposizione del bollo sull’atto per il quale la tassa viene pagata” p. 1531. 15 Vocabolario della lingua italiana, a cura dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da G. TRECCANI, Milano 1994. Virtuale: 1.a. In filosofia (…). b. In fisica (…). In informatica, memoria v., particolare modalità di gestione delle risorse di memoria di un calcolatore attraverso la quale i programmi possono utilizzare le memorie di massa come se fossero memorie di lavoro (…), grazie ad un sistema di indirizzamento indiretto (indirizzamento v.) gestito in maniera automatica dal sistema operativo; realtà v., simulazione al calcolatore di una particolare situazione reale con la quale il soggetto umano può interagire, anche involontariamente, per mezzo di interfacce non convenzionali estremamente sofisticate per esempio…; simili tecniche sono usate, tra l’altro, nell’addestramento militare dei piloti (di aerei, carri armati) e nella modellistica di sistemi microscopici (per es., nello studio delle proprietà di biomolecole). d. in telefonia (…). e. In anatomia, cavità virtuali (…). f. in linguistica strutturale, fonema v.. 2. Nell’uso com. o letter., di cosa che non è posta in atto, benché possa esserlo: le sue qualità sono più virtuali che reali (…). Nel linguaggio amministrativo (…)”. 16 Grande Dizionario Italiano dell’uso, a cura di T. DE MAURO, Utet, Torino 2000. Virtuale: 1a filos. potenziale (…). 1a estens., che esiste in potenza ma non si è ancora realizzato, teorico (…). 2 mat., fis., (…). 3. inform., che si fonda sulla simulazione del reale mediato da mezzi elettronici: viaggio v., sesso v. 4 burocr. esempi, tra gli altri, lavoro virtuale, immagine virtuale, memoria virtuale etc”. 17 Sto effettuando la stessa ricerca sui principali vocabolari monolingua delle lingue inglese, tedesca, francese, spagnola e russa. Allo stato attuale ho avuto conferma che anche in quelle lingue è avvenuto un fenomeno analogo, a proposito di “virtuale”, di quello appena descritto per la lingua italiana, ovvero che, accanto ai vecchi significati di virtuale, se ne è aggiunto uno nuovo, legato all’esperienza informatica. 14


questi ultimi anni nel campo dell’informatica, lo estende poi, retroattivamente, come abbiamo visto, a molte altre esperienze di deterritorializzazione che con i mezzi elettronici non hanno niente a che fare. E’ un punto su cui ritorneremo. Nel frattempo è utile soffermarsi su un illuminante articolo di Steuer: Definire la realtà virtuale: le dimensioni che determinano la telepresenza. Lo studioso di media parte da una critica di quelle definizioni di “virtuale” che fanno riferimento a specifici hardware tecnologici: computer, occhialini, baschetti, cuffie e guanti tattosensili. Il motivo è chiaro: si lega così il virtuale solo a strumentazioni che potrebbero benissimo cambiare in breve tempo, utilizzate, tra l’altro, esclusivamente in quella particolare esperienza chiamata “realtà virtuale”. Ora, poiché invece l’aggettivo “virtuale”, proprio nella accezione “informatica”, è associato anche ad altri sostantivi – memoria, viaggio, comunicazione, sesso, lavoro, etc. – e non solo a “realtà”, è utile svincolarlo da quegli specifici hardware. Steuer propone una definizione che faccia riferimento non ad hardware specifici ma ad una determinata esperienza: quella della telepresenza. La telepresenza è una esperienza che, a differenza della presenza fisica immediata, face to face, è mediata da un mezzo di comunicazione. Essa varia a seconda se si utilizza un vecchio o un nuovo mezzo di comunicazione (new medium). Ebbene, se si analizza attentamente il linguaggio ordinario - a cui spetta, mi sembra, almeno nelle questioni semantiche l’ultima parola - si scopre che l’aggettivo “virtuale” è utilizzato ai nostri giorni proprio in relazione alle esperienze che si possono fare con un new medium. Nel linguaggio ordinario si dice infatti: “sono in comunicazione virtuale con un amico in America”, pensando alla comunicazione tramite il new medium che è internet, non certo pensando alla comunicazione via telefono, né tanto meno alla comunicazione via “lettera”, o via “racconto” (come invece pretenderebbe Levy). E’ necessario, perciò, per comprendere meglio il significato di virtuale, riferire seppur brevemente dei nuovi media. 2.2. Virtuale e nuovi media Uno schema aiuterà a comprendere quanto spiegheremo di seguito.

multimedialità

ampiezza

interattività

profondità

velocità

gamma

controllo

L’esperienza “virtuale” realizzata con un new medium è caratterizzata da “vivacità” e “interattività” 18 . Per multimedialità o vivacità si intende «la ricchezza rappresentazionale di un ambiente mediato (…) ossia il modo in cui un ambiente fornisce informazioni ai cinque sensi» 19. Ora, la multimedialità di un medium è dato, a sua volta, almeno da due fattori: la “ampiezza” e la 18

Cfr. J. STEUER, Definire la realtà virtuale: le dimensioni che determinano la telepresenza, in La comunicazione virtuale. Dal computer alle reti telematiche: nuove forme di interazione sociale, a cura di C. Galimberti e G. Riva, Guerini Associati, Milano 1997, pp. 55-78. Cfr. anche: H. RHEINGOLD, La realtà virtuale, tr. it. di V. Soggini, Baskerville, Bologna 1993. 19 STEUER, Definire…, cit., p. 65.


“profondità”. La ampiezza si riferisce al numero delle dimensioni sensoriali simultaneamente coinvolte in una esperienza virtuale. La profondità si riferisce invece alla qualità della informazione sensoriale. Faccio qualche esempio: il telefono possiede una multimedialità bassa, perché dei cinque sensi coinvolge solo l’udito; il cinema coinvolge già di più, perché si basa su vista e udito. Immaginiamo ora un “new media” virtuale, come per esempio “Sensorama”. Si trattava di un simulatore, quasi come un gioco, che utilizzava contemporaneamente quattro dei cinque sensi per simulare una corsa motociclistica: i giocatori vedevano scorrere le strade di Manhattan, ascoltavano il rumore della moto, sentivano l’odore dei tubi di scarico delle altre macchine e della pizza cucinata negli autogrill adiacenti (le sensazioni olfattive sono state già digitalizzate) e sentivano le vibrazioni del proprio manubrio! Per comprendere la profondità o qualità, basterà pensare alla differenza tra una musica ascoltata su un vecchio grammofono e la stessa musica ascoltata per mezzo di un impianto stereo dotato di lettore CD: in questo ultimo caso si avrà la sensazione di sentire la musica “dal vivo”. Sommando adesso i due esempi è facile immaginare l’esperienza dell’utente di un gioco virtuale o di una comunicazione virtuale in cui tutti e cinque i sensi sono coinvolti (ampiezza), ricevendo informazioni sensoriali qualitativamente altissime (profondità): sarà un’esperienza così vivace da sembrare naturale o immediata. La telepresenza mediata da un new medium tende a imitare la presenza immediata. Tuttavia non basta ancora. Perché la seconda caratteristica fondamentale della esperienza “virtuale” con un new medium è la “interattività”, definita come “il livello di partecipazione degli utenti nel modificare la forma e il contenuto di un ambiente mediato”. La multimedialità e la profondità infatti, da sole non bastano per “simulare” una esperienza naturale e immediata: è necessario anche interagire con l’ambiente. Ebbene una esperienza “virtuale” possiede anche questo aspetto dell’esperienza immediata. La interazione è data, a sua volta, da tre fattori: “velocità”, “gamma” e “controllo”: “la velocità è il tempo che impiega ciascun dato per essere assimilato nell’ambiente mediato; la gamma è il numero di possibilità di azioni in un dato ambiente; il controllo è l’abilità di un sistema di verificare i propri controlli in un ambiente mediato in modo naturale e predicabile” 20. Anche qui aiuteranno alcuni esempi. La segreteria telefonica permette una interazione bassa quanto alla velocità, perché la interazione non avviene in questo caso in tempo reale, ma in differita. E’ chiaro che Internet prevede una interazione in tempo reale. Una trasmissione televisiva ha una bassa interattività, quanto alla “gamma”, perché prevede per il telespettatore solo due tipi di interazione: acceso/spento. La stessa trasmissione videoregistrata permette una interazione maggiore quanto alla gamma, come si intuisce. Per comprendere il controllo (o mapping) basterà pensare al passaggio dai sistemi di videoscrittura a tastiera ai sistemi che riconoscono la scrittura o la voce (user friendly): in questi ultimi casi la interazione con l’ambiente mediato sembra meno artificiale, più naturale. Se a questo punto immaginiamo, ma non è difficile prevederne la realizzazione nel futuro, una tecnologia in grado di realizzare una telepresenza che comprenda contemporaneamente alti livelli di multimedialità e interattività, il virtuale avrà raggiunto due dei suoi fini essenziali – che poi sono simili a quelli dei new media: 1) i vantaggi della esperienza mediata, cioè la possibilità di essere presenti in tempo reale in luoghi e tempi diversi; 2) la sensazione di “immediatezza” 21. 2.3. Virtuale come simulazione? Tre tipi di esperienza virtuale

STEUER, Definire…, cit., p. 71. Cfr. D. BOLTER – R.G. GRUSIN, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchia e nuovi, tr. it., Guerini e Associati, Milano 2002. 20 21


Se la proposta di Steuer - definire il virtuale come esperienza di telepresenza legata ad un new medium - è corretta, ne segue che virtuale (nel senso nuovo, legato al campo dell’informatica) non è aggettivo che designa necessariamente una “simulazione del reale”. Lo si puo’ già intuire da un passaggio dell’articolo di Steuer: “Presenza si riferisce alla percezione naturale di un ambiente e telepresenza alla percezione mediata dello stesso. Questo ambiente puo’ essere reale, ma trovarsi distante sia temporalmente che fisicamente (per esempio uno spazio distante visto attraverso una videocamera) o può essere un mondo virtuale animato, ma non esistente, sintetizzato dal computer (come un mondo animato creato in un videogame)“ 22. In altri termini si può benissimo avere esperienza “virtuale” (cioè multimediale e interattiva, grazie ad un new medium) di cose o soggetti reali! In particolare si possono chiamare virtuali almeno tre tipi di esperienza: 1) esperienza virtuale di cose/soggetti fittizi (computer games, realtà virtuale etc.); 2) esperienza virtuale di cose/soggetti reali (comunicazione in rete con web camere, etc.); 3) esperienza virtuale di cose/soggetti reali/fittizi (realtà aumentata, ubiquitous computing etc.). Tutti e tre questi tipi di esperienza sono realizzati con nuovi mezzi di comunicazione o nuove tecnologie e perciò a ragione si possono chiamare, sulla base della testimonianza del linguaggio ordinario, “virtuali”. 2.3.1. Esperienza virtuale di cose/soggetti fittizi (computer games, realtà virtuale etc.) Il primo tipo di esperienza si riferisce ai computer games e alla cosiddetta “realtà virtuale”. Un noto studioso di media, Bolter, scrive in proposito: “La realtà virtuale è immersiva; ciò significa che è un medium il cui scopo ultimo è quello di rendersi invisibile (…). Come affermano gli esperti di computer science, lo scopo della realtà virtuale è quello di incoraggiare nell’utente un senso di presenza: l’utente dovrebbe dimenticarsi che sta indossando un’interfaccia computerizzata e accettare l’immagine grafica generata come il proprio mondo visuale” 23. Da quanto si legge si puo’ dedurre che questo particolare tipo di esperienza virtuale – ma solo questo! – è una simulazione del reale, qualcosa d fittizio, finto, non reale, potenziale, derealizzante. Se esistesse soltanto questo tipo di esperienza virtuale, i detrattori del virtuale come Baudrillard e Virilio avrebbero ragione. 2.3.2. Esperienza virtuale di cose/soggetti reali (comunicazione in rete con web camere, etc.) Il sottotitolo del testo di Baudrillard che ho citato all’inizio di questo articolo suonava: la televisione ha ucciso la realtà? Il filosofo francese intendeva con questo denunciare il processo di derealizzazione iniziato con la televisione e culminato ai nostri giorni con l’avvento della realtà virtuale. Ora però bisogna notare a questo punto della nostra indagine almeno due fatti: 1. il linguaggio ordinario non chiama “virtuale” una esperienza mediata dalla televisione (si tratta infatti di un old medium); ammesso e non concesso che lo facesse, si riferirebbe ad una esperienza virtuale che, lungi dall’allontanare dal reale, intende al contrario monitorarlo. Ci viene in aiuto qui, di nuovo, il testo di Bolter e Grusin: “Se l’obiettivo del cinema è di farci dimenticare, almeno per un momento, dell’esistenza del mondo reale, al di fuori del locale di proiezione, quello della televisione è invece di ricordarci e di mostrarci costantemente il mondo in cui abitiamo (…). A differenza del cinema e della realtà virtuale, la televisione ci mette a confronto con la realtà della mediazione nella misura in cui monitora e riforma il mondo e, allo stesso tempo, le vite e le pratiche dei suoi abitanti” 24. Insomma, sembra proprio che i filosofi francesi alla Baudrillard e Virilio, presi dallo zelo della denuncia del processo di derealizzazione, finiscano con il fare un gran calderone di media, non STEUER, Definire…, cit. p. 58. BOLTER – GRUSIN, Remediation…, cit. p. 44. 24 Ibi, p. 228. 22 23


distinguendo tra vecchi e nuovi media e tra media che allontanano dalla realtà (come cinema, realtà virtuale e computer games) e media che invece mirano ad avvicinarvisi. E’ il caso di quel nuovo medium particolare che è internet, specie se dotato di web camere. “Le cosiddette web-cam – scrivono Bolter e Grusin - solo occasionalmente riconoscono il loro ruolo culturale come ‘televisione solo molto più avanti’. (…) Le web-cam si assumono il compito di monitoraggio che apparteneva in origine alla televisione e al video (…). Nell’attuale fase di sviluppo, il Web e gli altri servizi offerti da Internet hanno cominciato a far concorrenza alla televisione tradizionale nell’esercizio di questa funzione. (…) Come sempre Internet può offrire ai suoi utenti un tipo di interattività che non è paragonabile a quello della televisione tradizionale: in alcuni casi, l’utente può addirittura scegliere il tipo di inquadratura preferito” 25. Le domande a questo punto sono due: 1. la esperienza tramite internet e camera web mette in comunicazione con cose o soggetti fittizi, non reali, potenziali, sintetizzati, simulati, derealizzati? 2. il linguaggio ordinario usa l’aggettivo virtuale anche per questo tipo di esperienza? Se la risposta alla prima domanda è no e alla seconda sì 26 allora abbiamo insinuato un dubbio sulla interpretazione del virtuale fornita da Baudrillard e Virilio. 2.3.3. esperienza virtuale di cose/soggetti reali/fittizi (realtà aumentata, ubiquitous computing etc.) Il dubbio si rafforza poi se si considerano alcune forme di esperienza virtuale, dette “realtà aumentata” o “ubiquitous computing” che hanno come scopo dichiarato quello di servirsi di alcuni nuovi media (multimediali e interattivi) per comprendere e agire meglio nel mondo reale. Si tratta di una esperienza speculare alla “realtà virtuale” 27. Lascio la parola, di nuovo, al testo di Bolter, che contiene un riferimento critico proprio a Baudrillard: “Se esiste qualcosa che possa essere definito come una ‘tipica’ applicazione di realtà virtuale, essa assume la forma di uno spazio architettonico nel quale è possibile camminare, il modello tridimensionale di un edificio completo di corridoi e camere. Un architetto di edilizia residenziale può costruire un modello del genere per illustrare la propria idea al cliente, che altrimenti sarebbe incapace di visualizzare la casa solo mediante le copie eliografiche del progetto (…). In tali applicazioni, la realtà virtuale è compiuta in se stessa. Diventa così il simulacro di cui parlava Baudrillard (…). Accanto a questi sistemi opachi, tuttavia, esistono tecnologie ibride che aumentano la realtà e creano la telepresenza 28. Queste tecnologie hanno in comune con la realtà virtuale immersiva la capacità di collocare la grafica o il video davanti agli occhi dell’utente e spesso di impiegare i movimenti della testa e del corpo per controllare il display grafico (…). In questi casi però le immagini, invece di essere generate dal computer, come accade per i progetti architettonici di cui si è parlato in precedenza, provengono dal consueto mondo esterno, attraverso un video digitale. Questi sistemi di telepresenza sono collegati ai robot che ormai funzionano in diversi ambienti, dalle profondità oceaniche a quelle dello spazio extraterrestre” 29.

25

Ibi, p. 237-238. Si dice a giusto titolo una frase di questo tipo: “mi metto in comunicazione virtuale con Milano tramite la videocamera posta sul Duomo, visitabile su Virgilio, per veder che tempo fa”. 27 Cfr. G. BETTETINI – S. GARASSINI – N. VITTADINI, I nuovi strumenti del comunicare, Bompiani, Milano 2001, pp. 89-91. 28 Bolter e Grusin utilizzano il termine “telepresenza” in un senso diverso da quello utilizzato da Steuer. Per questo ultimo la “telepresenza” designa qualunque tipo di esperienza mediata da un medium (old o new che sia), mentre per Bolter e Grusin la “telepresenza” è un sinonimo di “realtà aumentata” o “ubiquitous computing” (letteralmente: “computer onnipresente”), e indica quel tipo particolare di esperienza mediata che si ha quando il medium viene utilizzato per “aumentare” con le sue capacità l’esperienza del mondo reale. 29 BOLTER – GRUSIN, Remediation…, cit., p. 245/246. 26


Questi ultimi esempi fanno intuire alcune applicazioni della realtà aumentata: si tratta di tutti quei casi in cui un uomo non è in grado di raggiungere quei luoghi, distanti, piccoli, pericolosi, a portata invece di robot, telerobot e microrobot. Alcuni sistemi di realtà aumentata per esempio sono in grado di portare i dottori all’interno del corpo del paziente e possono anche cambiare la scala di osservazione e di manipolazione degli oggetti. Invece di usare un endoscopio tradizionale la realtà aumentata permette al medico di esplorare - “virtualmente”! – la ricostruzione computerizzata dei veri! - organi interni del paziente, come se il medico fosse stato ridotto alle dimensioni di una sonda endoscopica. Altri sistemi di realtà aumentata possono essere utilizzati per operazioni di microchirurgia o per esplorare – virtualmente! – in modo multimediale e interattivo, siti lontani di centrali nucleari all’indomani di un incidente radioattivo. Il termine realtà “aumentata” si comprende in tutti questi casi perché alla esperienza “normale” del mondo viene sovrapposta la esperienza virtuale, così da ottenere una percezione migliore, aumentata appunto, del mondo reale. La conclusione è che “mentre la realtà virtuale sostituisce il mondo fisico con un simulacro, la telepresenza porta il mondo fisico dentro l’ambiente virtuale (e viceversa). Mentre la realtà virtuale abbandona il mondo, la telepresenza insiste sul fatto che i segnali generati dal computer e la strumentazione di comando in tempo reale sono parte del mondo fisico e possono essere accoppiati agli operatori umani nelle operazioni di modificazione dell’ambiente” 30. Il punto decisivo nell’economia del nostro discorso è che tutte queste esperienze di realtà aumentata sono chiamate a giusto titolo “virtuali”: esperienze virtuali di cose/soggetti reali/fittizi – dove il fittizio designa qui semplicemente la presenza della strumentazione e delle ricostruzioni, funzionali ad una migliore conoscenza del mondo reale. 3. Risposta alle obiezioni Sulla base dei dati acquisiti, siamo in grado ora di tentare una risposta alle opposte concezioni del “virtuale” analizzate nel primo paragrafo. 3.1.

Ontologia del virtuale:

3.1.1. L’essenza del virtuale, ovvero: che cosa è “virtuale”? Dal punto di vista del significato dell’aggettivo “virtuale”, emerge la seguente conclusione: mentre Baudrillard e Virilio mostrano una concezione troppo ristretta, Levy e Queau hanno una concezione troppo ampia di virtuale. Come abbiamo visto infatti, il linguaggio ordinario chiama virtuale ogni esperienza multimediale e interattiva, simile a quella immediata e naturale, mediata da un new medium: è questa anche la definizione di virtuale che proponiamo. Ora, si è avuto modo di notare proprio nel precedente paragrafo che è possibile avere esperienze virtuali anche di cose/soggetti reali. Di conseguenza non è affatto vero che il virtuale è sempre una esperienza di cose/soggetti sintetizzati dal computer e puramente fittizi, come teorizzano Baudrillard e Virilio. Mi sembra che il loro ragionamento nasconda almeno due veri e propri falsi sillogismi, che nascondono ciascuno una quaternio terminorum, basati su due assunti parziali: 1. il virtuale si riferisce alla realtà virtuale; 2. virtuale significa potenziale, non reale. Questi due assunti parziali fanno sì che il termine medio del sillogismo – “virtuale” – non sia preso mai in realtà in tutta la sua estensione, e di conseguenza determinano la infrazione della quarta legge del sillogismo: aut semel aut iterum medius generaliter esto. Vediamo però in concreto i sillogismi in questione. Il primo potrebbe essere riassunto così: - il virtuale è una realtà fittizia; 30

Ibi, p. 247.


- la comunicazione via internet è virtuale; - la comunicazione via internet è fittizia. L’errore consiste nel fatto che la premessa maggiore non è universale, riferendosi ad un tipo particolare di “virtuale” che è la realtà virtuale. Il secondo sofisma può essere invece espresso in questi termini: il virtuale è potenziale; la bacheca del docente sul sito internet dell’università è virtuale; la bacheca è potenziale. E’ evidente qui che il falso sillogismo è tutto giocato sulla duplicità semantica del termine virtuale. Se consideriamo invece la posizione opposta a questa, cioè quella di Levy e Queau, è evidente da quanto precedentemente scritto che non essa vince il confronto con il linguaggio ordinario. Virtuale infatti si riferisce ad una esperienza - come leggiamo già nel recente Grande Dizionario Italiano dell’uso, a cura di T. De Mauro, del 2000 e come è confermato dagli studi di Steuer - mediata da mezzi elettronici e in particolare da nuovi media. Di conseguenza non è corretto parlare del corpo virtuale grazie al trapianto, del testo virtuale grazie alla lettura, della memoria virtuale grazie alla scrittura, del presente virtuale grazie al linguaggio, dell’azione virtuale grazie alla tecnica, della violenza virtuale grazie al contratto, dell’intelligenza virtuale grazie all’intelligenza collettiva. Si tratta di una estensione indebita e infondata del significato moderno, informatico, del termine virtuale, che alla fine rende impossibile distinguere tra virtuale e virtuale: se tutto è virtuale, nulla è virtuale. 3.1.2. L’esistenza del virtuale, ovvero: il virtuale esiste? Tuttavia dietro la questione dell’essenza del virtuale, che ho seguito fin qui, coincidente in parte con l’indagine semantica, si nasconde la questione dell’esistenza del virtuale, di cui non si può più tacere. La polemica sul processo di “derealizzazione” messo in atto dal virtuale, infatti, pone sul tappeto una delle questioni più antiche dell’ontologia, seppure da una prospettiva nuova e, credo, stimolante: che cosa distingue il reale dal non reale? Che cosa è reale e che cosa non lo è? Il virtuale è reale o no? Anche su questo punto bisogna registrare un equivoco. Giacché non di rado i fautori della “derealizzazione” gridano allo scandalo della “sparizione” della realtà, denunciando con il virtuale l’avvento del nulla – temuto almeno tanto quanto desiderato 31. 31

La posizione di Baudrillard su questo punto è ambigua, perché la sua denuncia del processo di derealizzazione messo in atto dalle nuove tecnologie, la sua denuncia del delitto, lascerebbe intendere quantomeno la nostalgia e il rimpianto della realtà. Invece la sua tesi è che il delitto non è mai perfetto, perché “il cadavere della realtà non è mai stato ritrovato” (Il delitto perfetto… cit. p. 3), e non è stato ritrovato per il semplice motivo che “la realtà non ha luogo” (Ibi, p. 11). Non c’è dunque alcun rimpianto per la realtà, al contrario! Se non fosse che il metodo di Baudrillard è per sua natura ricco di volute contraddizioni, ironico, “patafisico”, bisognerebbe stupirsi di questa posizione, appunto, contraddittoria e ambigua. In effetti, la critica ai media sembra una messa in scena, quando si scopre che, in fondo, la loro forza derealizzante fa proprio molto comodo a Baudrillard stesso come esempio calzante della sua tesi nichilista. In altre parole: proprio mentre grida che i media hanno ucciso la realtà, Baudrillard sorride ironico e compiaciuto, perché la realtà, esattamente come sostiene la sua filosofia, non esiste. D’altro canto, però, Baudrillard, proprio per dare forza alla sua critica contro il virtuale, continua a denunciare la scomparsa del “vero altro” e dell’”altro reale”. Ora però “L’illusione, al pari del simulacro, non dovrebbe infatti comportare il superamento delle nozioni di verità e di realtà?” (G. PIANA, Baudrillard e il partito preso dell’illusione, Postfazione a Baudrillard, Il delitto perfetto…, cit., p. 166).


Il nulla però entra qui nel discorso, mi sembra, a causa di un sottile, ma indebito, slittamento del significato di “finzione”. “Reale” infatti viene considerato equivalente di “qualcosa che è”. Ora il contrario di reale è, di regola, il fittizio, mentre il contrario di essere è non essere, il nulla. Ma c’è una bella differenza tra il fittizio e il nulla! Giacché il fittizio, la finzione, persino l’illusione esistono, soltanto che ad essi non corrisponde nulla nella realtà di fatto. Nei termini dell’ontologia analitica si dice che non sono “istanziati”. Non c’è uno stato di cose a cui corrispondono. Questo però non significa che sono nulla. Significa che sono quello che sono, cioè finzioni. Poiché però sia il nulla che la finzione sembrano avere lo stesso contrario, cioè il reale, ecco che nasce l’equivoco. Si tratta però, appunto, di un equivoco e di conseguenza – mi dispiace per gli aspiranti nichilisti – il problema va ridimensionato. Chiedersi se esista il virtuale significa chiedersi semplicemente se al virtuale corrisponda qualcosa nella realtà di fatto o no, se, in altre parole, indichi sempre una finzione, un sogno. Non se sia una metafora del nulla. Ora, si è detto che il virtuale può essere definito più facilmente in relazione ad una “esperienza”, non in base ad tipo particolare di strumenti utilizzati (elmetti, casco, guanti etc.). Si definisce virtuale, lo ripetiamo, ogni esperienza multimediale e interattiva, simile a quella immediata e naturale, mediata da un new medium. Il problema, dunque, è il seguente: a questo tipo di esperienza corrisponde qualcosa nella realtà di fatto o si tratta di una esperienza del tutto identica alla favola o al sogno? Mi sembra opportuno distinguere, per chiarezza, il punto di vista dei soggetti della esperienza virtuale e il punto di vista della relazione soggetto-mondo, in cui consiste questa esperienza. 3.1.2.1. Dal punto di vista dei soggetti della esperienza virtuale Da questa prospettiva non si può affermare certo, come fanno Baudrillard e Virilio, che uno dei termini della relazione multimediale e interattiva che è la relazione virtuale sia sempre fittizio e derealizzato: si può avere una relazione virtuale con un amico vero, reale, dall’altra parte dell’oceano. Non si tratta insomma, come si è visto nelle pagine che precedono, solo di computer games e non è strategicamente utile combattere una battaglia contro il virtuale da questa posizione, facilmente attaccabile. 3.1.2.2. Dal punto di vista della relazione fra i soggetti Il problema si fa invece più complesso e delicato quando si considera la particolare relazione fra i soggetti, o fra il soggetto e il mondo, che si instaura in una esperienza virtuale. I filosofi secondo cui il virtuale è più di reale, intendono dire che all’esperienza virtuale non soltanto corrisponde qualcosa nella realtà di fatto, ma che quell’esperienza è superiore a quella naturale e immediata, superiore all’esperienza face to face. In un certo senso tali pensatori teorizzano la realizzazione di una dialettica perfetta tra questi tre termini: 1. esperienza naturale o immediata del mondo (tesi); 2. esperienza mediata, tecnica o artificiale, del mondo (antitesi); 3. esperienza virtuale del mondo (sintesi). Come per Hegel, il virtuale sarebbe qui l’inveramento della tesi, cioè il ritorno all’esperienza dell’immediatezza, con tutti i vantaggi della mediazione tecnica, che però nella sintesi è “superata” “aufgehoben” (quanto alla coscienza dell’esistenza del medium in mezzo tra soggetto e mondo). Con parole meno filosofiche: che differenza c’è tra incontrare l’amico in presenza e incontrarlo tramite un nuovo medium? Che differenza c’è tra effettuare una operazione chirurgica ad un paziente in presenza e effettuarla a distanza in un sistema di “realtà aumentata”? Secondo i filosofi del “virtuale più che reale” non soltanto non c’è alcuna differenza ma l’esperienza virtuale è come


quella immediata con tutti i vantaggi della mediata, cioè è migliore, più potente, “enhanced” di quella immediata e naturale. Come si potrebbe vedere a occhio nudo l’interno dell’organo del corpo del paziente per ricostruirgli, per esempio, la cornea? A occhio nudo non si è certi nemmeno del fuorigioco: ci vuole la moviola in campo! E poi come sarebbe possibile comunicare a distanza, in tempo reale, tra l’altro con tutti i vantaggi dell’esperienza naturale, ovvero con tutti i vantaggi della multimedialità e dell’interattività che riproducono in tutto e per tutto l’esperienza immediata e naturale? Da questo punto di vista l’esperienza virtuale sembra davvero una esperienza “dopata”, potenziata – si parla di “Enhanced Reality” -e la partita sembrerebbe vinta dunque da Levy. Eppure c’è qualcosa della tesi, cioè dell’esperienza naturale o immediata, che manca nella sintesi, cioè nell’esperienza virtuale. Considero il caso dell’esperienza virtuale meno virtuale di tutte e tre, più vicina all’esperienza immediata: quella della realtà aumentata. Mi chiedo che cosa le manchi dell’esperienza naturale. Leggo di nuovo dal testo piu’volte citato di Bolter e Grusin: “I sistemi di telepresenza usano segnali video e grafica digitale per collocare l’utente in un posto per lui irraggiungibile o inaccessibile. Un robot dotato di videocamera potrebbe essere inviato all’interno di una centrale nucleare all’indomani di un incidente, quando la radioattività raggiungesse livelli troppo elevati per qualsiasi essere umano, mentre i segnali che originano dalla videocamera potrebbero essere inviati a un tecnico posizionato a distanza di sicurezza” 32. Alla esperienza virtuale manca il rischio e, in generale, il negativo. Se si analizzano tutte le esperienze virtuali si può constatare che esse sono state costruite con l’intento di evitare il negativo: dolore del paziente, rischio di sbagliare per il chirurgo, difficoltà, noia, perdita di tempo, viaggio che si sarebbe dovuto intraprendere per andare lontano ad incontrare l’amico, rischio di vendere al cliente una casa che poi non risultasse di suo gradimento, spese economiche etc. Ho preso il caso della realtà virtuale “aumentata”, ma è evidente che la tendenza all’esonero dal negativo vale a maggior ragione anche per la “realtà virtuale” vera e propria: “In industrie dove il prototipo ha un costo elevato (aerospaziale, navale, automobilistico) la realtà virtuale può rappresentare una conveniente ed efficace alternativa alla costruzione fisica del prototipo stesso. Settori quali la medicina, l’educazione, l’aerospaziale, il militare, l’automobilistico e l’edile hanno già maturato una notevole esperienza nell’utilizzo della realtà virtuale soprattutto nelle attività di progettazione, training e pianificazione” 33. “Lo HMD 34 - ammette de Kerckhove - è stato adattato per simulazioni di volo dell’esercito da parte di persone che volevano sostituire l’addestramento costoso e potenzialmente mortale sugli aerei militari con il pilotaggio simulato al computer” 35. “Danger and caution – nota Heim – pervade the real (existencial) world, but virtual reality can offer total safety like the law of sanctuary in religious cultures (...). The final point of a virtual world is to dissolve the constraints of the anchored world so that we can lift anchor”. 36. “La realtà virtuale permette di compiere esperienze estreme senza doverle praticare realmente, evitando in questo modo il pericolo. Qualcosa del genere, inconsciamente, c’è anche nel sesso virtuale” 37. C’è da stupirsi di questa tendenza? Non è del tutto naturale, umana, la tendenza ad ottimizzare i risultati con il minimo sforzo? Non v’è alcun dubbio. L’esperienza virtuale segue qui in tutto e per BOLTER – GRUSIN, Remediation…, cit., p. 346. Corsivo mio. G. BERETTA, Lo stato del virtuale, in La realtà del virtuale, a cura di J. Jacobelli, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 7. 34 Si tratta dell’interfaccia originale della Realtà virtuale, elaborata fra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta dallo scienziato Ivan Sutherland. 35 D. de KERCKHOVE, La pelle della cultura, Costa e Nolan, Ancona-Milano, p. 101. 36 M. HEIM, The Metaphysics of Virtual Reality, Oxford University Press, New York – Oxford 1993, p. 137. Le àncore cui Heim si riferisce sono: la mortalità, la temporalità, la precarietà dell’esistenza umana. 37 E. MENDUNI, La morale della virtualità, in La realtà del virtuale, cit., p. 122. 32 33


tutto il destino della tecnica, che è proprio quello di agevolare l’uomo, di fargli avere la meglio, fin dall’invenzione della lancia di pietra, sul negativo del mondo. Più lo agevola, più lo esonera, come ha dimostrato acutamente Gehlen 38. Il punto centrale è però: tale esonero tendenziale dal negativo, tipico della tecnica e eclatante nel virtuale, è bene o e male? La parola passa all’etica. 3.2.

Etica del virtuale

Da un punto di vista strettamente – e forse riduttivamente – ontologico, l’esonero del negativo è qualcosa di positivo. Da un punto di vista etico, invece, l’esonero del negativo è qualcosa di negativo: non è il bene dell’esperienza umana. Naturalmente non parliamo qui di “etica nel virtuale” ma di “etica del virtuale”. In altre parole in gioco non è in questa sede il discorso sui singoli e concreti problemi etici e giuridici venuti alla ribalta con l’avvento delle esperienze virtuali, il discorso sui diritti umani più a rischio in questo campo: il diritto ad una informazione veritiera, non manipolata e tendenziosa; il diritto alla libertà senza condizionamenti ed inganni politico-mediatici; il diritto alla privacy senza controlli onnipresenti online; il diritto alla proprietà intellettuale etc. In gioco è qui invece, più radicalmente, il comportamento etico di fondo favorito dall’esperienza multimediale ed interattiva del mondo. Una esperienza, come si è visto, che tende ad esonerare l’uomo dal negativo. Ebbene, una tale tendenza non è bene, per il semplice motivo che contraddice precisamente la possibilità della costituzione dell’esperienza umana: è una esperienza che contraddice il nascere dell’esperienza. Fin dalle origini della civiltà, almeno quella occidentale, infatti, l’uomo di esperienza, saggioprudente, è colui che ha imparato dal negativo, ha imparato dal proprio soffrire, mentre è proprio il negativo ciò da cui l’esperienza virtuale intende congedarsi 39. Converrà rileggere in proposito una famosa pagina di Gadamer: “L’esperienza autentica è sempre un’esperienza negativa (…) Solo qualcosa di inaspettato può produrre, in chi possiede esperienza, un’esperienza nuova (…). L’esperienza è sempre anzitutto esperienza della nullità: in essa ci si accorge che le cose non sono come credevamo (…) Non significa solo esperienza nel senso di informazione che si possiede su questa o quella cosa (…). Per quanto possa costituire uno specifico obiettivo della preoccupazione educativa, per esempio dei genitori verso i figli, quello di risparmiare a qualcuno determinate esperienze, l’esperienza come tale nel suo insieme non è qualcosa a cui qualcuno possa sottrarsi. In questo senso, essa comporta necessariamente una molteplicità di delusioni e solo attraverso questa può essere acquistata. Che esperienza in questo senso indichi prevalentemente qualcosa di doloroso e di spiacevole non è indizio di una colorazione pessimistica del termine, ma è legato immediatamente alla sua stessa essenza. Già Bacone aveva insegnato che solo attraverso le istanze negative si perviene a una nuova esperienza. Ogni esperienza degna di questo nome viene a turbare una certa aspettativa. Sicché l’essere storico dell’uomo contiene come suo momento essenziale una fondamentale negatività, che viene in luce nel rapporto che si stabilisce tra esperienza e giudiziosità (…). Se si vuol citare un testo significativo per questo terzo momento costitutivo dell’esperienza che qui intendiamo evidenziare, Cfr. A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli 1983; IDEM, L’uomo nell’era della tecnica, Milano, Sugarco 1984. 39 De Kerckhove ritiene che i sistemi di reti neurali siano in grado di imparare dai propri errori e, di conseguenza, siano in grado di avere “esperienza”. Non è questa la sede per addentrarci nella questione specifica delle reti neurali, tuttavia si può dire qui, in estrema sintesi, che lo studioso interpreta alcune capacità delle reti neurali in modo antropomorfico. Cfr. D. de Kerckhove, La pelle della cultura… cit., p. 155. 38


esso andrà cercato senz’altro in Eschilo. Egli ha trovato, o meglio riconosciuto nel suo senso metafisico, la formula che esprime l’intima storicità della esperienza: imparare attraverso la sofferenza (patei matos)” 40. Ora, mi sembra sia proprio in questa ottica – che è fondamentalmente etica – che trovano giustificazione e senso le critiche alla derealizzazione dell’esperienza, messa all’opera dal virtuale (critiche che invece non avrebbero senso se intese in un senso strettamente ontologico). “La migliore strategia per rovinare qualcuno è quella di eliminare tutto ciò che lo minaccia e di fargli così perdere tutte le sue difese, e la stiamo applicando a noi stessi (…). Il concetto di realtà, se rinforza l’esistenza e la felicità, rende ancora più sicuramente reali il male e la sventura. In un mondo reale anche la morte diventa reale, e secerne un terrore che ha la sua stessa forza. In un mondo virtuale, invece, facciamo a meno della nascita e della morte e al tempo stesso facciamo a meno di una responsabilità talmente diffusa e opprimente da non poter essere assunta” 41. La esperienza virtuale, anche quella di soggetti/cose reali, è pur sempre una esperienza che tende ad essere schermata, protetta. La parola “schermo” a questo proposito è illuminante: utilizzata per intendere qualcosa come una finestra sul mondo, significa in realtà schermo, scudo, difesa. L’esperienza virtuale è potenziata ma, nella misura in cui tende ad essere protetta, può trasformarsi in esperienza potenziale. E il motivo, alla fine, è chiaro, una esperienza umana vera, non può non passare attraverso il negativo. “Il virtuale è una nuova forma di realtà: una realtà senza rischi. Ed è proprio qui che io vedo il grande pericolo del virtuale. Perché il rischio è il sale della vita. C’è eccitazione solo se una donna ti può dire di no, c’è ebbrezza nel volo se si può anche cadere (...). Così il virtuale vuole provocare emozioni e sensazioni togliendo di mezzo ciò che le provoca: il rischio e l’ostacolo vero e non simulato. E’ un viagra elettronico (…). Quando andiamo a battere il muso contro la dura realtà (…) siamo impreparati ad affrontarla, come bambini che si siano trastullati troppo a lungo nei loro giochi fantastici” 42. Potrebbe sembrare che tali considerazioni valgano soltanto per la cosiddetta realtà virtuale – ricadremmo allora nell’errore che abbiamo contestato ai teorici della “derealizzazione” – ma non è così. Di nuovo, come sopra, sarà bene ricordare che l’esonero del negativo è una legge tipica anche 40

H.G. GADAMER, Verità e metodo, tr. it., Bompiani, Milano 1994, p. 409. BAUDRILLARD, Il delitto perfetto…, cit., p. 43. Lellouche ha notato in proposito che “si tratta di una non-realtà che consente nondimeno la strutturazione d’una esperienza reale. Qualcosa che ci lascia liberi di agire senza toccare la realtà, oppure di addestrarci al rapporto con il reale, o di agire senza affrontare pericoli” (R. LELLOUCHE, Théorie de l’écran, un testo pubblicato sul n.2 della rivista online Traverses (www.cnac-gp.fr/traverses). Per la Fiorani si tratta, analogamente, “di una fuga dalle cose terrestri e corporali, con la loro grazia e la loro pesantezza, con il loro carico di fatica e di morte” (E. FIORANI, La comunicazione a rete globale, Lupetti, Milano 1998, p. 33). Una idea simile esprime anche Queau, quando parla dell’incidente come prova del reale: La planèt des esprits…, cit., pp. 97-99. 42 M. FINI, Il viagra elettronico, in La realtà del virtuale..., cit., p. 75/76. Il tema, molto interessante, dell’infantilismo, cioè di uomini non maturi, che non hanno fatto esperienza, è presente anche in Virilio: “Fin dalla prima metà del XIX secolo, Witold Gombrowicz e diversi suoi contemporanei avevano constatato che il segno della modernità non era la crescita o il progresso umano, ma al contrario il rifiuto di crescere: ‘L’immaturità e l’infantilismo sono le categorie più efficaci per definire l’uomo moderno”, scriveva Gombrowicz. Dopo le metamorfosi telescopiche di Alice, si era arrivati a Peter Pan, il bambino che voleva ostinatamente sfuggire al proprio futuro. Sembrava che il passaggio all’età adulta, fondamentale nelle antiche società non potesse più prodursi in una civiltà in cui ciascuno continuava a giocare senza limiti d’età (…). In effetti, ricorrere prima di tutto alle illusioni di reti che mettono in atti la velocità assoluta d’impulsi elettronici, i quali sarebbero capaci di dare istantaneamente ciò che il tempo concede solo poco alla volta, significa non solo ridurre a poca cosa le dimensioni geografiche del mondo reale come fa l’accelerazione dei veicoli rapidi da più di un secolo, ma soprattutto dissimulare l’avvenire nella durata ultrabreve di una diretta telematica – fare in modo che il futuro accadendo adesso non sembri più esistere… No future – è l’eterna adolescenza…” (P. VIRILIO, La bomba…, cit. pp. 89-90). 41


delle esperienze di cose/soggetti reali (comunicazione in rete con web camere, etc.) e delle esperienze virtuali di cose/soggetti reali/fittizi (realtà aumentata, ubiquitous computing etc.). Ho citato sopra il caso di un sistema di telepresenza, utilizzato grazie ad un robot all’interno di una centrale nucleare all’indomani di un incidente. Si potrebbe anche citare il caso della “telechirurgia”, appartenente all’esperienza virtuale del terzo tipo, quello della telepresenza: perché metterla in pratica, se non perché permette interventi “più precisi e meno rischiosi”? Si delinea a questo punto una situazione paradossale. Qual è fra le esperienze umane quella in cui il negativo non spaventa davvero, non fa male, quella in cui, alla fin fine non si rischia? Precisamente la finzione, la favola, il sogno. “Era solo un sogno”, diciamo infatti, quando vogliamo indicare la circostanza di un male, di un negativo, di un pericolo che, per fortuna, non fa male! E, d’altra parte, per capire se si sogna o si è desti, siamo soliti dire al vicino, quasi scherzando: “dammi un pizzicotto!”. Come dire: se fa male, non è un sogno! La paradossalità consiste in questo. Di regola, come abbiamo visto, i detrattori dell’esperienza virtuale sostengono che si tratta di una esperienza non reale, nel senso di finta, proposta come se fosse reale. Si è avuto modo di notare che questo può valere, semmai, solo nella esperienza della “realtà virtuale” vera e propria, ma non può valere nelle esperienze di comunicazione con web camera e in quelle di telepresenza. In tutte e tre, invece, a motivo della tendenza all’esonero dal negativo, di cui andiamo parlando, si ritrova un’altra caratteristica, opposta a quella denunciata da Baudrillard e Virilio e cioè quella di essere esperienze reali, vissute come se fossero finte. Non si tratta tanto di simulazioni della realtà ma, al contrario, di simulazioni di sogni. Dove, appunto, il male non fa male, non viene davvero subito e nemmeno realmente inflitto. Dove, di conseguenza, non esiste vera responsabilità. Il caso del chirurgo che opera in telepresenza è emblematico. Come nota Maldonado, chirurgo è etimologicamente, colui che opera con la propria mano (cheirourgós). Da questo punto di vista è colui che si prende le responsabilità in prima persona. Ebbene, quando opera in un sistema virtuale di telechirurgia a distanza “delega a dispositivi telecomandati della responsabilità attuativa dell’intervento chirurgico vero e proprio” 43. Nessuno è stato mai condannato per avere ucciso un altro uomo in sogno. Nel sogno vige l’impunità. Se ora, l’esperienza multimediale e interattiva del mondo, cioè virtuale, tende a somigliare al sogno a motivo dall’esonero dal pericolo (dal rischio, dal male, dal negativo) che la contraddistingue, la conseguenza sarà la tendenza alla non responsabilità, alla impunità. Con tutte le riserve che abbiamo sollevato, rimane vera l’intuizione di Baudrillard: “All’illusione tragica del destino preferiamo (…) l’illusione virtuale, quella del né vero né falso, del né bene né male, quella di un’indistinzione del reale e del referenziale, quella di una ricostruzione artificiale del mondo in cui, a costo di un totale disincanto, godremo di un’immunità totale” 44. 4.

Conclusione

Da un punto di vista etico l’esonero del negativo è qualcosa che non fa bene all’esperienza. L’esperienza virtuale non rappresenta il bene-essere dell’esperienza. Ora, questo non può non avere ripercussioni anche sull’ontologia del virtuale, intesa stavolta in senso ampio. Perché, se la risposta alla domanda “esiste il virtuale?” può e deve avere una risposta positiva, tuttavia bisognerebbe subito aggiungere che, se esiste, certo - da solo - non sta tanto bene! Il virtuale è dunque più o meno del reale? Spero di aver dato sufficienti elementi per una risposta articolata. 43

T. MALDONADO, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997, p. 153. Cfr. anche di Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992. 44 BAUDRILLARD, Il delitto perfetto… cit., p. 47.


5.

Postilla contro il piagnisteo

Il discorso sull’esperienza virtuale, che tende ad esonerare dal negativo, indispensabile, al contrario per la costituzione di una esperienza umana autentica, potrebbe indurre al piagnisteo. Che è infecondo, per natura, e disimpegnato. Che fare dunque? Non si tratta di demonizzare l’esperienza virtuale, né ingaggiare contro di essa una battaglia, che sarebbe persa in partenza. Il punto è pensare politicamente il virtuale, progettarlo in modo che esso non tenda a sostituirsi al reale ma ad introdurlo o, nel piccolo, viverlo personalmente come un’anteprima del reale. Levy ritiene che il virtuale abbia una innata tendenza non a sostituirsi al reale ma a moltiplicare le occasioni per attualizzarlo. Tanto per fare un esempio: le comunicazioni virtuali tra persone sconosciute di paesi diversi possono indurre gli uomini a contentarsi del contatto virtuale oppure possono far nascere il desiderio di viaggiare, di incontrarsi faccia a faccia. Per Levy questa seconda possibilità è una intrinseca necessità del virtuale 45. A me sembra invece un compito.

45

Cfr. P. LEVY, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano 2001. Mi sembra che anche Bettetini, seppure senza dogmatismi filosofici, ma sulla base di oggettive constatazioni, si muova in questa direzione: cfr. G. BETTETINI, Internet, in La realtà del virtuale… cit., pp. 16-21.


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