LA TROTTOLA DI MINERVA

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LA TROTTOLA DI MINERVA Devid Roselli

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A Monica, Stefano, Elisa, Matteo, Elisabetta, Yuri, Chiara, Salvatore, Andrea. E naturalmente alla mia insostituibile Pulce!

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Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Le idee e le riflessioni qui esposte non hanno l’intento di urtare la sensibilità di alcuno, ma mirano esclusivamente all’arricchimento della trama narrata. Per quanto siano presenti dei giudizi a volte taglienti su alcuni aspetti del mondo della scuola e dei professionisti che in esso operano, l’autore non può che rivolgere un pensiero carico di stima e di gratitudine verso tutti quei colleghi, quei Dirigenti Scolastici, quei collaboratori tecnico-amministravi e verso tutti gli studenti che nel corso del suo non breve precariato ha avuto l’inestimabile fortuna di incontrare e di conoscere. Nonostante la presenza di una folta schiera di aneddoti caricaturali che a volte mettono in cattiva luce alcune figure professionali coinvolte nel dialogo educativo, l’autore sa che il lavoro dell’insegnante, nonostante tutto, merita una considerazione e un rispetto assoluti. E’ ferma convinzione di chi scrive, infine, che per operare all’interno della scuola occorra una buona dose di autoironia, che all’autore non manca. Del resto, se si ha la pretesa di esser presi seriamente da una platea di adolescenti che affollano le classi, bisogna anche saper scherzare su se stessi e sul proprio lavoro, e non erigersi a gelosi ed esaltati custodi di Saperi lontani anni luce dal quotidiano vissuto dei ragazzi.

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Alle studentesse e agli studenti della scuola italiana

Care ragazze e ragazzi, vi scrivo come Ministro, come padre ma soprattutto come italiano a voi che rappresentate il futuro del nostro Paese. Oggi siete stati selvaggiamente colpiti, per la prima volta nella nostra pur travagliata storia unitaria e repubblicana, davanti ad un edificio pubblico nel quale vi stavate recando sicuri di essere protetti, per imparare a diventare cittadini. Capisco dunque che dentro ciascuno di voi e tra i vostri amici e compagni di classe possa nascere, assieme al dolore per la morte assurda della vostra compagna, un sentimento di sgomento per essere stati aggrediti lì dove non doveva succedere. Il vostro sgomento è quello di tutti. Colpire da vigliacchi una scuola è infatti colpire l’Italia intera, perché lì si forma il suo futuro. Dovete credermi, sento profondamente questa responsabilità e con me tutto il Governo e l’Italia intera. Faremo di tutto perché una cosa del genere non succeda mai più, affinché voi entrando nella vostra scuola pensiate solo ai compiti e allo studio, alle amicizie e allo sport. Immagino vi siano dentro di voi sentimenti come dolore e rabbia: non abbiate paura di averli. Oggi sono naturali. Solo vi dico e vi chiedo di non cedere ad essi, pensando di essere soli. Non lo siete. Siete invece la parte più importante di una grande comunità sulla quale potete contare, a partire dai vostri insegnanti e dal personale che lavora nella scuola. Sulla forza e sulla saldezza di questa comunità che ha in voi il suo futuro potrete fare affidamento affinché domani questi sentimenti possano lasciare il posto alla speranza e alla fiducia. Speranza che il Paese nel quale vivete diventi sempre più a vostra misura e sempre meno ceda spazio a illegalità e violenza. Noi sapremo unirci: voi potete contare su di noi. Nelle prossime ore e nei prossimi giorni lavorerò ad iniziative in questo senso. Vi dimostreremo che i terribili fatti di oggi sono un segno di debolezza e non di forza di chi li ha compiuti. Vedrete che non sarete lasciati soli. A presto Francesco Profumo

Con queste parole l’attuale Ministro della Pubblica Istruzione Francesco Profumo ha inteso assicurare la vicinanza delle Istituzioni e dell’Italia intera non soltanto agli amici e ai compagni di studio della giovane ragazza uccisa nell’orribile attentato che ha colpito l’Istituto Morvillo-Falcone di Brindisi, ma più in generale a tutte le studentesse e gli studenti italiani. Ho ritenuto opportuno riportare questa lettera in apertura di questo mio libro, in primo luogo perché ritengo che il contenuto e la finalità del messaggio siano pienamente condivisibili, e poi anche perché ricordo benissimo come le parole del Ministro, lette in tutte le classi della scuola italiana, abbiano ricevuto, a differenza di tutte le altri circolari o comunicazioni di cui solitamente si dà lettura in aula, un’attenzione molto particolare da parte di tutti gli studenti. All’indomani dell’attentato, al nostro rientro a scuola, io e i miei colleghi assieme agli studenti e a tutto il personale della scuola eravamo visibilmente scossi per quanto accaduto, e la lettura delle parole del Ministro -con il quale non sempre e non necessariamente bisogna essere in disaccordo- ha rievocato in noi il sopito sentimento della sacralità, dell’importanza e della ricchezza che l’esperienza e le istituzioni scolastiche portano con sé. A poche settimane dall’attentato i dubbi sia sulla matrice che sulla identità degli esecutori materiali non sono stati del tutto fugati, anzi: rispetto ad un iniziale ottimismo ingenerato dalla presenza di immagini videoregistrate che avrebbero dovuto consentire una rapida conclusione delle indagini, ad 4


oggi sappiamo soltanto che le piste investigative si stanno ulteriormente ramificando. Ma questo non è necessariamente un male: è meglio attendere con calma e criticità di giudizio che la magistratura impieghi il tempo necessario per arrivare ad una verità certa e incontrovertibile, piuttosto che assistere al dilagare di indiscrezioni e sospetti, mezze verità e mezze smentite da dare in pasto ad una famelica opinione pubblica ancora troppo frastornata e confusa. Spero vivamente che nel giorno in cui questo libro vedrà la luce i responsabili di un crimine così aberrante saranno stati assicurati alla giustizia già da molto tempo. L’attentato di Brindisi, e l’uccisione della giovanissima Melissa Bassi, credo siano uno spartiacque nella storia pur tormentata del nostro Paese. Come è stato detto da tutti, come è stato ricordato dal Ministro nella sua missiva, mai, in nessun momento della nostra storia unitaria e repubblicana, un attentato terroristico ha preso di mira una scuola. Sono state messe bombe sui treni, nelle stazioni ferroviarie, sugli aerei di linea, nelle banche e nelle piazze. La complicità di alcuni apparati deviati dello Stato nella strategia delle tensione oramai non è messa in discussione da nessuno storico accreditato. Abbiamo assistito a tentativi di golpe, a gambizzazioni, insomma all’espletarsi di attività terroristiche della peggiore specie; ma un attentato in una scuola costituisce un precedente del tutto inaudito che ci deve far riflettere. Sarà compito degli inquirenti stabilire le responsabilità e ricostruire dettagliatamente l’andamento dei fatti, ma non si può certamente nascondere che questo vile attentato cade in un momento di grave crisi economica, morale, culturale e istituzionale del nostro Paese. Colpire una scuola e uccidere dei ragazzi che lì si recano per costruire il proprio futuro, per costruire il futuro del loro Paese, significa mortificare il percorso di crescita che lo Stato Repubblicano vuole assicurare ai propri giovani. Quanto più si fanno insistenti e scalpitanti le urla belluine di chi sostiene che “la mafia è meglio della politica”, tanto più le forze democratiche del nostro Paese devono essere vigili ed avere la capacità morale e politica, dai vertici dello Stato fino ai suoi più umili funzionari, dalla società civile al mondo del lavoro, di reagire a questa ondata di qualunquismo e di sfascismo che sta corrodendo e smantellando quanto di buono i nostri Padri Costituenti ci hanno lasciato: il senso di un’identità nazionale condivisa; la solidarietà derivante dall’appartenenza ad un’unica comunità democratica e libera; l’orgoglio, nonostante tutto, di essere italiani. 1. BREVE PREMESSA Questo libro ha la pretesa di parlare di scuola, se non altro perché l’autore è un insegnante precario e di altro non saprebbe assolutamente parlarvi. Il Professor Sfaticati è il protagonista un po’ stravagante e un po’ lassista che ci accompagnerà per tutto questo itinerario, itinerario che ripercorrerà un anno di lezioni, di amicizie e di esperienze all’interno del Liceo romano nel quale il nostro antieroe si è ritrovato ad operare. E’ attraverso le avventure e le disavventure del nostro prof che l’autore si ripromette di accostare le gentili lettrici e i gentili lettori al complesso, a volte imponderabile, se non del tutto ineffabile mondo della scuola pubblica italiana. Tuttavia, non è pleonastico specificare sin da ora e a scanso di interpretazioni equivoche che le condotte illegali poste in essere dallo stesso professor Sfaticati non appartengono minimamente allo stile e alla deontologia professionale dello scrivente, ma sono frutto di artifici letterari volti all’accrescimento dell’interesse e della piacevolezza della trama narrata! Spero che almeno questo, benché scarsamente credibile, sia chiaro! Preme sottolineare come questo libro, pur ripromettendosi di indagare lo squinternato mondo della scuola, eviterà accuratamente di tirare in ballo cifre, statistiche, studi europei o americani in relazione all’efficacia del nostro sistema scolastico e alla competitività dei nostri studenti e dei nostri professori rispetto ai parametri d’oltralpe o d’oltreoceano. E’ ferma convinzione di chi scrive che sistemi scolastici variegati se non addirittura alternativi, come ad esempio quello anglosassone e 5


quello italiano, non possono essere misurati nella loro efficacia e nella loro incidenza con gli stessi e identici metri di giudizio. La scuola non può in alcun modo essere considerata un comparto che si possa isolare e misurare indipendentemente da altri fattori che descrivono la società in cui essa è calata, quali la produzione industriale, la disoccupazione, il lavoro minorile, l’immigrazione ecc. La scuola è e rimane, in tutti i Paesi, uno -e non necessariamente il più importante- dei settori strategici, dei comparti socio-culturali, che descrivono e costituiscono un sistema molto più ampio ed olistico che è il sistema Paese. Ricorrere a dati numerici, a fredde statistiche, alla media dei voti di diploma assegnati, al rapporto medio professori/alunni, al numero di ore lavorative e alle retribuzioni medie dei professori ecc., per poi procedere a miopi e fuorvianti comparazioni fra vari sistemi scolastici, significa non voler indagare una realtà che trascende le mere quantificazioni statistiche. Da questo punto di vista -e dispiace anche un po’ ammetterlo- la pretesa positivista e sociologica di estendere le misurazioni e il metodo scientifico alle realtà sociali e umane, nel settore scolastico appare quanto mai problematica ed elusiva. Ancora non si hanno a disposizione, credo, gli strumenti scientifici adeguati per testare l’efficacia delle singole realtà scolastiche, e le opposizioni e le turbolenze che ogni volta solleva in Italia l’estensione e la somministrazione delle prove INVALSI sono altamente emblematiche della scarsa attendibilità degli studi e delle analisi tendenti ad una quantificazione del rendimento scolastico in termini puramente numerici. Nel ripercorrere le vicissitudini del nostro professor Sfaticati terremo conto, quindi, più che di fredde statistiche e incerte misurazioni, dei reali contatti umani che in un intero anno scolastico il nostro protagonista ha intessuto e vissuto. Il fine non è necessariamente pedagogico o scientifico. L’autore non si ripropone certo, traducendo in questa sede le peripezie del nostro protagonista, di agevolare una comprensione vagamente esaustiva della realtà scolastica dei nostri giorni. Né si ripropone di suggerire interventi legislativi atti al miglioramento del nostro bistrattato sistema scolastico. L’unico intento, semmai, è quello di rappresentare in questa modesta sede spunti e occasioni utili per una più attenta e serena riflessione attorno al mondo della scuola, mondo dove persistono realtà confliggenti, controverse, sistemi di eccellenza e sistemi da terzo mondo, studenti geniali, puntuali e carismatici e studenti il cui bullismo minaccia di intaccare la regolarità stessa delle attività didattiche, professori scansafatiche e professori stakanovisti, insomma un insieme di realtà che appare impossibile ricondurre a unità e sottoporre a sintesi numeriche. 2. LA CONVOCAZIONE DEL CENTRO SERVIZI AMMINISTRATIVI Fino a qualche anno fa esistevano dei carrozzoni pubblici che si chiamavano Provveditorati agli Studi, ed erano distribuiti su base provinciale. Oggi le esigenze di razionalizzazione e gli ingenti tagli imposti all’amministrazione pubblica hanno dettato una serie di riforme draconiane, la conseguenza più immediata delle quali risulta essere, nel settore almeno attinente al nostro racconto, oltre al rischio immediato di chiusura di tutte le strutture scolastiche, anche il cambiamento di denominazione del Provveditorato agli Studi della Provincia di Vattelappesca in Centro Servizi Amministrativi della Provincia di Vattelappesca, mantenendo ovviamente invariato il numero dei dipendenti pubblici in esso insistenti. I Centri Servizi Amministrativi delle varie province assolvono le medesime funzioni che in precedenza assolvevano i Provveditorati agli Studi: informano l’utenza circa gli ordinamenti e le scuole presenti sul territorio provinciale; informano sui progetti educativi posti in essere dalle scuole a livello locale e provinciale; esplicano tutte le attività volte all’integrazione degli studenti extracomunitari nel territorio provinciale; mettono in contatto molto agevolmente l’utenza, sempre più desiderosa di ragguagli dettagliati, con le singole realtà scolastiche al fine di garantire una maggiore fluidità nell’incontro tra le esigenze del territorio e le offerte formative derivanti dai singoli Istituti; informano inoltre l’utenza circa i numeri telefonici, il numero di fax e addirittura circa le email da contattare per avere maggiori informazioni circa le funzioni assolte dal Centro Servizi Amministrativi. I Centri Servizi Amministrativi, o CSA, assolvono queste ed altre funzioni 6


fondamentali, ma probabilmente è un segreto di pulcinella tra gli addetti del mondo della scuola che in poche parole i CSA non rimangono altro che dei carrozzoni pubblici molto più utili agli impiegati statali ivi assunti piuttosto che all’utenza assai disinteressata alle sue reali funzioni. Anche il nostro professor Sfaticati non si sarebbe mai interessato alle reali funzioni dei CSA, se non fossero dipese da queste le sorti della sua non brillantissima carriera. In effetti -e questo lo ignorava il nostro disattento professor Sfaticati- nella scintillante rassegna delle competenze assegnate ai CSA troviamo certamente una molteplicità di funzioni piuttosto variegate, ma ce n’è una che riguarda in modo piuttosto diretto tutti i precari della scuola -laddove per precari della scuola s’intende quei docenti o quegli assistenti tecnico-amministrativi (già bidelli) che firmano con il Ministero della Pubblica Istruzione contratti di lavoro a tempo determinato, per esser ripetutamente licenziati e riassunti fino alle soglie del loro pensionamento. Compito dei CSA infatti è quello di definire e pubblicare le graduatorie provinciali in base allo scorrimento delle quali vengono di volta in volta assegnate le cattedre a beneficio della folta platea di aspiranti. All’inizio della sua carriera, nessuno del mestiere aveva avuto la premura né l’accortezza di ragguagliare il nostro sbadato professor Sfaticati circa il fatto che il mefistofelico Centro Servizi Amministrativi della Provincia di Roma, così come del resto tutti i CSA di tutte le Province d’Italia, non avrebbe convocato personalmente gli insegnanti in graduatoria né attraverso fonogramma, né attraverso una semplice telefonata, né attraverso una email. Il professor Sfaticati non era al corrente del fatto che il CSA della Provincia in cui aspirava ad avere l’incarico convocava solo e soltanto attraverso un link del tutto particolare sulla propria Home Page, link che bisognava saper individuare con precisione e tempestività. Solo dopo due anni dalla iscrizione nelle graduatorie provinciali di Roma un uccel di bosco si degnò di informare il professor Sfaticati della procedura in uso presso l’amministrazione scolastica. E solo dopo due anni di insegnamento in un Istituto Paritario -biennio trascorso a pane e cicoria per l’irrisorietà delle retribuzioni nelle scuole paritarie-, collegandosi al sito del CSA di Roma capì non solo e non tanto che era stato convocato per l’assegnazione di un incarico annuale, ma anche che era stato un fessacchiotto e che per due anni consecutivi, ignorando le modalità di reclutamento, aveva perduto degli incarichi annuali e le relative retribuzioni. Per questi incresciosi precedenti, il professor Sfaticati, verso il mese di Settembre, quando cioè si approssimava il giorno della pubblicazione telematica della convocazione del CSA, soleva trascorrere giorni e notti di fronte al suo sgangherato computer in attesa che apparisse e si aprisse quel fatidico link con il quale il CSA lo avrebbe finalmente convocato. E quando questo accadeva, quando la data della convocazione finalmente era ufficiale, allora il nostro prof si lambiccava il cervello per ponderare le varie destinazioni possibili. L’ansia gli giocava brutti scherzi. Lui che era un dormiglione olimpionico, per tutta la notte della vigilia della convocazione non chiudeva occhio, per prendere il primo mezzo pubblico disponibile che lo avrebbe trasportato a Roma sin dalle prime luci dell’alba. Gli anticipi così realizzati erano a dir poco mostruosi. Arrivava sul luogo della convocazione molto, troppo presto, e lì aspettava girandosi i pollici tra le dita, prendendo qualche caffè nelle adiacenze della scuola ‘polo’ (così sono definite le scuole dove di norma avvengono le convocazioni e le conseguenti assegnazioni delle cattedre), fumando numerose sigarette dal sapore assai amaro. Anche per l’anno scolastico oggetto del nostro racconto -siamo nell’èra Gelmini- il nostro professor Sfaticati arrivò con il consueto quanto prodigioso anticipo. La convocazione era fissata per le ore 9.30, ma lui si trovava sul posto alle ore 6.25. La scuola quell’anno designata per l’assegnazione delle cattedre disponibili una volta si sarebbe chiamata Istituto Magistrale, ma ora, in omaggio al ‘pedagogiume’ assurto a dignità pseudoscientifica, viene in modo roboante definita Istituto Psicopedagogico. All’arrivo del professor Sfaticati nessun’anima viva sembrava circolare all’interno dell’arcana struttura. Tutto era chiuso e regnava il silenzio -per quanto una città come 7


Roma possa sopportare quest’affermazione. Anche i cancelli esterni erano ancora sbarrati. Dovette quindi rassegnarsi e aspettare. Prese a passeggiare descrivendo con i propri passi l’intero perimetro dell’Istituto, senza perderlo mai di vista, fermandosi talvolta in un bar e talvolta in un’edicola aperta. Attese imperturbabile fino a quando una bidella piuttosto avanti con gli anni arrivò ad aprire finalmente il cancello della scuola con un fare molto trafelato -sintomo più di una inclinazione al ritardo che di una dubbia solerzia al lavoro. La donna, con il volto sciupato dalle lunghe ore di dormiveglia sui banchi dell’Istituto presso il quale, presumibilmente, era impiegata da una quarantina d’anni, aveva i capelli brizzolati, lunghi, spettinati. L’abbigliamento adottato per andare a lavoro lasciava intuire una certa trascuratezza nella scelta degli abiti, scelta dettata unicamente dalla casualità. Tuttavia la bidella nel complesso non appariva per niente stravagante, se si fa debita eccezione per un paio di ciabatte viola davvero molto sgargianti. Il professor Sfaticati, senza proferir parola, le si accodò mentre ella si avviava con dei passi piuttosto affrettati -nonostante le ciabatte- verso il portone della scuola, aperto il quale si precipitò verso il timbracartellino. Quindi timbrò il suo cartellino con molta precisione e minuzia, osservando attentamente il severo macchinario, e poi immediatamente sgattaiolò dietro la sua postazione. Lì aprì un cruciverba mezzo scarabocchiato rimasto in sospeso da chissà quanto tempo, rovistò nella sua borsa e ne tirò fuori una quantità incredibile di penne -presumibilmente dimenticate sui banchi di scuola dagli studenti scalpitanti in uscita- e un vecchio paio di occhiali con delle lenti spessissime, e, inforcati gli occhiali, assunto un fare assai meditabondo, principiò la sua giornata lavorativa assecondando quell’insana passione che divora l’anima dei migliori bidelli per le parole crociate, scrivendo con accortezza certosina in due caselle ancora intonse la sigla di Teramo. Non parve al nostro professor Sfaticati che l’assistente tecnico-amministrativa si fosse minimamente accorta di lui, nonostante il fatto che egli l’avesse seguita a stretto giro, a distanza di pochissimi metri, per tutto il tragitto percorso, dall’esterno della scuola fino all’androne. Dubbioso e impacciato per il da farsi, decise infine di prendere l’iniziativa per farsi notare, e così si avvicinò al gabbiotto dove la bidella era seduta, per darle, come si conviene, innanzitutto il buongiorno. Al saluto del nostro professor Sfaticati, la povera bidella, colta di sorpresa, ebbe un repentino sobbalzo, quindi cercò di ricomporsi, inforcò di nuovo gli occhiali che nel frattempo le erano caduti sulla scrivania, aguzzò le pupille degli occhi, che divennero piccole piccole come quelle di un gatto dietro le sue lenti spessissime e, guardando di fronte a sé, messo presumibilmente a fuoco il professor Sfaticati, finalmente gli rivolse la parola con un tono non del tutto alieno da una certa tracotanza: “Scusi ma lei chi diavolo è? Cosa vuole?”. “Buongiorno!”, ripeté ancora il nostro prof, al quale da bambino avevano insegnato che l’educazione non è mai troppa. “Io sono il professor Sfaticati e sono venuto qui…”, ma fu interrotto dalla voce stridula e dubbiosa della sua interlocutrice. “Lei è il professor Sfaticati…Sfaticati… Sfaticati… Mi prendesse un colpo, ma qui non c’è nessun professor Sfaticati, e badi che in questa scuola conosco tutti, io! Lei è un intruso semmai!”. “No signora ma quale intruso, che dice mai… Io non lavoro certo in questa scuola, ma sono venuto perché qui siamo stati tutti convocati dal Centro Servizi Amministrativi della Provincia di Roma per l’assegnazione della cattedra… Possibile che lei non ne sia informata?”. “Mi dica signora -chiese il professore- sa per caso dove è affisso l’elenco delle cattedre disponibili?”. “Non è di mia competenza fornire informazioni estranee al nostro ufficio per di più a persone che rispetto alle funzioni del nostro Istituto risultano del tutto anch’esse estranee”, fu la secca risposta della bidella, urtata dal fatto di non saper cos’altro rispondere.

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“Già, ha ragione, mi scusi”, e qui il professore, vista l’antifona, assecondò la sua sospettosa interlocutrice. Ma non sapendo come disimpegnarsi in maniera da non farle sembrare di esserci rimasto male, ripropose un’altra questione alla quale, per la sua semplicità, sperava la bidella potesse rispondere. “Ma mi sa dire almeno se devo attendere molto per l’arrivo del Dirigente Scolastico?”. “Già gliel’ho detto, non è di mia competenza fornire informazioni ad estranei. Anzi, se mi vuol fare una cortesia, perché non aspetta che arrivi tutto il personale al di fuori dell’Istituto? Sa… Non per sfiducia, ma di questi tempi… Io sono una donna, e non mi va di star sola con un giovane sconosciuto…”. Terminato in questo modo l’edificante colloquio, il professor Sfaticati si avviò all’uscita alquanto perplesso ed accigliato, e stava per rassegnarsi ad accendersi un’ennesima sigaretta in quella che si prevedeva essere una lunghissima e tormentatissima mattinata quando gli passò vicino, anch’essa assai trafelata, un’altra signora che presto si rivelò essere un’altra assistente tecnico-amministrativa. La vide precipitarsi verso il timbracartellino, e nelle adiacenze di questo arnese cominciò frettolosamente a rovistare nella sua borsa -come se vi dovesse tirar fuori una granata inesplosaestraendo una serie di carabattole che conviene riportare nell’ordine stesso in cui lo registrò il nostro professor Sfaticati che assistette un po’ incuriosito alla scena: un paio di occhiali da sole; un telefono cellulare; tre penne; una Settimana Enigmistica; un gomitolo di lana rossa; altre quattro penne; un altro paio di occhiali, ma da vista; un libro di Ken Follett; un Sudoku; un cubo di Rubik; delle salviettine igienizzanti; e alla fine un portafogli. Trovato questo ebbe un moto di sollievo e finalmente la smise di estrarre stravaganti oggetti da quella che doveva essere la borsa scippata a Mary Poppins. Quindi provò a risistemare tutti quegli attrezzi da lavoro nella sua borsa, ma qualcosa non andò per il verso giusto, perché se gli occhiali, il cruciverba, le numerosissime penne, il libro di Ken Follett e tutto il resto guadagnarono ordinatamente il fondo della borsa, il cubo di Rubik e il gomitolo di lana seguirono traiettorie discordi rispetto a quelle auspicate e si ritrovarono ai piedi della disordinata signora. Non bisogna essere degli esegeti dei celeberrimi Elementi di Euclide per intuire che, mentre il cubo di Rubik giaceva su una delle sue sei facce ai piedi della sventurata bidella, il gomitolo assunse invece un andamento piuttosto bizzarro, e seguendo le inclinazioni del marmo del pavimento che risaliva ai tempi del ventennio fascista, si diresse prima lentamente in fondo a destra, poi un po’ meno lentamente in fondo a sinistra, poi d’un tratto subì un’accelerazione improvvisa che lo portò lontano, fino a precipitare nella rampa delle scale che dava al piano di sotto. Non fu un ottimo inizio di giornata. Dopo aver osservato il tutto con una dignità stoica che le fece onore, la signora finalmente riuscì ad estrarre dal suo portafogli il cartellino, lo timbrò, e mentre accuratamente raccolse il cubo di Rubik spolverandolo anche con una mano, decise di abbandonare ai suoi imponderabili destini il gomitolo di lana. Quindi s’infilò anch’essa, con eleganza e diligenza, nella sua postazione, che era proprio di fronte al gabbiotto della signora che l’aveva anticipata d’un soffio in tutto quel complesso disbrigo delle operazioni iniziali attinenti alla loro mansione. Ma a differenza della prima collega, impegnata nella risoluzione di un complicatissimo cruciverba, la seconda signora principiò la sua giornata riprendendo il lavoro laddove l’aveva lasciato la sera prima, cioè di nuovo roteando i cubetti per cercare di risolvere il rompicapo di Rubik che si portava da casa oramai da quasi sette mesi. Il professor Sfaticati aveva assistito alla presa di servizio della seconda bidella dalle scale immediatamente esterne al portone dell’Istituto Scolastico. Per osservare il tutto aveva però dolosamente trascurato la ricerca del suo accendino, lasciando pertanto la sigaretta ancora spenta a vellicargli le labbra. Ad un setacciamento più approfondito che interessò le tasche della sua giacca, della sua camicia e dei suoi pantaloni pose fine soltanto quando, dopo reiterati e vani tentativi, si 9


sincerò definitivamente di non aver più con sé l’oggetto tanto agognato (tributo amoroso di una delle sue ex di cui perse immantinente memoria), e di averlo lasciato in qualche posto oramai lontano dalla sua memoria e dal suo deretano. Non potendo fumare, decise eroicamente di tornare alla carica per avere le informazioni da lui desiderate, anche perché l’attesa era lunga e non aveva nient’altro da fare se non esser roso dalla curiosità per l’imprevedibilità dell’assegnazione. Entrò di nuovo nell’Istituto, si accostò educatamente al gabbiotto dove la seconda bidella in ordine di arrivo provava e riprovava a ricomporre quei maledetti cubetti, tossicchiò, si fece coraggio e le si rivolse esordendo con un solare e ottimistico “buongiorno signora!”. Questa volta il professor Sfaticati non si stava rivolgendo ad una signora stanca del proprio lavoro e presumibilmente anche della vita, con le ciabatte ai piedi e con il viso precocemente invecchiato dalla noia, ma ad una signora vispa, ben truccata, elegante nei modi e nel vestiario, con i capelli biondi ben ossigenati, con orecchini e collane che denotavano, se non proprio quel che si direbbe buon gusto, almeno il desiderio non represso di dimostrare di averne. Al saluto del giovane professore, la bidella alzò lo sguardo verso di lui, posò per un attimo il cubo di Rubik, e rispose cortesemente: “Buongiorno a lei, cosa desidera?”. “Ecco… Mi trovo qui per la convocazione degli aspiranti a cattedra. Mi saprebbe dire gentilmente dove posso trovare l’elenco delle cattedre disponibili da assegnare in data odierna?”. “E perché lo chiede a me?”, rispose, candidamente, la seconda bidella. “Lo chieda alla collega, no? E’ qui da prima di me, saprà senz’altro darle maggiori informazioni”. “Veramente ho già chiesto alcune informazioni alla sua collega, ma non mi è stata molto d’aiuto…”. “Guardi, allora provi a chiedere alla Segreteria Didattica o alla Segreteria Amministrativa…”. “Scusi, ma mi sa dire se sono previsti come al solito ritardi o rinvii nelle procedure per l’assegnazione delle cattedre?”. “Veramente non saprei, dovrebbe chiedere al personale della Segreteria Amministrativa o della Segreteria Didattica”. “Ho capito, ho capito certo… Ma almeno mi sa dire a che ora aprono le Segreterie?”. “Veramente non saprei, anche questo lo deve chiedere al personale delle Segreterie, mi dispiace”. Desolato ma non irritato da questo muro di gomma e di omertà eretto di fronte alle sue richieste, il professor Sfaticati rinunciò a formulare ulteriori domande, e si indirizzò di nuovo verso il portone per guadagnare l’uscita e fumarsi almeno una sigaretta consolatoria. Già stava mentalmente assaporando il beneficio lenitivo di una bella fumatina allorquando si ricordò di non aver nessun accendino, si voltò allora verso le collaboratrici scolastiche e chiese loro ad alta voce: “Scusate, ma avete almeno d’accendere?”. “Non è di mia competenza… Dovrebbe chiedere al personale della Segreteria Didattica o della Segreteria Amministrativa”. Dopo un’attesa non lunghissima, ma resa estenuante dal perdurante deficit di nicotina, finalmente il professor Sfaticati vide sopraggiungere un po’ alla spicciolata anche altri colleghi, giunti lì per la sua stessa ragione.

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Come tutti gli anni, anche in quest’inizio di anno scolastico il professor Sfaticati ebbe occasione di rivedere volti noti e meno noti, conosciuti nelle numerose convocazioni passate, in quel limbo delle anime dannate che è il corridoio che porta sull’uscio del fatidico ufficio dove il Dirigente Scolastico di turno procede all’assegnazione degli incarichi annuali. Quel corridoio è un eccezionale spaccato di una rara umanità, un locus amoenus dove si raccoglie con le sue ansie, le sue angosce, le sue speranze e le sue tribolazioni il precariato della scuola italiana. Ci trovi donne incinte con il marito; donne incinte con l’amante; bambini lì abbandonati da genitori esausti per le lunghe ed afose ore di attesa che scorrazzano indisturbati tra le aule e le rampe delle scale dell’Istituto; trovi colleghi sulla soglia del pensionamento non ancora entrati in ruolo; trovi poi sempre qualcuno che chiama i carabinieri o minaccia a voce furente di dar seguito a questo proposito per fare in modo che all’ora esatta precisata dalla convocazione venga effettuato dal Dirigente l’appello nominale, con l’intento di escludere dall’assegnazione i ritardatari, a costo di lasciarli senza lavoro. Solitamente non si dà spazio a queste disgustose pignolerie, prevalendo sempre un senso di umana solidarietà. Anche nel nostro caso, il Dirigente Scolastico -che è il solo preposto alla lettura dell’appello e all’assegnazione delle cattedre-, non si lasciò impressionare da queste intimidazioni, e solo dopo aver preso un cornetto e un caffè nel bar dell’Istituto senza pagare, dopo aver fumato un paio di sigarette in Segreteria Amministrativa in presenza di un paio di dipendenti malati di bronchite, insomma solo dopo aver perduto tutto il tempo che era possibile e ragionevole perdere, munito della lista dei precari convocati e di un vecchio megafono, finalmente si recò sulle scale antistanti l’ingresso dell’Istituto, e con il megafono di cui sopra invitò tutti gli astanti a fare silenzio e a prestare la massima attenzione. Quindi finalmente procedette all’appello come si conviene in Italia, con un’oretta abbondante di ritardo, andando molto piano e ripetendo una dozzina di volte i nomi degli aspiranti all’incarico che inspiegabilmente risultavano assenti. Il Dirigente Scolastico, una signora dai capelli lunghi lisci color rosso fuoco, sulla sessantina, appesantita più dai gioielli e dalle collane gentile omaggio dello Stato che non dagli anni di servizio, fu piuttosto chiara: i presenti si sarebbero recati dieci alla volta presso il corridoio del secondo piano e da lì sarebbero stati nuovamente invitati ad entrare nel suo ufficio, dove, finalmente, sarebbe stata data loro lettura delle assegnazioni disponibili e dove loro, finalmente, avrebbero potuto scegliere in quale scuola recarsi a lavorare. Sarebbe stato poi compito dell’ultimo convocato di quella decina di professori ridiscendere dal secondo piano al pianoterra e, dalle scale dell’ingresso dell’Istituto con l’unico megafono a disposizione della scuola -che faceva un po’ da testimone in questa bizzarra staffetta- avvisare tutti gli altri che la successiva decina poteva ascendere a sua volta al secondo piano. Il Dirigente si raccomandò e pregò i professori di mantenere l’ordine e la calma, perché soltanto con l’ordine e la calma i lavori sarebbero proceduti con trasparenza, senza incresciosi incidenti, velocemente. Occorreva evitare, d’altra parte, un insostenibile affollamento del corridoio del secondo piano dove, nonostante l’infernale canicola, le finestre non si potevano aprire perché le maniglie erano state divelte da qualche studente buontempone, dove i bagni avevano lo scarico non funzionante, e dove l’unica porta d’emergenza a spinta che dava su una rampa di scale in acciaio all’esterno dell’Istituto non poteva assolutamente essere aperta perché la rampa di scale esterna non era stata ancora posizionata. Date le ultime disposizioni il Dirigente Scolastico invitò i primi dieci a salire con lei, e pregò tutti gli altri di attendere la loro eventuale convocazione con calma e senza agitarsi. Ovviamente le indicazioni del Dirigente scolastico furono immediatamente disattese. Con la scusa di andare a sincerarsi sui tempi, sulla procedura posta in essere, sulla modalità e sulla trasparenza delle assegnazioni in corso, prima l’undicesimo sollecitato in tal senso dal dodicesimo, poi il dodicesimo sollecitato in medesimo senso dal tredicesimo, poi il tredicesimo sollecitato per le stesse ragioni dal quattordicesimo, e poi tutti caoticamente salirono al secondo piano. I pochi che non salirono al secondo piano, non salirono semplicemente perché per una sola altra persona che fosse andata ad occupare una mattonella in quel corridoio inevitabilmente la porta di emergenza posta dalla parte opposta si sarebbe aperta e qualche aspirante all’incarico sarebbe rovinosamente caduto 11


nel vuoto. Non mancavano con ciò coloro che scalpitavano e spingevano, soprattutto colleghi della parte bassa della graduatoria, dove questa sciagurata eventualità veniva ponderata in una certa prospettiva. Tuttavia, alla fine si giunse ad un pur precario equilibrio, con tutti gli aspiranti che si assieparono chi sul corridoio del secondo piano, chi sulle scale, chi sul corridoio del primo piano, chi infine -ma erano proprio quelli senza speranze e ambizioni, cioè gli ultimi delle graduatorie- al bar del piano terra. Al professor Sfaticati toccò in sorte proprio quest’ultimo alloggiamento, ma non si demoralizzò. Vista la sua giovane età -era il più giovane ad esser lì presente quella mattina-, sembrava già un miracoloso successo l’esser convocati dal CSA anziché dalle singole Presidenze, dalle quali poi ci si poteva ragionevolmente attendere solo degli incarichi brevi e saltuari. Si ritrovò quindi a pazientare ore e ore prima che la testa della graduatoria e tutti coloro che lo precedevano, ovvero quasi tutti, ricevessero l’assegnazione e andassero via alla chetichella. Per il professor Sfaticati, tuttavia, l’attesa non fu un’agonia. Vuoi per le ottime bevande analcoliche fornite dal bar della scuola, vuoi per i caffè e per le sigarette, fatto sta che il tempo trascorse piuttosto piacevolmente nel chiacchiericcio generale che precede l’assegnazione dell’incarico. Del resto, in quell’occasione ebbe modo di riabbracciare delle vecchie conoscenze, colleghi che con lui e come lui condividevano la girandola degli incarichi annuali. Con queste persone restò a raccontarsi un po’ della qualità della didattica in questa o in quella scuola là dove qualcuno di loro aveva avuto modo di insegnare; delle compiante qualità di questo o quel Dirigente Scolastico finalmente andato in pensione; dell’imbarbarimento delle nuove generazioni; dei nuovi, insostenibili tagli ministeriali; dell’insopportabile caldo di Roma, dove qualcuno aveva assicurato di aver visto all’altezza della Tuscolana un folto branco di lucertole passeggiare per la consolare equipaggiato di ombrellino da sole; e di molte altre amenità. La fila, finalmente, nelle prime ore del pomeriggio, cominciò a scemare, e rimasero sempre di meno i professori che si attardavano nei locali del bar al piano terra senza salire al secondo piano. Tra questi ritardatari c’era naturalmente il professor Sfaticati -che nei bar da sempre sapeva ben crogiolarsi-, il quale nell’attesa ebbe modo di verificare che le bidelle asserragliate nei loro rispettivi gabbiotti da lì non si erano mosse punto, indefessamente impegnate nei loro ciclopici sforzi finalizzati alla risoluzione dei loro rompicapo. Alla fine però anche lui decise di avviarsi verso il secondo piano, ma una volta che vi arrivò fu accolto da un tanfo misto di sudore, polvere e sporcizia che gli guastò alquanto l’umore e il palato impregnato di caffeina e nicotina. Fu costretto a rimanere lì per quasi un’ora, fino a quando dall’ufficio preposto all’assegnazione degli incarichi si aprì la porta e dall’interno una voce stridula domandò: “Il professor Sfaticati c’è? C’è il professor Sfaticati?”. “Eccomi, sono io il professor Sfaticati”. “Prego! Lei si accomodi. Per tutti gli altri in graduatoria dopo il professor Sfaticati -e per dire questo la voce stridula si sporse sul corridoio e divenne ancora più stridula- vi informo che questa che stiamo per assegnare è l’ultima cattedra disponibile in data odierna. Per cui, a meno di una rinuncia del professor Sfaticati, sappiate che la eventuale e successiva convocazione per l’assegnazione di ulteriori cattedre la troverete sul sito internet del CSA di Roma”. Non era affatto scontato, per il nostro professor Sfaticati, che il CSA gli assicurasse sin da Settembre l’assunzione annuale. I tagli imposti dal Ministero avevano comportato il licenziamento di fatto di buona parte dei precari della scuola, che dopo anni e anni di servizio mal retribuito si ritrovavano da un giorno all’altro disoccupati. Nonostante questo, nonostante le magre aspettative anche quell’anno scolastico il nostro professore fu risparmiato dalla pericolosa mannaia che si era abbattuta sugli insegnati precari, mannaia che aveva indotto il quotidiano comunista Il Manifesto ad aprire, per il primo giorno di scuola, con un sinistro ‘Per chi suona la campanella’. Per di più, la 12


cattedra annuale cui era stato assegnato insisteva su una scuola non certamente tra le più blasonate ma comunque di Roma. Si trattava, per la precisione, di un Liceo Classico di cui per ovvie ragioni non andremo a specificare la denominazione. Quello che tuttavia ci interessa sapere è che, nella miserabile cornice esistenziale del giovane prof, quell'assegnazione comportava la possibilità di viaggiare dalla sua amata città dell’Aquila -essendo Roma collegatissima con le principali città del centro-Italia-, in modo da non abbandonare quei luoghi, quelle amicizie e quei ricordi così duramente provati dal drammatico terremoto del 6 Aprile 2009 di cui in seguito, inevitabilmente, torneremo a parlare. Soddisfatto per l’assegnazione, provato dalla stanchezza e da un’insopprimibile agitazione emotiva per il nuovo inizio che incombeva, il prof salutò cortesemente il DS stringendole la mano, e guadagnò l’uscita dell’Istituto naufragando nei suoi pensieri più reconditi e intimi, relativi al suo più immediato avvenire. 3. IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA Anche quell’anno, benché insistesse l’onorevole Gelmini al dicastero della Pubblica Istruzione, le scuole erano state tutte riaperte, e le attività didattiche, nonostante i soliti problemi e le solite polemiche, erano cominciate più o meno regolarmente in tutta Italia. Certo, non in tutte le classi c’erano banchi e sedie sufficienti per gli alunni; non in tutte le materie erano state ricoperte le cattedre vacanti; non tutte le scuole erano state dotate delle attrezzature elettroniche, cartacee ed audiovisive necessarie allo svolgimento della didattica; non tutte le aule -anzi quasi nessunaottemperava alla fatidica 626, cioè a quella legge che stabilisce i criteri e i requisiti di sicurezza che un edificio pubblico deve possedere per non esser chiuso; non tutti i ragazzi avevano lo spazio sufficiente per appoggiare zaini cappotti e vocabolari, ecc. Ma i bidelli erano oramai già in servizio, fissi ai loro posti, e tanto bastava a far ritenere ai più che l’anno scolastico sarebbe iniziato regolarmente come gli altri anni, con i soliti difetti, le solite mancanze, i soliti ritardi che caratterizzano la scuola pubblica italiana. Per arrivare in orario e con ciò prendere servizio per il suo primo giorno di lavoro, anche quella mattina il professor Sfaticati fu costretto a svegliarsi di notte, anzi, a non dormire per niente dal giorno precedente. Per raggiungere l’estrema periferia di Roma dove era sperduto il Liceo dovette cambiare una filza di mezzi pubblici che per ragioni di economia omettiamo di specificare. Anche in questa circostanza il nostro professore arrivò largamente in anticipo, ben prima che i bidelli arrivassero a timbrare il cartellino, e per questo non gli rimase che attendere all’esterno della scuola, almanaccando tra sé e sé sui destini del mondo, dell'Italia, della scuola e suoi personali. A questo punto ci si permetta una breve considerazione: duole sottolineare che sia i professori che gli studenti che abitano lontano da scuola sono sempre i primi ad arrivare, mentre i professori e gli studenti che al contrario abitano a poche decine di metri dall’Istituto sono sempre i soliti ritardatari. Questo strano fenomeno, per quanto paradossale, può puntualmente essere verificato e misurato nei suoi più particolari dettagli ogni giorno dell’anno scolastico. Non è il caso in questa sede di ricorrere alle astruse teorie freudiane per spiegare l’arcano. Basti notare che i primi, quelli che abitano a distanze siderali dall’Istituto, si svegliano sempre con largo anticipo prevedendo e quindi prevenendo ritardi dei mezzi, problemi tecnici alla linea metropolitana, il sovraffollamento delle arterie stradali all’approssimarsi degli orari di punta, e con ciò facendo, nella gran parte dei casi, arrivano sempre in anticipo. Invece gli altri, quelli che abitano ad un tiro di schioppo dalla sede da raggiungere, non avendo a che fare con il trambusto caotico del traffico e con la realtà a dir poco problematica del trasporto pubblico, si svegliano sempre all’ultimo minuto, e si accingono ad abbandonare le calde ed accoglienti coltri casalinghe quando la campanella della prima ora è già suonata da un pezzo.

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Questa breve considerazione valse anche per quel primo giorno di scuola del professor Sfaticati, il quale fece del tutto per arrivare per primo di fronte ai cancelli della scuola. Al bidello che venne a aprire i serragli specificò il suo ruolo e i motivi della sua presenza; al che l’assistente, dopo aver espletato tutte le funzioni attinenti all’apertura dell’Istituto, lo accompagnò nelle vicinanze della Sala Docenti e lo invitò ad aspettare lì l’arrivo del Dirigente Scolastico o di un suo Vicario per formalizzare la sua presenza. E così il professor Sfaticati si ritrovò poco dopo le 7.00 del mattino solo soletto in Sala Docenti, al secondo piano di questo nuovo Istituto, ad attendere l’arrivo dei propri superiori in grado. Stava leggendo le notizie del giorno sul giornaletto gratuito distribuito da strani giullari nella metropolitana di Roma, quando finalmente ad un certo punto entrò un’anziana professoressa. Non conosceva affatto questa collega, ma dal suo volto madido di sudore e piuttosto corrucciato dedusse che anche lei non aveva avuto un buon risveglio, e che il suo stato d’animo era piuttosto alterato. Mentre la nuova collega si affaccendava in modo un po’ goffo e impacciato attorno ai vari faldoni delle circolari, il professor Sfaticati si permise di rivolgerle il saluto, così tanto per attaccare bottone, e l’anziana professoressa, che in precedenza non si era resa conto dell’innocua presenza del giovane precario, dopo aver educatamente risposto al saluto chiese al professor Sfaticati: “Te sei nuovo di questa scuola? Ti ci hanno mandato o ci sei venuto?”. A questa strana domanda, che ambiva alla dignità di una battuta, il professor Sfaticati non seppe proprio cosa rispondere, forse perché erano valide entrambe le alternative proposte, e si limitò ad un sorriso piuttosto allusivo. Ma il silenzio del prof non placò l’interrogante: “Anche te mattiniero come la sottoscritta? Da dov’è che vieni?”. “Veramente vengo dall’Abruzzo, dall’Aquila. Sono partito prestissimo perché almeno il mio primo giorno di scuola ho voluto evitare disguidi e ritardi. Sa, devo firmare il contratto di lavoro dalla data odierna e per l’intero anno scolastico, e non vorrei che in Presidenza si facessero una cattiva opinione di me”. A queste parole tuttavia un moto d’ira repressa baluginò tra le rughe dell’anziana collega. “Per carità delle Anime Sante. La Presidenza! Quella banda di manigoldi vuoi dire….di sciacalli senza Dio… A te pare normale che a 61 anni suonati ancora la prima ora mi fanno fare questi filibustieri della Vicepresidenza? Possibile che non abbiano un minimo di rispetto, non dico per l’età, ma almeno per il curriculum della qui presente? Sono degli svergognati, ecco cosa sono! Avevo chiesto la sola cortesia di non farmi venire a scuola prima delle 11.00. E invece cosa ti fanno loro? Mi mettono per ben due giorni a settimana la prima ora, ed eccomi costretta a venire qui alle 7.45. Siano maledetti!’’. Il professor Sfaticati, sensibile alla disgraziata sventura della sua nuova vecchia collega, col volto contratto dal dispiacere, e con il solo intento di rinfrancare la desolata interlocutrice, le rispose sommessamente: ‘‘Sappi collega…posso darti del tu? Se ti può esser di conforto, sappi che mia madre ha cominciato il suo turno lavorativo ieri notte a mezzanotte, e a quest’ora ancora non stacca. Sta imballando prodotti agricoli, con i piedi e le mani presumibilmente nell’acqua, con la schiena china per esser pronta ad afferrare gli ortaggi che sono da scartare perché prematuramente divorati dagli insetti. Percepisce a fine mese poco più della metà del nostro stipendio, ed ha sessantatre anni. Mio padre invece a quest’ora sta su un ponte, un ponte fatto di lamiere e di tavole, adiacente ad una palazzina in costruzione per mettere mattoncini. Staccherà verso le 18.00, e questo senza avere il giorno libero o le assemblee sindacali, di classe e di Istituto per riposarsi. A casa tornerà sporco, sudato e stanco, e a fine mese percepirà uno stipendio che si avvicina ai due terzi del nostro; mio padre ha sessantadue anni…’’. Il professor Sfaticati avrebbe anche voluto continuare con la sequela di particolari non insignificanti che costellano la giornata lavorativa dei propri cari, ma ad un tratto la sua interlocutrice chiuse con rabbia i faldoni che stava facendo finta di leggere, e si avviò inviperita verso il bar dell’Istituto, dove avrebbe traccheggiato, anche dopo il suono della prima campanella, per una mezz’ora abbondante, a meditare sui casi della vita di fronte ad un cornetto alla marmellata e a un cappuccino al vetro macchiato freddo, ritardando il più possibile il suo ingresso in classe. 14


Non rivolse più la parola al professor Sfaticati fino alla fine dell’anno scolastico, e il professor Sfaticati, dal canto suo, rimasto solo in Sala Docenti, ebbe modo di riflettere sulla dubbia opportunità di operazioni comparative tra il proprio e gli altrui lavori, soprattutto in presenza di vecchie colleghe da tempo ormai esaurite. Uscita l’anziana collega, si presentò in Sala Docenti un altro professore che questa volta -lo si vedeva bene- scoppiava di salute. Varcò la soglia in gran fretta, senza prestare la minima attenzione al professor Sfaticati, e si diresse verso il suo armadietto e cominciò ad estrarvi libri, fascicoli e riviste, depositando il tutto in maniera piuttosto disordinata ai suoi piedi, sul pavimento. Mentre questo nuovo professore operava lo svuotamento del suo cassetto personale, entrò tutta trafelata una signora -che poi si seppe essere un’impiegata della Segreteria Amministrativa- la quale si rivolse al prof con un tono orientato verso una certa sorpresa: “Professor Clerici, ma lei che ci fa qui?”. “Cosa vuole che ci faccia? Ma che domande! Tra un po’ devo entrare in classe e devo cominciare la mia giornata di duro lavoro. Lo vogliamo mandare avanti o no questo Paese? Lavorare, lavorare, lavorare, mia cara! Se proprio lo vuol sapere, sto ordinando il materiale per le lezioni di oggi”. “Ma a noi in Segreteria risulta che lei sta in malattia anche in data odierna!”. Qui il professor Clerici la smise di estrarre fogli e quaderni dal suo cassetto, fissò la segretaria con una certa incredulità e le disse: “Come risulto in malattia anche in data odierna? Non è possibile!”. “Come non è possibile? Venga qui… Guardi qui… Questo è il fax che il suo dottore ci ha fatto pervenire dieci giorni fa. Risulta che lei oggi, domani e dopodomani è ancora in malattia!”. “Mi faccia un po’ vedere…”. Il prof inforcò gli occhiali, e prese a leggere attentamente il certificato medico del suo dottore per rendersi edotto circa il suo stato di salute. Finita la lettura esclamò alla segretaria: “Eh già, ha ragione lei, m’ero sbagliato… Oggi domani e dopodomani sto ancora male… Grazie grazie… Vado via subito… Eh mannaggia…”. Poi, rivolto al professor Sfaticati che aveva involontariamente assistito alla scena, non sapendo cosa dire, per darsi un contegno pontificò: “Se lo ricordi, lei che è un giovane collega, se lo ricordi bene…. In questo lavoro soprattutto, chi non ha buona memoria abbia buone gambe…”. E continuando a sospirare e a bofonchiare qualcosa di indefinibile, rimise a posto tutto il materiale estratto dal cassetto, e guadagnò con molta calma l’uscita dell’Istituto. La firma del contratto avvenne a fine giornata, cioè verso mezzogiorno. Il Dirigente Scolastico si presentò in lieve ritardo sul posto di lavoro perché, a detta sua, era stato impegnato come testimone della difesa in una causa intentata da alcuni genitori contro un prof del suo Istituto che ricorreva ad affibbiare sistematicamente e immotivatamente delle gravi insufficienze a degli studenti colpevoli soltanto di non andare a ripetizioni da lui. Appena arrivato il Dirigente un bidello si presentò in Sala Docenti ed invitò il professor Sfaticati a recarsi seduta stante negli Uffici della Presidenza. Dopo una ventina di minuti di anticamera fu finalmente fatto accomodare di fronte alla scrivania del Dirigente, il quale si presentò nell’ufficio con uno stuolo di segretari al seguito soltanto un quarto d’ora dopo. La Presidenza appariva piuttosto buia ed angusta. Spiccava la foto ritratto del benemerito Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e, a sinistra della cattedra del Preside, un portabandiere sorreggeva il Tricolore e la bandiera europea con le dodici stelle. Un paio di scaffali utili ad archiviare le varie pratiche e un portaombrelli nei pressi della porta completavano lo scarno arredamento. Liquidati i segretari apponendo una dozzina di piccoli scarabocchi su dei protocolli a lui sottoposti, il Dirigente Scolastico prese finalmente posto di fronte al professor Sfaticati e, dopo averlo attentamente squadrato, esordì chiedendogli:

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“E’ lei il responsabile delle macchinette?”. “Quali macchinette, mi scusi…”, rispose, un po’ sorpreso, il professor Sfaticati. Il DS, Ill.mo prof. Emanuele delle Rocche Ombrose, era un uomo sulla sessantina dai tratti nobili ed eleganti. Vestiva in modo piuttosto distinto, con una cravatta viola alla quale non mancava l’abbinamento con la pochette. I capelli canuti, benché radi, non erano assenti, e la calvizie, se pur avanzata, permetteva ad un funambolico riporto di coprire da parte a parte l’illustre capoccione. Aveva degli occhiali grigioscuri, presumibilmente fotocromatici, sicuramente costosissimi. Dai modi rapidi e sicuri se ne deduceva una spiccata attitudine al comando, derivante non tanto da un suo modo d’essere autoritario, quanto dalla consapevolezza della propria collaudata esperienza e della propria superiore intelligenza. “Le macchinette del caffè! Non è lei il responsabile?”, insistette, con un certo disappunto, il DS, evidentemente credendo che avesse a che fare proprio con il responsabile delle macchinette. “No, non sono il responsabile delle macchinette. Io veramente sono il professor Sfaticati, e sono incaricato dal CSA per la cattedra di Storia e Filosofia rimasta vacante in questo Liceo”. Nel sentire questa risposta, il Dirigente assunse un piglio più rilassato e cordiale. “Ah! Mi scusi, mi scusi… Deve sapere che a momenti dovrebbe arrivare il responsabile delle macchinette… quel farabutto! Non può immaginare quanti guai ci stanno combinando i ragazzi in questa scuola per le macchinette! E mi dispiace ammettere, ma lo dico solo a lei, che questi ragazzi hanno la sacrosanta ragione di lamentarsi per queste macchinette. Ogni giorno una protesta, una contestazione, un alzare di mani e di urla per il mancato resto delle macchinette. Infilano cinquanta centesimi per il caffè che ne costa trenta, e le macchinette non danno indietro i venti centesimi di resto. Oppure inseriscono un euro per prendere quelle cose strane che mangiano i ragazzi di oggi, ah ecco ricordo… le schiacciatine… Ne mangia lei di schiacciatine?”. “Preside, veramente non so nemmeno cosa siano le schiacciatine. Io a scuola mangiavo il panino con la salsiccia fatto da nonna…”. “E faceva bene, sia lei a mangiare pane e salsiccia che sua nonna a prepararglielo. Oggi invece mangiano queste cose che sembrano di plastica. Ma come faranno poi… D’accordo che sembrano di plastica anche i ragazzi… Comunque de gustibus non disputandum est, dicevano gli antichi… Insomma, le dicevo che inseriscono un euro per comprare queste schiacciatine o robe simili, e non solo la macchinetta erogatrice non dà il resto, ma non eroga nemmeno quella specie di merenda che i ragazzi hanno selezionato, perché anziché scivolare là dove possono prenderla, rimane incagliata in qualche parte del diabolico macchinario. Non le dico quello che fanno i ragazzi per disincagliare il loro spuntino. Cominciano a tirar calci contro la macchinetta, la alzano in aria in tre o quattro e la fanno ricadere rompendo il pavimento, la spingono da una parte all’altra fino a farla pericolosamente traballare, la urtano con tutti gli oggetti che hanno a disposizione, la inclinano fino a farla cadere. Non se ne può più mi creda. Ieri uno di quei ragazzi è stato schiacciato sul piede da una di queste macchinette che altri avevano avuto l'idea di ribaltare. E’ andato a finire al Policlinico Gemelli. E non le dico i genitori, in particolare la madre! Si è messa in testa di denunciare il professore che durante quell’ora aveva concesso a suo figlio il permesso di uscire; il sottoscritto che non ha vigilato sulla sicurezza dei corridoi e delle attrezzature in essi dislocati; i medici del Policlinico; il Ministro dell’Istruzione; insomma tutta la catena di comando, non escluso da ultimo il Ministro della Sanità. Deve credermi, e mi scusi se mi sfogo con lei ma con gli altri già l’ho fatto: ogni volta durante l’intervallo si crea un disordine incontenibile. Sarebbe ora di finirla, non crede? O la scuola viene rifornita di macchinette erogatrici perfettamente funzionanti, oppure che si torni ai

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panini con la salsiccia di una volta! Comunque mi scusi lo sfogo, mi scusi di nuovo e veniamo a lei. Lei ha portato dei panini con la salsiccia?”. “No, veramente….”. “Oh mi scusi, sa, a quest’ora. Volevo chiederle: lei è stato incaricato dal Provveditorato agli Studi?”. “Certo Preside, appena ieri ho preso l’incarico per questa cattedra…”. “Bene bene, mi stia a sentire…”, e qui il Dirigente prese a sfogliare un po’ di scartoffie che aveva sotto il naso. “Da quello che qui mi risulta le saranno assegnate tre classi: la terza, la quarta e la quinta della sezione ‘C’. Da quello che mi riferiscono i miei collaboratori si tratta di classi piuttosto tranquille, educate, collaborative, seppur numerose. Ma i miei collaboratori non sono attendibili. Dal fatto che le hanno lasciate scoperte deduco che le vogliano rifilare ad altri. Temo si troverà ad aver a che fare con le peggiori classi dell’Istituto. Mi raccomando non faccia uscire dall’aula più di un ragazzo alla volta, mentre per le ragazze… sa, loro hanno esigenze un po’ diverse, non ne faccia uscire più di due alla volta. Già gliel’ho detto, mi pare, che in questa scuola la prima battaglia che si combatte è quella contro l’intasamento dei corridoi! Negli anni precedenti hanno avuto in Storia e Filosofia una sua collega che di storia e filosofia ne sapeva quanto il mio gatto. Anzi, il mio Birba sicuramente ne sa di più. Ma finalmente è andata in pensione. Troverà sicuramente dei ragazzi vivaci, ma anche molto intelligenti. Starà un po’ a lei saperli coinvolgere nella disciplina che andrà ad insegnare! Sa, anch’io prima di diventare Preside ero insegnante di Storia e Filosofia, e le posso assicurare che anche con le classi migliori, per quanto i ragazzi possano risultare attenti e coinvolti, senza un minimo di savoir faire da parte dell’insegnante non si riesce a concludere niente. Starà a lei saperli trascinare e motivare nello studio delle sue discipline!”. Appena terminata questa breve allocuzione allo studio della storia e della filosofia, bussò alla porta della Presidenza una segretaria, la quale ebbe premura di comunicare al Dirigente che era finalmente arrivato il famigerato responsabile delle macchinette. A questa comunicazione il Dirigente, evidentemente rapito da impegni più significativi, congedò il professor Sfaticati senza nemmeno sottoporgli il contratto. Uscendo dagli Uffici della Presidenza il professor Sfaticati ebbe però modo di imbattersi nella figura del Vicario del Preside, la professoressa Sempresei, la quale gli comunicò che avrebbe dovuto recarsi per la parte restante della mattinata nella classe V C, classe che era rimasta improvvisamente scoperta; il contratto di lavoro sarebbe stato firmato in un secondo momento. Prima di congedarlo, tuttavia, la professoressa Sempresei chiese al professor Sfaticati di esprimere la scelta del giorno di riposo settimanale. Al che, il nostro prof, sorprendendo la sua interlocutrice e tutto il personale amministrativo lì presente, espresse la richiesta del Martedì libero. “Ma come, professore…-chiese strabuzzando gli occhi la Vicepreside-…il Martedì libero? Ma ne è sicuro? Qui tutti i suoi colleghi venderebbero la propria casa per avere il Sabato o il Lunedì libero… E lei invece sta qui a chiedere il Martedì? Ma ne è proprio sicuro sicuro?”. “Certo che ne sono sicuro sicuro…-rispose guadagnando l’uscita il professor Sfaticati-…il Martedì è senz’altro il giorno migliore della settimana per rimanere a casa”, e dicendo questa enormità non poté fare a meno di pensare ai bagordi che l’attendevano alla vigilia del suo giorno libero e al fatto che la notte del Lunedì è la notte della settimana nella quale minori sono le probabilità di imbattersi in un posto di blocco delle Forze dell’Ordine . Attraversò rapidamente il corridoio, osservò, in base alla piantina scolastica affissa alle pareti, dove fosse dislocata la classe V C e lì si avviò con curiosità mista ad una certa ansia. Più si avvicinava alla classe e più sentiva distintamente il vociare dei ragazzi, al che decise di allungare il passo per evitare che quel vociare scadesse in qualcosa di ancora più rumoroso tale da impedire il regolare svolgimento delle lezioni nelle classe adiacenti. Quando finalmente entrò in classe trovò di fronte ai suoi occhi uno spettacolo surreale; più che una quinta liceale sembrava un circo. Sulla cattedra 17


quattro ragazzi stavano giocando a briscola; in un altro banco un gruppetto di ragazze stava giocando sempre con le carte ma a piripicchio; in fondo all’aula una scacchiera con tanto d’orologio teneva impegnati dei novelli Kasparov; due ragazzi beatamente pomiciavano all’angoletto in fondo a sinistra appoggiati sul tessuto morbido delle giacche pendenti dagli appendiabiti; altri tre ragazzi cercavano di far centro con delle palline di carta nel cestino posto su un armadio appoggiato ad una parete dell’aula; mentre altri ragazzi, orgogliosamente dissociati dal contesto ascoltavano musica con delle strane cuffiette. Evidentemente nessuno di loro si aspettava che l’assenza della collega di Arte sarebbe stata coperta dal nuovo prof di Storia e Filosofia, di cui per di più se ne ignorava l’arrivo. Quando qualche ragazzo si avvide della spettrale presenza del prof, che era rimasto interdetto sulla soglia dell’aula, in men che non si dica sparirono mazzi di carte, cestini, palline e cuffiette, e tutti come dei pappagalli sui trespoli ripresero il loro posto assumendo un’aria compunta e sorniona. Solo allora il professor Sfaticati, deglutendo amaramente, si risolse a varcare il Rubicone e a prender posto dietro la cattedra. “Ragazzi buongiorno”, furono le prime ovvie parole del nostro prof alla classe. “Sono il vostro nuovo professore di Storia e Filosofia. Adesso vorrei procedere all’appello, per cominciare a memorizzare i vostri nomi, ma non vedo il Registro di Classe. Che fine ha fatto?”. “Professore -disse una ragazza al primo banco- il Registro dovrebbe stare in Vicepresidenza. L’è venuto a prendere un bidello e non è stato più riportato in classe”. “Va bene lo stesso, ne faremo a meno per il momento, tanto prima o poi lo riporteranno, mi auguro…”. Il professore non finì di pronunciare queste parole che bussarono alla porta, ed un bidello entrò portando con sé il Registro. Salutò il nuovo prof, non senza scrutarlo attentamente, ed abbandonò l’aula lasciando però dietro di sé aperta la porta. Con il Registro si poté finalmente procedere all’appello, e con l’appello il prof poté cominciare a conoscere tutti quei ragazzi che aveva di fronte. La classe risultava composta da diciassette ragazzi e da undici ragazze, nati tutti dopo la caduta del Muro di Berlino. Scorrendo la data di nascita di tutti quei ragazzi in elenco, il professore rimase profondamente turbato da uno strano fenomeno che, come il miracolo di San Gennaro, ogni anno puntualmente si ripeteva lasciandolo a bocca aperta: mentre lui, il professor Sfaticati, rimaneva sempre lo stesso, a leggere per bene il Registro rimaneva ogni anno sempre più scosso per il fatto che invece i ragazzi diventavano sempre più piccoli! Quando cominciò la sua carriera d’insegnante, infatti, quei fanciulli che aveva di fronte erano tutti del 1987, l’anno dopo dell’ ’88, l’anno ancora dopo dell’ ’89, e così via, fino a diventare sempre più piccoli! Comunque, al di là di questi irrisolvibili enigmi anagrafici, non risultavano esser presenti ragazzi ripetenti né diversamente abili. Sembrò opportuno al professor Sfaticati specificare quali sarebbero stati i criteri cui attenersi per l’intera durata dell’anno scolastico; semplici regole da rispettare onde evitare incresciosi incidenti e fraintendimenti reciproci. Sin dal primo giorno doveva esser chiaro che non sarebbero state tollerate distrazioni, schiamazzi, chiacchiere e pettegolezzi sia durante le spiegazioni che durante le interrogazioni; interrogazioni che sarebbero state programmate -e al pronunciare queste parole il professore registrò un generale moto di sollievo in tutta la classe-, ma che avrebbero sempre e comunque riguardato l’interezza del programma svolto -e al pronunciare queste altre parole il professore registrò un generale moto di disappunto in tutta la classe. “Del resto- aggiunse il professor Sfaticati -in virtù della riforma degli esami conclusivi, tutti i candidati alla maturità sono tenuti a sostenere un colloquio interdisciplinare che abbracci tutte le materie presenti nel quinto anno. Motivo per cui è bene che già durante le verifiche interperiodali vi abituiate a portare tutto il programma svolto in precedenza, proprio perché comunque alla fine 18


sarete costretti a studiarlo nella sua interezza in vista dell’Esame di Stato”. Le verifiche sarebbero state sia di natura scritta che orale, maggiormente incidendo ai fini della valutazione sommativa le valutazioni delle prove orali, essendo, Storia e Filosofia, delle discipline precipuamente orali. Consigliava inoltre il prof di stare molto attenti alle spiegazioni, poiché una maggiore attenzione in classe avrebbe senza meno consentito un alleggerimento dell’impegno pomeridiano. Gli studenti erano inoltre pregati di portare seco un quaderno dove appuntare gli elementi più salienti delle spiegazioni, e il manuale di testo, uno almeno ogni banco. Gli parve a questo punto di aver chiarito gli aspetti che più interessano solitamente la totalità degli studenti, e visto che non c’erano ulteriori chiarimenti richiesti da parte della classe, gli sembrò opportuno passare alla presentazione del programma di Storia e di Filosofia per le classi quinte -e qui constatò che in Storia il programma svolto ristagnava ai tempi della lotta per le investiture e in Filosofia a Sant’Agostino di Ippona (trovando con ciò conferma delle parole premonitrici del Dirigente Scolastico circa le improbabili capacità didattiche e la dubbia professionalità della collega che l’aveva preceduto in quella postazione). Mentre si dilungava nell’elenco delle prescrizioni che la classe avrebbe dovuto rispettare, il professor Sfaticati non poté fare a meno di osservare il materiale umano assai vario che gli era stato affidato. Erano ragazzi vivacissimi, per quanto si può esser vivaci frequentando un Liceo Classico. Alcuni, benché disposti soprattutto nelle ultime file, non mancavano di attrarre l’attenzione per l’eccentricità dei loro vestiti e del loro portamento. Certamente, in quella classe erano molti i ragazzi a dover richiamare la meritata attenzione: non sfuggirono all’osservazione del professor Sfaticati soggetti assai poco raccomandabili dai nomi assai poco rassicuranti come Fracassi, Baruffa, Molesti, Pasticci, Scimia, Rompini, Casini ed altri che in quest’occasione ometteremo di descrivere. Ma furono due in particolare i ragazzi che richiamarono la curiosità del nostro professore, di cui di seguito andremo quindi a parlare. E’ d’uopo premettere che una volta si andava a scuola con la divisa, che per le adolescenti prevedeva una semplice camicia bianca e un gonnellino mentre per i ragazzi un normale paio di pantaloni con la giacca e la cravatta. Ma i tempi dell’ordine e del decoro erano e sono oramai del tutto superati. Jeans strappati e cuffie degli ipod costituiscono oramai il guardaroba di gran lunga più abusato delle nuove generazioni; capelli con le mèches, orecchini in tutte le parti del corpo (con una netta prevalenza del naso e della lingua), strani tatuaggi di orribili mostri stanno lì poi a completare l’armamentario estetico con il quale i ragazzi amano presentarsi a scuola. In questa poliedricità arlecchinesca, in questo frastuono di colori e di amenità assai particolari, il professor Sfaticati non riuscì a fare a meno di notare in particolare un ragazzo e una ragazza, entrambi diciannovenni o quasi, che, pur sedendo uno di fianco all’altra, tuttavia avevano modi di porsi, di vestirsi e di presentarsi del tutto antitetici. Si trattava di Ferdinando Bulletti e di Cecilia Quattrocchi. Ferdinando Bulletti, compagno di banco -e del primo banco- di Cecilia Quattrocchi, era un ragazzo fisicamente molto prestante, con uno sguardo vispo e dispettoso, sempre pronto alle battute e alle smargiassate. Vestiva in modo eccentrico, come se per lui attirare l’attenzione della persone che gli si facevano d’attorno fosse un fattore fondamentale. Aveva i capelli neri, a caschetto, ma nella sua folta capigliatura di tanto in tanto emergevano ciuffi di colore a volte viola, a volte rossi. Faceva mostra di un vistoso tatuaggio sull’avambraccio destro, che pretendeva di rappresentare un’aquila reale con le ali dispiegate. C’è da dire però che al professor Sfaticati più che un’aquila reale con le ali dispiegate quella stravagante raffigurazione sembrava un qualcosa di simile ad una balena piuttosto sbilenca, ma Bulletti ebbe poi modo di assicurargli che il capolavoro del suo tatuatore stava lì a simboleggiare la sua incrollabile fede biancoceleste. Alle orecchie, nei rari momenti in cui non vi erano agganciate le cuffiette dell’ipod, erano ben visibili degli strani orecchini con dei piccoli crocifissi d’argento che penzolavano in modo piuttosto spassoso ogni volta che lui si voltava o piegava la testa. In quel primo giorno di scuola vestiva in modo a dir poco bislacco, se si vuol 19


proprio abusare di un eufemismo: indossava due camicie, una sull’altra, una di colore azzurra e una di colore bianca; dalla vita in giù faceva sfoggio di un paio di calzonetti di jeans, scarabocchiati e strappati; una scarpa nera e una rossa, rigorosamente slacciate, e un cinturone giallo che gli penzolava giù fino alla caviglia col rischio di farlo inciampare ogni qual volta si metteva a camminare. Estraneo alle piccinerie ginnasiali imposte dalle più elementari consegne scolastiche, non portava con sé lo zaino per i libri, né i libri di testo. Il suo armamentario scolastico era costituito soltanto da una piccola penna, utilizzata spesso e volentieri ma non per prendere appunti su quaderni che del resto non aveva; l’aveva taroccata in modo così sofisticato da trasformarla in una insidiosissima cerbottana con la quale si divertiva a scagliare micidiali palline di carta imbevute del suo sputo addosso ai compagni di classe che più gli stavano antipatici. Se si fa eccezione per un suo fratellino gemello custodito in un barattolo sotto spirito nell’ospedale in cui la madre pose fine alla sua gestazione, si può anche affermare che Bulletti era figlio unico. I suoi genitori si erano separati non da molto, e precisamente da quando il padre, impiegato al Ministero della Difesa, aveva deciso di abbandonare il tedioso tetto coniugale per condividere le sue speranze e i suoi destini con una prosperosa quanto avvenente fanciulla universitaria di ventitré anni, e di ventitré anni più giovane di lui, iscritta alla Facoltà di Lettere e Filosofia, nel Corso di Laurea di Lingue e Letterature Straniere (omettiamo di specificare che la prosperosa ventitreenne vantava al suo attivo già una relazione affettiva con il figlio del suo attuale compagno). La madre, Loredana Contestabile in Bulletti, era una distinta ed elegante signora non del tutto avvizzita dagli anni e dalle avversità della vita. Naturalmente, non se ne era fatta una ragione della separazione, e grazie alle arguzie prezzolate del suo legale matrimonialista, che era anche uno dei più blasonati principi del foro capitolino, era riuscita per rappresaglia a far confiscare una mezza dozzina di case al centro di Roma all’ex-coniuge, a mettere le mani su una parte non inconsistente del suo lauto stipendio, e, non da ultimo, a bloccargli un paio di depositi in banca. Ma, come spesso accade in queste tristi vicende, soprattutto quando ci sono di mezzo avvocati scrupolosi e certosini, la parola fine era di là da venire. Ferdinando Bulletti, inoltre, poteva contare ancora su due nonni viventi, che erano i genitori di sua madre. Noti esponenti negli ambienti politici laziali del Partito Liberale Italiano ai tempi di Renato Altissimo, da una quindicina d’anni questi avevano preso nottetempo la via dell’America Latina, dove potevano godere di certe protezioni altolocate accreditatesi all’ombra del regime di Pinochet, e quindi di una certa impunità internazionale in relazione a reati di concussione commessi negli anni d’oro per il famigerato Pentapartito. Abitava a una cinquantina di metri dal portone del Liceo Classico, ma era sempre l’ultimo a varcarne la soglia, adducendo le più improbabili giustificazioni a riguardo. Il suo rendimento scolastico, stando almeno alle pagelle degli anni scolastici precedenti, era sempre risultato sul filo della sufficienza. Il ‘6’ era il voto presente in tutte le discipline, per tutti gli anni scolastici, senza differenziazione alcuna tra l’ambito umanistico-letterario e quello matematico-scientifico. Non si era mai avvalso dell’Insegnamento della Religione Cattolica, e nella valutazione della condotta, dove si badi il minimo è ‘5’, riportava a volte ‘7’ altre volte addirittura ‘6’. Il suo curriculum era costellato di note disciplinari, di ammonizioni del Dirigente Scolastico, e anche di un paio di sospensioni con frequenza obbligatoria. I provvedimenti sanzionatori furono da imputare, stando a quanto il professor Sfaticati poté in seguito appurare scorrendo gli illeggibili verbali degli anni scolastici precedenti, a degli atti vandalici commessi a danno delle strutture scolastiche (pare che due anni prima si era messo a giocare a freccette nel corridoio ponendo come bersaglio il crocifisso disarcionato dalla sua classe e che l’anno precedente avesse fatto anche di peggio, ove mai fosse possibile; di notte per ogni ora e per due mesi telefonava al “professor” Clerici di Religione Cattolica per annunciargli l’imminenza della fine del mondo). Anche in quello scorcio iniziale di anno scolastico il professor Sfaticati ebbe modo di constatare, sfogliando pigramente il Registro di Classe, la presenza di una prima nota disciplinare rivolta proprio allo stesso Bulletti, presa proprio 20


nel primo giorno di scuola, nella quale la professoressa Fogli, collega di Disegno e Storia dell’Arte, aveva scritto: “Lo studente Ferdinando Bulletti, dopo aver sottratto, non per fame ma per diletto, il panino infarcito con la nutella alla propria compagna di banco Cecilia Quattrocchi, imbrattava per esteso con la cioccolata la seggiola della stessa, provocando il pianto a dirotto della sua compagna nel frattempo impegnata nella verifica orale di Storia dell’Arte”. La compagna di banco di Ferdinando Bulletti era appunto Cecilia Quattrocchi. Cecilia Quattrocchi era da sempre la prima della classe. Non c’era stato anno in cui agli scrutini finali non avesse riportato una media superiore al ‘9’, con menzione di merito e di lode ogni anno apposta sulla pagella dal Dirigente Scolastico di turno. Il suo atteggiamento, il modo di porsi con i propri compagni in classe e nei confronti dei professori, il suo livello di scolarizzazione, risultavano sempre ineccepibili. Da questa ragazza nessuno dei professori poteva ragionevolmente pretendere di meglio. Nella condotta aveva riportato sempre il massimo dei voti. Era evidentemente candidata -e su questo punto, una volta tanto, tutti i professori del Consiglio di Classe convenivano-, a diplomarsi a pieni voti, con un meritatissimo 100 e Lode. Gli anni di studio avevano percettibilmente compromesso la sua postura. Aveva delle spalle un po’ troppo cascanti per una diciannovenne; un fondoschiena piuttosto appiattito per le lunghe nottate passate seduta di fronte alla scrivania a mandare a memoria Dante e Virgilio; e degli occhiali spessissimi che rivelavano una preoccupante miopia conquistata in anni e anni di appassionate letture. Nel complesso, tuttavia, era e rimaneva una bellissima ragazza. La sua tondeggiante testolina era ornata da fluenti capelli biondoscuri ricci; i lineamenti del viso risultavano equilibrati, dolci, regolari, quasi a manifestare un’innocenza di spirito candida e senza pecche. Lo sguardo, per quanto se ne poteva intuire, doveva essere assorto e celestiale, anche se rimaneva sepolto sotto quella coltre di lenti. Il sorriso, mesto e delicato, induceva a uno stato di grazia quanti avessero avuto occasione d’immergervisi. Vestiva sempre in modo dimesso, ma il suo abbigliamento non difettava mai del decoro e dell’eleganza richiesti dal contesto scolastico. A differenza e a beneficio del suo compagno di banco, con il quale nonostante tutto era ottima amica, era sempre lei a incaricarsi di portare tutti i libri di testo occorrenti; ma di questo non se ne aveva mai a male, perché per lei primeggiare nella classe non significava rimanere insensibile di fronte alla problematicità dell’approccio scolastico altrui. Proprio per questa indole generosa ed altruista, i suoi compagni avevano sempre modo e occasione di trovare nei suoi appunti e nei suoi quaderni degli esercizi quel propedeutico ristoro indispensabile al superamento delle terribili avversità delle prove scolastiche. Era l’ultima di quattro figli. I due fratelli e la sorella avevano già frequentato lo stesso Liceo, e pur non sbalordendo per le prestazioni e le valutazioni didattiche, erano riusciti a diplomarsi con un giudizio più che dignitoso. I due fratelli si erano sistemati e accasati, ed erano diventati due affermati e facoltosi professionisti: il primo, Giampaolo, cavava denti a Ladispoli; mentre il secondo, Emanuele, strizzava cervelli in quel di Zagarolo. E’ pleonastico aggiungere che in queste due meravigliose cittadine nei pressi dell’Urbe i due giovani dottori vivevano da anni assai felicemente, ma poi si erano sposati. L’altra sorella, invece, anche lei più piccola di loro, stava per laurearsi di lì a pochi mesi in Economia e Commercio, ed era già sposa promessa ad un ottimo partito, un Consigliere Provinciale dell’Unione dei Cristiano Democratici. Per quanto i suoi fratelli fossero oramai avviati a raccogliere i successi e gli allori di carriere così ben remunerate, la famiglia Quattrocchi riponeva le sue speranze più rosee nei prodigi e nell’avvenire della loro figlia nascostamente prediletta: Cecilia. Era il vanto, la gioia, l’amore della famiglia, e dei suoi nonni, i quali -tra i maggiori palazzinari dei Sette fatali Colli- non mancavano di testimoniare la loro stima verso la piccola Cecilia rimpinguando costantemente il di lei Conto 21


Corrente Postale. Cecilia Quattrocchi, del resto, non lesinava manifestazioni di riconoscenza per i suoi cari nonnini, recitando in loro presenza la Cavallina Storna di Pascoli e La Pioggia nel Pineto di dannunziana memoria in ogni occasione e festività religiosa; e immediatamente dopo quest’aulica prestazione seguivano sempre con lo stesso ordine a) una commossa ovazione della platea, b) il pianto delle nonne, c) un prosaico assegno che terminava con degli zeri sempre più innumerevoli. I genitori di Cecilia, il signor Filiberto Quattrocchi e la signora Maria Grazia Fanelli in Quattrocchi, erano da molti lustri felicemente sposati. La loro vita di coppia era stata entusiasmata dalla nascita di quattro meravigliosi bambini. Lui, esimio Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri, aveva trovato nell’attività lavorativa prima e nella vita matrimoniale poi quella dimensione esistenziale che rende appagati e felici gli onest’uomini che non hanno bizze per la testa. Astemio, cattolico osservante, aborriva il gioco delle carte e le corse dei cavalli. Passava il tempo a coltivare un angusto orticello, ritagliato tra il lungo garage per i suoi tre fuoristrada e il selciato della sua Villa, con dei risultati non sempre adeguati agli sforzi profusi. Lei, Direttrice Didattica di una Scuola Elementare della Garbatella, aveva fatto del matrimonio prima e della numerosa prole poi più che un freno alla sua pur impegnativa carriera, una cornice entro la quale far stagliare con maggiore evidenza la poliedricità e la dignità della sua persona. Amava giocare a bridge con le amiche, e ricevere vecchie maestre oramai in pensione per bere un the e assaporare dei biscotti preparati dalla sua governante. Invecchiavano felicemente, allietati da cotanti successi scolastici e professionali dei propri figlioli. L’unico cruccio che appena angustiava le loro chiacchierate serali era la mancanza di un nipote che avrebbe dato discendenza e lustro alla loro pur già blasonata stirpe. Ma del resto, si dicevano prima di addormentarsi sospirando, bisogna pur dar tempo al tempo e avere fede nel Signore. Nei confronti della loro figliola prediletta erano sempre affettuosi e premurosi. Non saltavano per nessuna ragione al mondo un incontro scuola famiglia, timorosi di perdere l’occasione per sentirsi ripetere che la loro Cecilia era la prima della classe in tutte le discipline. Integravano la didattica della scuola pubblica, che di per sé denota alcuni limiti e alcune distorsioni assai biasimabili, invitando Cecilia a ritagliarsi il tempo necessario, senza nulla togliere allo studio pomeridiano, per seguire corsi di inglese, di pianoforte e di danza artistica; e nonostante gli impegni scolastici risultassero essere particolarmente gravosi, la brava Cecilia riusciva a rispettare tutte le consegne che via via le venivano imposte. Cresceva così, Cecilia Quattrocchi. Studiosa, ben educata, timorata di Dio, dedita all’ordine, e soprattutto illibata. I ragazzi le si avvicinavano, le si proponevano, anche con una certa insistenza, le mandavano fiori e messaggini un po’ equivoci sul numero di cellulare dato loro per troppa leggerezza; era pur sempre una ragazza molto carina. Ma in famiglia e dalle suore orsoline le avevano inculcato l’idea che il rapporto con i bambini prima e con i ragazzi poi era qualcosa di pericoloso e abietto; in poche parole, se non da evitare del tutto, certamente da limitare accuratamente. La fanciulla, d’altra parte, in cuor suo, segretamente, non disperava che sarebbe finalmente arrivato il giorno in cui un principe azzurro occhialuto su un cavallo bianco l'avrebbe portata via con sé, e allora lei sarebbe stata per sempre la donna più felice del mondo. Nel frattempo studiava, studiava, studiava. Prendeva appunti, svolgeva gli esercizi, si presentava volontaria a ogni verifica orale, e prendeva tutti ‘10’. Il professor Sfaticati, mai insensibile di fronte a situazioni se non irrecuperabili, certamente disperate come quella della studentessa Cecilia Quattrocchi, non poté fare a meno di nominarla sua segretaria personale, se non altro per far piacere alla ragazza. La qualifica di ‘segretario’ è un vecchio retaggio della scuola degli anni passati, che merita in questa sede una breve riflessione. Il professor Sfaticati volle recuperare dall’oblio questa contestatissima figura per gli innegabili vantaggi che da tale funzione ne derivano sia per l’approccio disciplinare con la classe che per lo svolgimento del programma. Al professor Sfaticati non sfuggiva certamente che, a volte, 22


procedendo all’assegnazione di questa nomina, si correva il rischio di generare incresciose antipatie e pregiudizi surrettizi; chi non è nominato ‘segretario’ del professore crede che quest’ultimo abbia una particolare quanto arbitraria simpatia verso il nominato tale da deformarne l’obbiettività nel giudizio. Non c’è nulla di più trito e ritrito, di qualsiasi epoca scolastica si voglia parlare, dell’idea che alcuni studenti si fanno di essere svantaggiati rispetto ad altri nelle valutazioni perché quest’ultimi godono di una indebita ‘simpatia’ del professore, di cui loro, purtroppo e non per colpa loro, non godono. E allora stare in silenzio durante la lezione, prendere costantemente appunti su dei quaderni ordinati, non fare mai assenze strategiche, non alzare la mano per andare in bagno nel momento topico della spiegazione, alzarsi in piedi all’ingresso del professore in aula, salutarlo se non con deferenza almeno con garbo e gentilezza ecc., tutto concorre, secondo questa linea di pensiero, al coronamento di una squallida e subdola volontà ammaliatrice, volta all’acquisizione di valutazioni sproporzionate rispetto alla reale resa didattica. Stare nelle grazie del professore diventa allora l’orripilante corollario di tutta questa messinscena, ed è prova non di una reale diligenza, ma piuttosto di quanto si sia servili, baciapile, lustrascarpe, o, come chiosano i ragazzi di oggi, ‘lecchini’. Mi pare che dimentichino, i ragazzi di oggi, che chiedere tre volte in un’ora di poter andare in bagno, e mettersi una sigaretta sull’orecchio prima di uscire; tenere il cappello in classe; ascoltare musica o, peggio, Vasco Rossi dalle cuffiette dell’ipod durante la lezione; entrare in ritardo; chiacchierare durante la spiegazione; studiare altre materie estranee alla lezione in corso; lanciare oggetti da una parte all’altra della classe; bestemmiare; infilarsi le dita nel naso per poi appiccicare delle escrescenze mucose sulla maglia dei compagni; ubriacarsi durante il viaggio d’istruzione; attaccare le gomme da masticare sotto il banco; sputare, se va bene, nel cestino, se va male sul pavimento; ebbene, dimenticano, questi ragazzi, che tutte queste ed altre attività ‘complementari’ alla regolare vita scolastica non giovano in modo particolarmente incisivo nell’elaborazione di una valutazione positiva del loro rendimento. Un professore, per quanto a molti la seguente affermazione possa apparire fuorviante e mistificatoria, è innanzitutto un uomo, e in quanto tale non può fare a meno di nutrire simpatia o antipatia verso le persone con le quali ha più strettamente a che fare nella sua attività lavorativa. Certo, qualcuno avrà anche da obiettare sul fatto che si considerino tutti gli studenti tout-court come delle ‘persone con le quali un professore ha più strettamente a che fare nella sua attività lavorativa’, ma non credo sia legittimo porre in discussione la possibilità per un professore di nutrire avversione o benevolenza verso alcuni e non verso altri atteggiamenti posti in essere dagli studenti, e quindi, verso gli studenti stessi; ferma restando l’obiettività della valutazione. Nel caso specifico di cui stiamo trattando, il professor Sfaticati, intuite le innegabili capacità cognitive e didattiche della studentessa Quattrocchi, non poté fare a meno che scegliere lei come sua ‘segretaria personale’, non solo per darle come già detto una meritata gratificazione, ma anche per mettere a frutto le sue potenzialità ai fini di una maggiore efficacia dell’intervento didattico rivolto all’intera classe. Del resto, in ogni tipo di attività lavorativa, un referente particolare risulta sempre di sostegno ai fini del perseguimento degli obiettivi che ci si ripropone di conseguire. Come già a suo tempo preannunciato, e a riprova della genuinità delle tesi in precedenza riportate, sembra opportuno all’autore riportare, grazie agli appunti messi a disposizione proprio dalla studentessa Cecilia Quattrocchi, alcune delle più significative lezioni tenute nella V C dal nostro professor Sfaticati, al fine di rendere l’oggetto del presente studio più congruo ed esaustivo. E la prima lezione dell’anno del professor Sfaticati sembra senz’altro significativa sotto questo riguardo. Vista la drammatica arretratezza nello svolgimento del programma, parve utilissimo al professor Sfaticati tenere una lezione che, pur riallacciandosi alla filosofia antica, permettesse di volgere uno sguardo in avanti, verso aspetti programmatici più avanzati. I termini della lezione furono piuttosto generici, se non altro per evitare, con una pedante precisione e puntualità, che la classe sin dalla 23


prima lezione si annoiasse e si allontanasse dal necessario interessamento verso gli argomenti via via trattati. I lettori che vorranno approfondire l’argomento oggetto di queste lezioni potranno usufruire degli appunti di seguito riportati. Coloro i quali ne ritenessero superflua la lettura potranno tranquillamente saltare a pie’ pari quanto di seguito riportato. E’ NATO PRIMA L’UOVO O LA GALLINA? Una delle tematiche fondamentali che ha acceso e reso lancinante il dibattito filosofico per interi millenni riguarda la questione appena posta: è nato prima l’uovo o la gallina? A prima vista, il problema sembra senza soluzione. Infatti così come la gallina necessita dell’uovo per esser posta in essere, così l’uovo necessita della gallina per esser posto in essere. Questa ovvia constatazione implicherebbe l’impossibilità di risalire a un precedente tale da risolvere la questione innanzi posta. Eppure, ad un’analisi più attenta e approfondita, risulterà evidente per svariate ragioni la necessaria priorità della gallina rispetto all’uovo, motivo per cui diremo, appunto, che è nata prima la gallina e non l’uovo! In primo luogo, infatti, è evidente che mentre l’uovo, per porre in essere la gallina, ha bisogno comunque di un’altra gallina che lo covi e lo determini come futura gallina, ciò non vale per la gallina. Infatti la gallina non ha bisogno della sussistenza di un uovo per fare un altro uovo (semmai ha bisogno di un gallo, ma non certo di un uovo), mentre, appunto, un uovo ha bisogno della sussistenza di un’altra gallina per porre in essere una gallina. Questa semplice osservazione rende la gallina maggiormente autosufficiente rispetto all’uovo. Ciò comporta, quindi, che la gallina per esser tale non ha bisogno dell’uovo, mentre l’uovo per esser tale ha bisogno della gallina! Risulta pertanto lapalissiano che è nata prima la gallina che l’uovo. La questione fu affrontata più di duemila anni fa da Aristotele. I termini da egli adottati erano senz’altro più ricercati e forbiti, ma le conclusioni erano identiche. Anche per il filosofo greco, infatti, nasceva prima la gallina. Egli paragonava la gallina all’ “essere in atto”, mentre l’uovo all’ “essere in potenza”. Gli sforzi aristotelici tendevano al superamento delle contraddizioni relative al movimento poste da Parmenide e Zenone e dall’intera scuola eleatica. Per costoro, infatti, il movimento non esiste. Tali filosofi, ai quali Aristotele si contrapponeva, sostenevano una cosa molto semplice: se è vero che A=A (principio di identità), allora dovremmo dire che l’Essere è Essere e il Non Essere è Non Essere, ovvero che l’Essere è e non può non essere, mentre il Non Essere non è e non può essere. Questo comporta che ciò che è, è (essendo uguale a se stesso), mentre ciò che non è, non è. Tali osservazioni, evidentemente, escludono la possibilità del movimento. Infatti il movimento implica che ciò che prima era adesso non è più, ciò che adesso è prima non era e dopo non sarà, ciò che sarà adesso non è. In altri termini, l’ammissione del movimento implica il continuo passaggio dall’essere al non essere e dal non essere all’essere, visto che ciò che è stato non è, ciò che è prima non era, adesso è, e domani non sarà, ciò che sarà domani adesso non è. Il movimento quindi implica la sconfessione del principio di identità (A=A), quindi è falso! Per Aristotele, al contrario, il movimento non implica la sconfessione del principio di identità (A=A). Il movimento non è passaggio dall’Essere al Non Essere e dal Non Essere all’Essere, ma è più semplicemente il passaggio da un certo tipo di Essere ad un altro tipo di Essere, ovvero dall’Essere in Potenza all’Essere in Atto. Che è cosa ben diversa dal passaggio dal non essere all’essere e viceversa, che va escluso. Aristotele imputava a Parmenide un uso equivoco dei termini Essere e Non Essere. E’ vero che l’uovo “non è” gallina, così come è vero che l’uovo “non è” un bicchiere di sambuca. Ma se il non essere dell’uovo rispetto alla sambuca è assoluto, il non essere dell’uovo rispetto alla gallina è relativo e non proibisce il passaggio dell’essere uovo all’essere gallina, ovvero non impone la smentita del principio di identità. Aristotele quindi dimostra come il movimento non sia, come sosteneva Parmenide, il passaggio dall’essere al non essere e viceversa (così contraddicendo il principio di identità), ma semplicemente il passaggio dall’Essere in potenza (ciò che non è adesso ma che sarà) all’essere in atto (ovvero la realizzazione e il completamento della potenza). In questo nuovo significato, la gallina (l’atto) precede sempre la potenza (l’uovo), perché una potenza, per passare all’atto (o, tradotto, una cosa che potrà essere e che adesso non è, 24


per poter un domani essere), ha sempre e comunque bisogno di una cosa che già è (l’atto). Altrimenti non avrebbe in sé le necessarie caratteristiche per passare dalla potenza all’atto, per realizzare se stessa, per completare il proprio modo d’essere. Se avesse tale autosufficienza, tale forza da passare da sé sola dalla potenza all’atto, non sarebbe potenza, ma atto stesso. Quindi è chiarito che così come l’atto deve precedere la potenza (proprio perché la potenza per passare all’atto ha bisogno di un altro atto sussistente ed autosufficiente), così la gallina deve necessariamente precedere l’uovo. Pertanto diremo che è nata prima la gallina e poi l’uovo! Terminata la lezione, suonò di lì a poco anche la campanella che segnava la fine del primo giorno di scuola del professor Sfaticati, il quale si affrettò a guadagnare l’uscita dell’Istituto con una certa solerzia per non perdere l’autobus che l’avrebbe riportato in quel dell’Aquila. 4. IL SIGNOR PEPPE Quasi tutte le riviste scolastiche sostengono unanimemente che la discontinuità didattica sia un fattore assolutamente negativo nella formazione degli studenti. Per questa ragione si ritiene anche che la discontinuità didattica contribuisca allo scarso rendimento nella resa didattica degli studenti. Di parere diametralmente opposto era il nostro professor Sfaticati. Egli credeva che l’alternanza di più professori, di più approcci didattici, di più sistemi d’insegnamento avrebbe contribuito molto più e molto meglio della continuità didattica alla crescita e alla formazione dei ragazzi. Credeva, il nostro professor Sfaticati, che quelle classi liceali nelle quali insistevano per un intero lustro gli stessi professori, sarebbero presto emerse come classi depauperate sia da un punto di vista culturale che motivazionale. Solo le classi che avevano beneficiato di una molteplicità di professori e di sistemi didattici avrebbero nel tempo dimostrato di possedere le capacità per poter esprimere una spinta propulsiva alla crescita e all’arricchimento della propria individualità. Per questa convinzione, il professor Sfaticati riteneva anche, a differenza della larga maggioranza dei colleghi, che grazie alla discontinuità del proprio intervento didattico lo stesso sarebbe risultato alla lunga più efficace. “E’ triste -spiegava il nostro prof ai Coordinatori di Classe che di anno in anno incrociava nella sua carriera scolastica- vedere come in questa o in quella classe gli studenti siano completamente abituati al vecchio metodo d’insegnamento, e si dimostrino totalmente incapaci di adattarsi a un nuovo approccio. E’ triste vedere d’altra parte come alcuni colleghi facciano delle proprie classi dei feudi personalizzati, che non possono né debbono interagire con altre impostazioni didattiche. Guardi, soltanto quando i professori si abitueranno a cambiare classi e sezioni, e soltanto quando su ogni singola classe convergeranno una molteplicità di approcci didattici, allora sì che avremo una scuola progressista e pluralista”. Questa bislacca teoria pedagogica, del resto, trovava un riscontro nella prassi più generale dell’attività lavorativa del professor Sfaticati. All’apertura di ogni anno scolastico egli sperava sempre di non ricapitare nelle scuole e nelle classi dove aveva già lavorato nell’anno precedente, sia per non avere l’occasione di rivedere quei colleghi con i quali per un motivo o per un altro i rapporti personali si erano logorati se non addirittura interrotti, sia per non ritrovarsi a insegnare nelle stesse classi nelle quali egli supponeva di aver ‘già dato’, di aver già speso cioè tutti i suoi migliori sforzi per contribuire alla crescita degli studenti. Per tutte queste ragioni il lettore avrà già compreso che la prospettiva del precariato non traumatizzava affatto il nostro professore. Cambiare scuola ogni anno costituiva di fatto per il professor Sfaticati la più ghiotta occasione per un aggiornamento continuo. Il professor Sfaticati pensava che il precariato fosse la sua dimensione ideale, un po’ per dimenticare vecchie e sgradite facce, un po’ per conoscerne di nuove, un po’ per osservare nuove strutture e nuovi contesti, nuovi approcci e nuovi sistemi didattici. Nelle nuove realtà lavorative nelle quali veniva ‘gettato’ aveva allora modo di conoscere sempre nuovi colleghi, aveva modo di dimenticare quelli vecchi, aveva modo di conoscere nuove realtà sociali e di perlustrare in lungo e largo tutta la provincia romana, 25


con i suoi dialetti, le sue diverse culture, le sue diverse cucine. E in questa varietà di esperienze, in questa molteplicità di contesti, in questo suo aggiornamento umano e professionale continuo, nei lunghi anni che lo separavano dalla stabilizzazione lavorativa e dalla immissione in ruolo, un insegnamento fondamentale comprese il nostro professor Sfaticati: indipendentemente dai contesti, dall’indirizzo degli Istituti, dalla realtà socio-economica circostante, dalla grandezza della scuola e della città, dalla qualità e dalle motivazioni degli studenti, dalle qualità umane e professionali dei colleghi, dal rigore o dal lassismo imposto all’Istituto dalla linea politica del Dirigente Scolastico, ebbene indipendentemente da tutto questo, è solo e soltanto diventando ottimi amici dei bidelli che un professore precario ha ragionevoli speranze di lavorare con serenità e profitto, per un anno intero, nella sua sempre nuova comunità scolastica. Il professor Sfaticati, nelle sue lunghe e indicibili peripezie lavorative, aveva fatto tesoro ormai da tempo di questo insegnamento, ed aveva ben presto compreso che il bidello rappresenta il punto nevralgico del sistema educativo e amministrativo della scuola, molto più rilevante della figura del Dirigente Scolastico, molto più importante dell’attività d’insegnamento dei professori, molto più importante della qualità stessa degli studenti. Innanzitutto, e per lo più, il lavoro del bidello consiste nel fare il delatore ai danni dei professori ritardatari, comunicando in Presidenza l’entità e la frequenza dei ritardi posti in essere dall’intero corpo docente. Il bidello sa tutto di tutti; per la sua stessa figura professionale, il più delle volte è impiegato nell’Istituto da molti più anni del Dirigente e dei professori di turno, il cui impegno nella stessa scuola soffre, come abbiamo visto, di una parossistica volatilità. Il bidello osserva tutto il personale della scuola da una postazione privilegiata, solitamente una scrivania accostata ai termosifoni. Il bidello conosce tutta la scolaresca, e a lui, e non certo ai professori, i ragazzi confidano i loro più intimi problemi, le loro più inconfessabili smanie, i loro crucci più persistenti, soprattutto quando si tratta di perder tempo per evitare delle interrogazioni. Il bidello conosce tutto quello che c’è da conoscere, della scolaresca, dei colleghi, del Dirigente Scolastico, del territorio, della giunta comunale che amministra la città, ecc. Senza parlare poi dell’importanza sostanziale per il buon andamento delle attività scolastiche delle mansioni specifiche del collaboratore tecnico-amministrativo. Senza il bidello chi rifornirebbe le classi di gessi per scrivere sulla lavagna? Senza il bidello chi porterebbe una camomilla a uno studente che simula un mal di pancia per evitare l’interrogazione di Fisica? Senza il bidello chi farebbe finta di dare seguito alla raccolta differenziata dei rifiuti iniziata in classe dagli studenti? Senza il bidello chi interromperebbe la lezione per dare lettura di una circolare che nessuno ascolta? Senza il bidello chi ripulirebbe le classi di penne, matite, pennarelli, libri, vocabolari, ombrelli sciarpe e cappotti che intralcerebbero il giorno seguente la regolare ripresa delle attività didattiche? Per queste ragioni, il professor Sfaticati ben presto comprese che i rapporti con il personale ausiliario dovevano essere improntati al più deferente riguardo. Ci si può permettere il lusso di litigare con un collega, con il Vicario del Preside, col Dirigente stesso, non certo con un bidello. L’anno scolastico di cui stiamo narrando le vicende fu, almeno da questo punto di vista, piuttosto fortunato per il professor Sfaticati. Egli ebbe modo di conoscere, in questo non breve lasso di tempo, il bidello più importante dell’Istituto, la stima del quale costituiva il presupposto fondamentale per poter godere della più totale e incondizionata amicizia di larga parte del personale scolastico. Un giorno -siamo ai primi di Ottobre- arrivando col suo puntuale ritardo in una delle sue classi, nella V C, il professor Sfaticati, con una certa sorpresa trovò seduto dietro la cattedra il collaboratore scolastico, il signor Peppe, al secolo Giuseppe Massacesi, intento a leggere la pagina sportiva della copia-omaggio del giornale che la scuola riceveva da Il Corriere della Sera. Va detto, solo per inciso, che numerose copie del quotidiano venivano gratuitamente concesse alla scuola dalla testata giornalistica in questione. L'encomiabile iniziativa aveva manifeste finalità didattiche, e si riproponeva di avviare gli studenti, del tutto alieni dall’acquisto e dalla consultazione dei giornali, 26


alla lettura del quotidiano in classe, e, almeno si sperava, in un imminente futuro, anche fuori dalla classe. Però qualcosa, in questa iniziativa, andava puntualmente per il verso sbagliato: puntualmente, infatti, tutte queste copie-omaggio finivano per essere distribuite nei vari gabbiotti dei bidelli, in Sala Docenti, nelle Segreterie Didattica e Amministrativa, senza che mai ci fosse un giorno che una sola copia di questi benedetti quotidiani riuscisse a varcare l’agognata soglia delle aule scolastiche, per esser consegnata agli studenti. Ma questa è un’altra storia, un altro dei tanti problemi dell’Istituto, di cui si sarebbe presto occupato il Collegio Docenti. All'ingresso in classe del giovane professore, il simpatico signor Peppe -che, accerchiato da numerosi studenti, cercava indefessamente di leggere la sua onesta pagina sportiva-, non esitò un momento ad alzarsi dalla cattedra; si accostò quindi al giovane prof informandolo: "Sa, mi scusi se mi sono permesso di sedermi al suo posto, ma questi ragazzi facevano tanto di quel baccano approfittando del suo ritardo che mi sono visto costretto, le assicuro mio malgrado, ad intervenire per cercare di riportare la classe ad una certa compostezza, ad una certa moderazione. Del resto, lei lo sa meglio di me -continuò accostandosi con fare bonario, di chi la sa lunga e la sa raccontare, alla cravatta del professore, abbassando la voce e guardando di sottecchi i banchi disordinati degli studenti- se questi teppistelli fossero lasciati soli per più di un quarto d'ora chissà cosa sarebbero capaci di combinare! Dio ce ne scampi!". Tuttavia, il simpatico signor Peppe, da buon abruzzese forte e gentile, dal fare ingenuo ma sempre sincero, nel dire tutto ciò al prof non assunse, come invece erano consueti fare i suoi colleghi, il tono di implicito rimprovero al professore, reo di aver lasciato la classe scoperta. Se fosse infatti successo qualcosa a quei ‘teppistelli’, se uno di loro si fosse gettato disgraziatamente dalla finestra, o se qualcuno di loro avesse picchiato duro la testa contro lo spigolo della lavagna o del termosifone, allora sarebbero stati dolori sia per il professore immotivatamente assente sia per il collaboratore scolastico. Ma queste erano ambasce che il nostro collaboratore scolastico lasciava volentieri alle sue colleghe professionalmente represse e psicologicamente paranoiche. Egli, dall’animo tanto realista quanto bonario, sapeva benissimo che quelle sciagurate evenienze erano appunto delle sciagurate evenienze, e non ‘sapeva’ questo perché era uno di quei collaboratori scolastici fatalisti e privi di senso di responsabilità verso i minori; tutt’altro! Egli sapeva che se uno studente si getta dalla finestra o picchia duro la testa contro lo spigolo contundente della lavagna o di un termosifone, se mai fosse accaduto ciò, lo si sarebbe dovuto non tanto all’assenza del prof o alla naturale irrequietezza della classe, quanto alla presenza di un prof (sic!), e segnatamente di uno di quei proff particolarmente incapaci a gestire una classe (e tanti ce ne sono in giro); lo si sarebbe dovuto all’incompetenza assoluta di quel prof, alla sua sistematica mancanza di autorevolezza, alla sua incapacità di parlare ai ragazzi. E il signor Peppe ‘sapeva’ tutto questo non perché gliel’avevano detto i colleghi o perché l’avesse letto su qualche rivista scolastica. Egli pensava che il peggior pericolo all’incolumità dei ragazzi derivasse non tanto dal fatto che qualche professore li lasciasse soli per un quarto d’ora o per un’intera mezz’ora, quanto dalla presenza in classe di un professore palesemente negato per la sua attività lavorativa. Nei trenta e più anni del suo infaticabile servizio il signor Peppe troppe volte aveva avuto un triste riscontro della celebre massima woodyalleniana “chi sa fa, chi non sa insegna, chi non sa insegnare insegna educazione fisica”; troppe volte aveva assistito alla deprimente storia di una classe che in attesa del suo prof ritardatario sta buona e ordinata a copiare i compiti, le versioni di latino e le disequazioni di matematica; e troppe volte aveva constatato che all’ingresso di un prof privo di polso la stessa classe scadeva in uno stato di natura hobbesiano, in uno stato di guerra di tutti contro tutti. Ma non era certo questo il caso del professor Sfaticati. Egli sapeva che il professor Sfaticati, benché aduso ai ritardi, ci teneva al proprio lavoro, e sapeva imporsi alle classi non per la sua presunta autorità ma per la sua gentile autorevolezza, per il suo modo garbato, pur se bizzarro, di solleticare l’attenzione altrimenti evanescente dei ragazzi. D’altra parte, in caso di ritardo del prof, il signor Peppe più che recarsi in Presidenza per il debito rapporto, amava cogliere l’occasione per 27


intrufolarsi, lui, nella classe, e scimmiottare un po’ con quei ragazzi che diceva di non digerire, ma ai quali sotto sotto voleva un mondo di bene. E quando, finalmente, approfittando del ritardo di un professore, riusciva ad intrufolarsi nelle classi, il nostro devoto servitore dello Stato faceva finta poi di non accorgersi, dall'alto del suo augusto pancione, che dal preciso momento del suo ingresso in aula i ragazzi -che lo avevano in simpatia, e amavano anzi bighellonare con lui e sentirgli raccontare le storie della sua gioventù-, anziché riportarsi 'ad una certa compostezza e a una certa moderazione', come il signor Peppe sperava, facevano esattamente il contrario. Anche in questo caso che stiamo narrando, gli studenti che gli si erano assiepati attorno, in circolo, avevano cominciato a scherzare con lui, facendo tanto di quel baccano da rendere pressoché impossibile, per i colleghi impegnati nelle classi attigue, continuare a spiegare la lezione del giorno. Gli studenti non mancarono di chiedergli cosa avesse mangiato di buono la sera prima, se avesse digerito senza problemi, se avesse bevuto un paio di grappini prima di coricarsi, se avesse poi fatto l'amore con la moglie, e, soprattutto, cosa ne pensava dell’ultima, spericolata campagna acquisti della Lazio e dell'ultima trasferta della squadra capitolina, alle quali domande il signor Peppe rispondeva sorridendo “a rega’ e lasseteme perde ché mo arriva er professore e so cazzi vostri!”. Va però detto che il signor Peppe, benché di fede laziale, non era in realtà originario di Roma, né tanto meno del Lazio. La sua immacolata fede sportiva non era poi così immacolata, ma fu per così dire acquisita negli anni, precisamente al ritorno da una gita domenicale a Frascati, nella quale ebbe modo di conoscere quella ragazza, quella cuoca, che poi sarebbe di lì a un anno divenuta sua moglie. E questa, che stiamo per raccontare, è la storia della gioventù del signor Peppe; è la storia che i liceali preferivano ascoltare in silenzio dalla sua bocca; è la storia che il signor Peppe di gran lunga preferiva raccontare a tutti i ragazzi, così, anche per farla rivivere un po’; è una storia che qui non può essere certo tralasciata. Tutto ebbe inizio quando il signor Peppe, che all’inizio del racconto era poco più che un ragazzo, decise con altri suoi amici di mantenere fede a un impegno preso il sabato precedente di fronte a quattro bottiglie di vino e di partire quindi, appena il giorno dopo, dal lontano entroterra abruzzese alla volta dei Castelli Romani. Lì, lui e i suoi amici, svaniti i fumi dell’alcool delle quattro bottiglie di vino bevute la sera prima, si erano riproposti di passare una giornata serena e tranquilla, lontani dalle solite preoccupazioni quotidiane, e dai soliti bar di paese. Era una soleggiata domenica dell’Aprile del ’72. Come era prevedibile, la allegra comitiva di buontemponi, eccitati da un’avventura così stravagante (partita però con i migliori propositi turistici: avrebbero dovuto visitare Castel Gandolfo, un paio di ville di imperatori romani e, prima di ripartire, il lago vulcanico di Albano), finì ad ingozzarsi di porchetta e ad affogarsi di nuovo nel vino rosso ‘de li castelli’ in una delle più equivoche fraschette romane. In questa gita fuori porta il signor Peppe, abbandonata la sobrietà e i modi flemmatici che altrimenti l’avrebbero contraddistinto, ebbe occasione, in preda all’ebbrezza dell’alcool, di importunare simpaticamente la cuoca del ristorante dove era andato a gozzovigliare con i suoi amici, e, tra una battuta irriverente e un complimento per la sua arte culinaria semplicemente impareggiabile, venne fuori un legame quarantennale che nemmeno l’età e la pancia galoppante sembravano poter più mettere in discussione. In realtà, così almeno in un momento di rara intimità ebbe a raccontare il signor Peppe al personale tecnico e amministrativo della scuola, la porchetta che ebbero da mangiare era fredda e dura come una suola di una scarpa; la carbonara che tutti e quattro gli amici ordinarono e tentarono di mangiare era troppo salata per poter essere inghiottita; il vino, il famoso vino dei castelli, era, come del resto da quelle parti la tradizione impone, diluito nell’acqua per l’unilaterale iniziativa dell’oste, vistosamente preoccupato dalle esternazioni che esalavano dal tavolo di quella comitiva rumoreggiante di avventori abruzzesi. 28


Ciononostante, il signor Peppe si abbandonò a lodi sperticate rivolte particolarmente alla cuoca ma in generale a tutto lo staff, staff che risultava composto dai tre fratelli, dai genitori e dai nonni della cuoca, essendo la fraschetta a gestione rigorosamente familiare. I ripetuti e plateali complimenti rivolti alla cucina e segnatamente alla cuoca, però, insospettirono molti, ed in particolare il padre della giovane cuoca, che per pranzare, nonostante le penose suppliche della figlia, preferiva ogni giorno cucinarsi da solo. E tuttavia le lodi, i complimenti e il panegirico del signor Peppe sortirono l’effetto sperato, e la cuoca -la signorina Mariaflora Bottiglioni- fu alla fine presentata, dietro molte e ripetute insistenze, dal padre alla comitiva di ragazzi abruzzesi che altrimenti minacciavano di non andarsene più da quel ristorante. La signorina all’epoca dei fatti doveva essere davvero una bella ragazza: alta, mora, capelli ricci lunghi, con un sorriso celestiale, un seno abbondante ed alto in modo irriverente, vita snella e sguardo penetrante; così almeno la descrisse il signor Peppe ai suoi colleghi. E furono proprio lo sguardo e il sorriso della ragazza a riuscire laddove aveva prima manifestamente fallito l’acqua, con la quale il padre, l’oste di cui prima, aveva diluito le numerose brocche di vino. Nell’incrociare quello sguardo e quel sorriso, infatti, al signor Peppe scomparvero i fumi dell’alcol e divenne di colpo la persona più sobria del mondo: be’, del mondo no, ma di quel locale certamente sì. Dopo le prime presentazioni, i rinnovati complimenti, i primi convenevoli, la signorina Mariaflora fu richiamata subito alle sue mansioni, e dopo aver salutato sorridendo in modo civettuolo l’intera comitiva e in particolare e da ultimo proprio lui, il signor Peppe, si avviò sculettando verso i fornelli, in cucina, da dove nel frattempo proveniva un inequivocabile odore di abbacchio ai ferri andato del tutto bruciato. Il signor Peppe fu allora preso di mira dalle occhiatacce dei parenti della cuoca, e questo lo mise effettivamente un po’ in soggezione. Ma nulla poté questa soggezione rispetto alla felicità, all’entusiasmo, al rapimento mistico e sensuale in cui fu prostrato da quello sguardo e da quel sublime sorriso. In quel momento decise: avrebbe di lì a poco sposato quella ragazza, che sarebbe immancabilmente diventata sua moglie. Nel frattempo però uno dei suoi tre amici, per il troppo vino bevuto, ebbe un malore. I sintomi furono immediatamente sconcertanti: battito cardiaco accelerato; sudorazione a freddo; attacco di panico; giramento di testa -che al malcapitato sembrava in realtà il giramento del locale. Allora il suo amico, preso dalla disperazione, cominciò a prendersela con l’ultimo dei ventisette bicchieri bevuti -non li contò certo lui, ma l’oste, che conosceva i suoi polli, e che per ogni bicchiere bevuto dal briccone aveva apposto una stanghetta parallela alla precedente sul biglietto della comanda riservata a quel tavolo. Quindi, dopo aver dato la colpa dell’improvviso malore allo strano sapore dell’ultimo bicchiere bevuto, cominciò ansiosamente a tastarsi prima lo stomaco, poi il fegato, poi la schiena, brontolando “oddio mi sento male, oddio mi sento male, oddio mi viene da …”, ma non ebbe modo di terminare i suoi ‘cahiers de doléances’ che tutta la porchetta in precedenza e a fatica ingurgitata si ritrovò di nuovo sul tavolo, stavolta però triturata e avvolta da una schifosa poltiglia rossastra. E dopo aver vomitato sul tavolo, per chiudere in bellezza, cadde col viso nel piatto ricoperto da quell’orripilante porchetta di risulta. Stando a quanto egli stesso raccontò anni dopo ai suoi colleghi di lavoro, al signor Peppe non rimase altro da fare che piangere sul vino bevuto, tentare di ridarsi un contegno agli occhi dei parenti della signorina non toccando più un bicchiere di vino e anzi insultando ad alta voce tutti i suoi amici che, nonostante quanto accaduto, continuavano a bere, e continuavano a bere più speditamente e con risate più fragorose di prima. Il pranzo terminò quando oramai molti nuovi avventori guadagnavano l’ingresso del locale per ordinare la cena. Ma nonostante la sproporzionata durata del gala, il signor Peppe si mantenne assai scrupolosamente nel proposito di non toccare più alcool, e tenne il punto fino alla conclusione del pasto. Rimase certo il più sobrio di tutti -e questo fu un bene agli occhi del padre della cuoca-, ma non lo fu per i suoi compagni di avventura, i quali, proprio per la frugalità autoimpostasi dal loro 29


amico, ne fecero il bersaglio prediletto dello scherno e delle celie sempre più provocanti e offensive. Le occhiate cariche di pregiudizio e di ripulsa dei gestori del ristorante lo fulminarono ripetutamente, e con un certo sollievo finalmente, quando la penultima brocca di vino fu trangugiata e l’ultima rovesciata sul tavolo, ebbe dagli amici l’autorizzazione di chiedere il conto finale. L’oste, il padre di Mariaflora, non volendo che sua figlia tornasse ad essere importunata da quei manigoldi nell’immediato futuro, fece del tutto per rendere il loro ritorno alquanto improbabile, e approfittò della situazione per alleggerire il mutuo del suo ristorante proponendo una cifra palesemente truffaldina. Addebitò ai ‘signori’ venti anziché dodici brocche di vino, sette anziché quattro antipasti, sei anziché quattro primi, cinque anziché tre secondi. Il signor Peppe, che certo non si trovava nelle condizioni per mercanteggiare e che per nessuna ragione al mondo desiderava che i suoi amici prendessero iniziativa in tal senso, si risolse di offrire per intero lui il pranzo, dando via i risparmi che aveva accumulato in un anno e tre mesi di duro lavoro nelle campagne della piana del Fucino. Di fronte a tanta magnanimità, due dei suoi tre amici, increduli, si erano avvicinati barcollando alla cassa per ringraziare dell’inaspettata filantropia il signor Peppe. L’oste, da parte sua, per indorare la pillola propose agli avventori: “Ragazzi, gli amari li offre la casa, per la vostra squisita e simpatica compagnia”. Ma a questo punto, allarmatissimo per l’eventualità che la bisboccia potesse proseguire ulteriormente, il signor Peppe cercò di parare il colpo: “No lasci stare, non si preoccupi, la ringraziamo lo stesso! E’ stato gentilissimo, e tutto era buonissimo”. Era a tutti evidente che il signor Peppe aveva fretta di andarsene, per evitare di compromettere ulteriormente una situazione andata di per sé già troppo male e troppo per le lunghe. Ma prima che egli finisse di declinare l’invito, i suoi amici, al colmo dell’euforia, già stavano con il bicchiere vuoto in mano in attesa dell’immancabile ‘staffa’ (il ‘bicchiere della staffa’ è così detto perché i cowboys, nel far west, prima dell’ultimo bicchiere andavano a mettere la staffa al cavallo). Divertito oramai dalla situazione, l’oste si rivolse a questi due traballanti amici del signor Peppe, guardandoli, per quanto poté, fissi negli occhi, e chiedendo loro quanti bicchieri d’amaro dovesse al dunque servire; e loro rimando risposero: “Tre, quanti senno?”. “Ma come…- chiese ridendo sotto i baffi l’ineffabile oste…non eravate quattro? E il vostro amico che è ancora svenuto sulla sua porchetta sul tavolo non gradisce un altro bicchiere prima di andar via?”. “No! Ma che scherza? Ma per chi ci ha preso lei? Mica siamo degli irresponsabili, noi!”. Quindi tracannarono il loro bicchiere, e uno dei due aggiunse, con calma, ridendo: “Quello non può più bere! Non lo vede? Deve guidare!”. Al che l’oste, anziché ridere per quella che pretendeva di essere una battuta di spirito, ne ebbe le scatole piene, e cacciò via gli avventori a pedate nel deretano fuori dal suo locale, biascicando strane parole in gergo romanesco, intimando e scandendo però in italiano di non mettere più piede nel suo ristorante. “Tutto è perduto, fuorché l’onore e la vita, che è salva”, ebbe a dire Francesco I di Francia prigioniero di Carlo V all’indomani della battaglia di Pavia. E così fu anche per il signor Peppe. Mentre il pranzo si concludeva in quel modo piuttosto penoso, prima di esser presi a calci nel culo ebbe modo di notare, volendo rifuggire lo sguardo dei suoi amici e fissando un punto indefinito per aria, una serie sterminata di gagliardetti laziali appesi alle pareti, al soffitto, dietro ogni scaffale, insomma un po’ da tutte le parti, e questo strano arredamento lo determinò a ripresentarsi con ben altro contegno alla stessa Osteria ma sotto mentite spoglie -da tifoso laziale- e nel modo che egli ebbe a raccontare a scuola e che l’autore fedelmente riporta. Al signor Peppe non rimase altro da fare, per mantenere fede alla sua idea di avere Mariaflora, che ripresentarsi una settimana dopo, sempre di domenica, ma stavolta senza amici al seguito, in tenuta biancoceleste, con una cravatta biancoceleste, con un’aquila imperiale all’occhiello della giacca, dopo aver passato l’intera settimana, giorno e notte, per sette giorni, a memorizzare tutti i nomi di tutti i giocatori delle ultime cinquanta formazioni della Lazio, ripetendo a menadito l’albo d’oro, le coppe, le finali e le semifinali vinte e perse dalla compagine capitolina dall’anno della sua fondazione all’epoca dei fatti. Per darsi un certo contegno, quella domenica mangiò la porchetta in 30


quantità piuttosto frugale, e soprattutto bevve aranciata. E così, per farla breve, il signor Peppe, dopo aver chiesto ripetutamente scusa per l’apparizione goliardica della settimana prima, e dopo aver giurato e spergiurato di aver conosciuto solo per sbaglio, e solo in quella giornata della settimana scorsa, quella banda di alcolizzati che in realtà erano i suoi amici per la pelle, alla fine, ma proprio alla fine, riuscì a entrare nelle grazie del padre della sua futura sposa, che non lo prese più a calci, ma lo invitò più volte a tornare. E come si sa, una porchetta tira l’altra; così fu che la signorina Mariaflora Bottiglioni, dopo esser rimasta incinta all’insaputa dei suoi genitori, divenne prima dell’arrivo del nascituro la signora Mariaflora Bottiglioni in Massacesi, e con lei il signor Peppe sposò, oltre che una raffinatissima cuoca, un’incrollabile fede laziale che resisterà alla prova degli anni. Ma, e questo l’abbiamo detto all’inizio della storia, il signor Peppe non era né romano, né laziale, bensì di uno sperduto paesino dell’entroterra abruzzese, e prima di quella sua gita domenicale alla volta dei Castelli Romani la sua fede calcistica era tutta per la formazione della sua cittadina. Ogni domenica, puntuale come un orologio svizzero, il signor Peppe scalpitava per seguire la sua squadra del cuore: la Celano Calcio. Egli infatti era un appassionato sportivo, e non mancava mai di dare il suo contributo alle gloriose sorti della sua squadra del cuore. Anzi, diremo di più: se occorreva dar del cornuto a un arbitro venduto, lui era il primo a insultarlo gridando dagli spalti come un forsennato; se occorreva menar le mani contro filibustieri di altre tifoserie, lui era sempre in prima linea, sugli spalti, per galvanizzare ed entusiasmare i suoi concittadini, e non di rado la tifoseria del Celano Calcio si distingueva nelle trasferte ma anche nelle partite in casa per la combattività di cui dava immancabilmente prova. Fu a malincuore, quindi, che il signor Peppe, al solo scopo di ingraziarsi l’amicizia e la stima della famiglia di Mariaflora, dovette abbandonare tutto questo; ma il trapasso tuttavia non fu completo e la fede per il Celano Calcio rimase gelosamente custodita nel profondo del suo cuore. Questa dissimulazione della sua fede calcistica però non fu del tutto insincera. Dopo lunghe e avvincenti stagioni calcistiche passate al Flaminio con i familiari di quella ragazza, che nel frattempo era diventata la compagna prediletta di una vita, dopo lunghi anni, pian piano, il signor Peppe cominciò ad affezionarsi alle sorti della compagine biancoceleste, e in cuor suo la fede per il Celano Calcio fu sempre più accompagnata dalla fede per la Lazio. Dopo anni di tormenti interiori, il signor Peppe comprese che il suo cuore era diviso, ma non infelicemente, tra l’attaccamento alla Lazio e l’attaccamento al Celano Calcio. E tra una domenica in casa e una domenica in trasferta, al signor Peppe capitò anche di essere assunto, per quelle rare combinazioni della vita, come collaboratore scolastico, grazie all’intervento di un alto funzionario della Città del Vaticano -anche lui estimatore degli ultras della Lazio-, conosciuto sugli spalti dello stadio Flaminio durante una partita della loro squadra prediletta. Il nuovo ‘lavoro’ presso il Ministero dell’Istruzione Pubblica gli impose tuttavia di abbandonare definitivamente il suo caro luogo d’origine, le sue amate terre marsicane, per trasferirsi definitivamente a sud di Roma, dove prese a condividere le gioie e i dispiaceri della vita di coppia, diviso tra la gestione diretta del ristorante del quale la moglie era rimasta la sola responsabile e le incombenze derivanti dalla sua nuova attività lavorativa presso i vari istituti scolastici della capitale. Non impiegò tuttavia molta fatica ad adeguarsi alle mansioni e agli obblighi imposti dal suo lavoro, e con estrema solerzia si abituò a passare le proprie giornate seduto nelle vicinanze del termosifone, in fondo al corridoio della scuola, appoggiato al suo banchetto, con la copia-omaggio del Corriere della Sera aperta sulla pagina sportiva. Tutto questo però non avveniva nella sua amata Celano, ma a Roma, dove sia a lui che a sua moglie era più semplice poter portare avanti tutte le attività connesse alla gestione della Fraschetta dei Castelli Romani; Fraschetta che il padre della sposa alla sua dipartita (avvenuta il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, per una fatale intossicazione alimentare contratta a margine del banchetto in suo onore -occasione per la quale aveva concesso alla sua figliola di cucinargli e servigli il pasto-) aveva deciso di lasciare in eredità a 31


Mariaflora, la cui arte culinaria, come ebbe a dire in tempi non sospetti il signor Peppe nel lontano 1972, era davvero impareggiabile. E questa è, in sintesi, la storia che il signor Peppe aveva raccontato lustri e lustri addietro a tutti i suoi colleghi che con insistenza gli chiedevano come mai si trovasse a lavorare in quel posto; ma soprattutto, è la storia che il signor Peppe amava raccontare agli studenti, e che gli studenti amavano ascoltare dal signor Peppe, in attesa dell’arrivo di un prof.

5. UNA DISASTROSA LEZIONE IN PRIMA L’importanza del metodo didattico e del linguaggio disciplinare non può mai, in alcun caso, essere sottovalutata, almeno per ciò che concerne l’insegnamento della filosofia. A differenza delle discipline scientifiche, infatti, dove un teorema e un esercizio possono esser risolti in un numero determinato di combinazioni, e dove gli aspetti più rilevanti del programma vengono sostanzialmente individuati unanimemente dalla comunità scientifica e professorale, in ambito filosofico il discorso cambia del tutto. Ci sono dei professori infatti che spendono tre mesi del loro tempo per spiegare i presocratici, mentre altri li saltano a pie’ pari dando scarsa o nulla rilevanza a quelle che loro ritengono essere delle semplici confabulazioni pseudofilosofiche; alcuni professori dedicano a Hegel più di metà dell’anno scolastico, a discapito di tutti gli altri filosofi dell’8 e del ‘900 previsti dal programma, a differenza di altri che limitano le spiegazioni afferenti alla filosofia hegeliana ad un massimo di 10 ore curricolari; alcuni professori preferiscono svolgere Kant nel quarto anno, per non ritrovarselo tra i piedi nel quinto, mentre altri professori ritengono di non dover fare le cose di fretta in quarto e preferiscono inserire la filosofia kantiana all’inizio del quinto anno; alcuni professori, magari ex sessantottini o nostalgici della Pantera, di Marx fanno tutto, ma proprio tutto, dalla critica al misticismo logico di Hegel fino caduta tendenziale del saggio di profitto, mentre altri professori, magari cresciuti nella nostalgia della Gioventù Italiana del Littorio, preferiscono tagliare Marx per parlare di Ezra Pound. Insomma, potremmo continuare per molte pagine ancora nell’addurre casi ed esempi che confermano l’assoluta varietà delle impostazioni didattiche, dei metodi espositivi, della programmazione dei tempi, per non parlare poi delle diverse tipologie delle verifiche, del numero e della frequenza di queste da somministrare alla classe, dei criteri di valutazione posti in essere per le stesse, ecc. E’ bene che si noti, tuttavia, che l’arbitrarietà delle attività svolte dal professore non è del tutto sconfinata e non può essere accettata in modo del tutto pacifico. Il professore di filosofia, così come il professore di qualsiasi altra disciplina, almeno formalmente è tenuto a sottoporre all’approvazione del Consiglio di Classe sia l’adozione del libro di testo, sia la programmazione, sia i criteri di valutazione delle verifiche. Il professore di filosofia, così come tutti i suoi colleghi, deve svolgere la sua attività didattica nel più scrupoloso rispetto del Progetto dell’Offerta Formativa approvato a inizio anno dall’intero Collegio Docenti. Il professore di filosofia, inoltre -e come lui tutti gli altri suoi colleghi- è tenuto a presentare periodicamente lo stato di avanzamento del programma e segnalare l’eventuale arretratezza dello stesso al Consiglio di Classe, al quale deve poi spiegare i motivi del ritardo. Tutto questo, almeno, dovrebbe valere per la teoria; ma poi in pratica le cose vanno assai diversamente da quanto stabilito dalla legge, e vedremo brevemente il perché. Per non annoiare il lettore, diremo soltanto che, in assenza di un qualsiasi efficace organo di controllo delle attività svolte da ogni singolo professore, ogni singolo professore fa un po’ come gli pare e piace, sviluppando il programma su tempi, se non arbitrari, del tutto personali; scegliendo i movimenti e gli autori sui quali soffermarsi con criteri, se non arbitrari, del tutto personali; somministrando verifiche in un numero e nelle tipologie, se non arbitrari, del tutto personali; correggendo tali verifiche nei tempi e con criteri di valutazione, se non arbitrari, del tutto personali. Qualche lettore si chiederà come questo sia possibile! Qualcun altro si chiederà se non c’è un 32


programma ministeriale da rispettare! Qualcun altro ancora si chiederà se è possibile davvero che un professore salti Marx mentre un altro gli dedica quattro mesi! Se è possibile che una cosa del genere avvenga anche per tutti gli altri autori, da Spinoza a Sant’Agostino, da Tommaso a Nietzsche, da Aristotele a Duns Scoto! Insomma, se non tutti in molti si chiederanno se è poi mai possibile, e normale, che ogni singolo professore di filosofia arrivi a sviluppare il ‘suo’ programma, a interrogare i ‘suoi’ ragazzi, a somministrare le ‘sue’ prove scritte, e a mettere i ‘suoi’ voti, facendo tutto questo ‘suo’ lavoro come gli pare e piace! Domande spontanee, dubbi legittimi, preoccupazioni fondate! Ma -ed è questo quel che puntualmente si risponde a chi chiede a un prof un atteggiamento e un metodo meno libertini e arbitrari-, se un professore fosse costretto a far portare ai ragazzi solo il manuale che è stato fatto acquistare alle famiglie a inizio anno, e non altri manuali o altre dispense da fotocopiare con spese aggiuntive; se si obbligasse un professore a svolgere non il programma che più gli garba, ma il programma che egli ha consegnato al Consiglio di Classe e alla Segreteria Didattica; se si costringesse un professore a rispettare i tempi previsti per lo svolgimento del programma stesso; se si obbligasse un professore ad attenersi al numero e alle modalità di verifiche previste dal POF (Piano dell’Offerta Formativa); se si obbligasse in generale un professore a rispettare tutte le norme, gli articoli, i vincoli e le clausole previsti dal suo contratto di lavoro; se si obbligasse un professore a fare tutto questo, dove andrebbe a finire allora la sacrosanta libertà d’insegnamento? Oggi è opinione largamente condivisa in qualsiasi Sala Docenti che la intangibile libertà d’insegnamento faccia sì che un professore, più che un meschino impiegato statale come tanti, sottoposto al rispetto delle norme di un insulso contratto nazionale di lavoro, sia un missionario della cultura, un intellettuale, un libero pensatore, un novello prometeo della Paideia. Tutte queste considerazioni aiutano i lettori a comprendere quanto sia importante, per i ragazzi di oggi, la capacità di assumere un atteggiamento elastico di fronte ai variegati se non discordanti metodi dei diversissimi professori. Uno studente che negli anni dimostra di non essere in grado di ‘adeguarsi’ ai vari registri didattici dei diversi insegnanti con i quali si ritrova ad aver a che fare, dimostra con ciò una scarsa plasticità caratteriale che certamente non costituisce una buona credenziale per fare strada nella scuola e, quel che più conta, nella vita. La filosofia è una disciplina che viene introdotta soltanto nel terzo anno. Nel Liceo Classico, nel quale ancora persiste la suddivisione tra biennio, detto ancora Ginnasio, e Liceo, cioè il triennio, questa introduzione avviene nel primo anno del Liceo. E’ un anno per molti aspetti importantissimo, non solo perché vengono inserite nuove discipline, ma perché nel passaggio dal biennio al triennio cambiano numerosi professori e si procede all’accorpamento delle precedenti classi seconde, in base alla recente normativa finalizzata più che alla razionalizzazione della spesa all’aumento puro e semplice dei tagli. Il terzo anno, per molteplici ragioni quindi, viene considerato da molti studenti e dalla quasi totalità dei professori di gran lunga l’anno scolastico più difficile e impegnativo. L’introduzione di una disciplina del tutto nuova come la Filosofia contribuisce non poco a rendere il salto dal biennio al triennio ancor più impegnativo per una massa di adolescenti che per la prima volta si trova a sentir parlare -e non da un ‘professore’ di Religione Cattolica- di Dio, di Io, di infinito, di morale, di Bene, di Anima, di Ipostasi, di meccanicismo, di intellettualismo etico, di relativismo, di fenomenismo ecc. La prima reazione delle classi, il più delle volte, è in tutto simile alla reazione di una comunità di persone normali sorpresa da un momento all’altro dalla minacciosa presenza di un pazzo scatenato, che in classe ovviamente sarebbe il professore. Consapevole del pericolo e conscio della puntualità delle precedenti considerazioni, il professor Sfaticati, cui anche quell’anno scolastico era stata assegnata una classe prima del Liceo Classico, rivolse pertanto tutte le sue migliori premure alle prime lezioni. Siamo ancora nelle prime settimane di scuola quando si presentò, nel suo orario non ancora mandato a memoria, la casellina occupata dalla III C. Quel giorno, tuttavia, per i ricorrenti 33


inconvenienti del pendolarismo romano, il professor Sfaticati arrivò clamorosamente in ritardo. Quando entrò a scuola si precipitò in Sala Docenti, e fortunatamente si rese conto che nessuno gli prestava bada e che il ritardo, anche quella volta, non pretendeva una pronta giustificazione. Avrebbe dovuto prendere servizio sia in terza che in quarta ora, ma la terza ora oramai era andata da un pezzo, e l’intervallo era oramai così imminente che il professor Sfaticati ritenne cosa buona e giusta recarsi a ispezionare il bar per verificare che nessuno dei suoi studenti fosse uscito senza il permesso dei suoi colleghi, prendere un caffè, accendersi una sigaretta nel cortile dell’Istituto, attendere la fine dell’intervallo e l’inizio della quarta ora, per poi fare finalmente il suo trionfale ingresso in classe e principiare la sua giornata lavorativa. Dall’altra parte della barricata, attesa l’assenza in terza ora del professor Sfaticati, i ragazzi avevano nutrito la ragionevole speranza che l’assenza potesse protrarsi anche per la quarta ora, avendo supposto che i motivi dell’assenza in terza potessero persistere anche per la quarta ora. Fu con grave imbarazzo e con malcelato disappunto che tutta la classe dovette invece prendere atto che la loro speranza, per quanto ragionevole, non venne concretizzata. All’ingresso in classe del professore un moto di scoramento e di delusione pervase tutti i ragazzi, fino a indurre i più premurosi a chiedere: “A professo’, ma com’è che era assente in terza e invece è presente in quarta? Pensavamo tutti che oggi lei stesse male…”. Se pur a malincuore, il professor Sfaticati dovette disilludere le velleitarie aspettative di quei bravi fanciulli. Certo, pensandoci un po’ sopra, anche il nostro professore viveva lo sconforto di dover condividere con loro l’intera quarta ora; e pur tuttavia, sospinto da quell’eroismo stakanovista, da quello spirito deontologico e di attaccamento al proprio lavoro che distingue larga parte del corpo docente italiano -e più in generale dell’intera Pubblica Amministrazione-, il professor Sfaticati ritenne conveniente dissimulare il proprio malessere e rassicurare la classe che l’ora precedentemente perduta per una serie di ragioni che adesso, lì, non era il caso di ripercorrere, sarebbe stata tosto recuperata attraverso una repentina accelerazione del programma, a partire già da quel momento. Pertanto con fare sollecito e perentorio, invitò severamente tutti i ragazzi a guadagnare i propri ‘trespoli’ (sic!) perché non c’era un minuto da perdere. Si doveva spiegare, quella mattina, il pensiero della scuola eleatica, il cui principale esponente nonché fondatore fu appunto Parmenide di Elea. Il nostro professore esordì rivangando gli elementi concettuali elaborati nelle poche lezioni precedenti, soffermandosi in particolare sul fatto che, prima di Eraclito e Parmenide, ciò che pungolava di più la ricerca filosofica non fosse tanto il ‘modo d’essere dell’essere’, quanto l’origine, l’Arché, dell’essere stesso. Prima di Parmenide ed Eraclito, ricordò il professore alla classe, Talete Anassimandro e Anassimene si interessarono più alla individuazione di quell’elemento fisico e divino che costituiva il nucleo originario nonché la legge che detta lo sviluppo e il divenire della realtà nella sua molteplicità. Solo con Eraclito e Parmenide, al problema dell’Arché, dell’origine della realtà, dell’elemento semplice o composto dal quale tutto è derivato e al quale in fin dei conti tutto è riconducibile, si sovrappose il problema del modo d’essere della Realtà. Il professor Sfaticati cercò di sollecitare l’attenzione della classe invitando tutti ad elaborare in modo del tutto personale e segreto (sic!) quella che secondo ognuno di loro avrebbe dovuto essere una verità che nessuno dei propri compagni potesse in alcun modo mettere in discussione; in altre parole il professor Sfaticati invitò la classe a pensare, così come aveva fatto Parmenide 2700 anni prima di loro, quale potrebbe essere quella verità sulla quale nessun dubbio potesse essere avanzato; insomma una verità apodittica, vera intuitivamente. Il nostro professor Sfaticati compendiò la premessa osservando che una verità di tal fatta non potrà mai essere in alcun modo dimostrata come tale, perché se una verità indubitabile, vera intuitivamente, che costituisce per la sua evidenza un modello apodittico al quale tutte le altre verità, per poter esser dimostrate tali, debbono alla fin fine rifarsi, allora tale verità non può in alcun modo essere dimostrata, perché se potesse essere dimostrata dovrebbe far ricorso ad altri principi, ad altre verità più fondanti che impediscono alla verità di cui sopra di essere la verità fondamentale. “In altre parole -insistette il professor Sfaticati rivolto agli attoniti studenti che lo guardavano tutti con gli occhi fuori dalle 34


orbite scambiandosi di tanto in tanto tra di loro strani e inquietati ammiccamenti- dovete cercare di dirmi la verità prima, cioè una verità che per esser creduta tale non deve far ricorso alla ostentazione di altre certezze, non deve cioè poter essere dimostrata, altrimenti non sarebbe più la verità prima, la verità più evidente, la verità fondamentale, ma sarebbe una verità derivata da un altro fondamento, da un’altra certezza prima, da un altro primo anello della catena! Perché ragazzi, un primo anello della catena, una prima verità indimostrabile, un primo postulato ci deve pur essere, altrimenti nessuna verità e nessuna certezza sarebbe poi tale, se cioè non fondasse il proprio valore su un postulato fondamentale”. Di fronte a questa esortazione, molti ragazzi, rapiti dalle loro congetture, rimasero in silenzio. Alcuni dissero subito, ma a voce sussurrata: “Ma quesso mo’ che vole da noi… Passame gli esercizi di inglese, su!”; altri ancora continuarono a giocare col sudoku, altri col cellulare, finché non ne squillò uno che fu messo subito a tacere dalla studentessa che ne era la proprietaria, la quale immantinente chiese al professore se poteva andare al bagno per una sua imprecisata urgenza fisiologica. “Allora ve lo dico io ragazzi…” -si umiliò il professor Sfaticati dopo un lungo quanto penoso silenzio della platea. “Secondo Parmenide e secondo tutta la storia della filosofia occidentale la verità fondamentale, intuitivamente tale, universale, valida cioè ovunque e sempre, che non deve e non può esser dimostrata ricorrendo ad altri principi, è la verità secondo la quale una cosa è uguale a se stessa, o, come dicono i matematici, A=A. Per quanto si possa esser cretini o originali -e molte volte le due cose coincidono-, nessuno mai potrà mettere in discussione che una cosa sia uguale a se stessa. E’ chiaro ragazzi?”. La classe silenziosamente annuì, anche perché effettivamente il concetto testé esposto doveva apparire loro piuttosto chiaro. Si aspettavano cose prodigiose e fantasmagoriche da quel lungo preambolo; forse si aspettavano idee così stupefacenti e complicate che in molti già avevano creduto opportuno dedicarsi alla materia dell’ora successiva; e invece la conclusione era piuttosto semplice. La verità fondamentale, universale e indiscutibile, consiste nell’affermare che una cosa è uguale a se stessa. “Ah, quindi A è uguale ad A; se po’ fa’”, chiosò acutamente uno studente, dall’ultimo banco, dopo aver ingoiato un pezzo di panino, con un brandello di mortadella ancora penzolante fuori dalla bocca ruminante. “Ebbene, questa verità -continuò, sollevato dalla precedente osservazione, il professor Sfaticati- è contemplata dal Principio di Identità, che è uno dei tre principi fondamentali della logica della filosofia occidentale…”. “E quali so’ gl’artri due?” chiese ad un tratto e del tutto imprevedibilmente Galluzzi, una ragazza occhialuta, sempre piuttosto vivace, col nasino arricciato, una delle poche del resto che prendeva costantemente appunti sul suo quaderno. “Oggi non dovremmo trattare della logica, ma se proprio sei interessata Galluzzi se vuoi ne parliamo”. “Certo professo’ che so’ ‘nteressata!”. “E allora, se il Principio di Identità afferma che una cosa è uguale a se stessa, il Principio di Non Contraddizione afferma che è impossibile affermare predicati opposti nello stesso momento dello stesso soggetto, chiaro ragazzi?”. “Cioè professo’? Potrebbe esse più chiaro?”, chiese ad alta voce Lentini in uno dei suoi rari lampi di vigilanza dall’ultimo banco e senza alzare la mano, visto che nel frattempo aveva finito di ingurgitare l’intero panino e aveva finalmente la bocca libera. 35


“In altre parole non posso dire che Socrate è giovane e vecchio allo stesso momento; non posso nemmeno dire che è buono e cattivo, o alto e basso, o intelligente e stupido, o bello e brutto, o laziale e romanista, allo stesso momento, chiaro adesso?”. Nella classe si fece un po’ di silenzio, e mentre Galluzzi rimase un attimo interdetta, sempre il ragazzo dell’ultimo banco, Lentini, vistosamente annuendo per far vedere che, lui, aveva capito, sentenziò: “Be’ rega’, c’ha raggione er prof: nun se po’ esse laziali e romanisti, nun se po’ esse conigli e leoni”. “Ecco bravo Lentini, più o meno il significato è questo, ma detto in termini più specifici non si possono predicare attributi opposti dello stesso soggetto nello stesso momento. Chiaro anche a te Galluzzi?”. “Eh professo’, mica è tanto chiaro!”. “Ah non lo trovi semplice? Cos’è che non ti quadra, Galluzzi, dimmi…”. “Cioè professo’, a esse semplice è semplice, però non mi quadra lo stesso…”, e così dicendo si mise la penna in bocca, assumendo un piglio pensieroso. “E perché Galluzzi non ti quadra? Non ti sembra evidente quello che dice Aristotele, che non si possono predicare due attributi opposti dello stesso soggetto nello stesso momento? Cos’è che non ti quadra in questo discorso, dimmi?”. “Professo’-e qui si levò la penna in bocca e la cominciò a brandire contro il docente gesticolando vistosamente- in parte c’ha ragione: è chiaro che non si possono dire cose opposte dello stesso soggetto allo stesso momento, ma allora come mai io a casa c’ho un gatto che è sia bianco che nero???”. Di fronte a questa osservazione, che rivoluzionava d’un sol colpo i fondamentali della logica occidentale, il professor Sfaticati decise di sorvolare sul terzo principio, quello del terzo escluso, per andare direttamente al cuore della lezione, visto che oramai si avvicinava la fine dell’ora. Lasciando in sospeso per un momento il dubbio che assillava l’anima errabonda della studentessa Galluzzi, che era rimasta come assorta, con lo sguardo rivolto verso la lavagna e con la penna tra le labbra serrate (presumibilmente riportando alla mente la cara fisionomia del suo micio), il nostro professore -riconfermato nella fondatezza dei suoi dilemmi relativi all’assai problematico approccio dell’insegnamento della filosofia ad una platea di adolescenti a digiuno di qualsiasi preconcetto- si ripropose di tornare a Parmenide, per dare senso e compiutezza ad una lezione che altrimenti sarebbe rimasta avvolta da un alone di indeterminatezza. “Galluzzi, sui fondamenti della logica ci torneremo quanto prima. Quello che oggi volevo trattare era l’argomento relativo all’ontologia parmenidea”. “Onto…che professo’?”, si levò dal fondo della classe. “Ontologia, ovvero la parte della filosofia che studia l’essere, o la realtà, o tutto ciò che è, come preferite. Allora, per farla breve... Parmenide crede che il principio fondamentale al quale occorre attenersi è il Principio di Identità; tutte le altre verità sono presunte verità, e comunque se sono vere devono rispettare quel principio, e in ultima analisi derivare da quello. Una verità, un’asserzione, una proposizione che non rispetta quel fondamentale principio logico non può essere accettata. Se applichiamo questo principio di identità all’ontologia, ovvero al problema dell’essere, dovremo necessariamente convenire sul fatto che essendo una cosa, ogni cosa, uguale a se stessa, allora anche l’essere deve essere uguale a se stesso. In altri termini ragazzi l’essere, essendo uguale a se stesso, è essere, e non può essere non essere, ovvero non può non essere. Questo vale ovviamente anche per il concetto speculare. Così come l’essere è essere, e non può non essere, allora anche il non essere, essendo uguale a se stesso, è non essere, ovvero non è, e non può essere. 36


In altri termine, applicando il Principio di Identità all’ontologia, Parmenide intuisce che l’essere è e non può non essere e il non essere non è e non può essere. Capito il ragionamento ragazzi?”. La classe piombò in un silenzio tombale. Tutti guardavano il professore, senza però rispondere alla sua domanda. Al che il professore insistette: “Ragazzi, avete capito quello che dice Parmenide, sì o no?”. Annuendo timidamente con la testa, tutti sussurrarono un sì che voleva però dire no. “Bene… -continuò il professor Sfaticati sulla scorta di quella risposta che sapeva essere più estorta che sincera-, ci sono chiarimenti o osservazioni da fare in merito all’ontologia di Parmenide?”. Anche stavolta tutti rimasero lungamente in silenzio, fino a quando la solita Galluzzi, dopo essersi tolta la penna dalla bocca alzò istintivamente la mano e chiese: “Professo’ posso fa’ ‘na domanda?”. “Certo Galluzzi dimmi pure…”. “Ma in filosofia dobbiamo portare il quaderno a righe o a quadretti???”. Qui il professor Sfaticati ebbe la sensazione netta di stare a perdere tempo. Non sapendo cosa rispondere a questa domanda, osservò a sua volta un minuto di silenzio passeggiando tra i banchi nell’intento di ricostruire un suo equilibrio mentale messo a dura prova dalle spiazzanti domande poste dalla sua studentessa. Ma non aveva ancora finito di ricostruire la sintesi del problema quando si accorse che sul banco di uno studente non c’era, come avrebbe invece dovuto esserci, il libro di filosofia, e nemmeno il quaderno, di filosofia, bensì un altro libro con una copertina di un colore sospetto, per la precisione il verde. Il professor Sfaticati, seguendo il suo incorreggibile fiuto, come un segugio che sente prossimo l’odore della sua preda, si avvicinò con molta cautela al banco e al libro incriminato, e descrivendo larghi giri attorno alla classe, con aria piuttosto indifferente e continuando a stare in silenzio, piombò infine come un’aquila sul malcapitato studente. Trovatosi finalmente a ridosso dello studente, del banco e del libro incriminato si rese conto che i suoi sospetti erano più che fondati; lo studente in questione, Albensi per la precisione, per nulla interessato alle problematiche dell’essere e delle modalità del suo porsi come tale, cercava di approfittare dell’ora di filosofia per ripassare la lezione di inglese. Non possiamo adesso trascurare un punto, non molto significativo per l’economia del nostro racconto, ma certamente non del tutto irrilevante; il nostro professor Sfaticati odiava l’inglese. Questo tuttavia non basta per capire il rancore e la rabbia che gli esplosero nell’animo e nell’orgoglio feriti alla vista di quel manuale di lingua straniera. Il professor Sfaticati odiava l’insegnamento dell’inglese, gli insegnanti di inglese, l’Inghilterra, l’età vittoriana, Shakespeare, Orwell con la sua Fattoria degli animali, Enrico VIII col suo Atto di Supremazia… Malediceva il giorno in cui l’Invincibile Armata di Filippo II fu sconfitta dal naviglio della perfida Albione. Riteneva il 1588 una data infausta per la dignità e la civiltà europea tutta. Da quell’anno, con il declino della potenza spagnola, in tutta Europa e nel mondo intero si sarebbe inarrestabilmente affermato un modello sociale, politico, economico e culturale del tutto estraneo alle radici, alla storia e ai costumi europei. Si sarebbe affermato un modello che elevava la pirateria a sistema di scambio commerciale; si sarebbe affermato un modello che faceva della difesa dei diritti economici dei benpensanti e dell’alta borghesia l’unica cartina da tornasole della liceità delle funzioni statali; si sarebbe affermato tutto quell’insieme di valori anglosassoni tanto deprecabili alla vista del nostro professor Sfaticati, fermamente ancorato al modello veteromarxista realizzato nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Da un lato riteneva l’inglese assolutamente necessario alla crescita e alla educazione del buon cittadino del domani, d’altra parte non poteva tacere a se stesso una profonda preoccupazione che perturbava il suo animo speculativo. Ogni lingua che si studia non è solo e semplicemente l’insieme di tempi e di modi, di verbi, di preposizioni e di regole che costituiscono l’ossatura e la grammatica della lingua stessa; ogni lingua che viene studiata a scuola diventa inevitabilmente vettore di una serie di valori etici, morali e anche politici che si sprigionano 37


dalla letteratura e dalla cultura di quel popolo che fa uso in modo certamente non accessorio di quella lingua e di quelle regole grammaticali. In altre parole il nostro professor Sfaticati era certissimamente persuaso che studiando l’inglese, la lingua degli inglesi, non ci si limitasse ad apprendere sterili quanto semplicistiche regole grammaticali, ma, cosa evidentemente più grave, ci si predisponesse all’acquisizione di quei valori altri, propri di una ‘cultura’ anglosassone, fondamentalmente estranei alla cultura latina e italiana. Per questa ragione il nostro prof riteneva lo studio dell’inglese nella scuola pubblica italiana una sottrazione indebita di tempo e di risorse all’approfondimento della conoscenza della lingua, della poetica, delle eccelse vette della ben più gloriosa storia della letteratura italiana; per questa ragione il nostro professor Sfaticati riteneva gli insegnanti di inglese niente meno che delle quinte colonne anglosassoni infiltrate per svilire e annacquare la nostra identità latina e italiana; per queste ragioni il nostro professor Sfaticati non perdeva occasione di maledire il giorno della sconfitta dell’Invincibile Armata (che tanto invincibile evidentemente non era). Eppure bisognava fare i conti con il presente. Occorreva constatare che oramai l’inglese lo si usa dappertutto. E’ impossibile andare in un aeroporto -fosse anche all’aeroporto di Coppito dell’Aquila-, senza spiccicare due parole d’inglese; è impossibile andare in un paese straniero, fosse anche Coppito dell’Aquila, senza spiccicare due parole d’Inglese. Ovunque serve l’inglese; per accendere una televisione serve l’inglese; per sintonizzare i canali televisivi serve l’inglese; per leggere qualche rivista specialistica sul gioco degli scacchi serve l’inglese; per prendere un caffè alla macchinetta della scuola serve l’inglese; per prendere i profilattici alla macchinetta della farmacia serve l’inglese; per navigare su internet serve l’inglese. Insomma, senza l’inglese non si va da nessuna parte del mondo, e nemmeno è possibile rimanervi, senza sapere un minimo di inglese. E questo lo sapeva il professor Sfaticati, ma soprattutto lo sapevano gli studenti, per indole e tendenza proiettati al futuro, nella dimensione del viaggio, della novità, dell’intercultura! Queste considerazioni tuttavia non impedirono al nostro professore di mantenersi fermo su un punto; che lo si studi a casa, che ci si porti il libro in piscina, che si facciano corsi pomeridiani, per lo studio dell’indispensabile inglese. Ma durante l’ora di filosofia, perdinci e perdindirindina, no! L’inglese no, non si studia! “Albensi, cosa stai studiando?”. “Niente professo’, perché?”. “Come perché? Stai leggendo da un libro che non è il libro di filosofia! Fammi vedere un po’!”. Colto in castagna, al malcapitato studente non rimase che riconoscere la colpa. “Ha ragione professo’, sto a studia’ inglese ché all’ora dopo me deve ‘nterroga’ la prof…”. Il prof di filosofia, per nulla soddisfatto dalla giustificazione prodotta, scosse severamente il capo, e sbruffando in modo plateale intimò al ragazzo: “Albensi, togli quel libro, tanto il giorno della fine non ti servirà l’inglese!”. “A’ professo’, manco la filosofia!”. Di fronte a questa perla di saggezza, il professor Sfaticati rinnegò intimamente i suoi più radicati pregiudizi antianglosassoni, e autorizzò lo studente Albensi e tutti gli altri ragazzi della classe a studiare non filosofia ma inglese. Lasciò perdere la lezione su Parmenide, si diresse verso la cattedra, raccolse tutte le sue inutili carte, e abbandonò l’aula con qualche minuto di anticipo rispetto al suono della campanella.

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6. IL CONSIGLIO DI CLASSE DELLA V C Un Consiglio di Classe è uno dei tanti Organi Collegiali di un Istituto Scolastico previsto dall’attuale ordinamento normativo. L’articolazione degli Organi Collegiali prevede inoltre un Collegio Docenti, composto da tutti i professori dell’Istituto e dalle Rappresentanze degli studenti (presieduto dal Dirigente Scolastico), i Dipartimenti di Area Disciplinare, composti da tutti quei professori che insegnano discipline ritenute affini tra loro, e il Consiglio di Istituto, sempre presieduto dal Dirigente Scolastico in cui siedono anche Rappresentanze del personale tecnicoamministrativo (ATA), degli studenti e dei genitori. Il Consiglio di Classe è composto da tutti i professori che insegnano in una determinata classe, da due studenti eletti Rappresentanti di classe, da due genitori anch’essi eletti Rappresentanti dei genitori in seno alla componente genitoriale della classe stessa, ed è presieduto dal Coordinatore di Classe, figura che il più delle volte corrisponde al professore che ha più ore curricolari in quella classe. La convocazione di questi Organi Collegiali, compreso il Consiglio di Classe, non è mai un lieto evento. Essa viene accolta in Sala Docenti sistematicamente con clamore, angoscia e disappunto, come se si trattasse di un terremoto inaspettato. La partecipazione a queste riunioni è generalmente ritenuta inutile, una vera e propria perdita di tempo. Eppure, scartabellando nella normativa scolastica, ci si rende conto di quanto siano importanti, almeno sulla carta, le funzioni e le competenze assegnate a questo Organo. Un Consiglio di Classe deve prima di tutto approvare le proposte dei professori riguardanti i libri di testo da far adottare ai ragazzi per gli anni successivi; deve valutare e risolvere eventuali problemi didattici che emergono nel corso dell’anno scolastico; deve valutare e approvare eventuali proposte di didattica integrativa (corsi di teatro, corsi di inglese, olimpiadi di fisica, olimpiadi di matematica, certamen di latino ecc.); deve valutare e autorizzare eventuali viaggi di istruzione o uscite didattiche proposte dai singoli docenti o dagli studenti stessi tramite i propri rappresentanti; deve affrontare e risolvere eventuali problemi disciplinari posti in essere dalla condotta non sempre ortodossa dei ragazzi; accoglie o respinge le proposte di voto formulate dai docenti per le proprie discipline; e, al termine dell’anno scolastico, effettua gli scrutini, ovvero delibera, spesso a maggioranza, sulla promozione o non promozione all’anno scolastico successivo dei singoli studenti (in questa occasione non è il Coordinatore di Classe a presiedere il Consiglio, ma il Dirigente Scolastico in persona). Il Consiglio di Classe di cui andremo a parlare, cui ovviamente il professor Sfaticati fu tenuto a partecipare in veste di Verbalizzatore (carica assai reietta da parte di tutti i professori in ruolo, anche perché quasi sempre non retribuita), era composto dalla Vicaria del Dirigente Scolastico professoressa Sempresei di Italiano e Latino (che fungeva da Coordinatrice), dal professor Diagonale di Matematica e Fisica, dalla professoressa Lingualesta di Lingua e Letteratura Inglese, dalla professoressa Fogli di Disegno e Storia dell’Arte, dalla professoressa Pericle di Greco, dalla professoressa Giavellotti di Educazione Fisica, dal professor Saturnini di Scienze, dal ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, oltre che, naturalmente, dal nostro infaticabile professor Sfaticati di Storia e Filosofia. Su iniziativa del Dirigente Scolastico -e al fine di agevolare la più massiccia presenza del corpo docente-, la convocazione dei Consigli di Classe fu protocollata in Segreteria Didattica e quindi inserita nel faldone delle circolari sul tavolo della Sala Docenti con un anticipo rispetto alla data prevista per le riunioni di ben tre settimane; troppe, per evitare che larga parte dei professori corresse ai ripari fissando per la data prevista chi una visita indilazionabile dal podologo di fiducia, chi una visita specialistica otorinolaringoiatrica indifferibile, chi un incontro col proprio legale per la soluzione di questioni assolutamente improrogabili, chi una visita geriatrica del proprio vecchio genitore non più deambulante, chi un appuntamento col proprio medico di famiglia, alla vigilia della riunione medesima, per farsi certificare uno stato di malattia necessitante di almeno tre giorni di cure e di riposo. La scarsa partecipazione che ne risultò interessò anche il Consiglio di Classe 39


della V C, dove sia la professoressa Lingualesta, sia la professoressa Pericle, sia la professoressa Giavellotti risultarono assenti giustificate; la professoressa Fogli, da parte sua, arrivò soltanto quando tutti gli altri se ne stavano andando. Eppure, a leggere l’Ordine del Giorno previsto dalla riunione, risaltava l’opportunità della partecipazione sia del Corpo Docenti ma anche delle Rappresentanze Studentesche e Genitoriali (per le prime furono puntualmente presenti sia Ferdinando Bulletti che Cecilia Quattrocchi, eletti a suo tempo Rappresentanti di Classe, mentre per le seconde non si presentò nessuno dei genitori eletti, loro malgrado, Rappresentanti). Si doveva discutere dell’andamento didattico-disciplinare di inizio anno della classe, e di eventuali casi problematici di alcuni ragazzi; si dovevano consegnare e approvare le programmazioni didattiche di ogni disciplina; si dovevano valutare e approvare eventuali viaggi di istruzione all’estero e/o uscite didattiche in Italia proposti o dai singoli professori o dalle varie Rappresentanze. Vista la presenza di solo quattro professori all’orario e al posto stabilito dalla convocazione, la professoressa Sempresei non mancò di manifestare il suo più accorato disappunto per l’assenza dei professori mancanti. Trascurando di chiudere le porte dell’aula nella quale il Consiglio si riuniva, e a beneficio di tutti coloro che stavano bighellonando nei corridoi in attesa dell’inizio delle loro riunioni, la Vicaria del Dirigente Scolastico riversò parole assai velenose contro la dubbia professionalità dei colleghi, e commentò con aggettivi del tutto irriferibili i motivi addotti dai colleghi stessi per giustificare la loro assenza. C’è da dire che la professoressa Sempresei era una signora assai equilibrata e distinta e con una spiccata attitudine all’efficienza. Negli anni passati aveva bruciato le tappe della carriera scolastica, avendo allora non più di quarant’anni e ricoprendo una carica, quella appunto di Vicario del Preside, assai ambita e remunerata per una molteplicità di ragioni che in questa sede non è il caso di specificare. La sua indiscutibile bellezza anziché esser deturpata dalle rughe sempre più profonde acquisiva un fascino, un’autorevolezza e una maturità tali da mettere in soggezione qualsiasi studente venisse interrogato da lei. Il suo stile elegante e perentorio, la sua voce decisa e stentorea, il suo modo di vestire probo e decoroso, facevano di lei da un lato una professoressa di Italiano e Latino tra le più temute nella scuola, dall’altro -e di questo lei ne era consapevole- un’icona della femminilità assai apprezzata dagli studenti, soprattutto delle ultime classi. Non è qui il caso di riportare alcuni tra i più truci commenti scritti sulle pareti dei bagni maschili a ‘beneficio’ della bellezza della professoressa Sempresei, commenti invece riferiti dal personale tecnicoamministrativo alle orecchie attente del professor Sfaticati. Non era di origini capitoline, ma veniva dal profondo sud, da una cittadina calabrese in provincia di Catanzaro nella quale non tornava mai da quando i suoi genitori, da più di qualche anno, erano venuti a mancare. Del resto, anche volendo, non avrebbe mai potuto lasciare Roma, la città dove lavorava da mane a sera senza un attimo di respiro; conferenze, seminari, corsi di aggiornamento professionale, corsi di recupero per studenti rimasti dietro nello studio, rassegne cinematografiche e teatrali interne all’Istituto, concorsi letterari ecc., erano per lei attività così consuete e impegnative, che poco o nulla le rimaneva del suo preziosissimo tempo da dedicare a se stessa, ai propri affetti, e alla propria famiglia. Famiglia che, del resto, proprio da quando erano scomparsi i suoi cari, non aveva più e che, d’altra parte, non aveva minimamente intenzione di metter su, nonostante l’innumerevole e variegata schiera di estimatori che la corteggiavano senza ritegno, fin sull’uscio degli uffici della Vicepresidenza. La sua carriera, la sua professione, gli impegni legati al suo lavoro, le apparivano cose così importanti tali da farle trascurare qualsiasi altra dimensione esistenziale, tanto più che una famiglia le sembrava, come diceva alle sue colleghe, più un fardello insostenibile che un luogo dove alimentare e curare degli affetti di cui non sentiva il bisogno. La mancanza di figli da accudire ed educare era però forse la causa di una sua inclinazione per alcuni versi assai discutibile. Ogniqualvolta si presentava nel suo alto ufficio un problema da dirimere 40


emerso dalla naturale conflittualità tra corpo insegnante e studenti, ella divisava quasi sempre di dar ragione ai ragazzi. Riteneva i colleghi indistintamente una massa di incompetenti, e in molti casi aveva anche ragione; deprecava il loro scarso attaccamento alla professione, stigmatizzava i loro ritardi e le loro assenze, fino ad invocare il licenziamento immediato per quanti si rendevano responsabili di condotte deontologicamente lassiste. Anche in virtù di questa generalizzata sfiducia nelle qualità e nelle competenze del corpo insegnante, era propensa il più delle volte a dar ragione a quei ragazzi che si recavano da lei per lamentarsi dell’atteggiamento tenuto in classe dai proff, credendo quasi fosse un suo obbligo morale quello di redarguire i suoi colleghi che si erano permessi di mettere una nota disciplinare o un ‘3’ a penna sul registro a dei poveri studenti, rei, semplicemente, di non essere stati attenti in classe o di non aver studiato per l’interrogazione di quel giorno. “Bisogna saperli motivare, i ragazzi!”, urlava dalla Vicepresidenza a quei colleghi che a seguito delle lamentele degli studenti venivano immediatamente convocati. Per quanto la sua severità e la sua inesistente inclinazione alla celia fossero di dominio pubblico, non stupirà, viste le premesse, che la professoressa Sempresei, in sede di scrutinio a fine anno scolastico, si pronunciava invariabilmente contro qualsiasi bocciatura, addebitando il mancato raggiungimento della sufficienza da parte di uno o più ragazzi non tanto al loro scarso impegno o alla loro limitatezza cognitiva, quanto e quasi sempre ad una carenza metodologica da parte di quell’insegnante che proponeva la non promozione. Non a caso, a fine anno, anche nei casi più disperati di studenti da orientare più saggiamente all’agricoltura che allo studio, la valutazione da lei proposta si attestava sempre e indistintamente sul ‘6’, e grazie al suo indefesso impegno, alla sua oratoria, alle sue minacce e alle sue lusinghe nei confronti di alcuni professori un po’ stitici di voti, riusciva sempre a far promuovere dei ragazzi il cui destino scolastico appariva solo un’ora prima irrimediabilmente compromesso. Delle professoresse assenti (Lingualesta, Pericle, Giavellotti e Fogli) ebbe a dire peste e corna: “incompetenza”, “incapacità”, “ottusità”, “menefreghismo” e “licenziamento immediato” (con una netta prevalenza di quest’ultima), furono le espressioni che tra le altre si distinsero nella sua non breve requisitoria per l’incredibile frequenza e per l’acutezza della voce con le quali furono pronunciate. I ragazzi e i colleghi che stavano fuori nel corridoio ebbero modo di ascoltare tutta la sequela di apprezzamenti in cui si stava profondendo l’oratoria denigratoria della professoressa Sempresei. Il professor Sfaticati, che avrebbe dovuto verbalizzare quanto via via si andava sciorinando ai quattro venti, per amor di patria omise di riportare per filo e per segno quanto proferito dalla sua collega più alta in grado, ed anzi provvide, come è prassi nelle scuole pubbliche italiane, a verbalizzare soltanto l’elenco dei professori presenti, nulla dicendo invece dei professori assenti. Benché composta da quattro gatti (risultavano presenti infatti solo i proff Sempresei, Sfaticati, Diagonale e Saturnini) la riunione si tenne regolarmente, ed anzi si giovò dell’assenza di buona parte del Consiglio stesso per terminare anticipatamente la discussione dei punti previsti dall’OdG, non prima però di aver fatto accomodare e insediare la rappresentanza degli studenti nelle persone di Bulletti e Quattrocchi. La discussione dei vari punti all’OdG procedette assai speditamente. Per quanto concerneva lo stato dello svolgimento del programma in quel frangente di inizio anno scolastico, tutti i professori, nessuno escluso, pretesero che si mettesse a verbale che a causa dei ritardi e delle lacune accumulati nell’anno precedente per la responsabilità di altri professori, lo svolgimento del programma in quell’anno scolastico registrava un significativo quanto deplorevole ritardo; e che difficilmente, a fine anno, si sarebbero raggiunti i livelli cognitivi e non cognitivi desiderati non per colpa propria, ma per responsabilità altrui. Il professor Diagonale, che non si faceva mettere la mosca al naso da nessuno, sollecitò la professoressa Sempresei in qualità di Vicario del Preside -e pretese che la sua richiesta fosse immediatamente messa a verbale-, affinché la Dirigenza si attivasse per chiamare un Ispettore Ministeriale, per far constatare e sanzionare l’arretratezza del programma in Matematica, arretratezza che gli impediva di raggiungere quei 41


livelli di eccellenza cui lui elevava le sue fortunate classi. Tuttavia, appena ebbe modo di far mente locale e di ricordare che sia l’anno scorso, in IV C, che l’anno ancora precedente, in III C, il professore di Matematica e Fisica non era altri che lui stesso, fece macchina indietro, ritirò la proposta, per poi concludere il suo intervento pontificando sull’incompetenza dei professori di Matematica del Biennio Ginnasiale e sulle eccessive e ingiustificabili interruzioni dell’attività didattica cui suo malgrado era stato costretto. Dal canto suo, il professor Sfaticati –il cui intento era semplicemente quello di guadagnar tempo- su questo come su tutti gli altri punti dell’OdG intervenne per dire quello che diceva sempre in tutti i Consigli di Classe di tutte le scuole in cui in tutti quegli anni aveva avuto modo di lavorare, indipendentemente dall’oggetto della discussione: “Nulla da segnalare”. Quando si discusse dell’andamento disciplinare, relativo cioè alla condotta della classe (punto assai importante, visto che da qualche anno è sufficiente l’insufficienza nel voto di condotta per determinare la bocciatura di uno studente), per quanto fossero già presenti delle note disciplinari a danno dello studente Bulletti, attesa l’assenza dei firmatari delle medesime (in particolare della professoressa Fogli, che aveva già siglato ben tre note ai danni del rappresentante di classe), dopo una bonaria tiratina d’orecchie della professoressa Sempresei rivolta al discolo in questione, consistente in un semplice “mi raccomando, non fare più arrabbiare la professoressa di Disegno”, si passò senz’altro all’approvazione dei programmi disciplinari da parte di tutti i professori presenti. I professori assenti, cioè la metà del Consiglio di Classe, avrebbero provveduto appena possibile a depositare copia dei loro programmi in Segreteria Didattica, dove sarebbero rimasti a prender polvere per un intero anno prima di essere fotocopiati di nuovo per l’anno successivo. I programmi disciplinari presentati a inizio anno, va detto per inciso, dovrebbero costituire la stella polare che illumina e dirige il percorso scolastico di una classe e di un professore che in quella classe ‘lavora’. Sul programma c’è scritto nero su bianco l’elenco degli argomenti che viene, o che dovrebbe essere affrontato dal professore nelle sue spiegazioni, e quindi l’insieme di conoscenze, di competenze e di capacità che ogni studente deve acquisire per raggiungere livelli di valutazione propedeutici alla promozione alla classe successiva. Le tipologie e la frequenza delle verifiche sono oggetto di una ulteriore specifica, non essendo ritenuto più il caso di lasciare l’annosa materia delle verifiche alla mercé dell’arbitrio del professore. Nel programma sono anche specificati i tempi previsti per lo svolgimento dei vari ‘moduli’ e delle varie ‘unità didattiche’ che costituiscono l’ossatura del programma stesso. Si chiama ‘didattica modulare’, questa specie di pestilenza che sta ammorbando parte non trascurabile della scuola pubblica italiana (il Liceo oggetto del nostro racconto purtroppo non fu immune dal contagio, avendo a suo tempo adottata a maggioranza tale metodologia modulare). Ma vediamo di cosa si tratta. Si ricorre alla suddivisione del programma in ‘moduli didattici’, a loro volta suddivisi e spezzettati in ulteriori ‘unità didattiche’. La Legge, non certo il buonsenso, pretende che ogni professore, nella programmazione di inizio anno, specifichi i tempi previsti per lo svolgimento e dei singoli moduli e delle singole unità didattiche. Non solo. In virtù di questa ‘didattica modulare’, obbrobrioso parto di quel pedagogiume che vuol farsi scienza, le verifiche possono vertere solo e soltanto su singoli moduli didattici, essendo ritenuta del tutto stravagante l’idea che si possa verificare la preparazione di un ragazzo sull’intero programma svolto. Quest’impostazione ha anche la pretesa, prescritta a chiare lettere in tutte le circolari di inizio anno, che nel caso in cui uno studente consegua la sufficienza su un modulo didattico, ebbene questo stesso studente non può più essere interrogato su quello stesso modulo. E’ bene anche notare che a uno studente è sufficiente prendere l’agognato ‘6’ ad una interrogazione ‘sommativa’ -cioè effettuata a conclusione del modulo per il quale si è sottoposti a verifica-, per annullare così tutte le precedenti insufficienze acquisite nelle verifiche ‘formative’ -cioè verifiche effettuate in corso d’opera, con il modulo non ancora terminato-, vertenti sullo stesso modulo. La 42


media finale, che determina il voto in pagella -ferma restando la sovranità del Consiglio di Classe in materia- non è più come una volta la media tra tutti i voti registrati dal professore sul proprio registro personale, bensì la media tra tutti quei voti che vanno dalla sufficienza in su dei singoli moduli didattici, registrati in sede di ‘verifica sommativa’’. Questo accade proprio perché uno studente che ha un ‘6’ in una verifica ‘sommativa’ -cioè di fine modulo- su un modulo esaurito non può esser valutato anche per le precedenti insufficienze riscontrate nelle verifiche ‘formative’ -cioè effettuate in corso d’opera, con il modulo non ancora esaurito. Quindi uno studente che abusando della generosità e della pazienza dei proff arriva al fatidico ‘6’ annulla tutte le precedenti insufficienze, ed acquisisce il sacrosanto diritto a non essere più interrogato su quel modulo! Al di là dell’approccio più giudiziario che didattico con il quale viene a caratterizzarsi così una verifica scolastica, c’è anche da dire che questa pagliacciata parte dal presupposto che la verifica della preparazione di uno studente possa essere effettuata parcellizzando il programma in moduli che non possono, ma debbono essere valutati separatamente, come se si potesse comprendere Aristotele senza nulla sapere di Platone, come se si potessero risolvere le equazioni di terzo grado senza saper risolvere quelle di secondo, come se si potesse comprendere la Restaurazione senza nulla ricordare dell’età napoleonica. Il programma, che una volta era un semplice e lineare elenco di argomenti che sarebbero stati sviluppati per l’intero anno scolastico, è finito per diventare un rompicapo pazzesco nel quale un povero professore deve specificare tutti i sottoinsiemi di argomenti con i quali intende procedere in primo luogo alla spiegazione, ed in secondo luogo alla verifica, non omettendo di specificare inoltre i tempi previsti per la spiegazione dei singoli moduli e delle singole unità didattiche, i tempi e la frequenza delle verifiche, i luoghi e i mezzi didattici da approntare per lo svolgimento del programma, i criteri di valutazione cui è d’obbligo attenersi, la griglia di valutazione, i requisiti minimi da raggiungere, le competenze, le conoscenze e le capacità che ci si ripropone di far conseguire alla classe, ecc. Insomma, di fronte a tutto questo ambaradan di specifiche, di richieste, a un onesto professore come il nostro infaticabile professor Sfaticati, al quale mai piacque fare la barba all’asino, non rimaneva altro che mettersi al computer, ricercare su internet un programma tipo già presentato in altri anni e in altri contesti da altri proff -e poi messo in rete-, tagliarlo e incollarlo su un proprio documento, stamparlo nella sala informatica del proprio Istituto, per poi, infine, depositarlo in Consiglio di Classe e farlo passare per proprio; con la riserva, naturalmente, di non attenersi minimamente a quanto previsto dal programma stesso, che del resto non era suo. Dopo quanto precede è inutile aggiungere che i programmi proposti dai professori furono approvati in men che non si scriva, e dopo che il professor Sfaticati ebbe preso solennemente la parola per dire che in merito ai programmi in oggetto per lui non c’era nulla da segnalare, si passò a parlare di altro. Per quanto riguarda gli altri punti all’Ordine del Giorno, in particolare per i viaggi di istruzione e per le uscite didattiche, la professoressa Sempresei invitò i colleghi e gli studenti ad attendere ulteriori e necessarie delucidazioni da parte della Commissione Viaggi di Istituto per proporre eventuali uscite in ottemperanza ai requisiti e ai criteri di spesa e di ricaduta didattica che la stessa Commissione, in qualità di articolazione del Collegio Docenti, presto avrebbe specificato. Sarebbe stato inutile in quella sede avanzare proposte e procedere alla loro valutazione senza aver presente la cornice regolamentare entro la quale potersi muovere per approvare o rigettare le proposte medesime. Ciononostante, al professor Sfaticati sembrò comunque opportuno sin da allora proporre come meta di un’uscita didattica, da tenersi al più tardi nel mese di Gennaio -e cioè all’inizio del pentamestre, per non intralciare le operazioni di verifica previste a conclusione del primo trimestre-, una visita didattica nella città dell’Aquila. Dell’uscita didattica, che effettivamente si tenne a Gennaio nei tempi e nelle modalità previste dalla proposta del professor Sfaticati, avremo però modo di tornare nei capitoli successivi, tenendo anche in considerazione il fatto che in quella sede lo stesso professor Sfaticati presto tornò ad abbottonarsi nel suo solito “nulla da segnalare”. 43


Accolta questa proposta, la professoressa Sempresei si stava accingendo a sciogliere la seduta quando, del tutto inaspettatamente, entrò senza bussare la professoressa di Disegno e Storia dell’Arte. Per quell’occasione, la professoressa Fogli indossava un graziosissimo tailleur arancione, dei tacchi altrettanto arancioni, e un capellino viola con un fiocco rosso piuttosto vistoso. Sotto quel cappellino viola baluginava una capigliatura appena risistemata, con un nuovo taglio all’ultimo grido, che donava alla professoressa un piglio assai più giovanile. Portava al guinzaglio un barboncino dal pelo nero, che appena entrò in aula cominciò ad abbaiare e a ringhiare contro tutti i professori, che nel frattempo si erano alzati per guadagnare l’uscita. “Lei, a quest’ora si presenta?”, proruppe irosamente la professoressa Sempresei. “Non lo sapeva che la convocazione era per le 15.00 e non per le 16.00? E faccia star zitto quel cane, per cortesia!”. Tra la professoressa Sempresei e la professoressa Fogli oramai da parecchi anni i rapporti si erano irrimediabilmente guastati. Il motivo di questa rottura, stando almeno a quello che raccontarono i bidelli al professor Sfaticati, andava ricercato in una liaison che la professoressa Fogli intrattenne anni addietro con l’ex Dirigente Scolastico, Ill.mo professor Franchetti, liaison della quale la professoressa Sempresei era stata ferocemente gelosa non perché lei avesse mire conquistatrici sul Dirigente Scolastico, di cui era anche collaboratrice, ma perché intravedeva in questo rapporto di amorosi sensi un intralcio all’efficacia e alla solerzia delle attività e delle funzioni degli Uffici della Presidenza. E non aveva tutti i torti, la professoressa Sempresei. Sempre a detta del personale tecnico-amministrativo, che è, in tutte le scuole, il fedele depositario della memoria dell’Istituto per ciò che concerne l’insieme delle dicerie e dei pettegolezzi che fanno un po’ la storia stessa di una scuola, quando la professoressa Fogli si recava in minigonna e autoreggenti in Presidenza, l’allora Dirigente Scolastico chiudeva a doppia mandata la porta del suo ufficio e ne usciva madido di sudore e con la cravatta slacciata soltanto dopo due ore, con serio nocumento per il disbrigo delle pratiche burocratiche pendenti negli attigui uffici scolastici. La professoressa Fogli cercò immediatamente di rabbonire il suo cagnolino: “A cuccia Fuffy, fa’ silenzio su bella di mamma!”. Poi si rivolse alla Vicaria del Dirigente: “Mi scusi collega ma ho avuto una seria emergenza familiare e non ho potuto essere puntuale, mi dispiace davvero molto”. Tuttavia, allo studente Bulletti non sfuggì la novità dell’acconciatura, e volendo dimostrare una certa galanteria ritenne opportuno congratularsi con la sua prof preferita per quel nuovo look, con il quale, volendo riferire le sue precise parole, “ a’ professore’, co’ si capelli è proprio un tajo, sembra più giovane d'un quarto d'ora!”. Fu a tutti evidente che il motivo del ritardo accumulato dalla professoressa Fogli non era tanto da ricercare nelle sue problematiche familiari, quanto piuttosto nel fatto che, all’uscita della scuola, la professoressa incriminata era andata dal coiffeur e lì era rimasta a sfogliare rotocalchi fino a qualche minuto prima, fregandosene completamente del Consiglio di Classe al quale avrebbe dovuto partecipare. La professoressa Sempresei, benché di origini calabresi, aveva compreso perfettamente il senso dell’allusione gergale di Bulletti. Apriti cielo. Invitò tutti i colleghi presenti a riprendere posto, quindi intimò alla professoressa Fogli di legare il guinzaglio del suo cane al termosifone, e prima che quest’ultima prendesse posto tra i banchi investì la collega ritardataria con una raffica di insulti che lasciò basiti tutti i presenti. “Lei! Non si vergogna? Assentarsi per andare dal parrucchiere! Ma si rende conto?”. “Ma, veramente…”, cercò di interloquire la professoressa Fogli, lanciando occhiate piene di odio furibondo nei confronti di Bulletti, che nel frattempo se la rideva sotto i baffi. “E abbia almeno la compiacenza di star zitta!”, la interruppe la professoressa Sempresei. “Lei si deve solamente vergognare. Dall’inizio dell’anno già ha preso otto giorni di malattia quando invece scoppia di salute! Arriva a scuola sempre con ritardo, ed è sempre la prima ad andar via. In Sala Docenti non fa altro che mettere zizzania, lamentandosi sempre del Dirigente Scolastico, dei suoi collaboratori, e 44


di tutti quei professori che invece si distinguono per professionalità e puntualità nell’adempimento delle loro funzioni. Con la storia della sua attività sindacale riesce sempre a trovare l'occasione per assentarsi da scuola…”. “Ma, collega, la mia attività sindacale è una cosa molto importante…”, balbettò la professoressa Fogli, che da anni era da tutti considerata una delle personalità più in vista nel mondo sindacale della scuola. Ma la professoressa Sempresei non le fece terminare la frase: “Lo so benissimo che l’attività sindacale è molto importante, e la conosco benissimo la storia del sindacato in Italia… Ma un sindacato ha la sua ragion d’essere per persone che lavorano... Non come lei, che viene qui a rubare indegnamente lo stipendio a spese dei contribuenti!”. Tra il silenzio del Consiglio, oramai ammutolito, Fuffy -forse sentendo sue le ingiurie rivolte alla sua padroncina- ricominciò ad abbaiare e a ringhiare, strattonando insistentemente il suo guinzaglio. “Non partecipa a nessun corso pomeridiano organizzato dalla scuola, né tantomeno ne organizza qualcuno lei. Se ne frega. Stando a quanto mi riferiscono i suoi stessi studenti entra in classe e si mette o a leggere il giornale o a chiacchierare al telefono. Adesso viene a scuola anche portando il suo cagnaccio…”, ma non finì di dire queste parole che il ‘cagnaccio’ strattonò così violentemente il guinzaglio fino a liberarsi dal suo giogo, e, in men che non si dica, saltò tra le gambe della professoressa Sempresei e le sferrò un dolorosissimo morso all’altezza della caviglia sinistra. La professoressa Sempresei lanciò un urlo disumano, non prima di aver sferrato un calcio micidiale alla povera Fuffy, la quale fu sbalzata contro una finestra aperta cadendo nel vuoto dal terzo piano. La situazione alquanto pariniana che venne a determinarsi indusse tutte le componenti del Consiglio di Classe a precipitarsi chi a ridosso del davanzale per sincerarsi delle sorti della cagnetta chi a ridosso della cattedra nella quale rimaneva seduta, se pur dolorante, la professoressa Sempresei -che di lì a poco svenne. Per una di quelle incredibili combinazioni di cui la fisica è piena, Fuffy si era miracolosamente salvata. Anziché spiaccicarsi al suolo, la ‘vergin cuccia de le grazie alunne’ sfidando la statistica era viva e vegeta più che mai, essendosi il guinzaglio impigliato ad una tubatura esterna dell’Istituto poco al di sotto della finestra dalla quale era stata sbalzata. Fuffy non aveva smesso di abbaiare e di agitarsi, forse non rendendosi conto che la sua reazione inconsulta avrebbe potuto provocare un lieve ma perniciosissimo spostamento del guinzaglio, spostamento che sarebbe risultato però sufficiente a far perdere l’insperato e preziosissimo appiglio che la teneva legata a quella tubatura, e alla vita. La professoressa Fogli, che con la studentessa Quattrocchi e col professor Saturnini si era precipitata sulla finestra e si era esposta per verificare il precario equilibrio fisico ed esistenziale della cagnetta, per la commozione svenne anch’ella. E mentre il professor Sfaticati cercò di rianimare la professoressa Sempresei, toccò al professor Saturnini fare altrettanto nei confronti della professoressa Fogli. L’allarme generale fu dato alla scuola dal professor Diagonale, il quale corse per i corridoi fino alla Presidenza urlando e gesticolando come un forsennato. Dopo circa un quarto d’ora giunsero sul posto sia un’autombulanza del 118 sia un automezzo dei Vigili del Fuoco, la prima per rianimare e curare le due professoresse, il secondo per tentare di salvare Fuffy. Per lo shock subito sia la professoressa Sempresei che la professoressa Fogli furono immediatamente tradotte al più vicino presidio sanitario, mentre tutto il personale dell’Istituto aveva provveduto ad assieparsi nel giardino della scuola per assistere al funambolico salvataggio del barboncino che fu portato felicemente a termine soltanto un’ora dopo. Il professor Sfaticati concluse il verbale di quel particolarissimo Consiglio di Classe con le lapidarie parole: “Tutto è bene quel che finisce bene”. 7. L’ORARIO DEFINITIVO 45


In un plumbeo lunedì di Novembre di quell'anno scolastico, alle ore 9.37 in punto, la professoressa Sempresei, contattò dal telefono blu disposto alla destra della sua scrivania il personale tecnicoamministrativo per diramare una comunicazione urgente all'intero corpo docente e non docente dell'Istituto. Allo squillo del telefono nel gabbiotto al piano terra, tre bidelle sulla cinquantina, assunte ormai da un trentennio grazie all'intervento di un notabile democristiano presso il ministero dell'Istruzione e aduse quindi alle pratiche e alle mansioni richieste al loro specifico ufficio, non risposero al telefono. Le bidelle, infatti, credendo si trattasse a quell'ora di qualche mamma paranoica che cercava di estorcere al personale scolastico preziose informazioni relative alla presenza o all'assenza del proprio figlio a scuola, ritennero unanimemente opportuno non dare seguito a queste improprie richieste, semplicemente non rispondendo. Tuttavia, la mancata risposta al telefono da parte di tutte e tre le assistenti spazientì alquanto la Vicepreside, che insistette inutilmente per ben quattro volte consecutive (rispettivamente alle ore 9.41, 9.46, 9.48 e 9.56) prima di risolversi a scendere di prima persona al piano terra per sincerarsi della presenza delle bidelle ed subordinatamente del loro stato di salute. Arrivata che fu al gabbiotto trovò le tre assistenti beatamente intente a risolvere un cruciverba senza schema della Settimana Enigmistica, e si rese conto che le tre bidelle non si erano rese conto di Lei, visto che rimanevano indefessamente concentrate sulla risoluzione della undicesima definizione verticale. Dopo un piccolo colpo di tosse che finalmente richiamò la loro attenzione, la professoressa Sempresei chiese loro come mai non avessero prontamente risposto al telefono, visto che aveva provato per circa una ventina di volte a contattare la loro postazione. Al che, la più anziana delle ‘mondine’ fece presente che ormai da due mesi la loro rappresentanza sindacale in Consiglio di Istituto aveva tempestivamente e puntualmente fatto presente, con dovizia di prove particolareggiate, il mal funzionamento dell'apparecchio telefonico a loro disposizione, apparecchio che aveva il curioso difetto di non squillare anche quando chi stava telefonando udiva chiaramente dalla propria cornetta il classico 'tuuuu' 'tuuuu'... Di fronte a questa giustificazione, la professoressa Sempresei rimase alquanto interdetta. Non le rimase altro da fare che confermare immantinente l'impegno della Dirigenza di risolvere nel più breve tempo possibile e nel migliore dei modi il guasto telefonico che di fatto impediva, loro malgrado, alle assistenti tecniche e amministrative di attendere alle loro mansioni, ma ciò rassicurato passò senz'altro al motivo della sua discesa dal piano della Vicepresidenza: era pronto, finalmente, l'orario definitivo. Copia dell'orario definitivo, in effetti, con la collaborazione del personale tecnico-amministrativo preposto allo scopo, andava immediatamente affissa in Sala Docenti, mentre altre copie sarebbero poi state diramate ad ogni piano dell'Istituto per darne lettura alle classi. Riposta la Settimana Enigmistica nel cassetto superiore della scrivania del gabbiotto, le tre assistenti, precedute dalla professoressa Sempresei, si avviarono silenziosamente verso i piani alti dell’Istituto. Al passaggio di quel corteo con la Vicepreside in testa e le tre bidelle al seguito, fu subito chiaro ai professori intenti a prendere un caffè nel bar del primo piano e ai professori intenti a lamentarsi della malignità del mondo nella Sala Docenti dislocata al secondo piano, che qualcosa di importante, quel giorno, stava per accadere. Giunto il fatal corteo all'ufficio della Vicepresidenza, la Vicaria del Dirigente Scolastico si sedette dall'altra parte della scrivania, fece quindi segno al personale tecnico amministrativo di non sedersi e di attendere istruzioni comodamente in piedi, e con tutte le premure, le precauzioni e le lungaggini imposte dallo scarto di livello professionale intercorrente tra Lei e il personale al suo seguito consegnò loro infine una copia intonsa dell'orario definitivo, con l'autorizzazione a pubblicarne il contenuto secondo le modalità regolamentari. Le tre bidelle guadagnarono quindi l'uscita dalla Vicepresidenza, e scrutandosi reciprocamente intravidero l'una negli occhi dell'altra lo sbalordimento e lo stupore per la tempestività con la quale già si provvedeva alla diffusione dell'orario definitivo. “Gli altri anni, e sto qui da 26 anni -ebbe a dire la signora Nommicompeti, la più anziana del manipolo- mai era successo che l'orario definitivo fosse pronto prima di metà Dicembre”. E commentò la straordinarietà dell’irripetibile evento con le seguenti, lapidarie parole: 46


“Davvero assurdo, davvero assurdo, dove andremo a finire di questo passo... Siamo nelle mani di veri e propri delinquenti!”. Fatte che furono le fotocopie necessarie, alle ore 10.45, quindici minuti prima della ricreazione, una copia ingrandita dell'orario definitivo fu quindi affissa, in ottemperanza alle migliori regole prospettiche, dietro un appendiabito della Sala Docenti. Le altre copie furono quindi distribuite a tutti i bidelli responsabili della diffusione delle circolari dirigenziali nei rispettivi quattro piani dell'Istituto. Ovviamente, non trovandosi nessun bidello nella rispettiva postazione -tutti gli assistenti si erano precipitati sin dalle prime ore del mattino dal fruttivendolo dietro l’angolo a comprare cassette di mandarini in offerta-, le copie loro destinate furono lasciate in bellavista sulle rispettive scrivanie, all'ingresso dei corridoi di ogni piano, alla portata degli sguardi indiscreti degli studenti, i quali in men che non si dica cominciarono a assembrarsi attorno a queste scrivanie, a leggere ad alta voce l’orario, a passarselo di mano in mano, fino a contenderselo e infine a strapparlo in mille pezzi. In Sala Docenti, alle 10.45 di quel plumbeo lunedì, si trovavano, oltre alla professoressa Fogli di Disegno e Storia dell’Arte e alla professoressa Pericle di Greco, anche Ferdinando Bulletti, lì mandato in cerca di un libro che non si riusciva a trovare in un cassetto che non si riusciva a trovare di un professore un po’ smemorato che, come molti altri proff smemorati, aveva l’abitudine di mandare studenti in Sala Docenti per recuperare il vario materiale didattico occorrente alla lezione. Le due professoresse stavano amabilmente ribadendo il loro parere circa l'incompetenza, la scarsa professionalità, la totale inadeguatezza e le equivoche tendenze sessuali del Dirigente Scolastico, quando videro entrare il manipolo delle tre bidelle recanti un grande foglio con delle strane tabelline impresse. Lo studente, ovviamente, assistette alla scena. Le due professoresse di Arte e di Greco, consapevoli della loro ineffabile dignità professionale, chiesero in modo volutamente sgarbato alle bidelle a cosa dovevano quell'intrusione, ricordando loro che l'accesso alla Sala Docenti era riservato appunto ai soli docenti. La signora Nommicompeti, per nulla turbata dall'accoglienza così ostile, abbozzò un sorriso di prammatica, e fece quindi loro presente di essere stata incaricata dagli uffici della Presidenza di affiggere il non meglio specificato foglio che aveva con sé, e procedette quindi senz'altro a dare esecuzione all'operazione richiesta. Affisso che fu quel foglio, precedute dalla signora Nommicompeti anche le altre assistenti tecnico-amministrative uscirono dalla Sala Docenti, bisbigliando tra loro cose confuse e sovrapposte tra le quali tuttavia lo studente presente riferì d'aver distintamente udito frasi come “adesso si scatena un verminaio”, “vorrei proprio vedere le loro facce”, “oggi torneranno a casa e litigheranno col marito, se ce l'hanno ancora”. A questo punto entrò in Sala Docenti tanto di fretta quanto in ritardo il nostro professor Sfaticati, che sarebbe dovuto arrivare al massimo entro la terza ora, e che invece, per uno di quei ricorrenti problemi che assillano la vita di un pendolare romano, si presentò a scuola praticamente all'inizio della quarta ora, quasi un'ora dopo. Il professor Sfaticati, essendo nuovo in questo Istituto, poteva ancora, anche se non per molto, approfittare della relativa credibilità con la quale cercava di elaborare le giustificazione addotte per i propri ritardi: la sveglia che non suona, l’idea di dover entrare in seconda anziché in prima ora, il traffico, l’interruzione del servizio metropolitano, ecc. Anche questa volta, per sua fortuna, nessuno diede particolare importanza né alla sua persona né al suo ritardo, ed egli poté guadagnare la sua postazione senza dover sprecare una di quelle preziose e irripetibili giustificazioni. Entrando tutto trafelato in Sala Docenti non ebbe tempo di prestare bada ai presenti, né tanto meno alla recente dipartita delle bidelle che commentavano tra loro, sotto voce ma non del tutto, l'imminente tragedia che si sarebbe abbattuta sul corpo docenti. Le professoresse Fogli e Pericle notarono con una punta di malinconica stizza lo stile disordinato e affrettato con il quale si presentava a scuola il loro giovane collega: cravatta viola annodata in modo sbilenco; camicia celeste comprata nella migliore delle ipotesi in occasione dei saldi ai grandi magazzini, con un bottone saltato; giacca di velluto marrone un po' consunta con due belle toppe anch’esse consunte all’altezza dei gomiti; scarponi da montagna; e, per finire, i calzoni, anch'essi piuttosto 47


frusti e stinti. Sorvolando l'impressione poco più che penosa che suscitò loro la ritardataria apparizione del giovane prof, una di esse, la più espansiva senz'altro, la professoressa Fogli, chiese la cortesia al professor Sfaticati di verificare la natura e il contenuto di ‘quel foglio’ appeso poco prima con perizia e solennità dalle bidelle proprio dietro l'appendiabiti. Il professor Sfaticati, colto di sorpresa da questa nuova, imprevista incombenza, che avrebbe ulteriormente aggravato il suo già prodigioso ritardo, con una rapidità che sfociava nell'indifferenza si accostò all'appendiabiti e scorse le prime righe di ‘quel foglio’ stampato. “Colleghe -disse loro- è l'orario definitivo... Ma io adesso devo scappare in classe, sono in ritardo, arrivederci”. E preso il Registro Personale dal cassetto, senza null'altro proferire, uscì e si diresse speditamente in V C, classe nella quale già da molto tempo oramai avrebbe dovuto prender servizio. “A professo', a professo', ma ‘ndo’ va?”, gli urlò dietro lo studente, Bulletti, che nel frattempo aveva fatto quello che doveva fare in Sala Docenti e si apprestava ad uscirne. Il professor Sfaticati si rivolse allo studente, senza riconoscerlo immediatamente e non capendo che in realtà si trattava di un suo studente, e precisamente il peggiore, di una delle sue tante classi. “Chi sei tu? Che vuoi? Su, se mi devi dire qualcosa dimmela dopo ché adesso ho fretta, devo andare in classe”, e fece di nuovo per andarsene di gran furia. “A professo' -fece di nuovo lo studente- vada tranquillo, che tanto ‘n classe c'è già er professor Diagonale. Visto che lei nun gna faceva ad arriva’ l’hanno mannato a fa’ na supplenza, mortacci loro”. Al che il professor Sfaticati un po' indispettito gli chiese: “Ma chi sei tu?'”. E lo studente di rimando: “A professo’, ma ancora nun se ricorda, Bulletti della V C, a li mortacci!”. “Bulletti, si adesso mi ricordo... Ma possibile che proprio non ti riesce di parlare almeno un po' in italiano?”. Lo studente, sorpreso da questa inaspettata domanda, fece di rimando al prof a mo’ di giustificazione: “A professo’, certo che jela faccio a parla’ l'itagliano... Ma nun lo parlo perché carcora che si lo parlo me sento… come te posso di’… ecco me sento un po’ frocio”. Al che il professor Sfaticati, definitivamente disarmato, rinunciò a interloquire ulteriormente e rientrò un po' frastornato in Sala Docenti, dove fece rumorosamente cadere i libri che portava con sé sul tavolo posto nel bel mezzo della sala, e cominciò a meditare sul suo ennesimo ritardo, e, dopo qualche pindarica associazione mentale, sui massimi sistemi del mondo che in fin dei conti ne erano stati la causa. Nel frattempo le due colleghe di Arte e Greco si erano alzate dalle loro sedie e si erano appropinquate con uno slancio inimmaginabile all'appendiabiti dietro il quale era stato affisso l’orario definitivo. Lo avevano quindi maldestramente spostato, per avere una visuale più completa di quanto si apprestavano a leggere, ma nel far ciò fecero rovinosamente cadere sul pavimento imbrattato di pedate l'intero appendiabiti con tutte le giacche, i cappotti, i foulards, gli ombrelli e tutti gli orpelli necessari per difendere il corpo docente da uno di quei tanti nubifragi che colpiscono la Capitale nelle prime mattinate autunnali. Il fragore della caduta, se richiamò l'attenzione dell'altrimenti distratto professor Sfaticati, non distolse minimamente le due professoresse dalla loro precipua incombenza: l'attenta lettura dell'orario. Alle prime battute di questa lettura la professoressa Fogli ebbe un malore, e solo il tempestivo intervento del professor Sfaticati, che la fece prontamente accomodare su una sedia girevole della Sala Docenti, evitò che la malcapitata collega si accasciasse priva di sensi al suolo. La professoressa Pericle, indifferente alle sorti della cara collega, continuò la lettura dell'orario, e via via che andava avanti i suoi occhi si facevano sempre più vitrei, le sue labbra si serravano, i suoi capelli si rizzavano, e il suo volto alla fine divenne il volto di una spietata assassina.

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Il professor Sfaticati, nel frattempo, con il suo modo incerto e incompetente, cercava di rianimare la collega dicendole di star calma e di non agitarsi troppo. Ma la professoressa Fogli proruppe in un urlo pauroso che ebbe come immediato effetto quello di far convergere in Sala Docenti gli altri professori intenti a bighellonare in precedenza tra i corridoi dell'Istituto. In quel momento suonò la campanella che indicava l'inizio della ricreazione, e in men che non si dica saltarono fuori dai bagni decine di studenti che avevano a modo loro anticipato l'intervallo e dalle altre aule una masnada di adolescenti che riempirono l'intero Istituto, in ogni sua parte, di risa, di sberleffi, di cartacce, di mozziconi di sigarette e di altro materiale fumabile. Il caos non poteva essere né maggiore né peggiore. La Sala Docenti presto si riempì di professori scampati alle orde studentesche, fuggiti dalle aule e dai corridoi ormai non più praticabili, in preda a un’assoluta anarchia. Mentre qualcuno chiese ai presenti il motivo e la paternità di quell'urlo straziante che aveva attirato poco prima tanta attenzione da parte di tutti, qualcun altro dei presenti, mosso da ben altre considerazioni, ritenne opportuno, aggrottando vistosamente le ciglia e bofonchiando qualcosa di irriferibile, raccogliere la propria giacca, o il proprio cappotto, o il proprio foulard o il proprio ombrello da terra, lasciando tuttavia sul pavimento l'appendiabiti, caduto lì, sulle pedate ancora bagnate dei passanti, per qualche imperscrutabile ragione. Quando tuttavia si seppe e il motivo e la paternità di quell'urlo, giacche cappotti foulards e ombrelli nuovamente ricaddero a terra, e i proprietari di questi ultimi, così come tutti i non proprietari, si accalcarono con una fretta indicibile presso quel ‘gran foglio’ che appena un quarto d'ora prima la signora Nommicompeti aveva affisso in Sala Docenti. Nell'appropinquarsi (più rispondente al vero sarebbe dire 'nel lanciarsi') verso il foglio recante le 'disposizioni relative all'orario definitivo del corrente anno scolastico', qualche professore, forse un po' più basso o forse un po' più distratto degli altri, o forse tutte e due le cose messe insieme, non ebbe modo di notare l'ostacolo che intralciava la corsa verso la parete ove era affisso l'orario (ostacolo non da poco, visto che per terra rimaneva l'appendiabiti con tutte le sue capillari articolazioni), e in conseguenza di questa mancanza alcuni professori inciamparono e caddero a terra, altri vi furono trascinati dai primi che cercavano di aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno per non cadere, e tutti si maledissero a vicenda. Quando, dopo molto, l'ordine fu ristabilito, e i feriti e i contusi furono con insistenza e con proteste di amicizia eterna fatti accomodare nelle sedie girevoli, a turni di una mezza dozzina circa i professori cominciarono finalmente a prendere nota dell'orario definitivo. Il professor Sfaticati, in tutto quel trambusto, non si era mosso punto, ed ebbe con ciò l’agio di seguire distintamente le concitate fasi che contrassegnarono la lettura dell'orario da parte dell’interezza del corpo docente. Un professore di cui fu impossibile stabilire l'identità esordì con una bestemmia; un altro, di cui fu possibile stabilire l'identità (per dovere di cronaca si trattava del professor Diagonale) minacciò di consegnare la lettera di licenziamento con effetto immediato dopo una carriera scolastica inutilmente prolungata; un'altra collega fu vittima di un attacco isterico perché il suo orario prevedeva tutti i giorni l'ingresso in prima ora, il che le avrebbe impedito di portare a spasso per la consueta passeggiata mattutina il suo cagnolino, ormai aduso a questa benefica e diuretica prassi. La reazione più eclatante fu tuttavia della professoressa Lingualesta, la quale, ritraendosi schifata dalla lettura dell'orario ed avvicinandosi alle finestre che davano sul cortile interno al Liceo -che in quel momento brulicava di studenti per il quarto d'ora d'aria loro concesso dall'intervallo-, minacciò di precipitarsi nel vuoto se non le avessero immantinente cambiato l’orario. Alcuni non sopportavano di dover entrare quasi sempre in prima ora -ovvero, con il dovuto e premeditato ritardo, non prima delle 8.30; altri, al contrario, si lamentavano che non entravano mai in prima ora, perdendo -a detta loro- il 'vantaggio' di avere una platea studentesca quanto meglio disposta alla ricezione e alla comprensione della lezione; alcuni ancora si lamentavano del loro orario d'uscita, mai fissato prima dell'una; altri ancora si lamentavano della eccessiva continuità e compattezza delle diciotto ore loro assegnate a settimana, mentre altri al contrario maledicevano le 49


cosiddette 'ore buca', cioè quelle ore che frammentavano quella continuità didattica in precedenza menzionata e bistrattata. Insomma, per le più svariate ragioni di natura professionale, culinaria, onirica o salutare, tutti avevano da che ridire, tutti erano scontenti, tutti erano diventati furibondi, accecati dalla rabbia, e il disgusto, l'alterazione, la commozione, lo scalpore furono i sentimenti che più di altri travolsero l'affranto corpo docente. In tutto ciò squillò nuovamente la campanella, questa volta per segnalare la fine dell'intervallo, ma tutti, così solerti nell’ascoltarne il trillo nel momento dell’uscita, in questo caso fecero finta di non accorgersene, e chi per una ragione chi per un'altra, tutti si trattennero il più a lungo possibile nel loro rifugio, a scambiarsi pareri, confrontare gli orari, maledire il mondo e il Dirigente Scolastico. Di tanto in tanto, con uno slancio di generosità che nascondeva qualcosa di eroico, qualche collega non completamente disastrato dall'ufficializzazione dell'orario definitivo timidamente cercava di consolare gli altri meno fortunati di lui, che puntualmente però gli davano addosso, ripetendo per la quarantesima volta a se stessi e agli altri che “no davvero... è impossibile venire a lavorare a scuola in queste condizioni”, o, ancora, che “le diciotto ore settimanali in questo modo sarebbero diventate un incubo”. Ma alla fine, un po’ alla chetichella, con la segreta speranza di fare apportare modifiche all’orario stesso, ma per lo più inviperiti, tutti i professori, con una lentezza che aveva qualcosa di prodigioso, si rassegnarono a defluire nelle rispettive classi, dove orde di studenti erano rimaste a bivaccare senza limiti e contegno. Quando la Sala Docenti infine si svuotò, erano passati ventisei minuti dal suono dell'ultima campanella. 8. L’INCIDENTE IN COPISTERIA L'ultimo professore che varcò la soglia della Sala Docenti fu proprio il professor Sfaticati. Impressionato dalla ressa che si era scatenata alla lettura dell'orario definitivo, decise di aspettare tranquillamente che si diradasse il capannello dei professori, che a turno di una mezza dozzina si erano avvicinati con le dita incrociate al tabellone con l'orario per poi allontanarsene con le mani nei capelli in preda alla più cupa disperazione. Per tutta la durata dell’intervallo aveva invano cercato di rianimare la professoressa Fogli, la prima in assoluto a leggere il suo orario nonché l’ultima a riaversi dal trauma subito. La professoressa Fogli era una brava professoressa e una simpatica signora. Alle spalle aveva ben tre divorzi e una vedovanza, ma nonostante questo la sua inclinazione per l’arte e per le belle cose della vita non era stata minimamente scalfita. Anzi, proprio in virtù di questi trascorsi coniugali la professoressa Fogli poteva vantare la proprietà di un palazzo con piscina in zona Parioli, conti in banche svizzere e lussemburghesi, pellicce, auto di lusso -che tra l’altro non usava, visto che veniva a scuola sempre in taxi- e un capitale che i bidelli più informati stimavano in decenni e decenni del loro ‘lavoro’. La florida situazione economica della professoressa Fogli non deve tuttavia indurci a conclusioni distorte. La professoressa Fogli aveva infatti l’oggettiva necessità di lavorare per mantenersi. Senza la scuola la professoressa Fogli sarebbe senz’altro stata una donna rovinata, se non altro perché grazie alla scuola riusciva a passare almeno diciotto ore a settimana senza andare in giro per i negozi più esclusivi di Roma a dilapidare intere fortune. La sortita dell’orario definitivo aveva avuto tuttavia serie ripercussioni nell’animo e nella sensibilità della professoressa. Tutti gli appuntamenti presi dal gioielliere, dal parrucchiere, con il sarto, con l’estetista ecc., erano tutti da rivedere e da aggiornare, e chissà quando sarebbe finalmente riuscita a riorganizzare tutti i suoi numerosi impegni. Pian piano, tuttavia, la nostra professoressa, anche grazie al pronto intervento del professor Sfaticati, alla fine si calmò, e, riacquistate che ebbe le forze, asciugatasi una lacrima che nel frattempo le era scivolata giù dalla guancia fino ad andare a cadere nella collana di perle comprata tre anni fa in occasione di un viaggio ad Ibiza, riuscì finalmente ad andare nella toilette a risistemarsi il trucco e a incipriarsi il naso, e tornò infine in Sala Docenti più combattiva che mai a leggersi il rotocalco che portava da casa. 50


A questo punto il professor Sfaticati decise di abbandonare la collega al suo destino e si accinse finalmente a recarsi in classe, dove però trovò il bidello seduto dietro la cattedra a leggere il giornale accerchiato da tutti gli studenti che gli si facevano sotto per scherzare con lui. Il signor Peppe, quando era preda della malinconia per il suo indimenticato paese d’origine, diceva sempre peste e corna degli studenti -‘di queste scimmiette irrequiete impossibili da addestrare'-, e sempre minacciava di portarli dal Dirigente Scolastico per una lavata di testa o di procurargli chissà quale memorabile provvedimento disciplinare. Ma, in fondo in fondo, anche se non lo dava a vedere, si affezionava a quelle terribili pesti, e che gli si affezionava parecchio lo si capiva dai suoi patetici tentativi di negare questa palese evidenza. Anzi, in cuor suo sapeva, ma non voleva ammetterlo né a se stesso né agli altri, che andava molto più d'accordo con queste ‘scimmiette irrequiete’ che con i suoi dodici o quattordici nipotini che nel frattempo aveva avuto dai suoi quattro figli, tutti romanisti. Agli studenti voleva bene, e si divertiva a stare con loro. Gli piaceva, durante l'intervallo o nel cambio dell'ora, o comunque in assenza dei professori e al riparo dal loro sguardo sagace, celiare con loro, trattandoli male ovviamente. Non mancava mai, per questa sua bontà d’animo, di intercedere presso questo o quel professore per evitare a questo o a quel ragazzo un'interrogazione, per il semplice fatto che questo o quel ragazzo gli aveva reso l'onore, a lui, al signor Giuseppe Massacesi, di intercedere presso questo o quel professore. E proprio quella mattina alcuni studenti della V C che il giorno prima non avevano studiato, sapendo del rapporto di reciproca stima che intercorreva tra il professor Sfaticati e il signor Peppe, chiesero a quest'ultimo la cortesia di chiedere a sua volta cortesemente al professore, che quel giorno avrebbe dovuto interrogare, di non interrogare. Gli studenti in questione, la domenica precedente, l'avevano trascorsa allo stadio, con tutti gli impegni organizzativi connessi, per assistere alla partita che avrebbe dovuto rilanciare la loro squadra ai vertici del campionato. Erano ragazzi per lo più di fede laziale, e questo colpì con gravità la sensibilità dell’animo del signor Peppe, il quale non si fece pregare due volte e decise seduta stante di assumersi il compito di evitare a questi ragazzi un’ingiusta interrogazione, convincendo il professore a soprassedere anche in quell'occasione rispetto alla sua pervicace volontà di verificarne la preparazione. Approfittando del disordine in classe e della vicinanza del professore che garbatamente gli si era accostato per porgere il proprio saluto, il signor Peppe pregò accoratamente il professor Sfaticati di non interrogare nessuno, perché molti studenti il sabato e la domenica appena trascorsi erano stati tutti impegnati chi ad accompagnare le vecchiette in carrozzella a fare la spesa, chi a raccogliere e a differenziare buste, bottigliette, cartacce raccolte nei pressi del Colosseo e dei Fori Imperiali, chi a distribuire pasti caldi ai clochards delle Stazioni Termini e Tiburtina, e via discorrendo. Il signor Peppe concluse la sua perorazione in favore degli studenti assicurando che quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta che lui si permetteva di rivolgere questo tipo di preghiera al prof (se ne contarono altre undici, in realtà, per tutto l’anno scolastico), e aggiunse, con un tono di voce ancora più supplichevole, che gli studenti in realtà non sapevano nulla di questa sua preghiera al professor Sfaticati; non avrebbero voluto, per decoro e dignità, che a scuola si sapesse del loro volontariato settimanale; erano ragazzi che amavano far del bene agli altri, ma non amavano menarsene vanto! Il professor Sfaticati, in realtà non molto convinto, decise di non interrogare nemmeno in quell'occasione, ed assicurò alla classe, ancora alla presenza del collaboratore scolastico -che altrimenti non sarebbe uscito dall’aulache anche in quell’occasione sarebbe andato avanti col programma, e che le interrogazioni sarebbero cominciate la settimana successiva. Bulletti, acquisito l’indulto, volendo rafforzare la sua posizione, fece anche notare al professor Sfaticati che sua madre gli aveva firmato la giustificazione, giustificazione che fece prontamente scivolare sulla cattedra del prof, e che così recitava: “Prego il gentilissimo professor Sfaticati di voler giustificare l’occasionale impreparazione di mio figlio il quale, essendo stato tutto il giorno senza voce per un’acuta laringite, non ha potuto studiare nessuna disciplina orale. In fede, Loredana Contestabili Bulletti”. La firma era evidentemente falsificata, ma questo non interessò affatto il professor Sfaticati che cestinò immediatamente quella giustificazione così demenziale. Il signor 51


Peppe, allora e solo allora, uscì dall’aula, non prima d’aver recuperato dalla cattedra il Corriere della Sera aperto sulla pagina sportiva, e si avviò mestamente verso il suo banchetto, in fondo al corridoio, dove si sarebbe seduto vicino al termosifone acceso, con la pace dell’anima che ha solo chi sa di aver agito per il verso giusto. Uscito che fu il bidello, il professor Sfaticati, nutrendo un significativo scetticismo verso la presunta inclinazione al volontariato da parte della quasi totalità della classe, rivolse a tutti i ragazzi un'accorata ramanzina, ribadendo che gli argomenti di filosofia oggetto di verifica erano stati trattati in modo ripetuto e analitico, per quasi due mesi. Ricordò alla classe che la data di inizio delle interrogazioni era stata fissata ormai da due settimane, e che lungi dal voler ricorrere al desueto sistema del sorteggio tramite tombolini, lui, il professor Sfaticati, si sarebbe semplicemente accontentato di un numero sufficiente di volontari. Di fronte all’indifferenza della classe, la sola studentessa Cecilia Quattrocchi si offrì per farsi volontaria, ma il professor Sfaticati declinò gentilmente la proposta, rinviando a data da determinarsi la verifica, preferendo in quell’occasione svolgere un’altra delle sue brevi lezioni, di cui riportiamo una sintesi grazie agli appunti presi dalla solita, infaticabile Cecilia Quattrocchi. PRIMA DI CREARE IL MONDO, DIO COME PASSAVA IL TEMPO? Per l’antichità classica, ed in particolare per Aristotele, Dio, identificato col Motore Immobile, non crea l’universo. L’universo materiale è coevo e coeterno rispetto a Dio; tanto tempo è esistito Dio, quanto tempo è esistito l’universo. Dio, nell’impostazione aristotelica, ordina l’universo, pur non volendo. Non è da prefigurare un’attività finalizzata alla formazione e all’ordinamento dell’universo deliberatamente posta in essere da Dio, il quale, nella sua somma perfezione, non può avere a che fare con ciò che ontologicamente Gli è inferiore. Egli, per tornare all’oggetto della questione, passa il tempo a pensare se stesso, ovvero ciò che c’è di più perfetto nella realtà, e in questo senso si comprende il testo aristotelico laddove si precisa che Dio è ‘pensiero di pensiero’, pensiero di un ente pensante che pensa se stesso come pensato, addirittura ignorando l’esistenza di tutto ciò che Gli è difforme e quindi imperfetto, pensiero questo che inficerebbe la Sua perfezione. Più articolata si presenta invece la questione per la filosofia cristiana che riconosce e attribuisce a Dio l’atto mediante il quale è posta in essere l’intera realtà. Con il ‘creazionismo’ si pone evidentemente il problema di indagare la natura dell’attività di Dio alla vigilia della creazione stessa. Cosa faceva, quindi, Dio prima di creare il mondo? Qualche filosofo in vena di spiritosaggini ha risposto sostenendo che prima di creare il mondo Dio era intento a preparare l’inferno per quelle persone che si pongono troppe, indiscrete e impertinenti domande! Più seria e ponderata è l’analisi di Agostino di Ippona. Egli comprese la delicatezza della questione, perché riconoscere a Dio un’attività eterna precedente la Creazione e riconoscere la Creazione stessa significa al contempo ammettere una ‘diversità’ all’interno dell’attività stessa di Dio. In questo caso Dio avrebbe fatto dopo quello che non aveva fatto prima (creare il mondo), o, il che è uguale, ciò che prima faceva è stato interrotto almeno per un istante nell’atto stesso della Creazione del mondo. In ogni caso, riconoscere a Dio la paternità della Creazione del Mondo significa ammettere un mutamento se non della Sua natura, almeno della sua attività. Ed è questo il problema: se l’attività di un ente ‘perfettissimo’ muta, cambia, non è sempre uguale a se stessa, essa non è più un’attività perfettissima adeguata alla natura dell’Agente anch’Egli perfettissmo, ma è un’attività ontologicamente e metafisicamente ‘inficiata’ e minata al suo interno dal mutamento stesso. Un’attività perfettissima implicherebbe la sostanziale immutabilità dell’attività stessa. Se essa, al contrario, cambia, se essa cioè è diversa da se stessa, significa necessariamente che essa non è più perfettissima. Se tale attività fosse perfettissima lo dovrebbe essere o prima o dopo di cambiare, e non in entrambi i diversi stati. Ma se l’attività di Dio è sottoposta a mutamento, se cioè, come abbiamo visto, essa non è sempre perfettissima, allora non sarà perfettissima nemmeno la 52


natura dell’Agente supremo che pone in essere quell’attività: ne consegue che nemmeno Dio è perfettissmo, quindi Dio non è Dio! La risoluzione del problema viene fornita da Agostino in modo da ammettere al contempo la perfezione di Dio e la sua attività creatrice. Dio, secondo il filosofo, è perfetto, altrimenti non sarebbe Dio. Egli è perfetto e, ne consegue da ciò, Immutabile, poiché se mutasse non sarebbe perfetto! Ma se è immutabile, come fa a rimanere tale con l’atto stesso della creazione del mondo? Il fatto è che il ‘prima’ della creazione del mondo non esiste, poiché essendo Dio l’unica entità esistente ‘prima’ del mondo e sempre uguale a se stessa, non ci sarebbe spazio per il tempo, poiché il tempo, per esistere, ha bisogno di qualcosa che cambia, di un movimento. Qualora infatti ciò che esiste, esiste immutabilmente, senza movimento alcuno, la stessa nozione di tempo sarebbe priva di un sostegno ontologico. Immaginando, con l’aiuto di qualche bicchiere di sambuca, l’esistenza di una sola e unica entità perfetta sempre ferma e uguale a se stessa, che senso avrebbe parlare di tempo? Se tutto ciò che è, è immobile, fermo, immutabile, e al di fuori di tutto ciò che è immobile non ci fosse nulla in movimento, che senso avrebbe parlare di tempo? Il tempo, e questo concetto è di una semplicità aggressiva, senza movimento non esiste! Quindi, per concludere, ammettendo la perfezione di Dio, quindi la sua immutabilità, conseguentemente dovremmo ammettere che il Tempo non esiste se non con la creazione del Mondo, anzi che il Tempo è stato creato assieme al mondo stesso. Dire che il tempo non esiste se non nel mondo e col mondo, significa dire che il ‘prima’ del mondo non esiste, poiché un ’prima’ si esprime solo in relazione di continuità nel Tempo, che abbiamo visto non esiste ‘prima’. Quindi, alla domanda “cosa faceva Dio prima di creare il mondo?”, Agostino risponde semplicemente che il ‘prima’ della creazione non esiste perché prima della creazione non esiste il tempo, e se non esiste un ‘prima’ della creazione del mondo la domanda con cui abbiamo aperto questa riflessione viene a essere privata completamente di significato. Non esiste un tempo che precede la creazione del mondo! Era appena terminata la lezione quando il collaboratore scolastico Giuseppe Massacesi bussò alla porta e di nuovo vi entrò, pregando questa volta il professore di recarsi, appena gli era possibile, presso gli uffici della Presidenza. Avrebbe lì dovuto firmare una montagna di scartoffie per regolarizzare la presa in servizio presso l’Istituto. Il professor Sfaticati assicurò il signor Peppe che vi si sarebbe recato immantinente, e lo pregò, visto che si trovava a passare per la sua aula, di fare almeno una trentina di fotocopie di certi appunti che avrebbe voluto distribuire alla classe. Il signor Peppe prese il foglio degli appunti in questione e invitò allora il professor Sfaticati, al termine dell’ora, a passare in copisteria, dove lui si sarebbe assicurato che le copie richieste sarebbero state pronte nel minor tempo possibile. Al suono della campanella, per l’ultima volta il professore si appellò al senso di responsabilità dei propri studenti, rivolgendo loro un serio ammonimento: dalla settimana successiva, in assenza di volontari per l’interrogazione di filosofia, si sarebbe fatto ricorso ai famigerati tombolini di un’anziana professoressa di Scienze, custoditi gelosamente nel suo armadietto, in Sala Docenti, per estrarre a sorte quelli che sarebbero poi stati chiamati alla verifica. Quindi uscì senz’altro dalla classe e si diresse con la necessaria calma presso la copisteria dell’Istituto, dove avrebbe assistito a un penoso siparietto messo in scena dal signor Peppe e dalla signora Nommicompeti, entrambi alle prese col malfunzionamento della macchina fotocopiatrice. Quando infatti il nostro prof raggiunse la copisteria, i due collaboratori scolastici se le stavano dicendo di cotte e di crude, per di più ad alta voce, gesticolando in modo piuttosto scomposto, richiamando così l’attenzione di tutto il personale docente e di tutti gli studenti che avevano colto l’occasione del cambio dell’ora per dilagare nei corridoi della scuola. La macchina fotocopiatrice si era nuovamente inceppata, e i due bidelli, dopo innumerevoli tentativi riparatori frustrati dalla superiore tecnologia della macchina, avevano finito per addossarsi la colpa a vicenda dell’ennesimo guasto, minacciando di andare entrambi dal Dirigente a riferire il fatto e la responsabilità dello stesso qualora l’altro dei due non avesse risolto subito il problema. Ma la discussione presto era degenerata in un vero e proprio alterco, e le inverosimili, aleatorie minacce delatorie lasciarono il posto alla ben più corrosiva rievocazione di accuse e incomprensioni passate, accuse e 53


incomprensioni che oramai da più di un decennio avevano guastato irrimediabilmente il rapporto e la stima reciproca tra quei due indefessi servitori dello Stato. La signora Nommicompeti rinfacciò al signor Peppe di essere stato lui, e non altri, a lasciare aperta la porta d’accesso del laboratorio informatico sei anni fa, quando dallo stesso, nottetempo, furono trafugati ben cinque computer di ultima generazione -che in realtà erano di produzione sovietica- e tre stampanti (le indagini chiarirono però che la responsabilità fu del personale precario addetto alla manutenzione informatica della scuola, comunque dotato di chiavi di accesso all’aula); il signor Peppe, per tutta risposta, ricordò alla sua collega di come fosse stata solo e soltanto per colpa sua e della sua maledetta fretta che ben dodici anni fa un vecchio professore in cerca di avventure e una giovane ma inguardabile professoressa in cerca di marito, attardatisi all’insaputa di tutti in bagno a conclusione di un Collegio Docenti fiume, rimasero chiusi dentro l’Istituto per tutta la notte (poi però si seppe del lieto fine, giacché precisamente nove mesi dopo quell’incidente la giovane professoressa aveva messo alla luce una piccola creatura, chiamata Scolastica, in onore alla Santa patrona dell’ordine delle monache benedettine). Il fatto era (e questo lo sapevano tutti, dall’amante del marito dell’amante del Dirigente Scolastico allo studente più scontroso e dissociato di una classe prima dell’ultima sezione del Liceo) che i nostri due zelanti collaboratori scolastici, collaboratori da più di trent’anni, in realtà tra di loro non collaboravano affatto, anzi davano spesso e volentieri luogo a indegni teatrini ogni qualvolta le loro carriere umane e professionali avevano modo di incrociarsi se pur in modo del tutto tangenziale. Del resto, nel corso delle lunghe, interminabili mattinate scolastiche -passate, il più delle volte, chi a copiare le soluzioni dei cruciverba e chi a leggere la pagina sportiva della copia omaggio del Corriere della Sera-, la signora Nommicompeti e il signor Peppe, proprio per ammazzare un po’ quella noia mortale che fa prematuramente ingrigire il personale scolastico, non facevano altro che molestarsi con inimmaginabili dispetti, scaricarsi la colpa di qualsiasi inconveniente, organizzare congiure e complotti, l’una sollecitando visite fiscali negli orari più impensabili ai danni dell’altro, l’altro svuotando i cestini delle aule di propria competenza dentro le aule di competenza dell’altra, l’una brontolando “è colpa di qual marsicano patanaro del tutto incompetente buono a leggere soltanto il giornale”, l’altro “è quell’idiota pariolina buona soltanto a fare cruciverba con le soluzioni dentro al cassetto tenuto un po’ aperto”. Nonostante le strenue, patetiche argomentazioni della signora Nommicompeti, questa volta però la colpa dell’inceppamento della macchina fu unanimemente attribuita a lei, che nell’intento di rifornire della Settimana Enigmistica tutte le sue colleghe, aveva preso l’infausta iniziativa di fotocopiare il Settimanale di intrattenimento per un numero di volte alquanto esagerato. Quando la macchina registrò l’inceppamento, era in corso la trentasettesima copia del Settimanale, e un foglio di questa copia si era pervicacemente nascosto tra gli inestricabile ingranaggi della macchina, provocandone il blocco. Ma questo lo si seppe soltanto dopo, cioè quando il foglio che inceppava la macchina fu finalmente estratto grazie all’intervento salvifico del professor Sfaticati. Il professor Sfaticati, che da giovane, per mantenersi agli studi, aveva anche lavorato presso una copisteriarilegatoria universitaria, si offrì infatti di dare una mano ai collaboratori scolastici, anche perché nel frattempo tutti i ragazzi in giro nel piano anziché tornare in classe, come avrebbero sollecitamente dovuto, si erano radunati sorridenti attorno ai due litiganti. Gli studenti, da gran figli di buona donna quali erano, chi innocentemente succhiando il leccalecca alla fragola, chi al cioccolato, chi masticando candidamente a bocca aperta la ciccigomma, chi, sempre a bocca aperta, dei pop-corn, oltre a gustarsi il litigio dei due bidelli, si divertivano ad esacerbarne gli animi e a rinfocolare la disputa, dando alternativamente ragione alla signora Nommicompeti e al signor Peppe, con l’intento evidente di sviluppare tutte le potenzialità recondite della controversia in atto. La situazione, già di per sé degenerata, rischiava di sfuggire totalmente al controllo. Così il professor Sfaticati decise unilateralmente di prendere l’iniziativa. Mentre i bidelli continuavano a 54


beccarsi, e gli studenti, divisi oramai in tifoserie contrapposte, a galvanizzarli con cori da stadio, grazie alle competenze universitarie acquisite dal nostro prof, in un batter d’occhio il malcapitato Bartezzaghi che causava l’inceppamento fu finalmente localizzato e rimosso, e quindi consegnato alla signora Nommicompeti per la futura soluzione. La macchina fu prima spenta e poi accesa e riavviata, e -nonostante l’eccessivo riscaldamento- fu subito utilizzata per effettuare le copie di cui il prof aveva bisogno per la sua classe. Dopo i ringraziamenti di rito al prof sia da parte del signor Peppe che della signora Nommicompeti, il signor Peppe cercò però la chiosa della questione, non volendo assolutamente perdere l’occasione di infliggere un’umiliazione professionale alla collega in presenza del prof e dei ragazzi, così tacciando la signora Nommicompeti di essere lei e soltanto lei il problema che il Ministero dell’Istruzione Pubblica avrebbe dovuto risolvere nel mondo della scuola. Quindi, strappandole il frutto della colpa dalle mani, le intimò: “Ma anziché copiare soluzioni su queste caselle, perché non vai a pulire i pavimenti nelle tue aule e nei tuoi corridoi, vecchia befana che non sei altro!”. Al che, colta in fallo, emozionata, non sapendo più come difendersi e cosa dire, la signora Nommicompeti si rivolse direttamente al più comprensivo professor Sfaticati, dicendogli a bassa voce: “Sa prof, al mio collega non riesce ad entrare in testa che se pulisco troppo bene le mie aule e il mio corridoio, il giorno dopo si sporcano prima”, e, rilasciata questa incredibile memoria difensiva, sgusciò via con le lacrime a stento trattenute negli occhi. 9. LO SCHIAFFO IN PRESIDENZA Finito il teatrino, gli studenti non avevano più nulla cui assistere, e molto lentamente si rassegnarono a guadagnare le rispettive aule, dove tuttavia i professori, manco a dirlo, ancora non erano arrivati. Rimasti soli, il signor Peppe chiese al professore se avesse avuto modo, nel frattempo, di recarsi negli Uffici della Presidenza, come in precedenza gli era stato garbatamente sollecitato. Alla risposta negativa del prof, lo stesso signor Peppe si propose quindi di accompagnarlo in quegli uffici, dove gli avrebbe trovato e consegnato le carte da firmare per il disbrigo delle pratiche. Appena arrivati in Presidenza, il signor Peppe si diresse verso un armadio aperto ed estrasse un plico pieno di documenti e di moduli che il professor Sfaticati avrebbe dovuto firmare. Si trattava di autodichiarare lo stato di famiglia, per il calcolo degli eventuali assegni integrativi, la dimora e la residenza per le eventuali visite fiscali nelle giornate di malattia, e la ricostruzione della carriera scolastica del neoassunto professore, nella quale occorreva specificare tutti i servizi svolti negli anni scolastici precedenti presso altri Istituti. Occorreva infine comunicare gli estremi bancari per l’accredito delle mensilità (momento cruciale, dacché se il professor Sfaticati si fosse sbagliato avrebbe destinato il suo stipendio a soggetti terzi) e, infine, il certificato di sana e robusta costituzione fisica che il medico di base del prof avrebbe dovuto rilasciare su richiesta dello stesso dietro il pagamento di una trentina di euro. Mentre il professor Sfaticati riempiva tutta questa varia documentazione, si rese conto di essere insistentemente osservato dal signor Peppe, il quale evidentemente avrebbe voluto attaccare bottone, ma non sembrava disporre di un’occasione immediata per interrompere la compilazione delle documentazione in oggetto da parte del prof. Allora fu il professor Sfaticati, seduto di fronte alla cattedra del Dirigente a riempire le carte in modo relativamente distratto e meccanico, a chiedere al signor Peppe come si sentisse, come stava la famiglia, se ogni tanto tornava dalle sue parti, ecc. “Certo che mi mancano da morire, quanto vorrei passare un po’ di tempo nella mia cara Celano, tra la mia gente, nella mia terra, nei miei vitigni. Che noia starsene qui a Roma. La notte dormo poco, sa… a una certa età ci si sveglia facilmente la notte, e allora per passare il tempo salgo su in 55


terrazza, e mi metto a guardare il cielo stellato sopra di me. E’ bellissimo il cielo stellato, di notte, quando è sereno, lo diceva già quel filosofo tedesco che lei sicuramente conosce…”. “Kant vuole dire?”. “Sì certo Kant. Ma, non so come spiegarglielo…- proseguì assorto il signor Peppe-…è come se il cielo stellato di Roma non fosse il mio cielo, come se il cielo stellato di Roma non fosse lo stesso cielo che brilla sul mio Paese, lo sento estraneo, ecco”. Al che il professor Sfaticati poggiò per un attimo la penna, annuì, e sospirò di fronte a tanta malinconia del suo caro interlocutore. “Sa…-proseguì il signor Peppe-…a una certa età è come se le ossa ti richiamassero, come se le tue ossa volessero andarsene là a morire da dove sono partite tanto tempo fa per scoprire nuovi posti mai visti e per conquistare il mondo. Da giovane le tue ossa fremono per andar via da dove sono nate, ma quando si è vecchi ci ripensano e vogliono tutto il contrario”. Qui fece per un attimo silenzio, ma poi continuò. “Ho i miei genitori sepolti al cimitero di Celano, e sento che le mie ossa vogliono tornare dove sono già a riposare le ossa dei miei. Ma lei è così giovane, forse queste cose le sembrano assurde; dove si muore si muore, il risultato è sempre che si muore”. “No no, capisco benissimo…-si affrettò a dire il professor Sfaticati-…capisco quanto possa essere forte il richiamo della nostra terra. Ma cosa ci vuol fare? Purtroppo da noi il lavoro è così poco e poco retribuito, che per forza si deve emigrare. E bene c’è andata che stiamo qui a Roma. Ma lei è ancora giovane, non si faccia prendere dalla malinconia. Piuttosto mi dica come sta la sua famiglia, sua moglie i suoi figli, i suoi nipotini…”, e con ciò chiedendo riprese a firmare tutte quelle scartoffie. “Non mi parli dei miei nipotini, per carità…-rispose prontamente ringalluzzito e sorridente il signor Peppe-...tutti romanisti me li hanno fatti crescere! Ma sono cose da farsi queste! Per carità, non ne parliamo. Io e mia moglie invece devo dirle stiamo abbastanza bene, ma sa è da un po’ di giorni che non mi sento tanto bene: una febbricciola costante che non vuole andare via. Cerco di mangiare leggero: minestre, verdure, frutta e carne rigorosamente bianca. Lascio stare la porchetta, che è grassa, e il vino rosso! Non esco la sera per non prendere freddo. Quest’umidità a Roma certe volte è letale. Non è come il freddo delle parti nostre, che è un freddo secco, salubre, sincero. Qui il freddo ti entra nelle ossa! Colpa del fiume. E allora rimango tutto il giorno a casa, a riposare, senza mettere fuori il naso dalla porta. Eppure da più di una settimana questa febbricciola sembra non volermi abbandonare”. “Scusi -interloquì allora il professor Sfaticati, lasciando un’altra volta da parte le sue carte -ma c’è andato al dottore? Cosa le ha detto?”. “Il dottore mi ha suggerito di rimanere a casa per una settimana di cure e di riposo assoluto”, disse guardando il soffitto e sospirando il signor Peppe. “E allora, che ci viene a fare a scuola? Stia a casa sua, nel suo letto, tra le sue coltri, con le sue minestre! Si goda la compagnia e le coccole di sua moglie! Non le pare che sarebbe meglio? Cosa darei io per stare ammalato almeno una settimana; non vedere i colleghi; non vedere gli studenti; non doversi svegliare all’alba. Eh già, sarebbe proprio un’altra vita una vita da ammalati, una vita da dormiglioni!”, e qui il professor Sfaticati sfoggiò un malinconico sorriso. “Io? Stare a casa? Ma che è diventato matto?”, proruppe il signor Peppe. “Qui a scuola devo stare solo le mie oneste sei ore. Se stessi in malattia a casa dovrei stare bloccato per il doppio del tempo in attesa della visita fiscale! E poi mica è così facile come sembra. Lo sa che se rimango a casa devo 56


accendere i termosifoni. Mica abbiamo il riscaldamento centralizzato nel nostro condominio. Eh no! Il riscaldamento è autonomo, e non le dico quello che ci costa! Quando arrivano le bollette si scatena un dramma che lei non può nemmeno immaginare. Se solo sentisse le grida di mia moglie! Altro che coccole! E’ capace di diventare peggio di quella sciagurata della signora -mh, signora!Nommicompeti. Noi, anche se gestiamo un piccolo ristorante ai Castelli, siamo gente povera, non ci possiamo mica permettere certe cose. E poi con queste giornate così fredde dovrei tenere accesi i termosifoni per ore e ore…. Per carità, mi vuole veder fallito lei! No no, non se ne parla proprio, non posso assolutamente rimanere a casa, per carità per carità, molto meglio venire a scuola. Preferisco mettermi in malattia quando sto bene, semmai…”. Mentre il signor Peppe stava motivando il suo encomiabile attaccamento al lavoro -con ciò smentendo le più fantasiose teorie circa l’assenteismo prevalente nel pubblico impiego- entrò senza bussare dalla porta socchiusa della Presidenza lo studente Ferdinando Bulletti, dai lineamenti evidentemente stravolti , in preda a uno stato di incontrollabile agitazione. “Bulletti che c’è? Adesso non si bussa prima di entrare nemmeno in Presidenza?”, gli urlò a mo’ di rimprovero il professor Sfaticati. “Scusi professo’, è che sta scola è piena de deficienti! La professoressa Fogli mi ha messo un’altra nota sul registro, e mi ha pure cacciato fuori dall’aula -e non potrebbe!- e mi ha detto che sono un cretino -e non potrebbe-, mica so’ su fratello! Io mo’ vojo parla’ cor Preside, tanto è ‘n amico de mi padre! Je faccio vede io a quella sgallettata!”. “Ma calmati!”, cercò di interloquire il professor Sfaticati. “La conosco la professoressa Fogli, mi sembra una persona molto equilibrata, altro che sgallettata come dici tu. Cos’hai combinato piuttosto tu per farti trattare così? Di’ un po’, che hai fatto? Un’altra delle tue smargiassate?”. “Io? Io non ho fatto gnente! E’ la mia compagna de classe, ce l’ha presente Cristiana Marchetti? Quella cor culo…”. “Ehm…-lo interruppe prontamente il professo Sfaticati-…ho capito chi è Cristiana Marchetti, ho capito. E tu cosa le hai fatto, di’ un po’?”. “Ecco, è stata lei che ha cominciato a urla’ come n’ossessa quanno j’ho cominciato a tocca’ er … vabbe’ ce semo capiti… Come se sabato scorso nu je piaceva fasse tocca’!”. “Ma scusami eh, ma la Marchetti non era fidanzata con quel tuo compagno di classe, ricordami il nome…ah sì, Casini?”. “E che vor di’ professo’? Occhio nun vede culo nun rode!”. “Senti, Bulletti, non so dove l’hai toccata oggi e dove sabato scorso, ma hai pensato che stamattina stavi a scuola e che di conseguenza forse era il caso di non allungare le mani su una tua compagna di classe, per di più fidanzata, e con un tuo amico?”. “A professo’, ma che dice! Se la pischella ce sta ce sta, e io mica vojo passa’ pe’ frocio. E’ quella de arte che è impazzita e se l’è pijata co’ me. E adesso vojo parla’ cor Preside. Vojo proprio vede come finisce sta storia!”. Al che intervenne il signor Peppe, che nel frattempo era rimasto in disparte, con i suoi acciacchi e la sua febbricciola, ad ascoltare per filo e per segno tutto il concitato racconto. “Senti a coso, ma mo tu che je devi da di’ ar Preside?”. 57


“So affari mia, nun te ‘mpiccia’, vojo parla’ cor Preside, tanto è amico de mi padre!”. “Si va bene ma il Preside adesso nun ce sta!”. “E ‘ndo’ sta?”, fece, colto di sorpresa, lo studente. “Non so affari tua, nun ce sta e basta”, rispose piccato il signor Peppe. “Ah ho capito, pure so Preside è ‘n artro assenteista der cazzo”. A questo punto, con lo stile, l’eleganza, la cultura, il background che soltanto un bidello ultrasessantenne celanese può vantare, il signor Peppe si alzò dalla scrivania della Presidenza, si avvicinò allo studente e gli chiese: “Ma veramente il Preside è amico di tuo padre?”. “E certo, e mica sto a di’ fregnacce, io!”. “Ah sì? E allora se è amico di tuo padre digli pure che il bidello Peppe ti ha dato uno schiaffo”. “Ma quale schiaffo?”, chiese, colto dal dubbio, Bulletti. “Questo schiaffo!”, e a questo punto, il signor Peppe stampò sul viso dello studente una cinquina memorabile, che fece roteare il malcapitato su se stesso, il cui fragore si sentì per tutto il piano della Presidenza. “E adesso vedi di andare a chiedere scusa alla professoressa di arte, cretino che non sei altro!”. E così detto il signor Peppe cacciò via lo studente dalla Presidenza con l’aggiunta di un bel calcio nel deretano. Poi chiuse la porta e ritornò verso il professore bofonchiando qualcosa tra sé e sé sul peggiorare dei tempi e dei sistemi educativi. Il professore rimase un momento interdetto, continuando a fare quello che stava facendo. Terminate che furono le firme da apporre sulla documentazione scolastica, chiuso il faldone e ripostolo nell’archivio, si congedò infine dal collaboratore scolastico, non senza prima avergli teso e stretto la mano, e guardandolo negli occhi, gli sorrise in silenzio. 10. L’OCCUPAZIONE Da qualche anno a questa parte la tempistica prevista dal calendario delle attività didattiche ha subito una sostanziale modifica. Oramai in molte scuole di ogni ordine e grado si è consolidata la prassi di suddividere l’anno scolastico non più in due quadrimestri, bensì in un primo trimestre (che ha inizio con l’avvio dell’anno scolastico e si conclude con le vacanze natalizie) e in un secondo pentamestre (che inizia al rientro delle vacanze di Natale e finisce con la fine delle attività didattiche nelle prime giornate di Giugno). La scelta di ripartire il calendario e le attività didattiche nel modo summenzionato impone solitamente ai professori una considerevole sollecitudine nello svolgimento del programma nella parte iniziale dell’anno. In classi che oramai mediamente arrivano alle ventotto unità, la scelta di ripartire l’anno scolastico in trimestre e pentamestre si traduce in una disperata corsa contro il tempo nella quale ogni professore è costretto a inizio anno non soltanto a riepilogare gli aspetti più importanti del programma svolto l’anno precedente, non soltanto a colmare eventuali lacune nello svolgimento dello stesso, non soltanto a somministrare i test d’ingresso per acquisire i livelli di partenza di ogni singolo studente e della classe in generale, ma soprattutto il professore deve prendere dimestichezza con la classe, col materiale umano che gli vien dato da forgiare, comprendere le criticità e le potenzialità da far dispiegare nel gruppo-classe in un lasso di tempo del tutto irragionevole.

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Tra tutte queste molteplici incombenze, ciò che più preoccupa gli insegnanti è la scadenza costituita dalla fine del trimestre, scadenza entro la quale non soltanto occorre adempiere a tutti i compiti su specificati, ma, soprattutto, occorre acquisire almeno due valutazioni scritte e due orali per ogni studente. In classi che, come abbiamo già detto, a seguito dei tagli imposti dal Ministero non dell’Istruzione ma delle Finanze viaggiano oramai sul numero medio di ventotto alunni, questo è praticamente impossibile. E’ un segreto di pulcinella che la somministrazione di due compiti in classe e la formalizzazione valutativa di due colloqui orali per ogni singolo studente sono obiettivi oggettivamente irraggiungibili. A meno che non si decida di passare l’intero trimestre a interrogare e a somministrare compiti in classe, risolvendosi di cominciare lo svolgimento dei moduli didattici a partire dal Gennaio dell’anno successivo. Nonostante questa conclamata impossibilità, molti Istituti di ogni ordine e grado insistono nel proporre la calendarizzazione delle attività didattiche prevedendo un iniziale trimestre e un successivo pentamestre. Questa sciagurata scelta, che contribuisce significativamente ad aggravare lo sfascio del sistema, è resa ancora più infausta dal fatto che oramai si è istituzionalizzata la prassi di concordare con gli studenti e con i loro rappresentanti l’organizzazione di una non meglio definita ‘attività didattica alternativa’, per lo svolgimento della quale vengono di fatto impegnate tutte le strutture scolastiche, con il conseguente blocco di tutta l’attività prevista dalla regolare programmazione per un arco di tempo che va da una settima a un mese. E tutto questo ambaradan, che prende il nome a volte di ‘occupazione’, a volte di ‘coogestione’, altre volte di ‘autogestione’, capita quasi sempre proprio a ridosso delle vacanze natalizie, cioè nell’imminenza della fine del trimestre. Il che, com’è facile da comprendere, comporta un’ulteriore compromissione della regolare acquisizione delle valutazioni. La calendarizzazione delle attività scolastiche, al di là delle scelte di ogni singolo Istituto, costituisce, o più realisticamente dovrebbe costituire, la stella polare che guida il lavoro di tutti i professori nell’arco dell’intero anno scolastico. In base ad essa, in base alla ripartizione trimestrale/quadrimestrale/pentamenstrale, in base ai ponti, alle vacanze e alle pause didattiche, ogni professore può calcolare precisamente il numero delle ore della sua disciplina per ogni classe nella quale è destinato ad insegnare. Con il calcolo del numero delle ore per ogni disciplina, ogni professore, come del resto già abbiamo visto pagine addietro, può mettere nero su bianco il proprio piano di lavoro, nel quale specifica i tempi per lo svolgimento del programma e i tempi e la modalità per l’effettuazione del numero necessario delle verifiche richieste. Allora ogni professore può elaborare una programmazione ripartita in moduli didattici, a loro volta suddivisi in più piccole unità didattiche. Tutti questi calcoli e queste complicate previsioni servono al professore per pianificare una tempistica adeguata affinché al termine di un determinato periodo scolastico ogni studente abbia un numero congruo di valutazioni. Il professore può e deve calcolare tutto questo, ma non può e non deve fare il conto senza l’oste! Un professore che voglia presentarsi in sede di scrutinio interperiodale con un congruo numero di valutazioni non può trascurare infatti che oramai, in tutti gli Istituti Scolastici, a ridosso di un periodo in cui sono previste con maggiore probabilità e frequenza le verifiche in tutte le discipline, gli studenti procedono sistematicamente all’occupazione dell’Istituto stesso, con ciò determinando la sospensione delle attività didattiche. Anche per l’anno scolastico di cui stiamo parlando, come per tutti gli altri anni scolastici precedenti, non mancavano certo motivi occasionali per innescare e legittimare la protesta studentesca: i soldati italiani erano impegnati all’estero per un’iniziativa che i telegiornali dicevano essere di pace, e che in realtà era di guerra -e di guerra neocoloniale-; il Ministero della Pubblica Istruzione aveva proceduto alla razionalizzazione del comparto scuola, ovvero all’effettuazione di tagli del personale che impoverivano sensibilmente la qualità dell’offerta formativa; sempre il Ministero aveva contribuito al potenziamento della libertà delle scelte educative delle famiglie, ovvero all’elargizione di finanziamenti pubblici alle scuole private espressamente condannati dal dettato costituzionale; alcuni termosifoni dislocati nelle classi e nei corridoi non raggiungevano la temperatura prevista dai termini di legge; mancavano i gessi e i cancellini; nel bagno degli studenti al piano terra era stata rilevata la presenza di escrementi di ratto, ecc. La classe docente, d’altra parte, non adottò -nemmeno nel caso che stiamo narrando- un atteggiamento particolarmente 59


ostruzionistico nei confronti della deriva protestataria del movimento studentesco. Nella peggiore delle ipotesi l’occupazione avrebbe garantito la chiusura della scuola almeno per una settimana, con ciò determinando un insperato numero di giorni di ferie retribuite del tutto supplementari rispetto a quelle già previste dal contratto. Fu quindi con una certa trepidazione che il professor Sfaticati, assieme a tutti gli altri colleghi, si recò a scuola ai primi di Dicembre. Dopo settimane intere di attiva sobillazione, dopo aver spiegato agli studenti i motivi degli scioperi cui erano invitati a partecipare, dopo aver detto peste e corna del Ministro dell’Istruzione e della sua linea politica, i professori tutti erano riusciti a convincere la scolaresca dell’assoluta liceità di un’iniziativa di protesta eclatante, protesta da porre in essere nelle modalità più variopinte, non prescindendo però dall’estromissione dall’Istituto Scolastico dell’intero corpo insegnante. Certamente non mancò il caso sporadico di qualche professore che minacciò l’intervento delle forze dell’ordine per ripristinare l’agibilità e la funzionalità dell’edificio scolastico; in particolare la professoressa Sempresei, cui fu impedito l’ingresso dal Servizio d’Ordine allestito dagli studenti nottetempo asserragliatisi nella scuola, urlando e gesticolando come una forsennata insistette affinché si ponesse fine sin da subito a quell’indegna pagliacciata dell’occupazione. Ma gli studenti non vollero sentir ragioni, e la professoressa Sempresei dovette abbandonare il campo di battaglia senza aver messo piede nell’edificio. Ma, al di là della professoressa Sempresei, c’è da dire che sia il Dirigente Scolastico, sia il personale docente, che quello non docente, non riuscivano a darsi pace del fatto che l’occupazione era stata proclamata solamente per una settimana. Girava voce che negli altri Licei romani, evidentemente ben più all’avanguardia, con una coscienza politica molto più radicata ed evoluta, manipoli di studenti avrebbero continuato a bivaccare all’interno delle strutture scolastiche fino all’inizio delle vacanze natalizie. L’occupazione, che ebbe inizio al primo albeggiare di un algido lunedì dicembrino, coinvolse pressoché l’intera scolaresca. Per dovere di cronaca occorre specificare che la protesta riscosse consensi in modo graduale. Il primo giorno, o meglio, la prima notte, furono pochi i pionieri che, dopo aver divelto alcune inferriate che impedivano l’accesso alla scuola da una finestra posta al piano terra sotto le scale di emergenza, si azzardarono ad attestarsi su una testa di ponte all’interno dell’Istituto; e furono ancor meno coloro che al mattino si azzardarono a difendere questa testa di ponte dagli assalti a dir vero un po’ fiacchi del personale tecnico-amministrativo che, con garbo e cortesia, intimava loro di abbandonare l’Istituto. Tra i più arditi occupanti si distinsero per l’eroismo e la tenacia nella lotta ragazzi per lo più adusi all’assunzione di droghe leggere, ma anche quelli che sarebbero certamente risultati del tutto impreparati ad affrontare le verifiche di fine trimestre. A costoro va, senza dubbio alcuno, tributato il plauso generale e riconosciuto il merito di aver iniziato la rivolta. Ma già il giorno successivo quasi la totalità degli studenti, equipaggiati di fornelli, scodelle, pacchi di pasta e ragù preparato appositamente dalle nonne, sacchi a pelo, carte napoletane, scacchi, racchette e palline per giocare a ping pong, spinelli, superalcolici e quant’altro risulta strettamente occorrente a una manifestazione di protesta, si risolse finalmente a pernottare all’interno dell’Istituto. Issata sul comignolo più alto dell’Istituto garriva al vento una bandiera rossa piuttosto improbabile. I vetri dell’ingresso e delle finestre erano stati oscurati con dei fogli di giornale presi chissà dove. La scuola sembrava, o più che altro voleva apparire, una nave ammutinata. All’esterno, già dal giorno dopo, fu affisso un immenso striscione sul quale campeggiava la scritta a caratteri cubitali ‘SKUOLA OKKUPATA’. Il traffico nei pressi dell’Istituto ne risultò congestionato, perché tutti gli automobilisti che passavano di lì ritennero d’uopo fermarsi, abbassare il finestrino, leggere bene la scritta esposta dall’Istituto, per poi ripartire soddisfatti pensando “bisogna avere fiducia nei giovani, meno male in Italia c’è ancora qualcuno che protesta per come vanno le cose”.

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Il primo responsabile dell’organizzazione di tutte le attività connesse all’occupazione fu, manco a dirlo, Ferdinando Bulletti. Dall’alto della sua carica di Rappresentante di Istituto -carica alla quale era stato eletto a furor di popolo appena qualche settimana prima-, era lui a dettare legge, a dire chi dovesse fare cosa, a stabilire quali corsi autodidattici si sarebbero dovuti tenere, a specificare i tempi e i luoghi da approntare affinché qualche forma di didattica alternativa trovasse spazio all’interno di quel rodeo che nel frattempo era diventata la scuola. Finito di parlamentare con la controparte professorale, e dopo aver assicurato al Dirigente Scolastico che l’iniziativa studentesca si sarebbe attenuta alle comuni regole di buonsenso, lo stesso Bulletti, dopo che la parte più lungimirante dei professori e dei bidelli si era già recata presso la stazione metro più vicina, invitò tutto il corpo docente e tutto il personale tecnico-amministrativo ad abbandonare l’edificio. Solo quando tornò all’interno dell’Istituto e chiuse fragorosamente le porte alle proprie spalle tutti ebbero la cognizione che finalmente l’occupazione era veramente cominciata. Sulla testa di Ferdinando Bulletti ricadeva l’intera responsabilità dell’organizzazione; sua era la competenza dell’organizzazione del servizio d’ordine che avrebbe dovuto impedire l’accesso all’Istituto di qualsiasi elemento estraneo; solo con lui se la sarebbe presa il Dirigente Scolastico qualora qualcosa non fosse andata per il verso auspicato; solo lui aveva avvolto in una bustina di plastica, nella tasca posteriore dei suoi jeans strappati, più di qualche grammo di hashish; lui soltanto era il depositario del canovaccio sul quale erano scarabocchiati i titoli dei corsi di didattica alternativa da porre in essere. Come piatto forte era prevista una folta rassegna cinematografica. La scaletta prevedeva, tra gli altri, la proiezione di Tempi moderni, Il cielo sopra Berlino, Underground, Orizzonti di Gloria, Il nemico alle porte e Ben Hur, che sarebbe stato proiettato per propiziare le vacanze di Natale. Oltre alla rassegna cinematografica, il palinsesto prevedeva una varietà assai pittoresca di corsi che si sarebbero dovuti tenere nelle altre aule: un Corso di murales, da tenere grazie all’ausilio di tavole di compensato che sarebbero state divelte da vecchi banchi nei sotterranei della scuola; un Corso di scrittura creativa; un Corso di scacchi, che sarebbe stato organizzato da uno studente bielorusso che millantava una parentela tanto artificiosa quanto improbabile col già campione del mondo Karpov, di età brezneviana; un Corso di educazione alla Costituzione Repubblicana; un Corso di educazione stradale; un Corso sui rischi dell’assunzione e dell’abuso delle sostanze alcoliche e delle droghe; e, per concludere l’elenco, l’immancabile Corso di educazione sessuale. Tutte queste lodevoli iniziative appena dopo un paio di ore erano state annullate. Nonostante la scolaresca, con ordine sorprendente, avesse provveduto a tempo debito ad assieparsi nelle aule dove avrebbero dovuto tenersi questi corsi, e benché gli sgherri di Bulletti responsabili dei singoli corsi avessero preso puntualmente posto nelle aule loro assegnate, non sapendo costoro che dire sulle tematiche poste a dibattito, dopo un paio di minuti di impaccio e di silenzio surreale, tutti gli studenti defluirono alla chetichella chi alla ricerca dei propri amici, chi a vedere se si stava facendo qualcos’altro in qualche altra aula, chi alle macchinette per prendere schiacciatine e merendine varie. Ben presto fu chiaro a tutti che la tabella di marcia così scientificamente pianificata non sarebbe in nessun caso stata rispettata, almeno per quella prima giornata di occupazione. Strani capannelli cominciarono ad assembrarsi nelle aule più periferiche dell’Istituto, al centro dei quali comparvero mazzi di carte napoletane e francesi, risiko e monopoli, scarabei e tabù. Di fronte a questa clamorosa disdetta lo scoramento di Bulletti fu acuto, ma passeggero; dopo una ventina di minuti fu visto con i suoi bravi giocarsi le rispettive laute paghette a poker e alla bestia. Un pensiero fisso lo assillava, al di là del repentino fallimento del suo programma relativo all’occupazione: l’assenza di Cecilia Quattrocchi. Certo, era ancora il primo giorno di occupazione; magari al secondo giorno si sarebbe presentata a scuola per prender anche lei parte a quell’iniziativa collettiva che coinvolgeva in modo così ampio ed entusiasta tutti gli altri compagni. Eppure Bulletti disperava 61


della sua presenza, perché già in tempi non sospetti, prima ancora cioè che si cominciasse a protestare a scuola per i tagli ministeriali e per i termosifoni che non funzionavano, la Quattrocchi aveva scongiurato in tutti i modi Bulletti di evitare, almeno per quell’anno, quell’inutile perdita di tempo in cui invariabilmente si risolveva l’occupazione. E di fronte alla fermezza di Bulletti, che non a caso era risultato il più votato tra gli studenti alla carica di Rappresentante, la Quattrocchi gli aveva detto chiaro e tondo in faccia che mai e poi mai l’avrebbe votato, preferendo piuttosto fare scheda nulla, con ciò ferendo l’orgoglio politico, ma non solo, del futuro Rappresentante degli Studenti. Giocava a poker con i suoi amici, vinceva e perdeva a fasi alterne, ma pensava sempre e soltanto a lei, e pensando e ripensando a lei, a quel suo modo del tutto particolare di stare in classe, a quel suo modo del tutto particolare di prendere appunti e di stare in silenzio durante la lezione, al suo modo del tutto particolare di non ridere alle sue stupide battute, al modo del tutto particolare con il quale manifestava la sua stizza di fronte alle sue insolenze e alle sue marachelle, si rese conto che senza l’odiata Quattrocchi quelle settimane che lo separavano dalle vacanze di Natale sarebbero state le più grigie, le più noiose, le più deprimenti settimane della sua carriera scolastica. Gli amici con i quali stava distrattamente giocando a poker notarono dalla sua lentezza e da alcune sue madornali disattenzioni che aveva la testa fra le nuvole. Inizialmente ne approfittarono tutti, ma quando la paghetta di Bulletti fu totalmente dilapidata e divisa in quattro quozienti uguali tra i suoi amici, e quando Bulletti chiese a prestito ulteriori pecunie per poter continuare la sua disastrosa partita, ritennero unanimemente giunto il momento di sollecitare la conversazione e le confidenze del loro amico. “A Ferdina’, ce o sai che me diceva sempre mi nonno?”, domandò il suo amico Rompini nel momento stesso in cui gli stava rifiutando un piccolo prestito. “Ricordate fijo mio che a carte non è male se perdi, è male se te voi rifa’! Ecco che diceva mi nonno”. Tutti gli altri convennero sul buonsenso del suggerimento, soprattutto perché Bulletti aveva finito i propri soldi e avrebbe dovuto rigiocare con i loro. “Ma dicce un po’! Me sembri un po’ pe’ li fatti tua! Che c’è? Nun te piace come stamo a fa’ l’occupazione? O te rode che stamo a vince noi e tu perdi. E che te frega su, dai tra amici…”. “No, non è per questo…”, disse Bulletti in italiano, abbassando lo sguardo sulle carte francesi oramai lasciate a parte sul banco. “Ah, non è pe’ questo! E allora dicce, che te rode?”. Bulletti a questo punto era un po’ incerto. Non sapeva se confidare o meno il motivo delle sue ambasce a quei suoi amici, con i quali era abituato a condividere un po’ tutti i suoi pensieri, che erano pochi, e le sue buffonate, che erano tante. Alla fine, dopo un tira e molla durato più di dieci minuti, Bulletti chiese loro: “Ma non vi siete accorti che della nostra classe non tutti hanno partecipato all’occupazione?”. I suoi amici rimasero tutti in silenzio, interdetti, e presero a guardarsi l’un l’altro negli occhi. “A Ferdina’-gli fece uno di loro- ma gnente gnente te fossi innamorato de Cecilia, quella secchiona?”. Qui la risposta più esaustiva consistette nel silenzio dell’interpellato. Fracassi e Molesti cominciarono subito a sghignazzare, dando a Bulletti vigorose pacche sulla spalla, ma Rompini li richiamò subito all’ordine e al decoro, intimando loro, e fu sufficiente un’occhiataccia, di non stuzzicare il loro compagno. “A Ferdina’-gli chiese a questo punto Rompini- te piace proprio tanto, eh? Ce o sai che è addamo’ che me n’ero accorto! E lei, gnente? Nun ce sta?”. 62


“Veramente…-rispose Bulletti sempre in italiano-…non saprei che dirvi. Non gliel’ho mai detto chiaramente che mi piace. Con lei è come se avessi un blocco”. “Tu un blocco! Ao’, ma come parli! Ma quale blocco ao’, a’ li morta’…”. “E finiscila!!!”, intervenne di nuovo Rompini per far star zitto Fracassi. “E dimme un po’…continuò Rompini-…e nun te pare il caso de dije quarcosa alla pischella?”. “Sì c’hai ragione…-rispose Bulletti-…ho pure provato a parlarle, ma lei mi mortifica sempre con quel suo sguardo! Mi pare che le faccio un po’ ribrezzo”. “Ribrezzo, ao’, li mortacci tua…”. “Finiscila Ricca’, che mo’ te tiro un pugno! Senti Ferdina’…-continuò Rompini, che quella mattinata si sentiva in dovere di suggerimenti-…ma perché non la chiami e la fai venire a scuola, magari che ne sai, vallo a sape’, senza professori se sblocca, po’ esse che diventa ‘na tipa normale…”. Il suggerimento non dispiacque affatto a Molesti e Fracassi, i quali, per esternare la loro assoluta condivisione, cominciarono a dare pacche sempre più frequenti e sempre più violente sulle spalle di Bulletti, dicendogli “daje Ferdina’, daje che ce sta’…”, “daje Ferdina’, nun te fa frega’…”. Bulletti, dopo aver tirato un paio di pugni sul petto di Molesti e Fracassi un po’ per farli tacere e un po’ per pareggiare il conto, ci pensò un po’ su, ma alla fine si convinse anche lui della bontà dell’idea. Si alzò quindi dal banco, prese il telefono, si allontanò dai propri amici fino a guadagnare l’uscita nel corridoio, e, con la mano un po’ tremante per l’emozione e la voce un po’ troppo metallica per l’assoluta assenza di salivazione, alla fine riuscì a chiamare Cecilia Quattrocchi, la quale prontamente rispose al telefono. C.Q. “Pronto?”. F.B. “Cecilia, sei tu? Ti disturbo?”. C.Q. “Sì sono io, ma tu chi sei?”. F.B. “So’ Ferdinando, il tuo compagno di banco. Non mi riconosci?”. C. Q. “Ah sì Ferdina’, dimmi…”. F. B. “Senti Ceci’, ma perché non sei venuta a scuola oggi?”. C. Q. “Come perché non sono venuta! Lo sai, no? Già te l’ho detto! Sono contraria all’occupazione. E’ solo una perdita di tempo. Preferisco rimanere a casa a studiare latino piuttosto che stare là a perdere tempo con tutti quegli esaltati…”. F. B. “Ma dai Ceci’… Della classe nostra manchi solo tu!”. C. Q. “E con questo? Cosa vuoi che mi interessi che tutti gli altri stanno lì! Sono tutti degli stupidi che non hanno voglia di far niente!”. F. B. “Ma dai, non dire così Ceci’… E poi mica stiamo qui senza far niente… Abbiamo organizzato tanti corsi: di scacchi, di scrittura creativa, di educazione stradale… C’è pure una rassegna cinematografica…”.

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C. Q. “Ferdina’, non mi interessa. Già te l’ho detto. Per me è solo una perdita di tempo”. F. B. “Senti Ceci’, ho capito come la pensi, ma posso chiederti almeno una cortesia?”. C. Q. “Dimmi, che ti serve?”. F. B. “L’occupazione qui non so fino a quando regge. Poi quando ricominciano le lezioni i professori ce devono ‘nterroga’ un po’ in tutte le materie… Non è che mi potresti porta’ gli appunti di filosofia, che Sfaticati mo’ che se riapre la scuola sicuramente me vole senti’?”. C. Q. “Gli appunti di filosofia? E adesso te lo ricordi? Non me li potevi chiedere prima?”. F. B. “Sì c’hai ragione, ma prima nun c’ho pensato… Magari passi solo un minuto, mi lasci gli appunti, e poi se vuoi restare resti sennò se non ti va puoi anche andar via”. Cecilia Quattrocchi, mai insensibile alle richieste, per quanto strumentali, di un sostegno didattico dei suoi compagni di classe, acconsentì alla proposta. C. Q. “Va be’ Ferdina’. Ma quando vuoi che te li porti?”. F. B. “Ceci’, prima è, meglio è. Non ho fatto niente dall’inizio dell’anno, ho una marea di argomenti da studia’. Puoi veni’ stamattina?”. C. Q. “No stamattina non posso”. F. B. “E perché non puoi?”. C. Q. “Stamattina non posso e basta!”. F. B. “E allora domani mattina, per te va bene?”. C. Q. “Sì, domani mattina ce la dovrei fare. Ti trovo a scuola?”. F. B. “Certo che mi trovi a scuola. Qui senza di me fanno solo casino!”. C. Q. “Eh, certo, me l’immagino…”. F. B. “Cosa? Che vòi di’?”. C. Q. “Niente, niente, non voglio dire niente. Senti, ma quali appunti ti devo porta’ di preciso? Ne sono una montagna!”. F. B. “Come quali? Tutti!”. C. Q. “Ferdina’ ma ti rendi conto di quanta roba è? Non farai mai in tempo a studiarti tutto!”. F. B. “Tu nun te preoccupa’, ce penso io, tu porta che poi ce penso io, ok?”. C. Q. “Ma almeno la capisci la mia grafia?”. F. B. “Certo che la capisco, ho telefonato a te apposta, proprio perché capisco la grafia!”. C. Q. “Vabbè’ faccio finta di crederci. Però ascolta un consiglio di un’amica che ti vuole bene: anziché sparare palline con la cerbottana come un cretino dovresti fare quello che faccio io, in classe, e cioè stare attento e prendere appunti. E piuttosto, sei sicuro che pur capendo la grafia poi 64


capisci anche il significato di quello che c’è scritto? Quante volte te l’ho detto che filosofia non è storia, né storia dell’arte, e che gli appunti te li devi prendere da solo con la tua manina, perché sono cose assolutamente personali?”. F. B. “Va be’ tu non ti preoccupare che questi poi so’ affari mia”. C. Q. “Va be’, se lo dici te. Dai domani mattina vengo a scuola e ti lascio tutti gli appunti…”. F. B. “Sì va bene. Rimaniamo d’accordo che quando sei davanti alla scuola mi fai uno squillo, così vengo ad aprirti la porta, ok?”. C. Q. “Va bene Ferdina’. Arrivo verso le 9.00. Ti faccio uno squillo e mi fai aprire”. F. B. “Grazie Ceci’, sei ‘na fata. Ti aspetto domani, mi raccomando… sei la mia unica salvezza!”. C. Q. “Sì Ferdina’ non t’allarga’!!! Ci si sente domani, ciao”. F. B. “Grazie Ceci’, a domani, ciao!”. Per tutto il resto della giornata Bulletti non pensò ad altro che a questa telefonata appena conclusa. Ne ponderava gli aspetti più reconditi, cercando di ricordare il tono della voce assunto da Cecilia nei vari momenti della conversazione; rifletteva sulle sue allusioni, e sugli eventuali doppi sensi presenti nelle sue enigmatiche risposte. A dire il vero di enigmatico non c’era un bel niente, ma nella situazione emotiva in cui versava l’animo di Bulletti anche le affermazioni più lapalissiane sembravano meritevoli di una sistematica esegesi filologica. Per tutta la giornata continuò a dare indicazioni e delucidazioni sul da farsi a tutti i suoi amici incaricati di allestire il Servizio d’Ordine nell’Istituto. Rompini, Fracassi, Molesti, Baruffa, Scimia, Bagordi, Casini, Pasticci e tanti altri ancora continuarono a rivolgersi a lui per chiedere cosa occorresse fare nelle varie aule, e soprattutto se era ancora il caso di fare qualcosa, in quello stato di anarchia generalizzata. “L’importante -chiarì Bulletti- è che nessuno entri in Sala Docenti, negli Uffici della Presidenza e della Segreteria. Nessuno deve scrivere sulle pareti, sporcare o danneggiare la scuola. Dobbiamo poter dimostrare ai proff, e in particolare alla professoressa Sempresei, che siamo ragazzi responsabili, maturi e disciplinati!”. Nel frattempo però nelle aule già erano state bevute le prime bottiglie di birra e l’alcool cominciava a dare alla testa, in ciò aiutato da qualche spinello che baluginava tra le bocche dei più lascivi e che immediatamente prendeva vie traverse sotto i banchi delle classi descrivendo una traiettoria approssimativamente circolare. Tuttavia la situazione appariva sotto controllo, almeno fino alla metà mattinata. Benché le attività programmate, fatta eccezione per il Corso di scacchi e per la Rassegna cinematografica, erano state immediatamente rinviate a data da destinarsi, la scolaresca, nel complesso, stentava ad assumere un atteggiamento degenerato. Durante il pomeriggio affluirono altri ragazzi, incoraggiati dalla notizia che, in fin dei conti, i proff avevano lasciato correre, con ciò autorizzando implicitamente un’occupazione che buona parte degli studenti stessi, segretamente, reputava una bricconata. Arrivarono per lo più in macchina, accompagnati dai genitori, i quali, reduci da un’adolescenza ben più traviata dagli eccessi rivoluzionari di un tempo, non potevano far altro che plaudere a quell’iniziativa di protesta. Sapevano anche loro, però, che il senso di quell’occupazione era più da ricercare nel desiderio di mantenere vive tradizioni oramai in disuso, che quello di protestare contro le ‘riforme’ e i ‘tagli’ del ministero di cui nessuno, tra gli studenti, aveva piena cognizione. In fin dei conti per molti l’occupazione altro non era che l’espressione di un bieco tradizionalismo, contrabbandato per un momento di riscatto generazionale.

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A tutti i ragazzi che presero parte all’occupazione fu chiesto di sborsare un piccolo contributo in denaro, la cui finalità consisteva nella creazione di un fondo di garanzia utile a risarcire la scuola per eventuali danni alle strutture didattiche e agli arredi. Col calar della sera, essendo andato a ruba l’insufficiente vettovagliamento custodito nelle macchinette erogatrici, al termine di una riunione del Servizio d’Ordine durata quasi due ore -riunione contraddistinta da violentissimi alterchi e da ampie divergenze di vedute-, Ferdinando Bulletti sottopose all’approvazione del suo personale Comitato Centrale il seguente Ordine del Giorno, che sbalordì tutti per la puntigliosità burocratica con la quale era stato redatto: “Attesa la preponderanza dei ragazzi delle quarte e delle quinte rispetto ai più piccoli delle prime tre classi; vista l’impossibilità di poter cucinare per tutti nello stesso spazio e nella medesima pentola; attesa l’opportunità di non creare pericolosi assembramenti nei pressi delle cucine da campo; preso atto della quantità e della qualità della pasta; constatata l’insufficienza del ragù per tutti; visto che tutti comunque hanno una fame da lupi; si dispone quanto segue: i fornelli elettrici, le pentole, i piatti e i bicchieri di plastica, insomma tutto l’occorrente per la cena deve essere immediatamente diviso in due parti uguali e dislocato sia sul secondo che sul terzo piano; i ragazzi dei primi tre anni, coordinati da Fracassi, Molesti, Rompini e Pasticci del Servizio d’Ordine, devono provvedere a cucinare 8 Kg di mezzemaniche in un’aula del secondo piano, mentre i ragazzi del quarto e del quinto, al terzo piano provvederanno a fare altrettanto; ai ragazzi del primo triennio si garantisce il condimento a base di ragù di cinghiale, mentre ai ragazzi dell’ultimo biennio si provvede a garantire un condimento assai semplice composto di aglio, olio e peperoncino”. “Te le magni te le mezze maniche ajo, ojo e peperoncino!”, sbottò una studentessa del quarto. “Che schifo, io me ne vado a magna’ a casa!”, proruppe una ragazza piuttosto panciuta del terzo anno. “A me nun me piace er sugo cor cinghiale”, protestò un ragazzetto del primo. E mentre qualcuno, tra i più lungimiranti, cominciò ad estrarre dal proprio zaino un panino portato da casa, si decise comunque di passare alla votazione dell’OdG. Con 7 voti favorevoli, 9 contrari e due astenuti, il Comitato Centrale respinse la proposta! Qualcuno dei presenti, visto l’esito inaspettato della votazione, sobillò tutti gli altri, e pian piano, in tono prima sommesso, poi sempre più ammiccante e allusivo, cominciarono a diffondersi voci incontrollate: Bulletti avrebbe dovuto lasciare la guida dell’occupazione; le sue proposte non costituivano la sintesi della volontà del Comitato Centrale, né favorivano i necessari sbocchi unitari; Bulletti sapeva che il ragù di cinghiale non era buono, ecco perché voleva darlo in pasto ai ragazzi dei primi tre anni; se si fosse sequestrato e aperto lo zaino di Bulletti chissà quante leccornie si sarebbero trovate. Bulletti si trovava ad un passo dal perdere la fiducia di tutta la scolaresca, quando, con un autentico stratagemma politico di cui possono dar sfoggio solo i grandi statisti, riuscì in men che non si dica a far tacere i frazionisti e a recuperare le credenziali perdute e a mettere tutti d’accordo. 66


Il Macdonald lì a duecentocinquanta metri non era ancora chiuso. Bastava stornare una parte della somma in giacenza nel deposito raccolto per l’eventuale riparazione di danni che nel frattempo non erano stati ancora posti in essere, e si sarebbe poi incaricato lui di prendere oddogg, cisburgher, cocacole, patatine e quant’altro risultasse tra i desideri dei commensali, e tutti sarebbero stati felici e contenti. La proposta fu approvata per acclamazione dagli astanti, e Bulletti fu portato in trionfo per tutti i corridoi dell’Istituto. La nottata trascorse in modo relativamente tranquillo, fatta eccezione per una prima dozzina di ragazzi che lamentò dopo cena acute fitte allo stomaco e di una seconda dozzina di altri ragazzi che lamentò il fatto che i bagni erano sempre occupati dagli stessi ragazzi della prima dozzina. La mattina seguente Bulletti, che per l’agitazione dovuta alle pendenti responsabilità che si era assunto non aveva dormito, si alzò molto presto dal suo spartano giaciglio -si era coricato in un sacco a pelo mezzo strappato, sotto una cattedra. Mentre tutti gli altri ragazzi dormivano, perlustrò tutte le aule dell’Istituto per sincerarsi della situazione, e con sollievo si rese conto che, almeno fino a quel momento, nessuno si era fatto male e nessuna delle strutture scolastiche era stata ancora imbrattata, manomessa, divelta o danneggiata. Pian piano tutti i ragazzi cominciarono a destarsi dal loro torpore, ma non sapendo proprio cosa fare e per quale motivo doversi alzare, preferirono rimanere distesi sui loro piumoni e sulle loro coperte facendo finta di dormire ancora per un po’. Quando proprio non se ne poteva più di stare sdraiati, i ragazzi più irrequieti cominciarono ad alzarsi e ad affluire nei bagni per darsi una sommaria lavata, in ciò emulati da tutti gli altri che ben presto scattarono in piedi e cominciarono a prendere a calci quei pochi che ancora veramente dormivano. E tra calci, brontolii, minacce e risate cominciò la seconda giornata dell’occupazione. Bulletti quel giorno aveva altro a cui prestare bada, che non a quei mocciosi che per i corridoi dell’Istituto cominciavano già a fare un trambusto indicibile. Alle 9.00 sarebbe arrivata Cecilia con i suoi appunti di filosofia. Ma il pensiero che lei, Cecilia, sarebbe entrata a scuola, e che lei, Cecilia, avrebbe visto, osservato, e infine giudicato lo stato dell’arte dell’occupazione lo pungolò nel suo orgoglio più intimo. Era a tutti i costi necessario ristabilire immediatamente l’ordine e far partire i corsi di didattica alternativa di cui aveva assicurato l’efficacia e lo svolgimento per telefono alla sua compagna di banco. Convocò immediatamente un consiglio di guerra. Molesti, Fracassi, Casini, Pasticci furono però gli unici a presentarsi nei tempi prescritti dall’ordinanza, mentre degli altri si perdettero misteriosamente le tracce. Grazie all’aiuto dei suoi più fidati collaboratori, Bulletti riuscì a dare una svolta e un senso all’andamento di quell’occupazione. Tutti i corsi furono avviati nei tempi e nei modi opportuni. Grazie alla politica del bastone e della carota, delle minacce e delle lusinghe, la quasi totalità degli studenti prese effettivamente parte alle iniziative del palinsesto, e laddove i relatori e i referenti difettando in stile e retorica rimanevano tragicamente in silenzio, si ovviò al fallimento del corso attraverso l’adozione di una modalità assembleare. Quando sul telefonino cellulare di Bulletti apparve il nome di Cecilia immediatamente seguito da un solo squillo, all’interno dell’Istituto tutte le attività autodidattiche procedevano speditamente e in modo ottimale. In Aula Magna era da poco cominciata la proiezione del film Orizzonti di Gloria, di Kubrick. Tutte le altre aule erano stracolme di studenti che discutevano vivacemente tra di loro delle più complesse problematiche relative all’educazione stradale, dei diversi stili della scrittura creativa, di educazione sessuale e dell’opportunità dell’uso della pillola del giorno dopo già a sedici anni, dell’apertura di Donna e dell’opportunità dell’Alfiere Bianco in g5 come immediata risposta al Cavallo Nero in f6. Checché se ne dica, i problemi dei giovani sono assai più complessi e variegati di quel che a prima vista non sembri a noi adulti. Mentre si stava avviando verso l’ingresso dell’Istituto per dare il benvenuto in qualità di più alto ufficiale in comando alla sua compagna di scuola, Bulletti ritenne opportuno passare prima un 67


attimino in bagno per darsi una sistemata ai capelli e per controllare allo specchio che tutto il suo abbigliamento non presentasse macchie di caffè, di birra o di altro. Sinceratosi del carattere assolutamente intonso e inappuntabile dei tessuti della sua camicia e dei suoi jeans, si guardò fisso negli occhi, cercò di farsi coraggio, e dopo aver deglutito pavidamente si avviò senz’altro indugio là dove Cecilia lo stava presumibilmente aspettando. Tuttavia, dopo che ebbe aperto il portone, si rese conto che Cecilia non c’era. Ancora non era arrivata. La vide poco dopo avvicinarsi con passo solerte, con la sua solita composta andatura, coi i capelli che un po’ le ondeggiavano sulle spalle, e con la gonna che le si scompigliava sulle ginocchia; il tutto mantenendo un equilibrio dinamico che la rendeva ai suoi occhi a dir poco sgranati ancor più desiderabile. “Senti Ferdina’-esordì la Quattrocchi quando oramai era a pochi passi da lui- questa è la prima e l’ultima volta che mi chiedi una cosa del genere. Non puoi immaginare i casini che hanno fatto a casa quando gli ho detto che sarei venuta qui a portarti gli appunti!”. “E che casini? Che problema c’è? Ci vieni ogni giorno a scuola!”. “Ma che c’entra. Vengo ogni giorno a scuola quando c’è scuola, non quando è occupata. Poi lo sai i miei come la pensano!”. “Cioè, che pensano, dimme ‘n po’?”. “Mio padre voleva andarvi addirittura a denunciare per interruzione del pubblico servizio, e t’ho detto tutto!”. “Ehhh, esagerato tuo padre. Ma quale interruzione di pubblico servizio. Qui stanno tutti a lavora’ più degli altri giorni. Vedessi le conferenze, i corsi, i dibattiti. E’ pieno così di ragazzi che non fanno altro che sta’ a scuola, senza quei tromboni dei proff che si parlano addosso per ore ed ore quando vengono in classe!”. “Mah, sarà… Comunque eccoti questi appunti…”, e dicendo questo si liberò dello zaino, e da questo estrasse un faldone di fogli che consegnò subito a Bulletti. Rimasero per qualche secondo così, con gli appunti tra le mani, evidentemente non sapendo più cosa dirsi. “Be’, adesso me ne devo andare”, disse Cecilia, ma non in tono molto convincente. “Ma dai -la incalzò Ferdinando- ci stanno tutti a scuola… Non vuoi entra’ a vede’ quello che stanno a combina’? Stanno tutti buoni, fanno meno casino adesso che quando c’è scuola normale”. Rosa dalla curiosità, dopo qualche resistenza di prammatica, Cecilia alla fine accettò l’invito, a patto che la sua presenza nell’Istituto non diventasse di dominio pubblico, e che nessuno l’avrebbe ridetto a suo padre, il quale, della non partecipazione della figlia all’occupazione, ne aveva fatto un punto d’onore. Quando Cecilia varcò la soglia dell’Istituto, fu con una certa sorpresa che constatò l’assoluta veridicità delle parole di Ferdinando. Lei si aspettava di vedere finestre rotte, pareti imbrattate, termosifoni divelti, palline di carta e sporcizia in tutti i corridoi, ragazzi che fumavano, che bevevano e che si drogavano! E invece notò con una certa curiosità mista a sollievo che nulla, ma proprio nulla di tutte queste sciagurate previsioni alle quali era stata indotta dalla propaganda paterna si era alla fine concretizzata. Ferdinando lesse nei suoi occhi la migliore approvazione per l’iniziativa che grazie alla sua tenacia e al suo sforzo organizzativo era stata posta in essere, e inorgogliendo acquisì maggiore fiducia in sé e nelle proprie potenzialità ammaliatrici. 68


La accompagnò prima in Aula Magna, dove si stava proiettando un bellissimo film, e poi nelle altre aule; in tutte la partecipazione degli alunni era evidente e costruttiva. Finito il giro di perlustrazione, Ferdinando propose ad una rasserenata Cecilia di prendere con lui uno squisitissimo caffè alla macchinetta erogatrice dell’Istituto, e lei stranamente accettò. Gli pareva di toccare il cielo con le dita. Giunti nei pressi della macchinetta erogatrice, Ferdinando, che si era offerto cavallerescamente di essere lui ad offrire il caffè, per darsi un contegno più degno di stima largheggiò in pecunia e infilò più monete del necessario nella debita fessura: ma alla fine esagerò. Con le numerosissime monetine provenienti dal resto ancora in una mano, e i fogli degli appunti nell’altra, appena Ferdinando ebbe tra le sue mani già ingombre il caffè bollente che avrebbe dovuto porgere a Cecilia, si voltò sorridendo verso di lei. Lei, però, nel frattempo si era lievemente inginocchiata per raccogliere altre monetine di resto che la macchinetta continuava a ricacciare, e fu proprio in questo preciso istante che, forse rapito dalla panoramica offerta dalla scollatura della sua compagna di banco, Ferdinando rimase per qualche secondo di troppo con il caffè in mano fino a ustionarsi. Appena il dolore si fece più lancinante e superò in intensità l’interesse verso la scollatura della compagna, Ferdinando aprì la sua mano e fece cadere non solo il caffè, ma anche le monetine e gli appunti di lei, e fu con un avvilente sconforto che sia Cecilia, ma più Ferdinando, si accertarono che il caffè andò proprio a rovesciarsi sugli appunti di filosofia! “Ma che hai fatto? Sei proprio un cretino!”, urlò Cecilia a Ferdinando, immediatamente accasciandosi sui suoi appunti per cercare di salvare il salvabile. Ferdinando rimase di sasso. “E che fai? -gli urlò, ma non in modo sgarbato, Cecilia, agitatissima-…non mi aiuti a raccoglierli e a pulirli? Su sbrigati!”. Ferdinando sì precipitò subito sui fogli tutti inzaccherati, ma il suo sguardo non era rivolto verso ciò che andava distrattamente raccogliendo, ma di nuovo sulla camicetta scollata, su quella camicetta scollata più che mai. Cecilia presto si accorse, dal disordine e dall’impaccio con i quali procedevano le operazioni di recupero del materiale didattico poste in essere dal suo compagno, delle attenzioni cui era sottoposta, e dopo un attimo di esitazione si risolse a tirare un tremendo scappellotto a Ferdinando, il quale, perso il precario equilibrio cadde sul suo deretano; dopo un momento di comprensibile smarrimento ebbe un sussulto e finalmente tornò in sé. “Be’, che c’hai, adesso mi tiri pure gli schiaffi?”, chiese, sorpreso, Ferdinando a Cecilia. “Ma quali schiaffi? Uno schiaffo! E poi te lo meriti! Cosa stavi guardando, dimmi un po’?”. “Io? Niente!”. “Seee seee, niente, lasciamo perdere va’ che è meglio”, e dicendo questo la ragazza si rialzò in piedi, subito seguita da Bulletti. “Ecco, vedi che hai fatto! Per guardarmi là dove non dovresti mi hai sporcato tutti gli appunti! Sei proprio maldestro, Ferdina’!”. “Maldestro?”. “Sì! Maldestro!”. “Va be', passi il maldestro, ma io non stavo guardando proprio un bel niente”, perorò timidamente Bulletti, rimettendosi in cuor suo alla clemenza della corte. “No, tu invece stavi guardando eccome, ti ho visto!”. Colto in castagna, e non sapendo proprio cosa altro dire, Bulletti, con un rigurgito di orgoglio mascolino di altri tempi, cercò allora di prendere il toro per le corna!

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“Be’, sì, stavo a guarda’! Che nun se po’? Me voi tira’ un altro schiaffo adesso?”. “Lasciamo perde’ Ferdina’! Eccoti i tuoi appunti… Io me ne vado”, e fece per voltarsi e per andarsene. “No! Aspetta Ceci’! Addo’ vai? Dai ti chiedo scusa non lo faccio più, ok? Su ti prego scusami!!!”. Addolcita dalla inaspettata retromarcia del suo compagno, la pudica Quattrocchi si voltò e gli sorrise timidamente. Rinfrancato, Bulletti la invitò di nuovo ad andare con lui per verificare assieme a lei se sarebbe stato in grado di decifrare quegli appunti. Entrati nell’aula più vicina, si sedettero uno di fronte all’altra con gli appunti adagiati su un banco posto in mezzo tra di loro, e cominciarono a sfogliare e ad asciugare tutti quei fogli, fino a riordinarli perfettamente. “Ecco -disse Cecilia sfogliando tutto il faldone sotto gli occhi attenti di Ferdinando- questi sono gli appunti che ho preso dalla prima lezione di Sfaticati fino all’inizio di quest’occupazione. Vedi un po’ se li capisci. Leggi un po’ ad alta voce, su…”. Il capriccio della sorte volle che tra le tante possibili lezioni che potevano esser sottoposte, in quel particolare frangente, all’attenzione di Bulletti, fu proprio della seguente che fu costretto a dare lettura di fronte alla sua desiderata Quattrocchi. IN GUERRA OGNI BUCO E’ TRINCEA? La questione appena posta è stata spesso trascurata dalla più raffinata speculazione. Eppure, per le implicazioni di natura esistenziale, essa avrebbe meritato, nel corso della storia della filosofia, un approfondimento che troppe volte è mancato. Fuor di metafora, chiedersi se ‘in guerra ogni buco è trincea?’ equivale a chiedersi se nell’amore deve considerarsi naturale e ‘conveniente’ la fedeltà oppure il tradimento! Molte volte, in problematiche comportamentali, si è fatto riferimento alla psicologia animale per comprendere quale dovrebbe essere la condotta dell’uomo da ritenersi naturale. Provenendo dalle scimmie, l’uomo ha infatti mantenuto un apparato istintuale in molto simile a quello di tutti gli altri animali; ragione, questa, che spinge molti studiosi a risolvere la summenzionata questione, e con essa molte altre analoghe, ricorrendo all’osservazione della condotta animale. Ma in questo caso nessuna forma di ‘psicozoologia comparata’ ci verrebbe in aiuto, per il semplice fatto che in natura sono presenti tanto delle specie che fanno della ‘fedeltà coniugale’ la norma, quanto altre specie che ne fanno l’eccezione. Schopenhauer pensò allora di risolvere la questione differenziando quella che dovrebbe essere considerata la condotta ‘naturale’ per gli uomini e per le donne. Per il filosofo tedesco, se per la donna è naturale la fedeltà coniugale, per l’uomo risulta invece naturale il tradimento. Lungi dall’essere animato da gretti pregiudizi maschilisti, Schopenhauer riteneva che al fine di una più sicura propagazione della specie risulta conveniente che la donna rimanga fedele all’uomo che l’ha fecondata, mentre (sempre per lo stesso fine) risulta ancor più conveniente che l’uomo adotti, per così dire, una morale più libertina, e faccia del tradimento, o, se vogliamo, della varietà e della molteplicità delle esperienze sessuali, la norma anziché l’eccezione. La donna, rimanendo fedele all’uomo che l’ha fecondata, tende per natura ad assicurare alla nascitura prole sicurezza e alimentazione, e quindi la sopravvivenza; l’uomo, d’altra parte, mantenendosi infedele, potrà fecondare quante più donne possibili ed assicurare alla specie una maggiore continuità e una più sicura propagazione. Del resto, argomenta il filosofo, l’infedeltà della donna è assolutamente innaturale! In un anno una donna può al massimo procreare un altro individuo (fatta eccezione per i parti gemellari), mentre un uomo, per lo stesso periodo, può in teoria generare 365 figli, se non addirittura un numero maggiore. E’ allora evidente che per i fini naturali (che molta parte hanno nel 70


predeterminare le nostre più recondite tendenze comportamentali e sessuali), la donna tende alla fedeltà in amore, e quindi a legarsi per un’intera esistenza all’uomo che l’ha fecondata, mentre l’uomo tende, per natura, ad essere infedele. Non a caso, sostiene Schopenhauer, l’amore della donna aumenta dal momento in cui essa si concede per la prima volta, mentre l’amore dell’uomo, dallo stesso momento, tende significativamente a scemare e a rivolgersi, con l’ausilio di un po’ di sambuca, verso ulteriori, diverse e più allettanti conquiste. Questa sfrontata conclusione, che tanto farà crucciare il gentil sesso, trova la sua giustificazione nell’impostazione generale della metafisica della sessualità del filosofo. L’amore, per Schopenhauer, non è altro che l’inganno, posto in essere dalla Natura, per far sì che, pur a scapito dell’interesse dell’individuo, la specie si propaghi. Laddove l’individuo crede di realizzare se stesso, la propria personalità, la propria passione, il proprio stesso essere, laddove l’individuo crede di trovare il suo supremo completamento (ovvero nell’amore), per Schopenhauer l’individuo non fa altro che perseguire i fini più alti della Natura in generale, e della Specie in particolare. Se l’essenza stessa della Realtà si configura come l’interesse della Specie e della Natura, che non è altro che la propagazione di una cieca e irrazionale volontà di vivere, allora è evidente che l’amore risulta essere quell’inganno, perpetrato ai danni dell’individuo, con il quale il Genio malefico della Natura fa sì che, servendosi delle stupide passioni di ognuno di noi, la Natura propaghi se stessa, e con essa la cieca e irrazionale volontà di vivere. Insomma, essendo l’uomo uno zimbello inconsapevole di una volontà di vivere cieca e infinita che domina la natura, allora risulta necessario concludere che per l’uomo è giusto dire che ogni buco è trincea! La lettura che fu data al testo da parte di Bulletti fu ritenuta da entrambi passabile. I lettori ci perdoneranno se si è ritenuto opportuno riportarne integralmente il testo, ma lo si è fatto perché il contenuto di questa lezione fu oggetto di uno scambio di vedute assai significativo tra Bulletti e Quattrocchi. “Hai capito quello che dice Schopenhauer, Ferdina’?”, chiese, incuriosita, Cecilia Quattrocchi. “Certo che l’ho capito, mica sono scemo come pensi!”. “E tu sei d’accordo con lui?”. Bulletti, non lo disse, ma si era appena scoperto uno schopenhaueriano di ferro, o almeno aveva creduto, leggendo il testo della lezione, di trovarvi in essa racchiuse tutte le sue convinzioni pregresse relativamente alla naturale disinvoltura del rapporto tra i sessi. Ma di fronte allo sguardo scrutatore di Cecilia, queste convinzioni pregresse gli si sciolsero come neve al sole. Rimase per lungo tempo in silenzio, a riflettere, e alla fine le rispose: “No Cecilia, io non sono d’accordo con Schopenhauer”. “Ah no, e perché?”, incalzò la Quattrocchi. “Perché io quando amo una ragazza amo solo quella ragazza!”, e rombo di tamburi nei cuori, “Cecilia, io ti amo!”. Accostatosi trepidamente a lei, prese coraggio e la baciò dolcemente sulla bocca. *

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Completamente assorbito dal mistico e lieto ricordo del bacio un po’ strappato e un po’ concesso dalla sua Cecilia Quattrocchi -che poi era frettolosamente scappata via dall’Istituto, piangendo e ridendo-, Bulletti abdicò dal suo ruolo di guida indiscussa della scolaresca, risultata abbandonata a

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se stessa. Non volle più sentire niente e nessuno, appariva a tratti nervoso, a tratti isolato, sfuggiva tutti i suoi amici, non parlava più con nessuno, e quelle poche volte che parlava, parlava in italiano. L'occupazione dell'Istituto si concluse la notte stessa, con un nulla di fatto. Le rivendicazioni a dir poco aleatorie degli studenti furono senz'altro accantonate, innanzitutto dagli studenti stessi, i quali, stranamente appagati per la chiusura di due giorni della scuola, e preoccupati dai furti e dai danneggiamenti alle strutture posti in essere da elementi esterni arrivati dalle borgate più problematiche di Roma e fatti tranquillamente entrare all’interno dell’Istituto, decisero senz'altro indugio di riprendere le normali attività didattiche. Fu con un certo disappunto che tutti gli insegnanti dovettero precipitarsi a riprendere il servizio. Il Collegio Docenti che seguì la riapertura della scuola analizzò con dovizia di particolari le conseguenze più immediate dell'occupazione, o meglio, della sua degenerazione: quattro computer e due stampanti erano spariti dall'aula informatica; i cassetti dove i professori custodivano i loro registri erano stati divelti; alcuni registri risultavano dispersi, mentre altri erano cosparsi di improbabili ‘8’; le pareti dei bagni delle ragazze al terzo piano erano state prese a martellate; i servizi igienici nei piani restanti resi pressoché inservibili; la scuola ridotta a un qualcosa di molto simile a un letamaio. In questo difficile contesto ambientale il Dirigente Scolastico pregò vivamente tutto il personale docente e non docente di assumere una linea di fermezza esemplare. Occorreva interrogare in tutte le discipline tutti gli studenti che si erano resi protagonisti in questa inaudita vicenda; occorreva punire i responsabili di tanto obbrobrio, attraverso la fissazione di compiti in classe a sorpresa, attraverso la sistematica verifica su tutto il programma svolto, attraverso la sospensione di quei 'benefici di legge' -così li definì il Dirigente, come se stesse parlando di prigionieri politici, riferendosi a ingressi posticipati e a uscite in anticipo- che avrebbero impedito un regolare dispiegamento dell'attività didattica, educativa e punitiva. Il Dirigente, infuriato per il modo e la peculiarità con cui si era realizzata la devastazione logistica e morale dell'Istituto da lui presieduto e di cui, alla fin fine, già sapeva che avrebbe dovuto rispondere nelle sedi competenti, invitò inoltre tutti i Coordinatori di Classe a recarsi in separata sede presso gli Uffici della Presidenza, dove sarebbe stata consegnata loro una specie di lista di proscrizione, lista contenente i nomi degli studenti che più degli altri si erano esposti politicamente durante le prime fasi dell'occupazione; verso costoro, concluse minacciosamente il Dirigente Scolastico, alzando un indice in aria, non sarebbe stato in nessun caso tollerato un atteggiamento ecumenico. Quando il Dirigente Scolastico ebbe terminato l’esposizione dei provvedimenti da adottare per non lasciare impuniti i responsabili di tanto degrado, il Collegio Docenti finalmente si sciolse, con un ritardo di più di due ore rispetto all’orario previsto. Un corpo docente stordito dal tono inaspettatamente aggressivo e minatorio della lunga relazione del Dirigente, abbandonata l’Aula Magna si accingeva a guadagnare l’uscita in modo stranamente silenzioso, in una cupa e angosciata atmosfera. A tutti i professori era assegnata l’ingrata missione di rientrare nelle rispettive classi dovendo recitare un incomodo ruolo punitivo, non adatto a chi, da quella occupazione, aveva beneficiato di un paio di giornate di ferie impreviste e retribuite. Ma sia per queste considerazioni, sia per la innata inclinazione di larga parte degli insegnanti a condonare quanto prima e quanto meglio le colpe degli studenti, passò appena qualche giornata da quel delicato Collegio Docenti che a scuola si tornò a respirare la solita aria distesa e cordiale, aria resa ancor più allegra e buonista dall'approssimarsi delle vacanze di Natale. 11. IL PRESEPE DI NATALE

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A Natale siamo tutti più buoni, recita un celebre detto, e questo valse anche per quel Natale, e, ciò che più ci interessa, anche per il nostro buon Dirigente Scolastico. Confortato dagli agi della serenità coniugale, ma anche dalle cure particolari cui era sottoposto in tutte le sue parti del corpo dalla nuova amante neozelandese, e, non da ultimo, dalla calma che gli trasmetteva il suo gatto, Birba, mentre gli faceva le fusa appoggiato sulle sue ginocchia nei locali della Presidenza, confortato da tutto ciò il nostro buon Dirigente Scolastico sotterrò l’ascia di guerra e tornò a più miti consigli. “Alla fin fine, cos’hanno fatto di male…-diceva alla sua Vice professoressa Sempresei-…hanno solo fatto sparire qualche macchinario oramai da rottamare dalla sala informatica, ed hanno solo imbrattato e sfondato qualche parete. Si fidi, nulla di irreparabile, non si preoccupi. Bisogna dare fiducia a questi ragazzi, non crede anche lei? E poi, si lasci servire, è Natale, bisogna essere tutti più buoni”. Questo ritrovato equilibrio con il cosmo, questo stoicismo che pervase di sé l’animo dell’infedele Dirigente Scolastico, di sua moglie, dell’ amante neozelandese e del suo gatto Birba, questa stessa rasserenata visione del mondo pervase tutto il personale scolastico, tranne l’arcigna professoressa Sempresei, la quale si mantenne inamovibile sulla linea della fermezza e della tolleranza zero. Ma, come recita un altro vecchio detto popolare, il pesce puzza dalla testa. E questo detto popolare può tranquillamente essere applicato nella previsione dei casi umani che accadono in un Istituto debitamente gerarchizzato come il nostro, dove l’umore del Dirigente era un fattore molte volte determinante nell’indirizzare in un senso o piuttosto nell’altro l’intera giornata di tutto il personale scolastico. Così non ci deve sorprendere se questo benessere fisico e morale che interessò il Capo d’Istituto, meccanicamente si trasmise a tutte le articolazioni di cui era composto il Liceo, e lo brio, l’allegria natalizia, la serenità e la fiducia in un brillante anno nuovo travolsero tutti, a partire dal Dirigente fino agli studenti, i professori, i bidelli, gli addetti alle Segreterie. Non a caso fu in questi giorni, in prossimità del Natale, che il signor Peppe e la signora Nommicompeti fecero finalmente la pace, scambiandosi degli ipocriti auguri e delle fette di panettone scaduto, e fu sempre in prossimità del Natale che i professori in Sala Docenti si scambiarono dei doni riciclati dal Natale precedente. Mancavano pochi giorni alla chiusura della scuola quando su iniziativa del ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica tutto l'Istituto fu mobilitato per la preparazione del Presepe di Natale. Come molti cultori della materia sanno, la preparazione del Presepe Natalizio richiede competenze professionali e scientifiche che solo un ‘professore’ di Religione Cattolica può dispiegare nella misura e nei tempi opportuni. Anzi diremo di più: l'allestimento del Presepe Natalizio costituisce senza tema di smentita il momento topico della missione pedagogica di un ‘professore’ di Religione Cattolica. Il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica era del resto ben consapevole della dignità educativa assunta dal Presepe, e per questa ragione non lesinò sforzo alcuno affinché anche quell'anno scolastico tutto l'insieme di attività finalizzate alla predisposizione delle decorazioni natalizie trovasse nella scolaresca, nel personale docente e nel personale non docente il più caloroso accoglimento e il più attivo coinvolgimento. Fu così che il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica si presentò uno di quei giorni nel cortile della scuola parcheggiando in doppia fila un furgone carico di addobbi natalizi, di palline colorate, di stelle comete, di muschio, di pecorelle e Re Magi, e, chiedendo a gran voce la collaborazione degli assistenti tecnico-amministrativi, che nel frattempo gli erano venuti incontro sulle scale antistanti il portone, fece loro coattivamente trasferire tutto quel ben di Dio dal furgone all'interno dell'atrio della scuola. Non si era tuttavia accorto, il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, che parcheggiando in doppia fila aveva inavvertitamente incidentato la macchina del professor Sfaticati, parcheggiata lì in prima fila. C’è da dire che il rapporto del professor Sfaticati con la propria automobile era un rapporto piuttosto dialettico, se non del tutto problematico. Odiava andare e 73


venire con la propria automobile nelle trafficatissime strade di Roma, preferendo di gran lunga optare per i tanto bistrattati mezzi di trasporto pubblico. Non gli piaceva guidare, e soprattutto non gli piaceva sborsare fior fior di quattrini per far fronte al caro benzina. Quella volta, tuttavia, a causa di uno sciopero dei mezzi pubblici, il professor Sfaticati era stato di fatto costretto a raggiungere la propria sede di servizio con la propria autovettura. Di questo incidente tuttavia non si accorse né il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, troppo preso dalle sue confabulazioni e dai suoi progetti natalizi, né tanto meno il professor Sfaticati, che aveva approfittato dell’assemblea di classe da lui richiesta e di conseguenza concessa alla IV C, per uscire dall’Istituto e recarsi alle Poste a pagare una multa oramai prossima alla scadenza per aver sostato con la propria autovettura di fronte a un passo carrabile. Non deve quindi sorprendere che il nostro ‘professore’ di Religione Cattolica, senza darsi altri patemi, parcheggiato che fu il furgone, incurante del sinistro, si diresse con ampie ed affrettate falcate, portando con sé degli strani secchi, verso il manipolo di bidelli sfaccendati nel frattempo assiepatisi sulle scalinate dell’Istituto. Impartite loro le necessarie istruzioni per scaricare rapidamente ma senza incidenti quel coacervo di addobbi e di immagini sacre affastellati nel furgone, lì superò e, con il cipiglio del comandante che passa in rassegna il campo di battaglia, ponderandone pericoli e potenzialità, entrò finalmente nell’atrio. Qui, tra la sorpresa degli studenti che nel frattempo bighellonavano in attesa dell'inizio dell'intervallo, senza chiedere la preliminare autorizzazione al Dirigente Scolastico né a qualcuno dei Vicari del Preside, prese da uno dei due grandi secchi che portava con sé un grande pennello e lo intinse in una vernice rossastra contenuta nell’altro secchio, per poi cominciare a tracciare sul pavimento il perimetro sacro entro il quale avrebbero trovato la giusta collocazione le statuette dei Santi, dei Re Magi, del Bambinello, del bue e dell'asinello. Il ‘professor’ Clerici era da anni conosciuto all'interno dell'Istituto come persona non priva di carisma e di spirito di iniziativa. Piuttosto che tenere in classe i pochissimi studenti che si avvalevano dell’insegnamento della Religione Cattolica e, piuttosto che annoiarli con le sue lezioni in realtà non molto partecipate, preferiva accompagnarli in giro per la città a vedere mostre, rappresentazioni teatrali, film, burattini, pantomime e quant'altro. A volte, quando proprio non gli andava di rimanere in classe e quando gli studenti si dimostravano insopportabilmente vivaci, il ‘professor’ Clerici non esitava ad accompagnarli muniti di pale, di scope, di secchielli, di zappe e di picconi a dare una sistemata e una ripulita ai terreni prospicienti l'edificio scolastico. Queste iniziative, per lo meno unilaterali, assolutamente non concordate né con la Dirigenza né tanto meno con i numerosi Consigli di Classe interessati, se da un lato ingeneravano nella scolaresca un entusiasmo e una fibrillazione senz'altro inebrianti, non mancavano tuttavia di suscitare una certa perplessità, malamente dissimulata, sia nel Dirigente che nella Vicaria del Preside, la professoressa Sempresei: entrambi infatti temevano che nell'applicazione di quelle arcane strumentazioni edili ed agricole qualche studente un tantino più sbadato degli altri avrebbe potuto dover saggiare sul proprio corpo e sulla propria pelle la pericolosità dell’acutezza degli spigoli funzionale al loro precipuo utilizzo. Nonostante queste inutili paranoie dei vertici dell'Istituto al ‘professor’ Clerici tutto era concesso, vuoi per il suo innato ecumenismo, vuoi per il suo simpatico e irresistibile modo di porsi e di essere, vuoi per le innegabili ricadute didattiche delle sue inconsuete iniziative, vuoi infine per l'intima amicizia che legava il ‘professore’ al Sindaco e all'intera Giunta Comunale capitolina. Il ‘professor’ Clerici era del resto un personaggio molto conosciuto e ben voluto non soltanto all'interno dell'ambiente scolastico, ma anche nel mondo del volontariato, del sociale, e, possiamo certamente affermarlo, la sua fama di buon cristiano si era oramai diffusa per tutta la città. A lui si rivolgevano cittadini extracomunitari in cerca di permesso di soggiorno; a lui venivano indirizzati depressi cinquantenni in cerca di seconda occupazione o cassaintegrati in cerca di un lavoro in nero per integrare la cassa integrazione; era lui che gestiva numerosi centri di ascolto e di consultazione per prestare aiuto all'occorrenza a giovani tossicodipendenti; era lui che coordinava attività di sostegno medico e psicologico a quarantenni separati sull’orlo dell’alcolismo e a quarantenni alcolizzati 74


sull’orlo della separazione. Insomma, il nostro ‘professor’ Clerici dispiegava la sua generosità e la sua bontà d’animo in una molteplicità di iniziative che rendevano la sua persona e la sua figura stimate ed apprezzate da tutti. Del resto, va anche detto che il suo orario di lavoro gli lasciava a disposizione molto tempo libero da dedicare a tutte quelle filantropiche iniziative. Come tutti gli altri professori, anche il nostro ‘professor’ Clerici aveva sottoscritto un contratto col Ministero dell’Istruzione che lo teneva impegnato per ben diciotto ore settimanali per nove mesi su dodici a scuola. Ma a differenza degli altri normali professori, la particolare disciplina insegnata dal ‘professor’ Clerici è, come tutti sanno, una disciplina facoltativa. Per di più, nel caso particolare del nostro ‘professor’ Clerici, dobbiamo con un certa vena malinconica specificare che gli studenti che decisero, l’anno scolastico di cui stiamo parlando, di avvalersi dell’Insegnamento della Religione Cattolica (da adesso in poi IRC), dai dati in possesso della Segreteria Didattica risultava pari a diciotto. In altre parole, per chi ancora non lo avesse capito, il nostro esimio ‘professor’ Clerici da un lato e come tutti gli altri professori aveva un contratto da diciotto ore settimanali, ma d’altro lato e a differenza di tutti gli altri professori anziché avere una media di trenta studenti per classe aveva diciotto classi in ognuna delle quali a seguire le sue lezioni rimaneva la bellezza di un numero di studenti pari o, in caso di assenza, addirittura inferiore a uno. E’ pleonastico evidenziare come in caso di assenza di quest’unico studente la lezione non si sarebbe tenuta affatto, ferma restando l’intangibilità della retribuzione. Il lettore ci scuserà se ci dilunghiamo almeno per un momento sullo statuto dell’IRC, ma la specificità di questa disciplina e dei professori che ne impartiscono l’insegnamento merita qualche considerazione. Il dato quantitativo relativo al crollo verticale del numero degli studenti avvalentisi dell’IRC viene puntualmente mistificato e trascurato ogni volta che dal Dicastero della Pubblica Istruzione viene ribadita l’improcrastinabile necessità di tagli alla spesa pubblica. Da qualche anno a questa parte, da quando la crisi economica e finanziaria sta scuotendo i fondamentali dei sistemi economici occidentali, i tagli lineari che colpiscono e mettono a dura prova l’efficacia dell’attività scolastica non hanno in nessun caso e in nessun modo riguardato i ‘professori’ di Religione Cattolica, di cui anzi di recente si è assistito ad una prodigiosa ‘infornata’. Se proprio si ritiene necessario dover tagliare a destra e manca, in modo pernicioso e scriteriato, i finanziamenti alla Scuola Pubblica, sarebbe più onesto e conseguente, forse, -ma questa è una sommessa opinione di chi scrive-, sottoporre alla stessa politica di austerità e di rigore non solo la scuola privata, ma anche specificamente le cattedre di Religione Cattolica, i cui ben ventimila insegnanti si ritrovano ad avere per classe un numero ridicolo di studenti. Non sfuggirà certo al lettore che accorpando le classi e aumentando il numero medio di studenti per classe si riducono in modo significativo le cattedre e soprattutto il numero degli stipendi che il Ministero deve pagare per ogni professore; e questa scelta dell’aumento del numero degli studenti per classe e della riduzione delle cattedre è stata senza dubbio ed è tuttora la stella polare che ha guidato e che guida i grandi riformatori della politica scolastica nell’ultimo decennio. Detto questo, ci si aspetterebbe dal Ministero che i tagli alla spesa che colpiscono indiscriminatamente tutto il corpo docenti arrivino a intaccare anche il numero delle cattedre di Religione Cattolica; e invece, sorprendentemente, questo non accade. Preso atto della drammaticità della crisi economica, constatata l’esigenza di operare immediati e drastici tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto vista l’enormità della diminuzione del numero degli studenti avvalentisi dell’IRC, ci si aspetterebbe, nel mondo sofferente della scuola pubblica, una scelta politica conseguente, e cioè la riduzione delle cattedre di Religione Cattolica da realizzare mediante l’accorpamento in un’unica classe e in un’unica ora di quei pochi studenti provenienti da più classi che si avvalgono ancora del summenzionato insegnamento. Ma questa scelta, che trae ispirazione delle più elementari regole di buonsenso e che farebbe risparmiare allo Stato fior fior di quattrini, non viene messa in atto; anzi, per essere ancora più precisi, è completamente fuori dall’agenda politica, con la conseguenza che lo Stato italiano continua a pagare circa ventimila ‘professori’ di Religione Cattolica che dispiegano il loro insegnamento verso un numero oramai irrisorio di studenti per classe.

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Senza voler urtare la sensibilità religiosa di chi sta leggendo, appare anche opportuno aggiungere che stante la normativa vigente la scelta di avvalersi dell’IRC può essere formalizzata non necessariamente all’inizio dell’anno in corso, ma anche durante tutto il lasso di tempo dell’intero anno scolastico, nel senso che uno studente che a inizio anno ha espresso e formalizzato la volontà di non avvalersi dell’IRC può, durante tutto l’arco dell’anno scolastico, cambiare idea, tornare sui propri passi, e decidere di avvalersi di tale insegnamento. Il contrario, tuttavia, si badi, non è possibile. Uno studente che a inizio anno ha scelto di avvalersi dell’IRC non può, in nessun caso, durante l’arco dell’anno scolastico, ripensarci e decidere di non avvalersi più del summenzionato insegnamento. E anche questa disparità, che fa il paio con la precedente, non ci sembra affatto sostenibile. Ma torniamo al nostro ‘professor’ Clerici, al quale, si spera, i lettori vorranno un gran bene. Aveva oramai passato da tempo la sessantina, ma il suo attaccamento al lavoro, l'amore per la sua attività educativa, l'affetto paterno che nutriva per i giovani lo rendevano quanto mai motivato nell'espletamento della sua missione pedagogica. Il ‘professor’ Clerici guardava con orrore il passare dei giorni, dei mesi e degli anni, non perché avesse paura della morte che inesorabilmente si avvicina -lui era fervidamente credente, e credeva quindi che tutti ci saremmo rivisti, un giorno, nell'Aldilà felici e contenti di essere nati-, ma perché temeva la scadenza improrogabile del pensionamento, scadenza dopo la quale sarebbe stato privato dell'allegria e della giovialità con le quali solo gli studenti potevano incensare le sue iniziative. Questo malcelato timore per l’approssimarsi della data fatidica della cessazione del suo servizio contribuiva a rendere le sue iniziative ancora più fitte, numerose, frenetiche, coinvolgenti; con il risultato di incidere in modo parossistico sui tempi e sulle finalità dell'attività didattica dell'Istituto elencati nel Piano dell'Offerta Formativa. Non passava settimana che l'intera scolaresca non fosse, volente o nolente, coinvolta in qualcuna di queste sue iniziative: uscite didattiche alla volta di qualche santuario nella valle reatina; precetto pasquale; visione di film dall'alta valenza etico-religiosa; attività di solidarietà verso le realtà emarginate; pulizia e risistemazione di campi abbandonati alle sterpaglie e all'immondizia, ecc. Tutto questo ampio spettro di proposte veniva puntualmente inserito nel POF, rendendo così la fama e l'autorevolezza del ‘professor’ Clerici il fiore all'occhiello dell'intero progetto didattico ed educativo dell'Istituto. Del resto, l'austerità e la fierezza con le quali il ‘professor’ Clerici era aduso presentare le proprie iniziative di fronte al corpo docenti erano tali da non ammettere contraddittorio. I suoi progetti venivano quindi accolti dal plauso unanime di tutto il Liceo, e sia tra gli studenti che tra il corpo docente non mancavano mai persone particolarmente volenterose che offrivano il loro spassionato contributo alla buona riuscita delle ‘trovate’ intraprese dal ‘prof’ di Religione Cattolica. Anche in quell’occasione, c’era da aspettarselo, non mancarono studenti, professori e bidelli che diedero la loro più ampia disponibilità al ‘professor’ Clerici per dare una mano, un contributo, un consiglio, per l'allestimento del Presepe di Natale. Alcuni professori proposero di sistemare il Presepe non proprio di fronte all'ingresso della scuola, ma poco più in là, altrimenti si sarebbe impedito il transito in sicurezza degli studenti in uscita e in entrata. Altri proposero di sistemarlo al secondo piano, altri al terzo, altri ancora al quarto. Gli studenti, più di ogni altra cosa, si dimostrarono particolarmente interessati alla esatta dislocazione delle statue –quasi a grandezza d'uomo- non solo dei vari personaggi accorsi alla nascita del bambin Gesù, ma anche del bue, dell'asinello, delle ignare pecorelle intente a brucare il muschio e del convoglio cammellato dei Re Magi. La loro fantasia era davvero strabiliante. Nel corso dei lavori ci fu chi, tra gli studenti, decise di mettere un Re Magio sulla groppa anziché del cammello del bue; chi propose di inserire tra i personaggi del Presepe le sorpresine che uscivano dagli ovetti ‘kinder’; chi addirittura propose di mettere il Bambin Gesù non nella culla -lo si sarebbe visto poco e con molta difficoltà nascosto lì

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dentro- ma in un posto ben più consono alla dignità di Cristo nostro Signore, cioè al centro assoluto della rappresentazione sacra; a cavallo della stella cometa! Di fronte a questo coacervo di proposte, il ‘professor’ Clerici, finito che ebbe di delimitare con la vernice rossa il perimetro sul pavimento (di fronte al portone d'ingresso), confortato dalla partecipazione e dall'interessamento dei numerosi studenti nel frattempo accorsi, decise, con una magnanimità che gli fece onore agli occhi degli astanti, di delegare agli studenti stessi la sistemazione delle statuine, invitando loro e solo loro a trovare una esatta collocazione a tutti quei personaggi in cerca di autore. Lui si sarebbe diretto per affari inderogabili in Presidenza, per convincere il Dirigente ad addebitare al fondo della scuola i costi per la restaurazione e l'ammodernamento dei folcloristici addobbi natalizi. Mentre decine e decine di ragazzi nel tentativo di dar seguito alla loro missione cercavano di trovare la più opportuna collocazione alle varie statuine del Presepe, fece il suo rovinoso ingresso nell'atrio della scuola il professor Sfaticati, con il suo consueto e puntuale ritardo maggiore alla mezz’ora (dovuto però questa volta all’indolenza degli impiegati postali). Abbiamo detto che fece il suo 'rovinoso' ingresso perché nel mettere piede all'interno dell'Istituto, andando di fretta, tutto trafelato, con fascicoli non rilegati di compiti in classe corretti che gli stavano per sfuggire dalle mani malferme, ebbene il nostro professor Sfaticati non ebbe la cura di sincerarsi della percorribilità del corridoio che si accingeva a guadagnare. L'intralcio costituito dagli addobbi per il Presepe fu fatale al nostro caro professore, il quale inciampò e cadde dritto come un allocco prima dentro la mangiatoia del bue lasciata improvvidamente incustodita, per poi scivolare niente popò di meno che dentro la culla riservata al Bambinello. Il risultato fu che tutti i compiti in classe corretti presero a svolazzare nell’atrio, e tutti gli studenti del professor Sfaticati, in precedenza impegnati nell'allestimento del Presepe, lasciarono senz'altro indugio la loro precipua mansione per tentare di acchiappare quei fogli svolazzanti, e, correndo e saltando, acciuffavano quei compiti per poter sbirciare così prima degli altri le valutazioni del professore. Il nostro professor Sfaticati, da parte sua, se si eccettua una lieve contusione al ginocchio sinistro e una lussazione della spalla destra guaribile in quindici giorni, non riportò danni fisici degni di rilievo. Certo, non fu uno spettacolo particolarmente edificante per la scolaresca, sentirlo imprecare, se pur in tono dimesso, dalla sacra culla in cui era caduto, culla che l’ortodossia cristiana certamente avrebbe riservato a finalità più ieratiche. Riavutosi dal trauma, il professore si fece restituire dagli studenti i compiti in classe nel frattempo perduti, e senza proferir parola si diresse speditamente verso la V C, nella quale classe avrebbe dovuto prender servizio e tenere lezione da più di mezz’ora. Entrato in classe, tuttavia, si rese conto che più della metà degli studenti era inspiegabilmente assente. Parte della classe, infatti, approfittando del suo ritardo, si era letteralmente dispersa tra i corridoi dell’Istituto. Rientrarono tutti alla spicciolata, nella speranza che l’esasperazione del ritardo dell’inizio della lezione avrebbe indotto il prof a desistere dalla lezione stessa. Del resto, non mancavano agli studenti ragionevoli motivi per sperare che anche quel giorno la lezione, alla fine, sarebbe saltata. Le precarie condizioni del professore, riavutosi in un modo piuttosto incerto dalla rovinosa caduta di poc’anzi, avrebbero senz’altro costituito un ottimo motivo di discussione utilissimo a distogliere il malconcio professor Sfaticati dalla pervicace volontà di spiegare l’argomento del giorno. “Professore come sta? Abbiamo saputo che è caduto e si è fatto male entrando a scuola? Professore, ma si è fatto male?”. Queste ed altre domande furono ripetute dagli studenti più apprensivi al prof, il quale, anziché venire incontro alla curiosità di quei ragazzi, preferì in primo luogo rassicurarli in modo piuttosto elusivo sulle proprie condizioni di salute, per poi invitarli a prendere posto nei rispettivi banchi, perché da lì a poco, oramai a dieci minuti dalla fine della lezione, avrebbe dovuto assolutamente iniziare a spiegare.

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Quando finalmente riuscì a far accomodare sui loro trespoli tutti i ragazzi, bussarono alla porta. A chiedere il permesso di entrare erano due studentesse di altre classi, del tutto sconosciute al nostro prof, le quali gentilmente chiesero il permesso di far uscire dall’aula tutti gli studenti. Il motivo della sortita, a detta delle angeliche studentesse in ambasciata, era dovuto al fatto che al ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica occorreva la massima partecipazione della scolaresca al fine di sistemare nel più breve tempo e nel miglior modo possibili il Presepe natalizio. Nonostante il fatto che in quella classe gli studenti che si avvalevano dell’IRC fossero meno di due, il professor Sfaticati, ancora claudicante per la rovinosa caduta nella quale aveva travolto sia la mangiatoia del bue che la culla del bambin Gesù, ritenne opportuno pregare le angeliche studentesse in ambasciata per conto del ‘professor’ Clerici di far notare allo stesso che, dato il ritardo gravissimo nel quale si trovava lo svolgimento del programma di Storia in quella classe, sarebbe stato senz’altro preferibile, per il bene stesso degli studenti in questione, seguire la lezione sull’età giolittiana piuttosto che partecipare alla composizione del Santo Presepe. Il professor Sfaticati invitava pertanto le studentesse, nel frattempo rimaste in attesa sull’uscio dell’aula, di riferire al ‘professor’ Clerici che l'intera classe sarebbe certamente accorsa al punto di ritrovo, ma solo dopo il suono della campanella che avrebbe segnato la fine della quarta ora e con ciò la fine della sua spiegazione. Le studentesse, acquisita l’indisponibilità di fatto del professor Sfaticati all’accoglimento della loro richiesta, uscirono dall’aula senza salutare e anzi sbattendo la porta, e si diressero immediatamente a riferire quanto c’era da riferire a chi di dovere. Il professor Sfaticati cominciò la lezione parlando della Sinistra Storica e del primo governo Giolitti, ma proprio mentre stava spiegando ai ragazzi in tono piuttosto infervorato i retroscena dello scandalo della Banca di Roma, di nuovo bussarono alla porta, ma stavolta, senza aspettare il permesso, entrò nell’aula col viso piuttosto ingrugnito lo stesso ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, che di fatto con la sua presenza interruppe e pose fine alla lezione di storia appena iniziata. La disputa verbale che presto sopraggiunse tra i due proff ebbe, come riferirono più tardi gli studenti, qualcosa di spettacolare. Essa prese spunto, ovviamente, dal diniego opposto dal professore di Storia e Filosofia all’accoglimento della richiesta del ‘professore’ di Religione Cattolica di far uscire dall’aula l'intera classe per coadiuvare la sua iniziativa. Tuttavia, se questa questione costituiva la causa occasionale della disputa, essa presto degenerò in una vera e propria polemica politica dalle indubbie ricadute didattiche a beneficio della classe, polemica che non trascurò di riguardare le questioni lasciate insolute dal Risorgimento Italiano, a partire dalla Questione Romana alla Legge delle Guarentigie, dalla Breccia di Porta Pia alle Leggi Siccardi, dalla Riforma Gentile al Concordato del ’29, dall’Articolo 7 della Costituzione Repubblicana al Concordato del 1985, dalla libertà di insegnamento fino al finanziamento delle scuole parificate. Non è certo questa la sede per riportare per filo e per segno quell’interessante dibattito, né tutte le parole dette e le tematiche affrontate dai due colleghi impegnati in singolar tenzone, ma è certo interessante notare come la stragrande maggioranza della classe, dopo aver preso scrupolosamente appunti delle tesi così furiosamente contrapposte dai due interlocutori, riferì in seguito al Dirigente Scolastico come il ‘professor’ Clerici espresse il proprio vivo disappunto verso l’atteggiamento scarsamente collaborativo del professor Sfaticati, atteggiamento che avrebbe avuto come unico risultato quello di minare e sabotare l’efficacia della sua azione didattica. Argomentò inoltre il ‘professor’ Clerici che una didattica veramente incisiva non avrebbe dovuto in nessun caso trascurare l’insegnamento e la trasmissione di quei valori etici e culturali che costituiscono la nostra comune identità cristiana. Fece riferimento al dettato costituzionale che, richiamando espressamente il Concordato del ’29, dichiara la religione cattolica il fondamento e il coronamento dell’educazione pubblica nel nostro Paese. Aggiunse che le attività connesse alla costruzione del Presepe natalizio sono essenziali al riconoscimento e alla valorizzazione delle nostre radici cristiane. Si lamentò della 78


scarsa considerazione nella quale da tempo si tiene l’IRC. Stigmatizzò il fatto che la valutazione del ‘professore’ di Religione Cattolica, a differenza delle valutazioni di tutte le altre discipline, non contribuisse alla media finale. Recriminò sulla sistematica assenza in tutte le aule dell’Istituto del simbolo della Religione Cattolica, cioè del Crocifisso. Rinfacciò ad alcuni colleghi non meglio specificati il loro aperto ostruzionismo nei confronti delle attività disciplinari connesse all’insegnamento della sua disciplina. Si lamentò del fatto che fissare la lezione di religione cattolica o alla prima o all’ultima ora della giornata costituiva di fatto un incentivo agli studenti per non avvalersi del medesimo insegnamento, poiché non avvalendosi questi avrebbero potuto o entrare in ritardo o uscire in anticipo. E in conclusione insistette ripetutamente sul fatto, già in precedenza riportato, che in base allo stesso dettato costituzionale l’educazione cattolica costituisce a tutt’oggi il coronamento e il fondamento dell’educazione della scuola pubblica. Disse queste e molte altre cose… Non disse, il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, che l’Insegnamento della Religione Cattolica nelle scuole pubbliche mina di fatto la laicità dello Stato. Non sottolineò, il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, come l’affissione del Crocifisso nelle aule delle scuole italiane di fatto urta la sensibilità religiosa di quegli studenti e di quei professori appartenenti ad altre confessioni religiose. Non ricordò, il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, che i tagli approntati dagli ultimi governi se da un lato depauperavano la scuola pubblica italiana, lasciavano pressoché intonsi i finanziamenti alle scuole religiose, di fatto aggirando il divieto costituzionale al finanziamento delle scuole private. Non evidenziò, il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, che i ‘professori’ di Religione Cattolica nella scuola pubblica italiana sono gli unici ‘professori’ ad essere reclutati senza regolare concorso pubblico. Non aggiunse, il ‘professor’ Clerici di Religione Cattolica, che ai ‘professori’ di Religione Cattolica per insegnare nelle scuole pubbliche italiane è tuttora sufficiente la semplice nomina del Vescovo a capo della Diocesi per poter accedere all’insegnamento, ovviando così una selezione pubblica ed imparziale. Non disse queste e molte altre cose… La disputa si concluse soltanto quando suonò la campanella della quinta ora, quando cioè tutti gli studenti, stanchi dell’alterco, col solito fragore, zaino alle spalle, si riversarono nei corridoi per guadagnare l’uscita dell’Istituto. Quando i due colleghi rimasero da soli in classe, un po’ perché rimasti senza argomenti, un po’ perché rimasti senza platea, guardandosi in cagnesco decisero di finirla lì e di andarsene in Sala Docenti a risistemare le proprie cose per poi andarsene da scuola. Sistemati tutti gli adempimenti finali della giornata in Sala Docenti, scesero insieme le scale che li avrebbero portati prima all’atrio e poi all’uscita dell’Istituto. Ma nell’attraversamento dell’atrio il ‘professor’ Clerici rimase angosciosamente turbato dal disordine nel quale erano state abbandonate tutte le statuine del Presepe, disordine nel quale era difficile raccapezzarsi. In particolare non passava inosservata la collocazione del Bambin Gesù -posto a cavallo della stella cometa- e dei tre Re Magi, Melchiorre, Baldassarre e Gaspare -posti rispettivamente a cavallo dell’asino, del bue e di una ignara pecorella. Il ‘professor’ Clerici, di fronte all’evidenza dell’approssimazione e della inconcludenza di quei numerosi ragazzi in precedenza impegnati nell'allestimento del Presepe, fu assalito da un cupo scoramento, si sedette su una sedia, e prese a contemplare con una certa desolazione un punto indefinibile di fronte a sé, in un mesto silenzio, in un triste abbandono. Il professor Sfaticati, a questo punto, sensibile allo strazio che assalì il suo collega e intuendone la ragione, cercò goffamente di consolarlo: “Collega, su, non ci faccia caso, sono ragazzi, ed avevano fretta di uscire da scuola, ecco perché hanno lasciato tutto un po’ in disordine. Sapesse come lasciano l’aula quando suona l’ultima campanella della giornata! Un inferno le assicuro, un inferno!”.

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“La ringrazio, da parte sua è gentile”, rispose alzando a stento gli occhi il ‘professor’ Clerici. “Ma è possibile che non capiscano questi ragazzi che le statue del Presepe non possono essere lasciate così in disordine? Ma cos’hanno per la testa? Non hanno più religione, sono dei senzadio!”. “Ma che dice, collega! Si lasci servire, hanno soltanto fretta di uscire dalla scuola, qualsiasi cosa stiano facendo. Dai, la aiuto io, se vuole, a sistemare le statuine al loro posto”. E fu così che il ‘professor’ Clerici e il professor Sfaticati, accantonando i dissapori e le divergenze di vedute poco prima così ferocemente espressi in classe, si diedero da fare insieme per allestire il Santo Presepe, e dopo appena un’ora ebbero concluso l’operazione, con brio e soddisfazione reciproca. Rimasero addirittura d’accordo per andare fuori a pranzo insieme, ma con il successivo rilevamento del sinistro causato dalla funambolica manovra del ‘professor’ Clerici e con la conseguente richiesta di immediato pagamento del danno da parte del professor Sfaticati, furono gettate le condizioni ideali per impedire che tra i due sorgesse un’amicizia duratura e sincera. Per tutto il resto dell'anno, accuratamente evitarono entrambi di salutarsi. Quanto fin qui riferito non deve indurre il lettore in errore. Il professor Sfaticati, per quanto fosse ritenuto da tutti i suoi studenti e da buona parte del corpo docenti un autentico mangiapreti, aveva in cuor suo la certezza dell’esistenza di una Causa Prima generatrice dell’universo. In altre parole, il suo atteggiamento schiettamente contrario all’insegnamento della Religione Cattolica nelle scuole non si traduceva, come molti si aspettavano, in un conseguente ateismo. Egli credeva, e questo lo sappiamo scartabellando gli appunti messici a disposizione dalla studentessa Cecilia Quattrocchi, che una possibile dimostrazione dell’esistenza di Dio fosse stata elaborata millenni addietro dal più grande filosofo dell’antichità classica, un tale Aristotele, e credeva che questa dimostrazione dell’esistenza di Dio fosse la più accreditabile tra le tante formulate nel corso della storia della filosofia. Appare opportuno a chi scrive, vista l’utilità dell’argomento al fine di descrivere al meglio la personalità e la Weltanschauung del nostro professor Sfaticati, nonché il suo problematico ma non inesistente rapporto con la Religione Cattolica e con il suo insegnamento, riportare i passaggi più salienti della dimostrazione dell’esistenza di Dio in questione, riprendendoli dagli ordinatissimi appunti della più brava della classe, la studentessa Quattrocchi, dai quali possiamo leggere quanto di seguito riportato. E’ POSSIBILE DIMOSTRARE L’ESITENZA DI DIO? La migliore dimostrazione dell’esistenza di Dio elaborata dalla storia della filosofia appartiene senza dubbio al grande filosofo Aristotele. Essa, per la sua ragionevolezza e per il grado di persuasione che riesce a raggiungere, fu anche ripresa dal più grande filosofo della cristianità, San Tommaso d’Aquino, non a caso detto anche l’Aristotele cristiano. La dimostrazione dell’esistenza di Dio aristotelica non parte, come le altre dimostrazioni, dal riconoscimento dell’esistenza dell’idea di Dio dalla cui analisi poi dedurre l’esistenza stessa dell’Ideato. Aristotele parte invece dalla più misera conoscenza sensibile, da quell’esperienza che già Parmenide prima di lui aveva bistrattato e squalificato. La stessa esperienza sensibile, per Aristotele, costituisce il primo e necessario appiglio di ogni possibile conoscenza dell’uomo. Anche in questa forma di empirismo, la filosofia tomista sarà debitrice nei confronti del più grande filosofo dell’antichità classica. Secondo Aristotele, tutte le nostre esperienze, pur nella loro varietà e nella loro molteplicità, portano l’uomo, il soggetto senziente, all’acquisizione di una certezza indiscutibile; l’esistenza del movimento. Noi percepiamo una realtà circostante in perenne mutamento; ci sono sostanze che si spostano da un punto ad un altro dello spazio (movimento secondo il luogo), sostanze che mutano aumentando o diminuendo la propria quantità (movimento secondo la quantità), sostanze che cambiano migliorando o peggiorando se stesse (movimento secondo la qualità), e tutte le sostanze 80


vengono generate e corrotte nel tempo, ovvero nascono e muoiono (movimento secondo la sostanza). La prima e fondamentale certezza che la sensazione ci fa acquisire è appunto questa: ogni sostanza, cioè ogni cosa individuale, ogni cosa di cui si possa dire che sia ‘una’, è soggetta a movimento, perché ogni cosa che sia una può spostarsi nello spazio, può muoversi secondo la sua quantità (può aumentare o diminuire), può muoversi secondo la sua qualità (migliorando o peggiorando), e deve necessariamente muoversi secondo la sua sostanza, cioè deve necessariamente nascere e morire. Questo, secondo Aristotele, ci dicono innanzitutto i sensi; e allora aveva ragione Eraclito a sostenere che tutto scorre, tutto si muove, tutto nasce e muore, e torto Parmenide nel credere al contrario che la vera realtà delle cose fosse immutabile ed eterna. Ma torniamo ad Aristotele. Se ogni cosa di cui si possa dire che è ‘una’ cosa, se ogni individuo, se ogni sostanza si muove secondo la sua sostanza, ovvero nasce e muore, dobbiamo in secondo luogo riconoscere che ogni individuo ha la causa del suo essere al di fuori di sé o, in altri termini, che ogni individuo, ogni sostanza è mosso nella sua stessa sostanza da un'altra sostanza antecedente che è la causa della sostanza successiva. In altre parole ogni sostanza nasce, ovvero è nel suo essere mossa o causata o ancora posta in essere da un’altra sostanza, la quale a sua volta oltre a muovere o porre in essere la sostanza di cui prima è anche posta in essere o generata o causata o mossa da una sostanza ancora precedente. Quindi, secondo il modo di vedere aristotelico, i sensi, attestando il movimento di ciò che ci circonda, ci inducono necessariamente a ritenere che tutte le cose, tutte le sostanze circostanti sono create o causate o poste in essere da altre sostanze causali a loro volta causate da altre sostanze precedenti ecc. Ma questo processo di rimandi causali, si chiede il filosofo, può procedere all’infinito facendo sempre ricorso a cause del movimento sostanziale costituite da sostanze che muovono e che sono anch’esse mosse, oppure è logico e necessario porre un termine a questo rimando di connessioni causali e con ciò ammettere l’esigenza logica dell’esistenza di una Sostanza Prima, che certamente muove e pone in essere altre sostanze ma che a sua volta non è mossa né posta in essere da altre sostanze. In altri termini ancora, è possibile pensare che le connessioni causali che spiegano il movimento sostanziale in atto siano di una serie infinita? E’ possibile cioè pensare che ciò che causa la nascita delle sostanze attualmente esistenti sia a sua volta causato da altre sostanze a loro volta causate da altre sostanze a loro volta causate da altre sostanze e pensare che tali connessioni causali siano di numero infinito o indeterminato? O non è piuttosto necessario credere che ad un certo punto, andando a ritroso nella rete di connessioni causali, sia necessario imbattersi in una Causa Prima che non sia a sua volta causata da un’altra sostanza? Secondo Aristotele, e anche secondo Tommaso d’Aquino, è necessario porre l’esistenza di una Causa Prima Incausata, che muove ma che non è mossa. Se vi dico di immaginare un segmento la vostra mente riesce senz’altro ad immaginarlo. Se vi dico di immaginare un segmento in movimento verso una delle sue estremità la vostra mente non ha difficoltà a immaginare questo movimento. Se vi dico di immaginare una semiretta la vostra mente non ha difficoltà a immaginarsela. Se vi dico di immaginare questa semiretta in movimento nella direzione della sua estremità finita la vostra mente non ha difficoltà ad immaginare questo movimento. Se vi dico di immaginare una retta infinita la vostra mente non ha difficoltà ad immaginarla. La vostra mente ha invece difficoltà ad immaginare, anzi è impossibilitata ad immaginare una retta infinita in movimento verso una delle sue estremità! E’ teoricamente e praticamente impossibile immaginarsi e rappresentarsi questo movimento. Allo stesso modo in cui è per noi impossibile immaginare il movimento di una retta infinita nella direzione di una delle sue due estremità, è impossibile immaginarsi e rappresentarsi, argomenta Aristotele, una realtà in movimento in cui tutte le sostanze siano causate l’una dall’altra, siano cioè in movimento secondo la sostanza (nascono e muoiono), ponendo che questo movimento sia eterno 81


e infinito. E’ necessario porre un termine, un Principio a questa catena di rimandi causali che non può essere infinita; e questo termine, questo Principio, questa Causa Incausata, questo Atto Primo, questo Motore Immobile, non è altri che Dio, generatore di tutto il movimento e causa finale dell’Universo, di tutte le sostanze esistenti. 12. LE RIFORME DELLA SCUOLA “Combattenti di terra, di mare e dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l'esistenza medesima del popolo italiano (…). Se noi oggi siamo decisi ad affrontare i rischi ed i sacrifici di una guerra, gli è che l'onore, gli interessi, l'avvenire ferreamente lo impongono, poiché un grande popolo è veramente tale se considera sacri i suoi impegni e se non evade dalle prove supreme che determinano il corso della storia. Noi impugnammo le armi per risolvere, dopo il problema risolto delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime; noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l'accesso all'Oceano. Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione. È la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l'oro della terra. È la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto. È la lotta tra due secoli e due idee (…). L'Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!”. L’indimenticabile Alberto Sordi all’epoca di questa roboante dichiarazione di guerra era tra coloro che si trovavano a Piazza Venezia, non a fare da claque all’Unto del Signore, ma semplicemente a bere un buon caffè in un bar. Racconta che la folla davvero oceanica non stava più in sé, e di fronte alle parole del Duce l’entusiasmo era salito alle stelle. L’Italia stava di fatto dichiarando guerra al mondo intero, ma grazie ad anni e anni di propaganda tutti erano così rincretiniti da accogliere l’atto bellicoso mussoliniano con sincero trasporto e con viva baldanza. A nessuno era stata fino allora raccontata la verità dei fatti e, dopo gli strepitosi successi militari del Regime in Libia, in Africa Orientale, in Spagna e in Albania, ma soprattutto dopo lo sfaldamento della linea Maginot causata dalla travolgente avanzata delle vittoriose truppe germaniche -che da lì a meno di una settimana sarebbero entrate a Parigi-, tutti, ma davvero tutti, credevano che la guerra che era stata intrapresa in quella sciagurata giornata del 10 Giugno potesse essere facilmente vinta con il minimo sforzo, in men che non si dica. Tornando in caserma, dove prestava servizio, l’Alberto nazionale ebbe però modo di osservare quanto preoccupante e grave fosse invece l’impreparazione dell’esercito italiano. Avrebbe dovuto farsi rilasciare un certificato da un suo superiore, ma fu costretto ad ore ed ore di anticamera perché cose più urgenti, in quel frangente, avevano un’assoluta priorità. Nessuno dei suoi superiori presenti in quella caserma era stato precedentemente messo al corrente dell’ingresso in guerra del Belpaese. E mentre a Piazza Venezia la folla esaltata era in preda a un delirio di onnipotenza, sugli imberbi militari in servizio in quella caserma, che di lì a poco sarebbero dovuti partire per chissà quale

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fronte, presto si disegnò un’espressione di angoscia rivelatrice dell’assoluta impreparazione dell’esercito e dei soldati italiani. Mentre Alberto Sordi si trovava in quella caserma, scattò del tutto inatteso l’allarme antiaereo. Era la prima volta che una cosa del genere accadeva. Un biplano francese stava sorvolando i cieli di Roma. L’urlo delle sirene gettò tutti nella confusione e nel terrore, e prostrò incredibilmente lo spirito di quei giovani soldati italiani. A nessuno di loro era stato detto cosa occorresse fare in quella situazione, e il ‘si salvi chi può’ fu l’imperativo al quale si ispirarono un po’ tutti i militari, dai più alti comandi alle reclute ultime arrivate. Per coordinare gli spostamenti utili alla messa in sicurezza del personale della caserma gli ufficiali presenti presero la solenne quanto assai discutibile decisione di accendere tutte le luci elettriche fino ad illuminare a giorno l’intera caserma. Chi correva nei piani alti, chi nei piani bassi; chi usciva per le strade, chi si rinchiudeva nella propria camerata; chi si rannicchiava sotto il letto, chi cercava scampo negli spazi aperti. La maggior parte dei soldati saltò fuori dalle finestre e andò a gettarsi in giardino, sull’erba, in modo supino, con le gambe e le braccia divaricate, poiché tutti credevano che alla caduta delle prime bombe il pericolo più immediato da scongiurare sarebbe stato lo spostamento d’aria provocato dalle deflagrazioni, spostamento d’aria che avrebbe potuto scaraventare i soldati chissà dove, con grave nocumento per la loro incolumità. Cosa pensò il pilota francese di tutto questo strano spettacolo, con la caserma illuminata a giorno e i soldati che si ruzzolavano giù da tutti i piani per andarsi a distendere sul prato, non è dato sapere. L’aereo, che con ogni probabilità aveva semplicemente smarrito la rotta, sorvolò a bassa quota i tetti della caserma e degli edifici adiacenti. Per tutta risposta i traccianti della contraerea italiana furono sparati all’impazzata. Fu bersagliata ogni cosa: tetti, comignoli, grondaie, alberi d’alto fusto, finestre degli ultimi piani, tutto, tranne quell’innocuo aereo francese, che continuò indisturbato nella sua rotta fino a sparire dietro le nuvole. Quattrocento feriti -affermò Alberto Sordi in una simpaticissima intervista rilasciata anni dopo ai microfoni della RAI- fu il bilancio di quella prima serata di guerra, tutti romani, tutti provocati da un uso improvvido delle artiglierie contraeree in dotazione delle invitte truppe italiane. In quel preciso momento, Alberto Sordi cominciò a farsi un’idea più precisa dell’assoluta approssimazione con la quale l’Italia fascista andava alla guerra, guerra che con elegante retorica quanta colpevole superficialità era stata dichiarata dal balcone di Piazza Venezia solo qualche ora prima. Si è deciso di raccontare ai lettori questo breve ma significativo aneddoto per poter parlare in questo capitolo dello spirito che ha animato alcune delle principali riforme che hanno interessato e a volte letteralmente travolto il mondo della scuola italiana. Riforme che, come quella infausta dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra, sono state decise e varate senza una pianificazione razionale, senza una necessaria preparazione e nel più penoso stato di improvvisazione. La narrazione delle disavventure del nostro professor Sfaticati riprenderà con l’inizio del pentamestre, ovvero con il capitolo successivo cui l’autore dà appuntamento a tutti i lettori che fin qui ci hanno seguito. La scuola italiana negli ultimi anni è cambiata, ed è cambiata così come è cambiata la società italiana e occidentale in generale. E’ difficile riassumere in poche parole i fattori propulsivi e dirompenti che hanno determinato un generalizzato stravolgimento delle abitudini e delle aspettative degli adolescenti di oggi; certo è che questo stravolgimento va inserito e interpretato in una cornice più ampia, cornice che non può essere limitata solo e soltanto al mondo della scuola. La società italiana in pochi decenni ha raggiunto livelli di benessere tali da far considerare il nostro Paese uno dei paesi più ricchi del mondo. Non a caso l’Italia sta diventando una Nazione di immigrati anziché di emigranti, come invece era qualche tempo fa. Dal secondo dopoguerra ad oggi si sono succedute e poi stratificate una serie di rivoluzioni che hanno investito i settori più disparati del nostro modo di vivere e delle nostre abitudini esistenziali, dalle telecomunicazioni ai trasporti, dalla medicina alla morale pubblica, dalla famiglia alla religione. Forse la portata di questi 83


stravolgimenti può essere compresa appieno solo da chi, dall’alto della sua veneranda età, può vantare di aver fatto la guerra e la fame, da chi faceva turni di lavoro massacranti per portare un pezzo di pane in tavola alla prole quanto mai numerosa dalle miniere belghe o dalle risaie piemontesi; chi invece non ha vissuto abbastanza a lungo da ricordare gli stenti, le ristrettezze, le limitazioni materiali e morali di una società già poverissima e poi anche devastata dalla guerra, può ambire ad una comprensione soltanto poco più che allusiva del grado e della entità del cambiamento posto in essere negli ultimi decenni della storia italiana ed europea. Questo cambiamento, inevitabilmente, ha investito anche la scuola, le sue regole, i suoi obiettivi, il modo di starci dentro, il modo di studiarci e di lavorarci. Inevitabilmente anche il rapporto tra docenti e discenti è irreversibilmente mutato, così come sono del tutto diverse le finalità didattiche che sia il corpo docente sia gli studenti stessi si ripropongono di conseguire al termine del processo formativo. E' innegabile che la scuola cambia con il cambiare del Paese, e non è inutile ripercorrere, se pur in modo estremamente sintetico, le grandi trasformazioni che hanno investito il nostro Paese e di conseguenza la nostra scuola. La storia della scuola italiana trova una scansione necessariamente sincronizzata rispetto alle tappe fondamentali del Risorgimento italiano, dei governi postunitari, del ventennio fascista e del secondo dopoguerra. Con la Legge Coppino Cavour intese estendere il modello scolastico piemontese al diveniente Stato Italiano, di fatto però limitando la partecipazione e il coinvolgimento dei giovani nel processo di crescita culturale che cominciava a rasentare il nostro Paese, un Paese con un economia ancora prevalentemente agricola, con un analfabetismo ancora dilagante, col brigantaggio nel meridione italiano e con una importante presenza della Chiesa Cattolica che di fatto remava contro un’estensione illuministica dei saperi che avrebbe dovuto riguardare anche gli strati meno abbienti della popolazione. In questo periodo l’istruzione più che un diritto rimaneva un privilegio di pochi rampolli dell’aristocrazia e dell’alta borghesia sabauda, per quanto nel settentrione italiano gli sforzi posti in essere dalla Destra Storica per far migliorare la situazione e portare il nostro Paese in una posizione per lo meno analoga a quella dei paesi europei più avanzati siano stati organici e reiterati. Con la caduta della Destra e l’avvento della Sinistra Storica (siamo nel 1876), le cose cambiarono sensibilmente, e incontrovertibilmente in meglio. Se le legittime premure della Destra erano state: a) quella di pareggiare il bilancio pubblico dopo anni e anni di indebitamento pazzesco anche attraverso tasse inique, come quella sul macinato, per portare a termine l’adeguamento dell’esercito e ottenere le necessarie vittorie militari contro gli Asburgo; b) rafforzare la struttura centralizzata del Paese; c) sconfiggere il brigantaggio; d) isolare diplomaticamente e militarmente lo Stato della Chiesa di Pio IX, invece con la Sinistra Storica gli obiettivi cui tendeva l’azione politica della classe dirigente risorgimentale furono ben altri. Con Depretis e Crispi si puntò allo sviluppo coloniale, all’isolamento della Francia -della cui sconfitta contro la Prussia l’Italia approfittò per invadere Roma nel 1870- e alla stipula della Triplice Alleanza con gli Imperi Centrali; ma soprattutto si puntò all’allargamento del suffragio attraverso una serie di riforme elettorali che avrebbe consentito a medio-lungo termine il raggiungimento del suffragio universale maschile, che di fatto fu poi attuato da Giovanni Giolitti nel 1912. L’idea di allargare la base democratica dello Stato italiano non va assolutamente disgiunta dalle riforme scolastiche poste in essere in questo periodo. Le riforme elettorali della Sinistra Storica, prevedendo l’estensione del suffragio a tutti coloro che indipendentemente dal censo sapessero leggere e scrivere, riposero una valenza straordinaria nel processo in atto di istruzione delle masse e di sconfitta dell’analfabetismo. La riforma della scuola attuata dalla Sinistra Storica garantì la gratuità e assicurò la obbligatorietà dell’istruzione almeno fino ai nove anni; il che di fatto avrebbe comportato il raggiungimento del suffragio universale maschile in tempi relativamente apprezzabili. Certo, come si disse all’epoca, l’Italia era fatta, ma non erano fatti gli Italiani. Quella che secondo il Metternich non era altro che una mera espressione geografica, aveva visto nei tre momenti 84


importanti del ’48, del ’59 e del ’66 -anni delle Guerre di Indipendenza dell’Italia contro l’AustriaUngheria- i propri atti fondativi, che tuttavia non apparivano risolutivi ai fini della creazione di una comune identità nazionale che era lontana dall’essere conquistata. La scuola contribuì senz’altro a tal fine, ma non si può assolutamente omettere l’importanza che ebbe in tal senso il durissimo impatto della Grande Guerra e l’esperienza del ventennio fascista. Con la prima guerra mondiale nacque in Italia qualcosa di simile ad un comune sentire nazionale. I combattenti di tutte le regioni d'Italia e delle più svariate estrazioni sociali vissero un’esperienza così coinvolgente, sconvolgente e drammatica, che da quel momento in poi ciò che accomunava un calabrese a un piemontese, un milanese a un napoletano, era senz’altro qualcosa di più significativo rispetto a ciò che li differenziava fino a pochi anni prima. Del resto, il motivo precipuo che diede forza alle posizioni interventiste fu non solo e non tanto la conquista delle Terre Irredente, ma soprattutto l’idea che grazie a una guerra del genere, che avrebbe impegnato tutte le risorse spirituali e materiali del nostro Paese, soltanto grazie al superamento di una prova così ardua sarebbe stato possibile sviluppare quel sentimento di una comune appartenenza per tutti gli italiani, sentimento che fino ad allora, con ogni evidenza, era mancato. Alla conclusione della guerra, per quanto le promesse territoriali fatte all’Italia dagli Alleati furono clamorosamente disattese, qualcosa di positivo, anche se è difficile ammetterlo, nel nostro Paese rimase: il desiderio di non essere la cenerentola d’Europa; la voglia di contare a livello internazionale e mondiale; ma, soprattutto, un’identità nazionale che in precedenza non c’era, o se c’era, c’era soltanto nella visione dei letterati, dei filosofi e dei poeti. Emblematica in tal senso appare la commossa partecipazione popolare che accompagnò il feretro del Milite Ignoto dai confini orientali del nostro Paese nel suo ultimo viaggio, fino all'Altare della Patria, dove tuttora è solennemente custodito. Quella storica celebrazione sancì in qualche modo la nascita di una comune identità nazionale che in precedenza stentava ad essere percepita. Anche nel successivo ventennio fascista, per quanto si possa avere di questo travagliato periodo un giudizio assai critico -se non lapidario-, il processo di rafforzamento della coesione nazionale subì un innegabile rafforzamento. Anche grazie alla manipolazione dei mezzi di informazione e alla propaganda, Benito Mussolini ebbe la capacità di trasmettere all’intera nazione italiana una visione comune degli interessi e delle ambizioni del nostro Paese. Il fascismo mirò, dichiaratamente, alla fascistizzazione delle masse; il risultato in parte inatteso fu senza dubbio un’accentuazione della nazionalizzazione delle masse. La transvolata oceanica di Cesare Balbo, la conquista del Polo Nord, la guerra d’Abissinia e la proclamazione dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana furono tappe fondamentali nel processo di consolidamento della coesione nazionale. E’ senz’altro vero che il fascismo si sciolse come neve al sole nel momento stesso in cui, con lo sbarco in Sicilia degli Alleati e con il drammatico bombardamento di Roma, finalmente gli italiani si accorsero dell’improbabilità e del carattere ampiamente velleitario del potere e della grandezza fascista. D’altra parte non è serio contestare il fatto che, almeno fino al 1941, il fascismo godette di un consenso sincero da parte delle masse, tale da far apparire anche all’estero il regime mussoliniano un modello politico da portare ad esempio al cospetto di tutte quelle nazioni povere che intendevano orientare i propri passi verso la crescita culturale e lo sviluppo economico della propria nazione. In questa ottica, anche la Riforma della scuola di Giovanni Gentile costituì, anche al di là delle ambizioni e degli orientamenti dello stesso Ministro, il fiore all’occhiello da esibire sul doppiopetto del sistema fascista. Non fu certo un caso che lo stesso Benito Mussolini si affrettò a dichiarare la legge che attuava la Riforma Gentile la più fascista delle leggi. Giovanni Gentile, oltre ad essere Ministro dell’Istruzione del primo governo Mussolini, fu uno dei massimi interpreti, assieme a Benedetto Croce, del neoidealismo italiano. La sua grandezza non è in alcun modo offuscata dalla sua convinta adesione al fascismo; egli rimase fino all’ultimo dei suoi giorni così intimamente convinto della bontà delle sue idee politiche che la sua pervicace lealtà al Regime, più che ad onta 85


della sua onorabilità, va giudicata e ponderata a giustificazione della sua azione politica ed intellettuale. Scrisse, è vero, il ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’, ma anche l’Enciclopedia Treccani, per la redazione della quale non si fece alcuno scrupolo ad invitare intellettuali non fascisti. Pensava che la cultura fosse altra cosa, e cosa più alta, rispetto alle divergenze contingenti di natura politica che separavano e distanziavano l’intellettualità italiana dell’epoca. La Riforma Gentile, per quanto funzionale agli interessi e alle esigenze del Regime fascista, costituì senz’altro un’occasione di stimolo e di crescita culturale e materiale del nostro Paese, e non solo perché innalzò l’obbligo scolastico a 14 anni. Si è detto e si è scritto che la Riforma Gentile di fatto ingessò il nostro Paese, limitò la mobilità sociale, e, in ultima analisi, favorì le classi più agiate che avevano sostenuto il fascismo sin da Piazza San Sepolcro contro il pericolo rosso. In parte tutto ciò è veritiero, perché la Riforma così come fu attuata non promosse la mobilità sociale e il riscatto delle classi povere tanto necessario al coronamento di quella che si diceva essere la ‘rivoluzione fascista’. La Riforma Gentile accordò soltanto agli studenti del Liceo Classico la possibilità di accedere ai livelli più alti dell’istruzione statale. La maturità conseguita presso il Liceo Scientifico consentiva infatti di poter proseguire gli studi soltanto nei Corsi di Laurea di natura scientifica, essendo infatti preclusa agli studenti del summenzionato liceo la possibilità di iscriversi ad un Corso di Laurea relativo a discipline umanistico-filosofiche. Oltre ai due Licei Classico e Scientifico, la scuola gentiliana prevedeva una serie piuttosto variegata di indirizzi professionalizzanti che si prefiggevano di insegnare un mestiere ai giovani che vi accedevano con l’obiettivo di creare dei buoni carpentieri, idraulici, orefici, arrotini, ecc. Ovviamente, tutti i ragazzi e le ragazze che venivano fuori da questi istituti professionalizzanti non avrebbero potuto accedere ai Corsi di Laurea e alle Facoltà universitarie, di nessun genere, rimanendo così preclusa loro la più alta formazione che le istituzioni educative italiane continuavano ad erogare e a garantire non tanto ai figli della lupa, quanto ai rampolli delle vecchie e nuove aristocrazie del nostro paese. Da questo punto di vista è innegabile l’aspetto conservatore e reazionario di questa riforma scolastica. Inoltre si istituivano gli Istituti Magistrali -quelli che oggi sono diventati i Licei Psicopedagogici -a carattere prevalentemente femminile, che avrebbero dovuto avere il compito di formare quel personale insegnante che poi sarebbe stato reclutato dal ministero per coprire le cattedre via via rese necessarie dal vertiginoso aumento della scolaresca. Va sottolineato inoltre che fino al ’62 non esisteva la Scuola Media, per cui la scelta fra i vari indirizzi di studio era da effettuare con un anticipo di ben tre anni rispetto ad oggi. Il che, naturalmente, faceva sì che la scelta dell’indirizzo, più che dalle inclinazioni e dalle capacità ancora largamente latenti e potenziali dei ragazzi, non poteva che tener conto, in via del tutto prioritaria, delle condizioni economico-culturali della famiglia di appartenenza. Quello che interessa rimarcare è che la Riforma della scuola attuata da Gentile raccoglieva ed amplificava le peculiarità distintive del suo sistema filosofico. Gentile riteneva, da buon neoidealista, che la filosofia fosse la regina di tutte le scienze, e che lo studio della filosofia dovesse essere il coronamento del processo di crescita dei ragazzi italiani. Allo studio della filosofia, di conseguenza, potevano dedicarsi soltanto le menti più eccelse della scuola italiana -quelle che oggi si definirebbero le eccellenze-, ovvero quei giovani che nell’immediato futuro avrebbero costituito la classe dirigente del nostro paese. Non è un caso che ancora oggi il nostro curriculum scolastico prevede un numero di ore dedicate allo studio della filosofia che non ha pari in nessuna parte nel mondo, tantomeno nelle scuole anglosassoni, dove al sol parlare di filosofia si riscontra un generalizzato arricciamento di nasi. La Riforma Gentile inoltre escludeva l’insegnamento della religione cattolica dalle scuole superiori; riteneva infatti Gentile che la filosofia, e non la religione, mettesse l’individuo nella condizione di cogliere l’Assoluto, mentre la religione altro non era che una specie di schematizzazione per le menti più semplici e pigre dei concetti che solo la filosofia poteva cogliere nella loro pienezza; ed è per questo quindi che l’insegnamento della religione cattolica era confinato ai gradi di istruzione più bassi.

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La filosofia e le scienze umanistiche nel loro complesso rivestivano senza dubbio un’importanza imparagonabilmente maggiore rispetto allo studio delle discipline tecnico-scientifiche. Certo, a distanza di quasi un centinaio di anni dalla sua approvazione si potrà anche affermare che la Riforma Gentile altro non faceva che confermare i limiti angusti della potenzialità della crescita delle nuove generazioni sotto il Regime fascista; si potrà anche dire che limitava le opportunità dei ragazzi provvisti di merito ma privi di mezzi; si potranno dire certamente queste e tante altre cose ancora, ma è innegabile il fatto che anche grazie alla scuola di Gentile l’Italia abbia subìto un positivo rafforzamento di un’identità nazionale altrimenti ancora in divenire e piuttosto oscillante. Grazie ai programmi gentiliani gli italiani hanno riscoperto i classici, i latini, i greci, il cui studio tanta parte ha nel rendere il nostro popolo e la nostra storia ricchi di esempi di una diffusa ed elastica sensibilità umanistica. Non è un caso del resto che tale Riforma sarà di fatto abolita soltanto con la Rivoluzione del 1968, rimanendo per decenni in auge con ciò dimostrando la sua forza e la sua intrinseca capacità di interpretare e sostenere i cambiamenti posti in essere nella società italiana. Negli ultimi vent’anni, o forse più, si sono poi susseguite con un ritmo e una frequenza davvero prodigiosi una moltitudine di riforme scolastiche che è difficile da definire con puntualità e precisione. Ogni ministro della Pubblica Istruzione, da Rosa Russo Jervolino a Francesco D’Onofrio, da Letizia Brichetto Arnaboldi in Moratti a Maria Stella Gelmini passando per Giovanni Berlinguer -solo per citarne alcuni se non tra i più autorevoli almeno tra i più chiacchierati- ha dato un piccolo ma significativo contributo nell’intento di migliorare il nostro sistema scolastico. Il risultato non è stato sempre quello inizialmente sperato, ma solo chi è accecato dal pregiudizio non può convenire sulla estrema difficoltà cui va incontro chi ha il compito e il dovere di plasmare le strutture e i regolamenti scolastici alle mutate condizioni sociali, culturali ed economiche del nostro Paese. Uno dei cambiamenti che salta più agli occhi di chi vuole interpretare ed osservare il mondo della scuola italiana degli ultimi vent’anni riguarda senza dubbio la finalità che essa in ultima analisi si ripropone. Una volta la scuola doveva servire per selezionare i quadri dirigenti del nostro Paese, e la bocciatura era solo il più appariscente degli strumenti posti in essere per dar corpo a questa selezione. Dall’entrata dei socialisti al governo, dal primo centrosinistra del ’62, tutto è cambiato. Oggi la scuola non deve selezionare più niente, giacché è diventata scuola di massa, e la bocciatura -che oggi non si chiama nemmeno più così, si preferisce chiamarla ‘non promozione’- è diventata una opzione di rara cattiveria la cui adozione fa impallidire il più severo dei Consigli di Classe. Uno dei luoghi comuni più triti che sovente si sente dire relativamente ai ragazzi di oggi, è che sono diventati oramai dei discoli più indisciplinati, che perdono troppo tempo di fronte ai Personal Computer, che sono tanto tecnologizzati quanto maleducati e alienati, che oramai, abituati a comunicare tramite facebook o tramite sms, hanno completamente accantonato il rispetto delle più elementari regole grammaticali, sintattiche, preferendo al ‘ch’ una semplice ‘k’, sostituendo sempre l’indicativo al congiuntivo, costruendo tramite un uso distorto della punteggiatura stati d’animo altrimenti esprimibili, per cui [ ;) ] diventa il significante di felicità, [ ;( ] è tristezza, tvttttb per dire che ci si vuole un mondo di bene, … per dire ecc., … Ma questo non basta. Se si parla con qualche addetto della scuola, magari in Sala Docenti durante una delle lunghe e numerose pause per il caffè alla macchinetta, si ha conferma che il livello della preparazione e più in generale della cultura degli adolescenti di oggi è marcatamente inferiore rispetto ai livelli testati qualche anno fa. Qualche patetico professore di Greco o di Latino ci verrà poi anche a dire che ai tempi suoi non era possibile terminare il Ginnasio senza avere una preparazione nelle discipline classiche che oggi equivarrebbe alle conoscenze certificate da un Diploma di Laurea in Lettere Classiche. Insomma, si sostiene che i ragazzi di oggi giungono a possedere delle capacità, delle competenze e delle conoscenze che, rispetto alla scuola di una trentina di anni fa, fanno sorridere per la loro inconsistenza e per la loro vacuità.

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Dimenticano tuttavia costoro che rispetto alla scuola di trent’anni fa le cosiddette eccellenze, che non mancano mai in ogni classe del nostro pur martoriato sistema scolastico, oggi, a differenza dei bei tempi andati, hanno a disposizione una tale enormità di nuove strumentazioni didattiche con le quali poter rapidamente accedere a nuove e sterminate conoscenze, rispetto alle quali i vecchi sistemi di ricerca prediletti dalla scuola di tanti anni fanno, questa volta sì, veramente sorridere. I ragazzi di oggi hanno molto di più e molto di meglio rispetto alla pur veneranda Enciclopedia Treccani, enciclopedia i cui numerosi tomi via via aggiornati, lo ci si lasci dire, assolvono più ad una funzione decorativa tipica di uno status symbol, che non conoscitiva all’interno delle case degli italiani colti. I ragazzi di oggi padroneggiano alla perfezione strumentazioni tecnologiche, nuove diavolerie informatiche, marchingegni altamente sofisticati, il cui potenziale è ancora largamente ignoto anche agli specialisti delle discipline pedagogiche. E’ sufficiente collegarsi al sito di wikipedia per intuire immediatamente di quale scarto di potenzialità intercorra tra le vecchie vie di accesso alla conoscenza e le nuove fonti tecnologiche di informazione. La nuova enciclopedia telematica -wikipedia appunto- consente con un ‘clic’ di aprire un collegamento ipertestuale, di approfondire una voce o un argomento la cui comprensione altrimenti rimarrebbe oscura e confusa; è possibile visionare i documenti originali relativi all’argomento che si sta studiando, vedere filmati e testimonianze, articoli giornalistici o scientifici dedicati all’argomento oggetto di ricerca. Tutto questo insieme di potenzialità inevitabilmente, tra non più di qualche lustro, farà sparire dai banchi delle scuole i vecchi libri di testo. Sarà possibile tra qualche anno inserire tutto il contenuto didattico presente nei manuali di testo in formato telematico all’interno di pc a basso costo di cui le scuola oramai sono dotate. Questa breve considerazione sulle potenzialità didattiche insite nelle nuove strumentazioni tecnologiche non mira ad un’apologia pura e semplice del ‘nuovismo’ del terzo millennio; tanti infatti risultano essere i limiti e le criticità di un utilizzo miope, inappropriato e privo di cautele delle tecnologie informatiche oggi così familiari agli adolescenti dei paesi sviluppati. Tuttavia il senso che si può cogliere dalla rilevanza sempre più consolidata di queste tecnologie è il seguente; al di là dei casi problematici o scarsamente motivati -che tuttavia sono una cospicua minoranza-, i ragazzi realmente partecipi del processo educativo e attivamente coinvolti nel processo di apprendimento, quei ragazzi che, per dirla senza bizantinismi, non hanno un voto inferiore all’otto in pagella, ebbene quei ragazzi, a differenza dei cosiddetti ‘secchioni’ di una ventina di anni fa, hanno a disposizione una varietà di fonti e di strumenti conoscitivi tale da consentir loro di raggiungere livelli di preparazione rispetto ai quali le conoscenze di un vecchio 'secchione' appaiono frutto, nel migliore dei casi, di uno studio saltuario e di un’applicazione incostante. La scuola di oggi non deve più selezionare la classe dirigente del domani. C’è addirittura chi va blaterando di abolizione del valore legale del titolo di studio. La scuola italiana oggi è diventata una scuola inclusiva, di massa, e non esclusiva, né riservata alle élites benestanti che, nella vecchia ottica gentiliana, libere dalle soverchianti preoccupazioni lavorative, dovevano essere le uniche a poter accedere ai livelli più alti dell’istruzione pubblica. Questo fatto ne determina immediatamente un altro: l’asticella dei requisiti richiesti per esser promossi alle classi successive si è notevolmente abbassata negli ultimi anni, e con ciò è diventato sempre più difficile -anche per uno studente che coscientemente si prefigge di non studiare e di perdere l’anno scolastico-, risultare al momento dell’affissione dei quadri ‘non promosso’. Il livello medio delle conoscenze, all’interno di ogni singola classe, è spaventosamente inferiore alle conoscenze richieste dalle indicazioni ministeriali alle quali, almeno in teoria, dovrebbe attenersi la programmazione di inizio anno. Certamente chi quarant’anni fa si fermava alla terza media sapeva l’Eneide e l’Odissea molto meglio di chi supera il Ginnasio oggi a pieni voti. D’altra parte, se non ci limitiamo a confrontare le conoscenze medie possedute dagli studenti nelle singole classi tra le due differenti generazioni, ma ci riproponiamo di verificare anche i livelli delle eccellenze, non possiamo non riconoscere che i ragazzi più bravi di oggi sono ragazzi molto più bravi dei ragazzi più bravi di ieri, proprio perché hanno a disposizione tale esuberanza di mezzi e di opportunità conoscitive che di fatto rendono le eccellenze di oggi assolutamente ineguagliabili rispetto ai ‘secchioni’ di una volta. Purtroppo la scuola italiana non 88


dedica i necessari tempi al potenziamento di questi ragazzi che hanno capacità e abilità straordinarie, preferendo investire le ‘raccogliticce’ risorse economiche a disposizione dei nostri Istituti per tentare in tutti i modi una forma di accanimento terapeutico a ‘beneficio’ di coloro che durante l’anno scolastico rimangono indietro, a scaldare le sedie degli ultimi banchi della classe. Per concludere, un punto è da tenere a mente quando si parla di scuola e di riforme scolastiche. La scuola non è un’istituzione avulsa dal contesto sociale, culturale ed economico in cui essa si ritrova ad erogare il sapere, ma è profondamente immersa in quel determinato contesto. Ogni Riforma della scuola che voglia rendere tale istituzione efficace e propositiva non può omettere, in nessun caso, di partire da questa constatazione, che cioè la scuola cambia con la società, e risente dei mutamenti sociali molto di più di quanto la società risenta delle riforme scolastiche. Una seria riforma della scuola non si deve prefiggere di cambiare dall’alto le abitudini sociali in uso in un determinato contesto socio-culturale, ma deve inserirsi in esse ed operare con tutte quelle strumentazioni e quelle potenzialità che le innovazioni tecnologiche mettono a disposizione della classe docente, che va immediatamente svecchiata, al fine di migliorare quanto più possibile le conoscenze e le capacità di una platea adolescenziale con la quale bisogna saper innanzitutto dialogare, di cui bisogna comprendere il linguaggio e la problematicità, con la quale bisogna entrare in sintonia, che non va abbandonata a se stessa. Ed è forse questo il tallone d’Achille del nostro sistema scolastico. Nel nostro Paese il personale docente è stato reclutato soprattutto negli anni delle vacche grasse del Pentapartito, anni in cui le assunzioni nel mondo della scuola avvenivano con una disinvoltura a dir poco eccessiva. La scuola negli anni è diventata di fatto un ammortizzatore sociale; l’orario ridotto cui sono impegnati i docenti -che fa il paio con l’irrisorietà delle retribuzioni-, venne ritagliato per andare incontro alle esigenze familiari delle maestre e delle professoresse chiamate a dividersi tra attività professionale e custodia del focolare domestico. La conseguenza di quest’impostazione politica risulta evidente: oggi la scuola italiana si caratterizza per un personale docente in larga prevalenza femminile, certamente tanto numeroso quanto scarsamente retribuito, capillarmente sindacalizzato. Non sta a noi suggerire proposte tendenti al miglioramento di una situazione di per sé compromessa e fatiscente. Certo è che molte classi italiane oggi sono chiamate a svolgere una funzione di sostegno che non gli compete e per la quale non è previsto nessun sussidio di accompagnamento per le classi stesse: sto parlando del sostegno che di fatto molte classi scolastiche esplicano gratuitamente verso anziane colleghe che vanno ancora a ‘lavoro’ semplicemente per avere un po’ di giovialità e di allegria che in un reparto geriatrico non avrebbero. Uno svecchiamento del personale insegnante sembra quanto più necessario e improrogabile, soprattutto in considerazione degli stravolgenti mutamenti tecnologici e culturali che hanno interessato e interessano i ragazzi nel nostro Paese e più in generale nelle società occidentali, stravolgimenti che rendono la nostra classe docente per alcuni aspetti vetusta e impresentabile. 13. L'USCITA DIDATTICA ALL'AQUILA L’uscita didattica alla volta della città dell’Aquila, deliberata dal Consiglio di Classe della V C nel mese di Ottobre, si tenne a metà Gennaio dell’anno successivo. La consegna delle pagelle relative al primo trimestre era stata da poco ultimata, e l'acquisizione di nuove valutazioni aveva di fronte a sé lunghi mesi per poter essere completata. Tra i professori nessuno aveva più molta fretta di interrogare gli studenti, e meno che mai aveva voglia di intrufolarsi nelle classi per andare avanti con il programma. Sulla tempistica di quell’uscita didattica nessuno dei colleghi della classe ebbe quindi a lamentarsi. Dopo un lungo periodo di vacanza, e per smaltire gli eccessi goliardici accumulati durante le feste, è sempre consigliabile del resto un discreto periodo di ferie, ma non potendo l’interezza di un Consiglio di Classe avvalersi simultaneamente delle molteplici tipologie di permessi retribuiti, la cosa migliore rimane quella di svuotare una o più classi attraverso l’organizzazione di uscite didattiche strumentali all’impedimento della ripresa delle regolari attività 89


scolastiche. E questo avvenne anche nel caso che ci accingiamo a raccontare, con gli studenti della V C che appena dopo le vacanze natalizie furono trascinati nel capoluogo abruzzese. Se la tempistica dell’uscita didattica non suscitò particolari contestazioni, un po’ più problematica fu tuttavia l’accettazione della meta e delle ricadute didattiche che il viaggio stesso si riproponeva di conseguire. Si trattava infatti di far visita a una città terremotata, città in cui il dolore e la distruzione arrecati dal drammatico sisma del 6 Aprile del 2009 ancora frustravano le speranze di rinascita e disorientavano i progetti esistenziali degli aquilani. Per di più, i monumenti storici e i beni artistici che il professor Sfaticati si riservava di far visitare ai suoi alunni avevano riportato a seguito del sisma danni, lesioni, se non addirittura crolli dalla gravità tale da rendere assai discutibile la presenza di rumorose e numerose scolaresche sul luogo. Per quanto queste considerazioni avessero momentaneamente orientato il professor Sfaticati a desistere dall’effettuazione dell’uscita didattica, il fatto che negli anni scolastici passati uscite del genere erano state sempre e comunque organizzate dal nostro infaticabile prof indusse lo stesso a non arrestarsi di fronte alla calamità, calamità di fronte alla quale anzi apparve ai suoi occhi improrogabile la necessità di dar seguito alla riscoperta delle ricchezze artistiche, architettoniche e culturali che impreziosivano ed impreziosiscono tuttora quel gioiello incastonato sulle altezze degli appennini centrali che è e rimarrà per sempre la città dell’Aquila. Sulla scorta di questo intimo convincimento, il professor Sfaticati già da tempo aveva evaso tutti gli adempimenti burocratici che la predisposizione di un’uscita didattica impone: aveva raccolto le autorizzazioni dei genitori; aveva acquisito il parere favorevole del Dirigente Scolastico; aveva sollecitato e ottenuto un incontro con una delegazione del locale Liceo Classico; aveva acquisito il parere favorevole di tutti i colleghi del Consiglio di Classe che erano assenti al momento della delibera; e infine aveva attentamente verificato che l’uscita didattica non sarebbe stata effettuata nel suo giorno di riposo settimanale (eventualità non remota che gli avrebbe effettivamente impedito di riposare quel giorno). Il trasporto della scolaresca fu garantito da una ditta di Montelibretti, la cui gestione ricadeva nelle mani di una famiglia strettamente imparentata con il DSGA, ovvero con il Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi dell’Istituto. Ci pare qui il caso di soffermarci, visto che finora non abbiamo avuto il piacere di parlare di questa figura all’interno dell’organigramma scolastico. Il DSGA è la figura ‘apicale’ del personale tecnico-amministrativo, personale di cui sovraintende sia alla disposizione oraria che all’espletamento delle funzioni di supporto alle attività didattiche. La sua è un’attività principalmente di rendicontazione delle spese dell’Istituto, ed è una funzione fondamentale, poiché attua il controllo sulla trasparenza e sulle finalità delle spese autorizzate non solo dal Dirigente Scolastico (con il quale firma i mandati di liquidazione), ma anche dal Collegio Docenti e dai Consigli di Classe. Senza l’apposizione della sua firma nessuna spesa può essere effettuata. E’ il DSGA, inoltre, a orientare e a determinare la priorità dei pagamenti verso le ditte esterne che garantiscono piccoli servizi all’Istituto. Questi ‘piccoli servizi’ possono essere di varia natura: si va dalla corona funebre per il funerale di un anziano genitore di un collega al servizio di catering per l’allestimento di un piccolo rinfresco a scuola in occasione di un pensionamento di un paio di odiatissime colleghe, dall’acquisto di materiale di cancelleria al pagamento delle sartorie per i costumi dei ragazzi impegnati nella recita di fine anno, per non parlare inoltre di tante altre piccole spesuccie che non stiamo qui ad elencare. Il dottor Traffichini, inappuntabile DSGA del nostro Istituto, per evitare inutili, macchinose e onerose gare pubbliche, preferiva largheggiare con le assegnazioni dirette di servizi e forniture a ditte di cui solo casualmente conosceva capi e direttori, e della cui specchiata onestà avrebbe potuto garantire lui in prima persona. Per gli affari concernenti il servizio di trasporto della scolaresca nelle uscite didattiche il dottor Traffichini calorosamente suggeriva ai professori di lasciar fare tutto a lui, che da anni oramai masticava di queste faccende. A seguito di questo suo spassionato ma risolutivo interessamento, la ditta ‘Montelibretti Transiscion&Compari’ godeva di un monopolio inossidabile 90


per ciò che concerne il trasporto della scolaresca, monopolio che nessun’altra ditta di trasporti in tutta la provincia di Roma avrebbe potuto, ragionevolmente, mettere in discussione. Il pullman che la ditta ‘Montelibretti Transiscion&Compari’ mise a disposizione del professor Sfaticati per il trasporto della V C si presentò con un’ora buona di ritardo nel piazzale antistante il Liceo. Nel complesso, il mezzo di trasporto appariva accogliente e confortevole, se visto dall’esterno. L’anziano autista che guidava quel trabiccolo, il signor Malasvolta, che fino a notte fonda aveva onorato il pensionamento di un suo collega giocando alla morra e alla passatella, sulle guance e sul naso arrossati denotava evidenti sintomi di ebbrezza, sufficienti a giustificare le ragioni stesse del deprecabile contrattempo. Il viaggio si svolse piuttosto regolarmente, se si fa eccezione di un repentino colpo di sonno dell’autista che per poco non faceva saltare il pullman giù da un viadotto. L’aria condizionata calda, per un increscioso guasto tecnico, dovette rimanere accesa per l’intera durata del viaggio -ed era stato proprio questo inconveniente, a detta del signor Malasvolta, a determinare il suo stato di sonnolenza-, con il risultato che all’interno dell’abitacolo del mezzo di trasporto si raggiunsero temperature a dir poco tropicali. L’arrivo era fissato per le ore 8.30, nei pressi della Fontana Luminosa, simbolo tra i più celebri e meno illuminati del capoluogo abruzzese. Scendendo dal pullman, alle 9.50, gli accalorati studenti della V C passarono da un tepore apprezzabile in 30° C ad una frescura di 9° C, sotto lo zero. Questo clima algido, contrariamente alle aspettative del professor Sfaticati, non contribuì a destare l’evanescente vigilanza del nostro anziano autista, il quale, spento il motore, cadde immediatamente in una letargia molto più simile ad una morte leggera che ad un sonno pesante. Ad attendere la scolaresca romana si trovava sul posto, oramai in avanzato stato di assideramento, una sparuta delegazione di studenti e professori del locale Liceo Classico, eroicamente imbacuccati alla meno peggio con rabberciate sciarpe di lana, guanti di pelle, cappotti, piumini, cappelli, tutti oramai ricoperti completamente dalla neve e dal ghiaccio. Questa scolaresca -che, più che una scolaresca, assomigliava molto ai residui di un battaglione dell’ARMIR in ritirata-, come da accordi pregressi avrebbe dovuto accogliere e accompagnare per le deserte vie della città gli studenti del professor Sfaticati. Visto il prodigioso ritardo accumulato già in fase di partenza, e considerate le temperature polari che come al solito nel mese di Gennaio attanagliano la città dell’Aquila, i professori delle rispettive scolaresche (il professor Sfaticati e la professoressa Giavellotti per la scolaresca romana, il professor De Nicola e la professoressa Ciuffetelli per la scolaresca aquilana) immediatamente convennero sulla necessità di accelerare alquanto la scaletta delle visite previste. L’itinerario programmato prevedeva nell’ordine: la visita del Castello Cinquecentesco; la visita della Basilica di San Bernardino; una breve sosta panoramica nella Piazza del Duomo; un momento di ristoro nei locali della Cantina del Boss, dove le scolaresche si sarebbero intrattenute per mangiare un paio di panini con la frittata e dove il professor Sfaticati avrebbe immancabilmente approfittato per inumidirsi il becco in un buon bicchiere di vino bianco; la visita della Fontana delle Novantanove Cannelle; e, in ultimo ma non certo per importanza, un breve pellegrinaggio nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, prima di riprendere l’autostrada per la capitale, sbronza dell’autista permettendo. Il professor De Nicola, insegnante di Storia dell’Arte nel locale Liceo, nonché indiscussa eminenza nel campo della conoscenza del patrimonio artistico abruzzese, dopo una fredda ma calorosa stretta di mano con i suoi colleghi romani invitò senz’altro indugio l’intera scolaresca a seguire i suoi passi, in fretta ma anche in silenzio. La prima tappa risultava fortunatamente assai vicina, ed era il Forte Spagnolo. Qui gli studenti, preceduti dal quartetto professorale, ebbero modo di fare un giro attorno al castello, e dalle parole del professor De Nicola ebbero modo anche di appurare quanto di 91


seguito puntualmente annotato (non ci si chieda in che modo viste le temperature polari) dalla incorreggibile studentessa Cecilia Quattrocchi. “Il Castello Cinquecentesco, è una monumentale costruzione con la quale Carlo V del Sacro Romano Impero e tutti i suoi discendenti garantirono la difesa del confine settentrionale dei loro possedimenti nel meridione italiano. E’ una fortezza che chi viene all’Aquila non può non visitare. Il presidio fu ritenuto indispensabile dagli occupanti spagnoli a seguito della rivolta filofrancese che si verificò nella città dell’Aquila del 1527 (siamo ai noiosissimi tempi, almeno per chi deve studiarli, delle guerre franco-imperiali, nda). Non a caso, sul suggestivo portale, assieme all’Aquila bicipite che è l’emblema della Casa d’Austria, campeggia la minacciosa scritta AD REPRIMENDA AUDACIA AQUILANORUM. Nel ‘600 divenne la sede del governatorato spagnolo, e successivamente, nell’ ‘800, costituì il luogo di acquartieramento delle truppe francesi e poi, molto dopo, delle truppe tedesche al comando del generale Kesserling, celebre camerata che all’indomani dell’Operazione Alarico, nella fase conclusiva della Seconda Guerra Mondiale, coordinò l’occupazione del Belpaese fino a nord di Napoli. Attestatisi dietro la linea Gustav, i tedeschi non mancarono nei mesi di occupazione all’Aquila di trasformare il Castello in carcere per i ‘sabotatori’, per i ‘terroristi’ e per i delinquenti comuni, fino a giungere a trucidare nove ragazzi arruolati nella Resistenza abruzzese, passati poi alla storia come i Nove Martiri dell’Aquila. Nel dopoguerra fu allestito all’interno del Castello un Auditorium e soprattutto il Museo Nazionale d’Abruzzo. A seguito di questa lungimirante scelta nel Castello è tuttora custodito un altro importantissimo simbolo dell’identità aquilana (simbolo che però la scolaresca non ebbe l’agio di osservare, nda): l’Elephas Meridionalis, più semplicemente noto come Mammut dell’Aquila. Il sisma che ha sconvolto la città ha purtroppo danneggiato pesantemente il Forte Spagnolo, rendendo la costruzione inagibile e determinando con ciò la chiusura sine die del Museo Archeologico Nazionale, dove era appunto custodito ed esposto il Mammut. L’attuale crisi economica che investe la penisola iberica, purtroppo, rende assai improbabile che il governo spagnolo rispetti nelle modalità e nei tempi previsti l’intento di farsi carico della ricostruzione del Castello Cinquecentesco”. Terminato il giro attorno al Castello, il professor De Nicola speditamente si diresse verso via Castello, da dove, seguito a stretto giro dalle classi, si ritrovò dopo qualche decina di metri sulla scalinata antistante la Basilica di San Bernardino. Qui invitò di nuovo i ragazzi a far silenzio e a prestare la massima attenzione, e proseguì spiegando quanto segue: “La Basilica di San Bernardino è una basilica cattolica pressoché coeva al Castello. Nella Basilica sono gelosamente custodite le reliquie di San Bernardino da Siena che, negli ultimi giorni della sua vita, benché gravemente ammalato, volle qui recarsi per rappacificare delle fazioni in lotta tra loro. Quando morì, gli aquilani chiesero ed ottennero dal Papa, all’epoca Eugenio IV, di poter erigere una Basilica in cui custodire le reliquie del Santo, e così fu che nacque questa Basilica. Già gravemente colpita dal sisma del 1703, anche la Basilica di San Bernardino così come il Forte Spagnolo è stata resa del tutto inagibile dal terremoto del 2009, essendo crollati quasi del tutto sia l’abside che il campanile. L’auspicio comune è che i lavori di ricostruzione della Basilica, generosamente finanziati dal Monte dei Paschi di Siena in onore del Santo che qui col suo riposo onora tutti gli aquilani, credenti e non, possano concludersi, come previsto, in soli dieci anni dal loro inizio”. Terminata la visita alla Basilica di San Bernardino, tra i mezzi spazzaneve e i blindati dell’esercito chiamati a presidiare e, in alcuni casi a vietare gli accessi nei punti nevralgici del centro cittadino, il professor De Nicola precedette le classi e si indirizzò speditamente sul Corso principale dell’Aquila, dedicato a Umberto I di Savoia. Una targa commemorativa posta ai ‘Quattro Cantoni’, incrociati durante il tragitto, ricorda l’insano gesto dell’anarchico Gaetano Bresci che, proditoriamente per alcuni ed eroicamente per altri, tolse la vita al monarca sabaudo. Alla fine del corso la scolaresca arrivò alla Piazza del Duomo, dove il professor De Nicola riprese la sua spiegazione. Sempre da 92


quell’inesauribile fonte di cultura e testimonianza costituita dagli appunti di Cecilia Quattrocchi abbiamo modo di ricostruire quanto segue. “La Piazza del Duomo dell’Aquila è una delle piazze più grandi d’Italia. Già dal basso medioevo ospitava bancarelle di ogni tipo, e non a caso era anche detta Piazza del Mercato, fino a quando, con la sciagura del 6 Aprile, anche il mercato è stato purtroppo costretto a trasferirsi e disperdersi nelle immediate periferie e negli impersonali Centri Commerciali della città. La Cattedrale dei Santi Giorgio e Massimo signoreggia tra tutti gli edifici che si affacciano sulla Piazza, dove nel medioevo avevano luogo anche le esecuzioni capitali. La Chiesa di Santa Maria del Suffragio o delle Anime Morte, con la sua facciata a dir poco inquietante, non manca di gettare il visitatore in un’angoscia sinistra, angoscia sinistra che vien presto meno grazie agli zampilli briosi e alla dolce eleganza di due pittoresche fontane, a capo e ai piedi della piazza, costruite per volere e per il gusto dello scultore Nicola D’Antimo, lo stesso ideatore della già citata Fontana Luminosa. (Va però aggiunta una glossa: al momento della visita gli zampilli d’acqua dalle fontane si erano trasformati in multicolori ghiaccioli; questo sugli appunti della studentessa Quattrocchi non è specificato, nda). Con il sisma del 2009 l’intera Piazza è rientrata nella cosiddetta Zona Rossa, zona cioè dove la persistenza di edifici pericolanti ha reso urgente e necessario l’impedimento dell’accesso ai cittadini e ai visitatori. Altra caratteristica della Piazza, non si sa in verità quanto intimamente apprezzata dagli aquilani, è il sensibile dislivello che divide le due estremità, dislivello che rende assai avventurose le passeggiate nei periodi invernali, essendo la piazza costantemente lastricata di ghiaccio. Per alcuni mesi, e precisamente per i mesi immediatamente successivi al catastrofico sisma, quello delle rovinose cadute durante le passeggiate in piazza è però stato l’ultimo dei problemi che la cittadinanza si è ritrovata ad affrontare. Solo di recente, e grazie a costosissimi puntellamenti e delicatissimi lavori di messa in sicurezza degli edifici della Piazza e delle vie in essa confluenti, è stato possibile riaprire al pubblico l’intera area, ed è con una certa gioia masochistica che adesso gli aquilani godono delle loro rocambolesche cadute durante le passeggiate invernali. D’altra parte, se ci si va a passeggio in una bella mattina di primavera, si può anche osservare, con un certo grado di stupore, la presenza di qualche isolata, timida, ma al contempo pionieristica bancarella, dove il visitatore è invitato ad acquistare qualche simpatico souvenir cittadino”. Visitata Piazza Duomo, con gli studenti resi paonazzi e oramai disattenti dal pungolo del gelo, su proposta del professor Sfaticati -proposta euforicamente accolta dal resto della infreddolita comitiva-, ci si risolse per un immediato riavvicinamento alla Fontana Luminosa, da dove poi ci si sarebbe dovuti nuovamente spostare per raggiungere, questa volta non a piedi ma in pullman, la Fontana delle Novantanove Cannelle e, come ultima tappa, la Basilica di Santa Maria di Collemaggio. Come da programma, del resto, era prevista e da tutti trepidamente attesa una breve quanto indispensabile pausa di riscaldamento, di ristoro e di rifocillamento all’interno di un locale nelle adiacenze della Fontana Luminosa, all’interno dei locali della Cantina del Boss. Quando il professor Sfaticati, precedendo la numerosa scolaresca, varcò il portone della Cantina, trovò nei pressi del bancone un variopinto assembramento di persone, tra le quali non mancò di notare la ciarliera presenza dell’autista della ‘Montelibretti Transiscion&Compari’. Il povero signor Malasvolta, sorpreso dalle temperature polari che presto avevano raffreddato l’abitacolo del suo pullman, era corso ai ripari rifugiandosi nel locale più vicino. Nella Cantina del Boss l’autista, la cui voce più delle altre si ergeva a sentenziare sui casi umani più disparati che venivano via via portati in discussione, era stato tacitamente eletto alla carica di presidente di una astrusa società di accoliti. L’inappuntabile autista, di fronte ad alcune bottiglie di vino, sembrava aver ripreso vigore e colore. Qui il signor Malasvolta, sorretto da un buon livello alcolemico nel sangue, ebbe agio di rendere edotti i suoi nuovi amici su alcuni dei momenti più indimenticabili della sua vita, dall’esame di maturità mai sostenuto, al servizio di leva svolto sul confine jugoslavo (ma dall’altra parte, come imboscato), dal matrimonio riparatore con una giovane slovena, alla morte di quest’ultima a seguito 93


di un’accidentale quanto misteriosa caduta dal balcone di casa. Non sembrò opportuno, al professor Sfaticati, disturbare quella conviviale assemblea per porgere al loro accompagnatore gli omaggi suoi e della scolaresca. Dopo aver fatto accomodare gli studenti in una sala interamente prenotata a nome del Liceo romano, il professor Sfaticati si diresse immediatamente verso il banco alla ricerca del personale per effettuare la dovuta ordinazione, ma non vi trovò nessuno in servizio. Dal variopinto assembramento di persone fu informato che il signor Giorgio Massari -titolare, assieme al fratello, della Cantina del Boss-, era impegnato in una sala attigua in una tiratissima partita di tresette, mentre il signor Franco Massari era impegnato nei locali del magazzino dell’enoteca per smerciare non si sa quanti ettolitri di vino a non si sa quale importante ristoratore aquilano che lì puntualmente si presentava per rifornire il suo avviatissimo esercizio. Al professor Sfaticati non rimase altro da fare che armarsi di pazienza, attendere e ascoltare ciò che nei pressi del banco gli avventori, attorno al suo autista e attorno ad un paio di bottiglie di vino svuotate a metà, andavano animosamente discutendo. Presto capì che si stava parlando di matrimonio e in particolare del caso di un amico in comune, il signor Cerrotti per la precisione, lì presente, che era da poco reduce dal terzo divorzio. Il signor Cerrotti, approfittando della pausa pranzo, aveva appena tagliato la corda che a stento lo teneva legato all’Istituto Bancario presso il quale prestava servizio e, degustando a piccoli sorsi il suo solito bicchiere di vino, ascoltava distrattamente quanto via via si andava dicendo su di lui, prestando meticolosa premura affinché nessuno degli astanti, nella concitazione della conversazione, irrorasse con preziose gocce di sciroppo alcolico la sua immancabile mise da alpinista, con la quale, inspiegabilmente, era solito recarsi giornalmente a lavoro. L’autista dell’azienda di trasporto ‘Montelibretti Transiscion&Compari’, che da non molti anni era stato assolto dall’accusa di uxoricidio per insufficienza di prove, sosteneva la tesi per la quale un uomo, senza una moglie e senza quegli affetti familiari che solo una donna sa dare, non poteva considerare la propria vita pienamente vissuta. E sulla scorta della sua breve esperienza matrimoniale chiosava che solo nella famiglia un uomo con tutti gli attributi avrebbe potuto trovare la pace e la quiete del suo spirito. Ma c’era, inevitabilmente, qualcuno che dissentiva seccamente da questa conclusione. A questo signore rispondeva gesticolando in modo piuttosto vistoso un altro avventore, più precisamente il signor Sciaboletta, il quale, sfregandosi senza sosta e senza una motivazione plausibile il volto dal naso giù fino al mento, come se avesse il muso cosparso di pepe, sosteneva l’idea che la vita di coppia, anziché vivificare l’esistenza di un uomo, la mortifica; e dopo aver ripetutamente premesso di essere assolutamente contrario alla pena di morte-, sosteneva anche che si sarebbe dovuto impiccare solo ed esclusivamente quell’uomo che aveva strangolato per gelosia la propria moglie dopo che questa povera donna, chiuse le valigie, aveva minacciato il consorte di varcare definitivamente la soglia del tetto coniugale per fuggire con l’amante di turno. A questo punto intervenne il meditabondo signor Francesco Fizzi -un uomo sulla cinquantina, sempre perfettamente elegante e gentile, ma assai silenzioso-, il quale, destandosi dal suo stato di apparente torpore chiosò a voce bassissima: “andare d’accordo per tutta la vita con una donna non è affatto difficile, è impossibile!”. Alcuni signori, con un bicchiere mezzo vuoto tra le mani, ascoltavano queste autorevoli prese di posizione senza batter ciglio, altri invece, con un bicchiere mezzo pieno, annuivano una volta all’uno e una volta all’altro dei disputanti, sortendo però l’effetto di ringalluzzire gli stessi e divaricarne le tesi. Ben presto, tuttavia, tra un’argomentazione a favore del matrimonio e una controdeduzione a favore del celibato, tutti si accorsero che il vino nelle bottiglie era finito. All’unisono un gran levar di voci richiamò la baluginante attenzione dei gestori, i quali, chi abbandonando il tavolo da gioco, chi la rifornitissima cantina sede di estenuanti contrattazioni, accorsero immediatamente dall’altra parte dell’affollato bancone per placare la sete di quei curiosi esperti di questioni matrimoniali.

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“Franco, hanno pagato le bottiglie di prima?”, chiese Giorgio, arrivando di corsa e togliendosi la sigaretta accesa dalla bocca, al fratello che si accingeva a stappare altre due preziose bottiglie. “A me sembra che non le hanno pagate! Controlla un po’…”. Lo scetticismo del signor Giorgio fu accolto dagli assetati signori con un moto di ripulsa. “Ma perché nun te va’ addurmì?”, chiese uno; “Ma perché nun te ‘mpicchi?”, chiese un altro. A quietare gli animi intervenne però il signor Franco, la cui attenzione certosina verso le ordinazioni e i relativi pagamenti ne faceva l’indiscusso garante della trasparenza delle transazioni poste in essere dalla numerosa e a volte smemorata clientela. “Gio’, hanno pagato hanno pagato… va a joca’ a carte camina”, gli rispose il signor Franco. E così dicendo, stappò con una ineffabile maestria le altre bottiglie e provvide alla mescita nei numerosi bicchieri versando a tutti la stessa, identica, dissetante misura. Il signor Giorgio Massari, rassicurato ma non del tutto dalle parole del fratello, bofonchiando qualcosa di irriferibile sulla presunta spilorceria dei suoi clienti, si accinse ad abbandonare la propria postazione di lavoro, non prima però d’aver fatto sparire nel proprio gargarozzo un bicchiere di vino riempito fino all'orlo, furtivamente attinto da una bottiglia già aperta, dando le spalle alla clientela e alla moglie, la signora Silvana, che nel frattempo era entrata nel locale; il tutto con una sconcertante cupidigia, con una rapidità impareggiabile, segno di una meticolosa esperienza (vedi dopo). Quindi tornò al tavolo da gioco, dove l’attendeva il proseguimento di una partita così disperata che solo un illecito gioco di prestigio nel mischiar le carte avrebbe potuto miracolosamente riscattare. In tutto ciò il professor Sfaticati era rimasto ai margini del bancone, e quando il signor Franco, animato dallo scrupolo di ‘far tanto pe’ d’uno’ ebbe terminata la complessa operazione di mescita agli attentissimi e in quel frangente silenziosissimi bevitori, richiamò immediatamente l’attenzione del gestore per effettuare l’ordinazione per tutti quei ragazzi il cui rumoreggiare non era passato inosservato al resto della clientela. La decennale conoscenza reciproca del professor Sfaticati e del signor Franco fece sì che si andasse immediatamente al sodo. “A Fra’, c’ho una quarantina di ragazzi affamati nell’altra sala, più altri tre professori di cui una che viene da Roma e che da sola mangia per cinque. Che gli vogliamo far assaggiare di buono?”. “Possiamo provvedere subito”, rispose il signor Franco con la gentilezza e il garbo che solitamente gli si addicono, e, munendosi di carta e penna, suggerì: “Possiamo fargli assaggiare 10 focacce con la frittata, 10 con il prosciutto e il formaggio, 10 con la lonza, sottaceti e formaggi; 10 con il salame piccante e 10 con tonno e pomodori”. “Perfetto…”, annuì il professor Sfaticati, suggerendo infine: “da bere portategli un po’ d’acqua e di aranciata, e per i professori fai stappare una bottiglia di vino buono ma leggero, ma solo un mezzo bicchiere a testa, che stiamo in servizio…insomma, a me fa mezzo bicchiere abbondante che è meglio…”. “Vanno bene quattro mezzi bicchieri di Fonte Cupa, di cui uno abbondante?”. “Ottimo, sì va bene…”, rispose all’istante il professor Sfaticati. Il signor Franco, con degli occhiali sbilenchi leggermente appoggiati sul naso, in un batter d’occhio riportò per iscritto la lista delle richieste del professor Sfaticati, e senza staccare la penna da quel foglio scrisse in alto a destra a caratteri cubitali ‘PAGATO’. Quindi alzò lo sguardo dai suoi appunti per chiedere al professor Sfaticati: “Preferite pagare subito, oppure adesso?”. Il professor Sfaticati, che da anni conosceva quella simpatica ridondanza, chiese la divisione del conto per il numero degli studenti sommato a quello dei professori, e in men che non si dica ebbe l’entità esatta del quoziente richiesto. Abbandonò quindi un attimo il bancone, andò dai suoi studenti e dai suoi colleghi a 95


sollecitare la colletta, e in un paio di minuti tornò con un’incredibile quantità di sonanti monete. Il signor Franco Massari, prima di rendere l’immancabile ricevuta fiscale al professor Sfaticati, non trascurò di contare attentamente prima le banconote di taglio maggiore, poi quelle di taglio minore, poi le monete da un euro, poi quelle da cinquanta centesimi, poi quelle da venti centesimi, fino alle monetine di più infimo valore; il tutto con una sconcertante cupidigia, con una rapidità impareggiabile, segno di una meticolosa esperienza (vedi prima). A questo punto il professor Sfaticati, salutata una mezza dozzina di amici ai quali ebbe agio di spiegare le ragioni della sua presenza e soprattutto della presenza della scolaresca sempre più euforica nell’altra sala (omettendo però di puntualizzare i motivi della presenza dell’autista della ‘Montelibretti Transiscion&Compari’), si congedò dalle sue conoscenze per raggiungere il resto dei professori che nel frattempo cercavano inutilmente di tenere a bada e in silenzio gli studenti. Qui si sedette vicino ai suoi ragazzi, e per tentare anche lui di farli tacere, gli raccontò un po’ la storia di quel locale in cui si trovavano a pranzare, ottenendo l’immediato e interessato silenzio di tutti. E’ inutile specificare che i lineamenti di quella storia che il professor Sfaticati amabilmente cominciò a raccontare sono qui riportati in virtù delle puntuali note della studentessa Cecilia Quattrocchi. “Con il termine ‘cantina’ -disse il professor Sfaticati- si possono indicare cose e concetti vari; si può significare il complesso dei locali delle aziende produttrici finalizzati alla vinificazione, alla conservazione e all’affinamento dei vini; oppure il locale che un privato o il titolare di ristorante o di enoteca destina alla corretta conservazione delle bottiglie di vino prima del consumo o della vendita. Se ci si limita a questi significati appena esposti, allora La Cantina del Boss dove ci troviamo non è una cantina. All’interno della Cantina del Boss, infatti, i vini è vero che si conservano, ma le bottiglie sono più precipuamente destinate all’immediata mescita piuttosto che a una lunga conservazione. Del resto, questa particolarità non è una esclusiva della Cantina del Boss. Come i clienti più anziani ricorderanno -e supponiamo, da questo stralcio di appunti, che nel frattempo alcuni anziani clienti si era appropinquati ai tavoli occupati dalla scolaresca per far conoscenza della strana comitiva e per ascoltare il racconto del nostro professore-, prima che si affermassero pub, discoteche, discopub, irish pub, centri sociali più o meno alternativi, night e cose del genere, la cantina era solitamente un punto di ritrovo per scambiare due chiacchiere sui fatti della giornata, dove si aveva modo, tempo e occasione di parlare con gli amici, di conoscere gente vecchia e nuova, di sparlare di questo o quel politico, ecc.; il tutto, rigorosamente di fronte a un bicchiere di vino”. “Oramai -continuò il professor Sfaticati- questa semplice forma di socializzazione, almeno tra i più giovani, si va via via eclissando, e voi lo sapete meglio di me. A un buon bicchiere di vino sul bancone della cantina in compagnia di un signore anziano che ti racconta la storia della sua vita, si preferisce un cocktail di dieci liquori diversi impreziosito da una fragolina, una cannuccia e del ghiaccio, la musica alta e martellante di qualche gruppo musicale alle prese con le ultime sperimentazioni di brani computerizzati, le luci psichedeliche, la mischia, la puzza di sudore che dilaga e opprime, droghe leggere, pesanti e sintetiche; il tutto condito da frotte di ragazze vestite soltanto del necessario per apparire lascive e di facili costumi. La Cantina del Boss, di cui il sottoscritto professor Sfaticati è un affezionato cliente, non ha nulla a che fare con queste nuove quanto discutibili modalità di aggregazione”. “La Cantina dove ho suggerito di portarvi nell’ora di pranzo, è condotta da una simpatica quanto prolifica famiglia aquilana; la famiglia Massari. Franco e Giorgio Massari sono i due fratelli che da tempo immemorabile hanno esaltato le potenzialità di questo locale trasformandolo in uno dei più importanti luoghi di socializzazione cittadina, se non addirittura in uno dei simboli più importanti della città capoluogo di regione. Il padre di questi due anziani signori, si narra, fu il famigerato Ju Boss, che, tornato senza lavoro dalle acciaierie di Rockefeller negli Stati Uniti d’America -dove la 96


crisi del ’29 aveva gettato nella disoccupazione e nella disperazione quei milioni di emigranti italiani che lì si eran recati, sul finire dell’ ‘800, in fuga dalla fame e dai pidocchi nostrani-, aveva deciso di rilevare nel 1931 la gestione di una precedente Cantina denominata dell’Uomo Nero. La storia del locale è perduta nelle nebbie dei secoli. La sua costruzione è fatta risalire ai tempi della dominazione spagnola. I locali, che si affacciano su via Castello, non lontani dal Forte Spagnolo che abbiamo visitato in mattinata, pare servissero da appoggio per la soldataglia borbonica. Nel corso dei secoli e degli anni, tuttavia, i locali della Cantina si resero indipendenti, per lo meno per quanto concerne le finalità, alle sorti del Castello Spagnolo, sulle quali ci ha in precedenza illuminato il professor De Nicola. Ma possiamo dire di più. Dal ritrovamento di un antico manoscritto nascosto nelle pareti di una finestrella, manoscritto che per l’occasione il signor Franco ci ha cortesemente permesso di visionare, gli esegeti più accreditati della storia della Cantina convengono sul fatto che gli interni del locale, almeno fino alla Grande Guerra, erano destinati all’abitazione di una famiglia dedita all’artigianato. E’ qui il caso di riportare integralmente il testo del manoscritto, magistralmente incorniciato dal maestro Bruno Turilli -artigiano e ‘artistoide’ a tutti noto all’Aquila e provincia-, e gelosamente custodito dagli attuali conduttori dei locali della Cantina. Ragazzi, quello che state per ascoltare è un documento eccezionale che ci permette di ricostruire un pezzo di storia di questo locale e, più in generale, di quali erano i problemi che attanagliavano la vita e il lavoro degli aquilani di tante generazioni passate”. Qui il professor Sfaticati inforcò gli occhiali e cominciò a leggere attentamente una copia del manoscritto che qualche giorno prima gli era stata cortesemente donata dal signor Franco. “Bellisari Alfonso di anni 28, figlio di Francesco Bellisari e di Marianna Giuliani, ambedue professiamo onestamente e rispettabilmente la civil arte dell’orologiere: io stesso Alfonso, trovandomi malato con l’occhio destro e non potendomi applicare al lavoro quotidiano vado in cerca per la casa trovando sempre occupazioni grossolane per bene della casa e per evitare l’ozio (benché malato), ed un giorno mi venne in trasporto di rimurare e stuccare la detta finestrina, a luce, onte continuare il mio divertimento, ossia di ripolire queste due camere, vale a dire, le dipingo a mio piacere di dilettante, metterci i parati nelle mura, e verniciare tutte le porte e le finestre. Siccome l’epoca è tristissima siamo scorticati dal pagare 99 tasse, le arti non danno guadagno e perciò non vi sono denari sufficienti per fare gli accomodi di casa per mezzo degli artisti adatti. Fino ad oggi, questa è l’eredità che posso riporre per i futuri, e chi si impossesserà di questo manoscritto gli farà comodo per pulirsi il culo. Aquila 9/X/1888 Bellisari Alfonso Siamo al governo delle tre P…….. ossia Piangere Patire e Pagare”. Letto il prezioso documento, tra le risate degli studenti il professor Sfatigati continuò nella sua dissertazione storica. “Attualmente i signori Franco e Giorgio Massari, chiamati affettuosamente dalla clientela più assidua 'i due Senatori', sono affiancati, non senza qualche piccolo problema di coordinamento, dai signori Mariano, Fabrizio e Pierluigi Massari, figli, il primo, del senatore Franco, e gli altri due del Senatore Giorgio. La gestione familiare rende l’atmosfera che si respira all’interno del locale ancor più accogliente e calorosa, non mancando in taluni casi l’occasione di simpatici battibecchi tra i gestori invariabilmente accolti dalla numerosa clientela con divertita palpitazione”. “Al di là degli ottimi vini che qui si possono acquistare a prezzi difficilmente sopportabili dalla concorrenza, una caratteristica che contraddistingue Ju Boss, e che ne ha fatto un luogo di aggregazione per numerose generazioni di aquilani e non, sta nel fatto che all’interno dei suoi locali ci si può intrattenere per festeggiare compleanni, lauree, matrimoni, divorzi e quant’altro; ma non solo. All’interno dei suoi locali ci si può sedere a giocare con navigati maestri delle carte 97


napoletane, e del modo di mischiarle; ci si può accomodare per mangiare delle ottime focacce squisitamente farcite, o, volendo apparire più frugali, delle ghiotte uova sode; ci si può giocare a scacchi, a dama; ci si può portare un libro da leggere in compagnia di un bicchiere di vino; qui vengono gli studenti universitari con degli appunti a studiare e a confrontare gli esercizi; vi si tengono mostre fotografiche, mostre di pittura, assemblee e riunioni di vari comitati e associazioni”. “In questo locale non c’è quella che voi chiamate musica, e la cosa favorisce indubbiamente lo scambio di idee e l’allargamento della partecipazione democratica nel dibattito relativo all’ondivago ordine del giorno. La risultante è una varietà assai pittoresca nel target della clientela, e sistematicamente ci si può imbattere in un onorevole come in un grillino, in un poliziotto come in un falsario, in una madre di famiglia timorata di Dio come in una giovane universitaria in cerca di facili adescamenti, in gente di paese come in gente di città, in nostalgici del ventennio fascista come in un collettivo di anarco-insurrezionalisti. Ma mai, in questo locale, la pittoresca diversità si è trasformata in conflittualità, e lo scambio di idee mai è degenerato in vero e proprio alterco”. “Anche questo locale, come tutti gli edifici qui attorno, è stato danneggiato dal terremoto del 6 Aprile, ma grazie al lavoro e alla tenacia soprattutto del signor Franco Massari, quel signore al quale mi avete visto portare i vostri soldi, è stato possibile l’8 Dicembre dello stesso anno riaprire al pubblico la Cantina del Boss a beneficio non soltanto dei vecchi affezionatissimi clienti, ma di tutta la città dell’Aquila. Vi garantisco, perché io c’ero, che quel giorno fu il giorno più bello per la città dopo il 6 Aprile. La piazza antistante era stracolma di giovani, anziani, famiglie, ragazzi venuti da tutte le parti d’Abruzzo, gente che piangeva dalla felicità, incredula che dopo tanti mesi di tristezza e di tragedia si potesse tornare a sorridere. Fu un piccolo passo per la ricostruzione della città, ma un grande passo per gli aquilani. Fu una goccia di felicità in un oceano di dolore”. I ragazzi, conclusa la narrazione della breve storia della Cantina del Boss, rimasero in silenzio rapiti da assorte considerazioni. Precisamente in quel momento entrò nella sala il signor Giorgio Massari, con una sigaretta in una mano, sollevando con l’altra un vassoio pieno di focacce, e urlando a gran voce: “La signorina Antonella? E’ qui la signorina Antonella?”. “Sì eccomi, sono io”, rispose una ragazza sulla ventina, che non faceva parte della scolaresca ma che, nonostante questo, si era seduta assieme agli altri ragazzi per ascoltare il professor Sfaticati nelle sue funamboliche divagazioni. “Ah, è lei la signorina Antonella. E’ da mezz’ora che la stiamo cercando. E’ pronta la focaccia con la frittata che aveva ordinato, ma adesso s’è raffreddata”, e nel dir questo porse il vassoio alla signorina, la quale nel veder tutto quel ben di Dio sorretto dal vassoio ebbe un attimo di titubanza, ed osservò guardando negli occhi il signor Giorgio: “Ma io avevo ordinato solo una focaccia con la frittata, queste ne sono addirittura quattro!”. “Signorina…-rispose cortesemente il signor Giorgio sbuffando nuvolette di fumo mentre si toglieva la sigaretta dalle labbra nascondendola dietro la schiena-...ma questa è una focaccia tagliata in quattro. Qui alla Cantina così funziona da sempre: una focaccia con la frittata è fatta così come vede, in quattro pezzi, così è più comodo mangiarla…”. Di fronte allo stupore e allo sbalordimento della signorina Antonella il signor Giorgio la osservò e cominciò amichevolmente a sorridere. Ma quell’espressione gentile e bonaria del signor Giorgio si tramutò in men che non si dica in un’altra espressione, di severo e ultimativo ammonimento, quando la signorina Antonella, nel prender in mano il vassoio con le quattro focacce, disse al signor Giorgio: “Oh ma è davvero tanta, grazie grazie, quanto siete gentili!”. “Signorina!!! Che grazie e grazie, sono 4 euro!”.

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Calato il sipario sulla stucchevole scenetta, i signori Pierluigi, Fabrizio e Mariano Massari entrarono finalmente nella sala portando una dozzina di vassoi stracolmi di focacce, e tra la soddisfazione generale provvidero a sistemare tutto quel vettovagliamento in posti equidistanti sui numerosi tavoli occupati dalla scolaresca. Immancabilmente il signor Giorgio chiese alla progenie “ma hanno pagato?”, ma questa volta non ricevette dai figli e dal nipote alcuna una risposta. Il pasto fu terminato in men che non si dica, e ben riscaldati e rifocillati tutti i ragazzi si avviarono verso il pullman, dove nel frattempo l’autista aveva ripreso puntualmente il suo posto, più paonazzo che mai. Prima di uscire dalla Cantina, però, il professor Sfaticati volle personalmente ringraziare per la squisita e professionale ospitalità riservata alla propria scolaresca i due Senatori, Franco e Giorgio, ai quali Senatori il nostro professor Sfaticati rimarrà legato da un’amicizia reciproca, profonda, sincera, cui solo l’ineluttabile potrà porre fine. Risaliti finalmente sul pullman, non senza qualche difficoltà l’autista riuscì a seguire con una discreta attenzione le indicazioni che il professor Sfaticati gli stava fornendo per cercare di raggiungere in tempo utile le ultime tappe previste dall’itinerario dell’uscita didattica. La scolaresca quindi arrivò nei pressi della desolata Stazione Ferroviaria dell’Aquila dove tutti scesero per raggiungere a piedi la Fontana delle Novantanove Cannelle. Qui il professor De Nicola, dopo aver invitato la scolaresca ad osservare il più scrupoloso silenzio, ottenuto questo riprese la parola per spiegare ai discenti quanto di seguito riportato. “La Fontana delle Novantanove Cannelle, o della Rivera, fu edificata a pochi anni dalla fondazione della città, fatta risalire ai tempi di Federico II di Svevia. La Fontana, uno dei simboli più importanti della città dell’Aquila, si chiama delle Novantanove Cannelle poiché costituita da novantatré mascheroni e da sei cannelle dai quali sgorga incessantemente dell’acqua. Anche questa Fontana, assieme a tutta l’area della Rivera, ha subito pesanti danneggiamenti a seguito del sisma del 2009, e soltanto di recente ne è stata garantita una parziale riapertura al pubblico”. Gli studenti, nel frattempo, si assieparono attorno alle fontanelle per qualche foto ricordo, scattate le quali, sollecitati dal freddo, corsero a riprendere posizione sul pullman. Svegliato l’autista con uno scossone infertogli sulla spalla dal professor Sfaticati, il pullman ripartì alla volta della Basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove il professor De Nicola ebbe modo di spiegare quanto di seguito specificato. “La Basilica di Santa Maria di Collemaggio, che si erge maestosa a margine di uno spazioso e verdeggiante prato in cui gli aquilani vanno a giocare, a distendersi e a passeggiare con i propri cagnolini nelle giornate particolarmente soleggiate -non come questa-, fu fondata per volontà di Pietro da Morrone sul finire del 1200 (precisamente nel 1284). Per volontà del suo illustre fondatore -che divenne poi celebre, grazie o per colpa dei versi danteschi, con l’appellativo di ‘Papa del Gran Rifiuto’-, la Basilica di Santa Maria di Collemaggio fu il luogo di celebrazione del primo Giubileo della storia, luogo in cui tuttora il pellegrino ottiene la remissione plenaria dei peccati attraversando la Porta Santa della Basilica, Porta che rimane appositamente aperta a margine della cosiddetta Perdonanza Celestiniana nell’ultima decade del mese di Agosto, da settecentodiciotto anni a questa parte. La Basilica, almeno dal punto di vista religioso, è il monumento più importante della città; essa contiene le Sante Reliquie del suo fondatore, ovvero di Papa Celestino V, regnante sul soglio di Pietro dal 29 agosto al 13 dicembre del 1294. Tradizione vuole che Celestino V, nel suo peregrinare e nel suo eremitaggio, trovò riposo e ristoro in una Chiesetta votiva dedicata a Santa Maria dell’Assunzione, costruita su un promontorio esterno alle mura cittadine dell’Aquila, dove adesso sorge la Basilica di Collemaggio. Durante questa sua permanenza, di notte, dormendo, gli apparve in sogno la Vergine, alla quale egli non mancò di promettere l’edificazione di una imponente Basilica in suo onore, che avrebbe presto sostituito la chiesetta in cui il futuro Papa sostava in quel frangente. Il progetto prese vita immediatamente, ma solo con l’inaspettata elezione a Papa di Pietro da Morrone il prestigio e la solennità arrisero alla nascente Basilica. Celestino V, che inizialmente 99


rifiutò la tiara, tornò sui suoi passi probabilmente per spirito di obbedienza alla Santa Romana Chiesa, ma con ciò non rinunciò a imprimere un originale segno di distinzione alla sua elezione, pretendendo di farsi incoronare all’interno di questa Basilica da lui tanto agognata. Celestino V fu il primo ed unico Papa, nella plurimillenaria storia della Chiesa Cattolica, ad essere incoronato fuori da Roma, e fu anche uno dei pochi vescovi di Roma a ‘dimettersi’ dal suo gravoso incarico, spinto in tal senso da quel filibustiere del suo segretario Benedetto Caetani, poi eletto Papa con l’oramai famigerato nome di Bonifacio VIII, che voi dovreste ricordare perché l’avete studiato nella classe terza”. “La struttura -continuò il nostro Cicerone- benché costruita in tempi relativamente rapidi, è un’eclettica risultanza di una sublime sovrapposizione di stili e gusti artistici di diverse epoche; questo perché molti furono nel corso dei secoli i danneggiamenti e i terremoti che resero e, ahimé, rendono tuttora necessari numerosi restauri. Le tre navate di cui si compone la Basilica oggi sono contraddistinte da vistose imbracature funzionali al rafforzamento dei pilastri ottagonali, anch’essi gravemente lesionati dallo sciagurato sisma del 2009. La volta centrale della Basilica è addirittura completamente crollata, inabissando le reliquie di Celestino sotto un cumulo di macerie. Miracolosamente, e grazie all’encomiabile impegno dei Vigili del Fuoco le reliquie del Santo sono state recuperate nella loro integrità nei giorni immediatamente successivi al sisma. Dopo una vacanza forzosa in tutte le cattedrali d’Abruzzo, a beneficio della devozione religiosa dei corregionali, finalmente i resti mortali di Celestino V sono tornati nel cuore della Basilica, dove riposano adesso come riposavano da secoli”. La scolaresca stava per abbandonare la disastrata Basilica, quando uno studente aquilano, dall’aria piuttosto timida e impacciata, chiese sommessamente ai suoi professori di poter dire qualcosa ai ragazzi romani prima che questi ripartissero alla volta della capitale. Tutti i colleghi accolsero la richiesta del ragazzo e invitarono tutti gli altri a stare zitti e ad ascoltare quanto loro aveva da dire. Il ragazzo disse di chiamarsi Emanuel Natone, e con una voce inizialmente tremula ma poi sempre più cadenzata e sicura raccontò ai ragazzi romani quanto di seguito riportato: “Durante il terremoto del 6 Aprile io e la mia famiglia ci trovavamo tutti a casa nostra. La scossa principale delle 3 e 32 era stata preceduta da mesi e mesi di terremoti più lievi, ma in particolare quella sera si erano avvertite due scosse molto più forti delle precedenti attorno alle 23 e attorno all’una di notte. In queste occasioni abbiamo avuto l’accortezza di abbandonare per precauzione la casa e di scendere in strada, ma siccome oramai eravamo completamente abituati a convivere con l’idea e con quello strano fenomeno del terremoto, dopo un po’, passata l’iniziale paura, decidemmo assieme a tutti i nostri vicini di rientrare nelle rispettive case per dormire serenamente. Del resto, c’è da dire che noi tutti eravamo stati tranquillizzati dalle reiterate rassicurazioni dei vertici della Protezione Civile, e quindi meno che mai ci aspettavamo quello che stava per accadere. Ma alle 3 e 32 l’ululato del terrore! La casa ha cominciato a tremare, le pareti a masticare cemento. Un boato mostruoso e assordante nel buio ha reso l’orrore ancora più disumano. Mi viene la pelle d’oca ogni volta che ripenso a quegli istanti, istanti che sembrava non passassero mai. Pareva ci stesse crollando il mondo addosso, sembrava fosse finita la vita. Fortunatamente la mia casa ha retto, ma non hanno retto altri importanti edifici: la Casa dello Studente, l’Ospedale Civile, la Prefettura, e tanti altri ancora. Quando alle prime luci dell'alba abbiamo cominciato a capire l’enormità della catastrofe siamo stati tutti presi dallo sconforto. Cominciava la conta dei morti e dei feriti. Tutti ci impegnammo in una disperata corsa contro il tempo per cercare di scavare a mani nude tra le macerie delle case e dei palazzi crollati. Più le ore passavano e più la drammaticità della tragedia cominciava a prender corpo. Uno sciame di mezzi dell’esercito, di autoambulanze, di mezzi della Protezione Civile piombò sulla città. Ma era come voler chiudere la stalla dopo che era scappato il cavallo. Forse quello che bisognava fare prima non era stato fatto, e purtroppo alle vittime del terremoto dell’Aquila non può esser oggi ridonata la vita”.

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Qui il ragazzo si zittì per un attimo, si guardò i piedi, respirò profondamente e poi riprese con il suo triste racconto. “Non avevamo niente, eravamo abbandonati a noi stessi; la confusione regnava sovrana. Attorno a mezzogiorno decisi di rientrare a casa, per prendere l’indispensabile che mi occorreva per affrontare le prime necessità. Mentre ero in camera mia altre scosse di assestamento mi ricordavano quanto precaria e pericolosa fosse la mia situazione. Dovevo fare in fretta. Non indossai le scarpe firmate, ma quelle più solide e massicce, perché fuori era pieno di macerie su cui dover camminare; dal frigo non presi i cibi che più mi piacevano, ma quelli più nutrienti, perché non sapevo se e quando avrei rimangiato; dall’armadio non presi il maglione più bello, ma quello più caldo, perché fuori era freddo”. “Sono stati 309 gli angeli volati in cielo in quella notte. La nostra città è stata distrutta, e come avete avuto modo di constatare i tempi per la ricostruzione appaiono lunghi ed incerti. In televisione vi fanno vedere le nuove casette costruite dal governo, famiglie felici che sguazzano in tutti i comfort di cui queste casette sono state dotate per la magnanimità d’animo del Presidente del Consiglio. Nei telegiornali nazionali non fanno altro che parlare di miracolo aquilano, per farvi credere che la ricostruzione sta andando a gonfie vele e che gli aquilani non possono che essere grati e riconoscenti per gli sforzi profusi dalla Protezione Civile e, in prima persona, dal Capo del Governo. Ma le cose non stanno propriamente così, e con questa visita di oggi che state per concludere avete avuto modo di aprire gli occhi, di sincerarvi in prima persona dell’entità e della gravità della lentezza con la quale si sta, o meglio, non si sta avviando la ricostruzione del centro storico della nostra città. Spero che tornando a Roma voi tutti abbiate modo di dire ai vostri genitori, ai vostri parenti e ai vostri amici che L’Aquila, la nostra amata città, ha ancora bisogno di aiuto, per tornare un giorno a volare”. 14. IL FILM IN CLASSE L’Aquila non fu l’unica meta delle uscite didattiche che interessarono la classe V C. Altre uscite furono infatti autorizzate nel tempo dal Consiglio di Classe, e così anche i Musei Vaticani, Perugia, Napoli ed altre città furono oggetto di intempestive scorribande della classe, mentre per altre mete (Zagarolo, Palombara Sabina, Riofreddo e Antrodoco), il Consiglio decise di soprassedere. Lo svolgimento del programma, come del resto era prevedibile, venne molto rallentato da questa rapsodia turistica. Del resto, l’atteggiamento non particolarmente collaborativo delle classi per il restante periodo scolastico determinò il mancato raggiungimento degli obiettivi disciplinari prefissati. Come si ebbe a rilevare nei Consigli di Classe convocati verso la metà di Febbraio per verificare l’andamento didattico-disciplinare dell’intera scolaresca, la partecipazione alle lezioni di quasi tutte le classi risultava costantemente discontinua e comunque disinteressata; le assenze strategiche sempre più frequenti, le giustificazioni di massa per evitare le verifiche più che l'eccezione erano diventate la norma; l'adesione sistematica alle attività extracurricolari dalla dubbia valenza didattica (corsi di danza sufi, proiezione di film della cinematografia indiana, corsi di tiro al piattello, ecc., -corsi per i quali la scuola spendeva fior fior di quattrini), contribuivano in modo significativo sia a depauperare il Fondo d’Istituto, sia ad impedire il regolare svolgimento del programma. La situazione era grave, ma non seria. Nel Consiglio di Classe della VC, in particolare, dopo aver ascoltato le preoccupazioni allarmistiche di tutti i colleghi, il professor Sfaticati non poté far a meno di confermare un andamento didattico molto catastrofico. Se in Filosofia si era fermi, ormai da mesi, all’idealismo tedesco, lo stato dell’arte in Storia risultava se possibile ancor più sconcertante: a metà dell'anno scolastico, e oltre, il programma, anziché trattare delle cause della Seconda Guerra Mondiale, era saldamente ancorato al primo Novecento. Certo, anche in altre classi il programma 101


risultava del tutto rallentato. Ma questa non era una considerazione che sollevava il professor Sfaticati dalle sue preoccupazioni. Per le altre classi, infatti, che erano classi non terminali, il recupero degli argomenti non svolti lo si sarebbe potuto effettuare nell’anno scolastico successivo, nell’auspicio che almeno in quest’anno successivo non si sarebbe riscontrata una serie di interruzioni didattiche particolarmente frequenti. C’era poi un’altra considerazione da tener presente, per spiegare la fretta, per non dire la furia, con la quale il professor Sfaticati avrebbe voluto se non concludere almeno esaurire nelle sue parti fondamentali il programma di Storia della sua VC. Nell’ottica dell’Esame di Stato, infatti, ci si poteva aspettare che il Commissario di Storia fosse nominato esternamente, cioè che fosse non lui, ma un altro professore proveniente da un altro Istituto, a esaminare i ‘suoi’ ragazzi, la loro ‘preparazione’, e quindi, implicitamente, il suo lavoro. Ora, quando vengono dei Commissari Esterni da altri Istituti Scolastici, ci si può tranquillamente aspettare che trattino gli studenti che si ritrovano ad esaminare come degli analfabeti, quindi la loro preparazione come indegna di un Liceo, e il lavoro svolto dal collega che li ha tenuti in gestazione per un intero anno come di un lavoro svolto, per essere benevoli, da un demente di chiara fama e prestigio. Solitamente, i Commissari Esterni che presenziano i lavori della Commissione d’Esame hanno da ridire su tutto: dalla mancanza di adeguati condizionatori nell’Istituto durante quelle più che afose giornate estive alla assoluta parzialità dei programmi svolti dai colleghi interni; dalla disonestà di questi ultimi -ritenuti tutti corrotti-, all’incapacità delle Segreterie di fornire l’adeguato supporto amministrativo; fino ad arrivare, in sede di verifica orale dei candidati alla maturità, ad insultare questi ultimi esplicitamente, direttamente, davanti a tutti gli astanti, dando loro degli ignoranti bifolchi, e non solo. Questo atteggiamento, che è di prammatica nei Commissari Esterni, diventa un interessante oggetto di studio psichiatrico qualora si volesse ulteriormente illuminare la necessità deontologica che molti di questi soggetti esplicano, imponendo a se stessi di parlare male del lavoro degli altri per occultare la propria incompetenza e la propria inettitudine. Fatto sta che, in assenza di indicazioni ministeriali, l’eventualità che ‘uscisse Storia esterna’, come si dice nel gergo scolastico, era un’eventualità non del tutto trascurabile. Certo, l’anno scolastico precedente Storia era già stata esterna, e quindi ci si aspettava, per la tradizionale e consueta alternanza, che quell’anno Storia uscisse interna. Ma le combinazioni, i casi, le evenienze che incombevano sulle scelte ministeriali non rassicuravano del tutto il nostro povero professor Sfaticati, che, temendo l’arrivo di un collega esterno a valutare i suoi ragazzi e il suo operato, riteneva assolutamente necessario andare avanti col programma, in modo tale da dare alla classe tutti gli strumenti per sostenere un discreto Esame di Stato anche nelle peggiori delle condizioni possibili. “Accelerare! Accelerare! Accelerare!”. Questo era l’imperativo. Occorreva dunque affrontare, se pur sinteticamente, ma da subito, la crisi della dinastia dei Romanov, ripercorrendo le ultime drammatiche fasi della vita della Russia zarista passando dalla rivoluzione del 1905, quindi per gli eventi bellici e politici della Grande Guerra, per poi finire alla Rivoluzione Bolscevica e all'avvento dell'Unione Sovietica. Quest'insieme di fatti storici, politici, militari, molto coesi tra di loro, potevano -almeno così sperava il professor Sfaticati-, essere accorpati e risolti in un’unica lezione. Il professor Sfaticati decise quindi di fare ciò che non aveva e non avrebbe mai voluto fare; si ridusse cioè a proiettare in classe un film che parlasse di quei fatti, di quei personaggi, di quei momenti e di quelle svolte intraprese dal corso di quella parentesi storica, un film che riportasse fedelmente, anche se in modo semplificato, gli avvenimenti in questione. E fu così che il professore decise un bel giorno di presentarsi in classe tutto trafelato -non c'era tempo da perdere- e proporre ai ragazzi la visione di un ‘bel film’ -azzardò- sugli avvenimenti che altrimenti, lui, avrebbe dovuto spiegare non solo quel giorno, ma tutti i giorni per almeno due settimane. Alla proposta del professore la classe reagì, com'era facilmente prevedibile, con vivacità ed entusiasmo: vi furono un paio di studenti che dagli ultimi banchi cominciarono ad intonare “Sfaticati uno di noi, uno di noi…”, chi gli assicurò solennemente “professo’ lei sì che è un grande”, chi addirittura lanciò dalla 102


finestra il libro e il quaderno degli appunti di Storia -che quel giorno, di sicuro, non sarebbero serviti-, chi, molto più previdentemente, si fece consegnare la versione di Latino assegnata per quel giorno, già svolta dalla studentessa Quattrocchi, per accingersi a copiarla -visto che dopo l’ora di Storia la professoressa Sempresei avrebbe senz’altro interrogato. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio della solita noiosa lezione, e con la proiezione di un film -con l’aula completamente al buio, con le tapparelle rigorosamente abbassate per non rovinare la qualità della proiezione- si sarebbero potute fare cose che alla luce del giorno sarebbero state senz'altro soggette alla censura professorale. Sarebbe stata l'occasione ideale per dormire, o per scambiarsi tra fidanzatini e non delle carezze particolari in posti particolari del corpo, o per intraprendere altre simpatiche mascalzonate che sarebbero venute in mente a chi di dovere soltanto col favore dell’oscurità. Prima di avviare la riproduzione della videocassetta che aveva portato con sé, il professor Sfaticati ritenne opportuno fare una breve presentazione del film. “Ragazzi! Il film che stiamo per vedere, e che ci racconta tutte le vicende della storia russa dei primi decenni del XX secolo -vicende che vi occorre sapere e ricordare in vista dell’Esame di Stato-, è il più grande capolavoro di tutti i tempi della storia del cinema. Un film immortale, in cui la vena artistica e gli audaci virtuosismi del regista raggiungono sommità tuttora inesplorate. Ragazzi…-e qui, visibilmente palpitando, trattenne un po’ il fiato-...è con una certa emozione che vi invito alla visione de La Corazzata Potëmkin, del grande maestro sovietico Sergej Michajlovic Ejzeistejn”. La sorpresa fu clamorosa. Tutti stettero zitti. Gli sguardi divennero di colpo terrorizzati, gli occhi freddi, di ghiaccio. Molti ragazzi, al nome della famigerata Corazzata Potëmkin, deglutirono pavidamente. Tutti smisero di sorridere. Chi aveva già tra le mani la versione di latino della studentessa Quattrocchi smise immediatamente di copiare. Chi aveva gettato il libro e gli appunti di Storia fece per precipitarsi a riprenderli, volendo gettarsi dalla finestra. Le effusioni amorose che alcuni ragazzi già si stavano scambiando furono bruscamente cessate. Tutti rimasero senza parole. Molti si strinsero tra di loro, come delle prede braccate, per darsi forza, coraggio e sostegno. Un silenzio di tomba calò improvvisamente sull’aula. Alla scriteriata esultanza di poco prima subentrò un’atmosfera di panico. Il presagio era troppo sinistro. Mai nessuno di loro, naturalmente, aveva avuto la fortuna di vedere l’immortale capolavoro del grande maestro sovietico Sergej Michajlovic Ejzeistejn, ma le commedie di Paolo Villaggio le avevano viste, eccome. Il ricordo del dramma fantozziano era troppo vivo, anzi lancinante. Quel ragionier Fantozzi che sabato 18 giugno alle ore 20 e 25 -serata in cui si sarebbe disputata a Wembley la sfida di qualificazione ai mondiali tra Italia e Inghilterra, trasmessa in eurovisione-; quel ragionier Fantozzi che aveva, per l’occasione, un programma formidabile: -calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolla per la quale andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero; quel ragionier Fantozzi che aveva appena trovato il tempo di dire alla moglie: “Pina, mi raccomando, stacca il tele…” che il telefono già squilla; quel ragionier Fantozzi al quale riprende a battere il cuore quando sa dalla moglie che al telefono dall'altra parte della cornetta “è solo il ragionier Filini”; quel ragionier Fantozzi che, contento si tratti ‘solo’ del ragionier Filini e non di altri, concede al suo lungimirante collega la possibilità di scommettere sulla ‘perfida albione’ dieci caffè contro uno; quel ragionier Fantozzi che, durante l’esecuzione degli Inni Nazionali si sente dire dalla moglie, rischiando un colpo apoplettico: “Ugo, credo che non potrai vedere la partita stasera, dobbiamo uscire … il dottor Riccardelli… mi ha detto il ragionier Filini che dobbiamo andare immediatamente a vedere un film cecoslovacco… ma con sottotitoli in tedesco”; ebbene, quel ragionier Fantozzi, con questo suo trauma sportivo, professionale, umano, ha lasciato una traccia indelebile nell’animo di tutti gli italiani di ieri, di oggi e di domani. E fu proprio il ricordo di questo dramma fantozziano, la memoria di questa umanità vilipesa, dilaniata, calpestata, a ingenerare in tutti gli studenti presenti in classe un sentimento di smarrimento, di timore, di angoscia, di nausea.

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Il professor Sfaticati, ancora del tutto inconsapevole dell’ondata di ripulsa che aveva provocato la sua scelta cinematografica, si lanciò in un panegirico del tutto fuori luogo sulla figura indimenticabile del grande maestro sovietico S. M. Ejzejstein, e della sua immortale Corazzata. “Ragazzi! Mi aspetto dai voi un’attenzione e una sollecitudine adeguate alla qualità e alla cifra culturale espressa dal film. Se starete attenti, se non vi farete sfuggire tutti i particolari saturi di significati concettuali, artistici e politici presenti nella pellicola, vi assicuro che potrete avviarvi all’Esame di Stato con un preparazione consona alle migliori aspettative che io nutro nei vostri riguardi. In fondo, siete dei bravi ragazzi, e se opportunamente sollecitati, sapete senz’altro dare il meglio di voi. Ma, ricordate: ogni momento, ogni dettaglio, ogni fotogramma risulta prezioso per la comprensione della grandezza del regista, che in questo fondamentale della storia del cinema ripercorre tutte le fasi più concitate della Rivoluzione Russa del 1905”. Ciò detto, invitò qualche ragazzo di buona volontà a dargli una mano ad inserire la videocassetta all’interno di quella strana strumentazione tecnologica atta alla proiezione dei documentari di cui la classe, come quasi tutte le altri classi dell’Istituto, era fornita. Ma presto gli fu spiegato quanto fosse desueta la tecnologia a lui più familiare, e solo grazie alle lusinghe e alle minacce il professor riuscì a convincere un paio di studenti ad effettuare la connessione internet dalla Lavagna Interattiva Multimediale e, conseguentemente, a scaricare e proiettare del tutto illegalmente il film che ad ogni costo egli voleva far vedere ad una platea piuttosto recalcitrante. Poi, finalmente, cliccando sul mouse in corrispondenza del play, e dando così avvio alla sigla del film, aggiunse distrattamente: “Se dovete andare in bagno andate subito, perché dall’inizio del film in poi non vi sarà più concesso di uscire, per nessuna ragione al mondo”. Alcuni ragazzi, data la gravità del momento, colsero all’istante l'occasione e decisero su due piedi di rifugiarsi nei bagni, alcuni facendo finta di essere stati colti da un fulminante malore, altri non facendo finta affatto, perché davvero colti da un fulminante malore; altri ancora manifestarono una immediata urgenza fisiologica al professore che non poté far altro che concedere loro, seppur a malincuore, il permesso di uscire per qualche secondo, con la raccomandazione tassativa di rientrare il prima possibile. In attesa dell’inizio del primo atto, e comunque a beneficio degli alunni che erano rimasti in aula -cioè meno della metà della classe-, il professor Sfaticati decise di proseguire nella sua apologetica presentazione, di modo che durante la visione potessero risultare più semplici e immediati i dovuti collegamenti interdisciplinari. “Dovete sapere, ragazzi, che il film che stiamo per vedere è una delle più note e imponenti opere della storia del cinema, e non soltanto del cinema di propaganda, come si vuole erroneamente e strumentalmente far pensare. Per i suoi sublimi valori tecnici ed estetici è ritenuto unanimemente un capolavoro assoluto della settima arte. La pellicola fu girata nel 1925, ma fu proiettata al pubblico solo nel 1926, al Bol’soj di Mosca, a due anni dalla morte di Lenin, e riscosse sin da subito un successo impareggiabile. Il film è ambientato nel 1905, durante la guerra russo-giapponese, vinta a sorpresa dal Giappone, e i protagonisti sono i marinai della Corazzata Potëmkin, fiore all’occhiello della flotta zarista, allora impegnata nelle operazioni belliche contro la potenza nipponica: da qui il titolo dell’opera. Il film dura settantacinque minuti, e non le quattro ore come solitamente si crede, ed è diviso in cinque atti”. Per tutto il tempo in cui il professor Sfaticati presentava il film, nessuno dei numerosi studenti in precedenza precipitatisi fuori dall’aula fece ritorno in classe. Ma siccome il professore voleva riservarsi qualche minuto per consentire alla classe, una volta terminata la proiezione della pellicola, la facoltà di aprire un dibattito quanto più partecipato sulle tematiche e sulle curiosità più interessanti che il film avrebbe immancabilmente sollevato, fu subito dato inizio al primo atto. Le schermate, tutte rigorosamente in cirillico, erano fortunatamente -ma anche no- accompagnate dai sottotitoli italiani. Fu facile arguire, quindi, che il primo atto aveva un titolo emblematico: “Uomini e Vermi”. 104


Furono necessari pochi fotogrammi dell’immortale capolavoro sovietico per far sì che il professor Sfaticati si rendesse immediatamente conto che qualcosa non stava andando per il verso auspicato. Si rese subito conto che l’attenzione della parte restante della classe si presentava aleatoria, con delle gravi criticità e delle preoccupanti incrinature. Per ovviare a questo inconveniente, e per facilitare la fruizione dell’immortale capolavoro del grande maestro sovietico ecc., ecc., ritenne opportuno accompagnare il film, che era muto, con un suo costante commento. E così, mentre la trasmissione proseguiva lentamente tra gli sbadigli, la noia, la collera, lo shock emotivo di alcuni studenti, sulla classe prese ad aleggiare, come il volo inquietante di una civetta, la voce seriosa e cadenzata dell’instancabile professor Sfaticati, adattatosi per l’occasione al ruolo di critico cinematografico. “La scena che adesso state vedendo è ovviamente ambientata sulla Corazzata Potëmkin. Vedete come in questi pochi fotogrammi il grande maestro sovietico fa emergere in tutta evidenza il collasso del sistema zarista, già in atto prima del 1905 e accelerato dalla guerra; una delle più grandi flotte mondiali, quella russa appunto, risulta così malconcia che ai marinai della Corazzata viene data da mangiare… -fate caso al prosciutto ragazzi, guardate bene- …viene data da mangiare della carne con dei vermi che strisciano sopra e dentro di essa, con delle larve d’insetti tutt’attorno...”. “Ma che schifo professo’, che schifo!”. “Silenzio! Capisco che queste scene sono particolarmente stravolgenti per palati fini e schizzinosi come i vostri, ma se urtano troppo la vostra sensibilità di diciottenni abituati a cisburgher e oddogg del mecdonald non vi posso fare niente io!”. “Ma professo’, me fa schifo vede tutti quei vermi, me pija a lo stomaco, posso anna’ ‘n attimo ar bagno professo’?”. “Certo, vai pure…”. Al che, un'altra studentessa, dal fondo dell’aula buia, cogliendo la palla al balzo: “Professo’ la posso accompagna’ che si sta a senti’ veramente male, è diventata cianotica?”. “Sì dai andate, ma appena sta meglio ritornate subito in classe”. Uscirono così altre due studentesse, e il professor Sfaticati riprese il suo commento critico dell’immortale capolavoro del grande maestro sovietico ecc., ecc. “Adesso, vedete, vedete, con quale coraggio e sprezzo del pericolo i marinai della Corazzata si rifiutano di mangiare quella carne. Ecco, vedete quale eroico atto di insubordinazione!, e…-proseguì commuovendosi il professore-...vedete, adesso stanno chiedendo agli ufficiali di bordo una razione di cibo per lo meno commestibile. L’ammiraglio, per tutta risposta -e qui il grande maestro sovietico mette in mostra la cecità e la spocchia direi del potere autocratico zarista- qui sta minacciando di passare per le armi coloro che rifiutano le razioni di carne coi vermi. Ecco, questa inquadratura è invece tutta per il marinaio Grigorij Vakulinkuc, prototipo dell’eroe bolscevico che lotta impavidamente per il bene del popolo. Vedete bene l’espressione e la forza morale presente nella sua figura, nel suo eroico sguardo, nella sua persona. Ecco che si mette a capo della protesta e qui sta invitando tutta la ciurma a rifiutarsi di obbedire all’ordine. Adesso l’ammiraglio, per tutta risposta, fa salire in coperta tutto l’equipaggio e, vedete adesso, fa schierare contro di loro il plotone di esecuzione per dar luogo immediatamente alla fucilazione. E così finisce il primo atto, con questa scena drammatica satura di significati reconditi che vi invito a cogliere nella loro valenza politica...”. Poi, interrompendo per un attimo il commento del film e scendendo dal suo Parnaso sovietico, il professor Sfaticati si rese finalmente conto che di tutti i ragazzi -e ne erano circa una quindicina-, che avevano chiesto il permesso di uscire, nessuno aveva ancora fatto rientro in classe. 105


“Professore, se vuole andiamo noi a chiamarli…”, gli dissero due dei pochi ragazzi nel frattempo rimasti in aula, intuendo il disappunto del prof. “D’accordo andate, ma fate alla svelta, altrimenti vi perdete il secondo atto. Noi intanto andiamo avanti, altrimenti non facciamo in tempo a vederlo tutto”, rispose di rimando il professore, concedendo quindi loro il permesso di andare in bagno e di uscire dall’aula, nella quale rimase solo una mezza dozzina di studenti, essendo quasi una decina gli assenti sin dalla prima ora. A questi studenti il professore si rivolse per commentare la trama del secondo atto del capolavoro immortale del grande maestro sovietico ecc., ecc. “Il secondo atto ragazzi si apre con una scena drammatica. I marinai, giudicati colpevoli senza un regolare processo di insubordinazione e ammutinamento, di fronte al plotone d’esecuzione si rifiutano in massa di accogliere l’ultimo sacramento del viatico, che vuol essere loro somministrato dal personale religioso di bordo. Basta concentrarsi sui loro sguardi: nell’episodio i marinai non danno alcun segno di pentimento, anzi rivendicano la liceità del comportamento finora adottato e la giustezza delle loro elementari richieste. E’ bene che sappiate che molti critici e interpreti vedono nell’atteggiamento del personale religioso, che non spende una parola di solidarietà o vicinanza verso la ciurma ammutinata, la totale commistione della religione con il potere politico costituito, potere del tutto sordo al grido di dolore e alle sofferenze dei marinai che stanno tra l’altro combattendo una guerra contro l’imperialismo nipponico, per la difesa della patria e della stessa dinastia dei Romanov. In quest’atteggiamento complice e omertoso della Chiesa ortodossa, il grande maestro sovietico Sergej Michajlovic Ejzeistejn in tutta evidenza pare cerchi di alludere, in modo semplicemente magistrale, alla figura e alla politica del prete russo Grigorj Efimovic Rasputin, molto influente negli ambienti di corte. Tuttavia, a questo punto, il plotone d’esecuzione sbanda, vacilla, si dimostra incerto, e anziché aprire il fuoco sui marinai, come gli viene ordinato dagli ufficiali, solidarizza con loro, abbassando le canne dei fucili e dando via allo scoppio vero e proprio della rivolta. Dopo le prime fasi incertissime, cariche di pathos emotivo, l’ammutinamento riesce, gli ufficiali vengono uccisi senza pietà e i marinai prendono finalmente il potere sulla Corazzata Potëmkin. La festa, l’esultanza, la gioia contagiano gli animi di tutti quegli eroici marinai, ma anche dello spettatore, il quale, grazie all’eccellenza del grande maestro sovietico non può non nutrire un sentimento di comunanza e simpatia verso l’equipaggio ammutinato. Equipaggio che, nel gettare in mare il dottore che in precedenza aveva assicurato la sicura genuinità del rancio, si libera finalmente dall’oppressione, dal giogo e dallo sfruttamento cui era ormai sottoposto da tempo immemorabile…”. Qui il professor Sfaticati, completamente alienato dal contesto, se ne andò dritto per la tangente, e continuò dicendo: “… e la stessa ciurma si avvia verso l’edificazione di una nuova organizzazione sociale, che nella traslitterazione ejzeistenjana rappresenta il radioso cominciamento della società socialista”. Uno dei pochi ragazzi presenti, disperato, si lasciò andare per qualche secondo a un isterico applauso, ma fu subito richiamato alla consegna del silenzio da parte del professor Sfaticati, che nel frattempo si era accorto però che anche questa volta nessuno degli studenti in precedenza usciti aveva fatto rientro in classe, nemmeno quei due che soltanto in un secondo momento avevano chiesto il permesso di uscire per andare in bagno a richiamare gli altri. “Ragazzi, ma come mai i vostri compagni tardano così tanto?”. “Se vuole professore andiamo a vedere…”. “Va bene andate, ma sbrigatevi, altrimenti non faremo mai in tempo a vedere tutti e cinque gli atti del film”. Al che altri due studenti andarono via dall’aula, a cercare gli altri che misteriosamente non facevano rientro in classe, e ad ascoltare la presentazione del terzo atto rimasero appena quattro ragazzi. Però questi quattro, proprio nell’osservare il riuscito ammutinamento dei marinai della Potëmkin, presi 106


da uno spirito emulativo e incoraggiati dal fulgido esempio di eroismo di Grigorij Vakulinkuc, non rimasero del tutto inattivi, ma cominciarono ad architettare coraggiosamente un piano per l’evasione dall’aula. Dopo solo qualche minuto di preparazione il piano era pronto; si accordarono, attraverso degli sms scambiati con gli altri ragazzi già riusciti nell’intento evasivo, sul fatto che presto sarebbe arrivato in loro soccorso il signor Peppe, al quale gli altri ragazzi avevano già rappresentato la drammaticità della situazione. Al signor Peppe, quindi, i ragazzi che già stavano fuori affidarono l’ingrata missione di recarsi in V C, bussare dolcemente alla porta, poi se necessario più insistentemente, interrompere quindi per un attimo la proiezione del film, e chiedere al professor Sfaticati di far uscire proprio quegli studenti ancora impaludati, i quali, a detta del collaboratore scolastico, avrebbero dovuto immediatamente guadagnare gli uffici della Segreteria Didattica per l’evasione -ci si perdoni il gioco di parole- delle pratiche relative all’accesso agli Esami di Stato. Mentre questo stratagemma veniva ulteriormente perfezionato per via telematica, mentre gli studenti nell’aula pregavano sulla buona sortita dello stesso, e mentre gli studenti già fuori pregavano disperatamente il recalcitrante signor Peppe di prestare il suo aiuto alla classe, in un frangente così drammatico ed infausto, per non perdere tempo prezioso, il professor Sfaticati ritenne opportuno, benché i presenti in classe fossero rimasti davvero in pochi, rivolgersi almeno a loro per la spiegazione del terzo atto. “Ragazzi! Il terzo atto si intitola ‘Il morto chiama’. Durante gli scontri tra marinai e ufficiali, quel marinaio disarmato che è stato proditoriamente ucciso da un ufficiale altri non era che Grigorij Vakulinkuc, il prototipo dell’eroe rivoluzionario che lotta per il bene del popolo. E Grigorij Vakulinkuc sarebbe appunto ‘il morto che chiama’. Adesso, riuscito l’ammutinamento, la Corazzata Potëmkin approda al porto di Odessa, e l’equipaggio decide che il corpo martoriato dell’eroico marinaio deve esser trasportato a terra per un ultimo saluto dei suoi compagni e dell’intera popolazione civile. Il cadavere viene adagiato con tutti gli onori del caso sotto una tenda bianca, nella quale viene esposta una scritta: ‘morto per un cucchiaio di minestra’. Adesso vedete la popolazione di Odessa indignata per il trattamento riservato ai marinai, con i quali fa causa comune e ai quali decide di donare cibo e vivande in quantità pantagrueliche. In questi insuperabili fotogrammi, ragazzi, il grande maestro sovietico mette in luce le potenzialità insite nella collaborazione tra la popolazione civile e le forze armate, alla sola condizione che né l’una né le altre siano soggiogate da un potere aristocratico e classista che trova nell’ordine, nello Stato, nella proprietà privata dei mezzi di produzione e nella religione, intesa marxisticamente come oppio dei popoli, gli strumenti indegni per il suo infame dominio”. Mentre il terzo atto stava avviandosi alla conclusione, ecco bussare alla porta il signor Peppe, il quale, entrando sommessamente nell’aula buia, si avvicinò al posto in cui gli sembrava stesse seduto il professore, e disse a bassa voce, per non disturbare la visione del film da parte degli altri attenti fruitori: “Scusi professore, mi hanno mandato dalla Segreteria Didattica per sollecitare la consegna di alcuni documenti da parte di alcuni studenti di questa classe che altrimenti non possono sostenere l’Esame di Stato”. “Certo certo, si porti gli studenti che le servono”. Al che il signor Peppe chiamò “Fracassi, Pasticci, Baruffa, Quattrocchi, subito con me in Segreteria”. Gli studenti interpellati, quatti quatti, senza far rumore, scivolarono via sorridenti dall’aula, tranne Cecilia Quattrocchi, che disse di voler andare dopo in Segreteria. Il professor Sfaticati, a questo punto, rimase solo soletto nell’aula con la compagnia della sola Cecilia Quattrocchi, ma, troppo preso dalla visione del film, incredibilmente non se ne accorse. La proiezione, intanto, continuava, così come continuava la sua analisi critica.

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“Sulla scena dall'alto della scalinata irrompono i cosacchi dello zar, che, per rappresaglia, iniziano a marciare verso la folla inerme con i fucili puntati. I soldati si rivelano inflessibili, sparando e travolgendo tutto ciò che trovano a tiro: uomini, donne e bambini indifesi. Una madre, che si trovava con tutti gli altri sulla scalinata a salutare gli eroici marinai della Potëmkin viene colpita, e la sua carrozzina con l’innocente neonato rotola giù dalla scalinata, rovinosamente. E questa scena è il cuore pulsante del film, una scena dal fascino artistico e dall’interesse umano straordinariamente attuali”. Qui il professor Sfaticati fermò l’immagine e invitò gli studenti a riflettere sull’intensità dello sguardo della madre. “Qui ragazzi è meglio se mi taccio, gli occhi della madre parlano da soli!”, disse, e soltanto dopo aver lungamente contemplato la scena, decise di riavviare la pellicola, e il suo commento. “Visto che i cosacchi dello zar non accennano a voler cessare il massacro, i marinai, per rappresaglia, decidono allora di sparare su di loro con i cannoni della Corazzata. Ha così inizio il quinto e ultimo atto. I marinai della Potëmkin, terminata la rappresaglia, decidono di andare fino in fondo e conducono la loro Corazzata fuori dal porto di Odessa per affrontare la flotta dello zar, che nel frattempo le si sta muovendo contro. Quando oramai lo scontro sembra inevitabile, i marinai delle navi zariste incredibilmente si rifiutano di aprire il fuoco contro i loro compagni, esternando con canti e grida di giubilo la loro solidarietà verso gli ammutinati, consentendo loro di passare indisturbati attraverso la flotta, sventolando la bandiera rossa della libertà!”. E il film qui si concluse. Il professor Sfaticati, per oltre sette minuti, rimase in silenzio, con le lacrime a stento trattenute negli occhi, in contemplazione estatica, assorto in funamboliche ponderazioni artistiche e politiche suscitate dalla sua personale quarantasettesima visione dell’immortale capolavoro del grande maestro sovietico Sergej; Michajlovic; Ejzeistejn. Trascorsi che furono i sette minuti, ebbe ad esclamare: “magnifico, magnifico, magnifico!!!”. Poi si alzò, brancolando nel buio si diresse verso le finestre, a tentoni riuscì a trovare il pulsante che avrebbe fatto alzare le tapparelle, e mentre queste si alzavano e la luce tornava a rischiarare l’oscurità in cui era immersa l’aula, finalmente, ma non subito, si rese conto che l’aula era vuota, fatta eccezione, naturalmente, per la studentessa Cecilia Quattrocchi. Questa volta fu lui a deglutire una saliva dal sapore piuttosto amarognolo; fu lui ad avere un attacco di panico e di rabbia mal dissimulata. Non perdendo il suo contegno, si diresse verso la cattedra, prese il registro di classe, e scrisse una succinta quanto veemente nota disciplinare: “L’intera classe, fatta eccezione, naturalmente, per la qui presente Cecilia Quattrocchi, diserta, senza preventiva autorizzazione, la visione di un film relativo agli argomenti didattici il cui svolgimento è previsto dalla programmazione di Storia. Firmato: il professor Sfaticati”. Quindi, senza scomporsi, il professore uscì dall’aula, si recò in Presidenza, dove consegnò il Registro al Dirigente Scolastico, facendogli presente che qualche minuto prima si era trovato costretto a formalizzare una nota di demerito per l’intera V C, fatta eccezione, naturalmente, per la studentessa Cecilia Quattrocchi, con ciò invitando il Preside ad agire conseguentemente, ovvero ad assumere rigorosi quanto esemplari provvedimenti disciplinari. Il Dirigente Scolastico, sommerso da scartoffie fino a sopra il naso, distrattamente annuì, facendo cenno al prof di posare il registro, ché poi lui avrebbe provveduto a quell’ulteriore incombenza. E il professor Sfaticati così fece: lasciò il registro, prese congedo dalla Presidenza, andò nel cortile, si accese una sigaretta per stemperare la rabbia, e poi, suonata la campanella -che segnava la fine della sua giornata lavorativa-, se ne ritornò a casa, a rodersi il fegato. Il giorno dopo, non dimentico dell’oltraggio subito, si recò di nuovo in quella classe, dove aveva ancora lezione. Gli studenti, con un garbo e una galanteria inconsueti, all’ingresso del professore all’unisono si alzarono in piedi. Il professore, senza dire loro ‘buongiorno’, si recò con stizza verso 108


la cattedra, si sedette con comodo, aprì finalmente il registro, e in appendice alla sua nota disciplinare del giorno precedente trovò scritto: “La Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca. Firmato: V C, fatta eccezione, naturalmente, per la studentessa Cecilia Quattrocchi”. 15. LO SCONTRO SCUOLA-FAMIGLIA La famiglia, nella filosofia hegeliana, non è altro che una figura, una tappa, un momento interlocutorio nello sviluppo dell’autocoscienza. Questo momento costituisce l’antitesi rispetto all’individualità e all’individualismo dell’autocoscienza, autocoscienza che nel corso della storia romanzata dello Spirito perde la propria effettività e la propria fissità e si fluidifica nella famiglia e nello Stato. La famiglia, per il filosofo tedesco, è una figura intermedia che consente allo Spirito, a partire dal suo primo apparire nel fenomeno della coscienza, di giungere finalmente al culmine del suo travagliato processo evolutivo nella realizzazione dello Stato, dove lo Spirito ritrova se stesso e dove l’Idea fuori di sé, dopo un movimento dialettico, ritorna definitivamente in sé. Tuttavia, se questo capitolo ha la pretesa di parlare di famiglia, in relazione naturalmente al più ampio discorso pedagogico che qui stiamo affrontando, non ci si può abbandonare a riflessioni speculative di stampo idealistico, e non si possono tacere le difficoltà pressoché insormontabili che i giovani di oggi si trovano a dover fronteggiare quando decidono di metter su famiglia. Difficoltà che poco hanno a che fare con la dialettica hegeliana e con la storia romanzata dell'autocoscienza; difficoltà, quest'ultime, di natura molto più prosaica. Rispetto a una prospettiva matrimoniale, sono davvero soverchianti i fattori che inducono ad un atteggiamento di circospetta cautela. Credo pertanto sia opportuno passare brevemente in rassegna alcuni rattristanti aspetti normativi che nella nostra legislazione e, purtroppo, oramai anche nella nostra cultura, contribuiscono a rendere per larga parte dei giovani del tutto chimerica e velleitaria la prospettiva di prender moglie, comprar casa e metter su famiglia. A nessun osservatore onesto sfuggirà che il sistema economico capitalistico propina un’ideologia oramai dominante che vede nell'ordine: nella tassa patrimoniale una bestemmia; nella tassazione delle transazioni economiche un’eresia; nei prestiti della Banca Centrale (leggi degli Stati) alle altre banche a gestione privatistica un atto dovuto per favorire lo sviluppo e la crescita; nella tassazione del lavoro dipendente e non della rendita la scelta quanto più naturale; nell’abolizione della scala mobile e dell’indicizzazione delle retribuzioni un sacramento dogmatico; nell’abolizione della legge sull’equo canone un’ovvietà lapalissiana; nel finanziamento dell’edilizia popolare uno spreco di denaro pubblico, ecc., ecc. Cosa c’entra tutto questo discorso con la famiglia? C’entra, eccome! Quello che si vuol significare con quel noioso elenco di poc’anzi è che l’attuale sistema politico ed economico, che subordina lo Stato e i suoi poteri alla difesa e alla promozione degli interessi della speculazione finanziaria, del capitale e dei capitalisti, impedisce di fatto la naturale realizzazione della famiglia in tutte le sue articolazioni e in tutte le sue funzioni. Mentre le sinistre e i partiti comunisti dei paesi occidentali spostano l’asse delle loro rivendicazioni politiche dalla difesa del lavoro alla difesa della sacralità dell’ambiente, mentre si organizzano scioperi della fame e sit-in per impedire ai pescatori di pescare merluzzi e ai cacciatori di sparare alle quaglie, oggi, per comprare una casa, bisogna pagare quasi la metà del suo valore a una banca, le retribuzioni sono al minimo, i licenziamenti all’ordine del giorno, il lavoratore è tassato cento volte in più rispetto al palazzinaro, gli affitti volano alle stelle e avviliscono il potere d’acquisto delle famiglie. L’attuale sistema economico e politico, in altri termini, pare faccia di tutto per rendere pressoché impossibile per le giovani coppie spiccare il volo e intraprendere una vita separata e distinta dai rispettivi nuclei familiari, con la differenza che, mentre nelle famiglie patriarcali preindustriali era il lavoro dei giovani a mantenere in salute e in sentimento gli anziani, nelle redivive famiglie patriarcali sono i

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genitori con le loro pensioni a mantenere in salute e in sentimento i figli. Esistono alternative all’attuale sistema economico e politico? Sì, esistono, ma solo nel recente passato. La Deutsche Demoktratiske Republik è stata sconfitta nella pluridecennale guerra fredda, ed è per questa ragione che la ritroviamo a comparire nel banco degli imputati della storia. E la storia, che per alcuni non è altro che il racconto di chi ha vinto la guerra, in nessun caso largheggia con le attenuanti generiche a favore dei Paesi, dei popoli o, peggio, delle ideologie risultate irrimediabilmente sconfitte. La DDR è invariabilmente contrabbandata sui nostri manuali di storia come un’accolita di criminali, di delinquenti, di spie prezzolate asservite all’imperialismo sovietico. Possiamo leggere su tutti i libri e verificare in tutti i documentari televisivi che nella Germania dell’Est c’era la dittatura; Berlino Ovest venne circondata da un Muro che la diceva lunga sulle presunte lusinghe del comunismo, muro edificato per impedire la fuga ai cittadini tedesco-orientali; non c’era la libertà d’espressione; c’era la Stasi, ecc. Ma quanti sanno che nella DDR c’era la piena occupazione? Quanti sanno che la DDR, a differenza della Germania dell’Ovest -che si giovò della cornucopia americana per la ricostruzione del secondo dopoguerra, nell’idea di farne la ‘vetrina del capitalismo’-, quanti sanno, dicevamo, che la DDR fu costretta dall’Unione Sovietica a pagare tutti i debiti di guerra, che pochi marchi certamente non erano? Quanti sanno che, nonostante questo, la DDR divenne l’ottava potenza industriale in pochi anni? E ancora: quanti sanno che nella DDR, con i comunisti saldamente al potere, lo Stato assegnava pressoché gratuitamente un alloggio nuovo di zecca alle giovani coppie in attesa di un bambino? Questo tra l’altro spiega perché nella Germania dell’Est nel momento della riunificazione l’età media della popolazione era molto inferiore rispetto alla media della Germania Federale. Certo, qualche benpensante, urtato nella sua sensibilità liberale da queste bizzarre quanto temerarie considerazioni politiche, sosterrà senz’altro l’assoluta incompatibilità di un regime comunista con una sana politica per la natalità e per la famiglia. Fatto è che negli anni ’80 era impossibile avventurarsi tra le bancarelle del mercato di Alexanderplatz o passeggiare sulla Karlmarxstrasse senza correre il rischio di incespicare su qualche piccolo pioniere della gioventù socialista, mentre oggi in Italia i giovani, a meno che non ereditino casa lavoro e capitale da qualche parente prossimo aduso al furto legalizzato all’ombra del pentapartito, non possono mettere più su famiglia e meno che mai fare figli. E questo perché in Italia non esiste, come esisteva nella DDR, una cosa analoga all’edilizia di Stato; questo perché in Italia le case costano troppo; e le case costano troppo perché i tassi di interesse sui mutui rasentano lo strozzinaggio; e questo perché il capitale risucchia senza ritegno la ricchezza prodotta dalla forza lavoro, impedendo alla forza lavoro di comprare una casa e di far figli, impedendo cioè alla forza lavoro di riprodurre se stessa! Non è vero che il tempo è galantuomo, tutt’altro. Come affermava Joseph Vissarionovich Jughasviili Stalin “la storia giudica solo i vinti”, e tra i Paesi vinti in prima fila c’è la DDR con la sua ideologia comunista. Ciononostante, per avere un giudizio comparativo sull’attuale cornice economico-politica che tanto improponibile rende la prospettiva di una famiglia, ci è sembrato comunque opportuno spezzare almeno solo una lancia in favore di un Paese che dalla storia è uscito sconfitto, in favore della tanto bistrattata esperienza della Repubblica Democratica Tedesca guidata da Herich Honecker. Ma lasciamo da parte questi vaneggiamenti veteromarxisti -per i quali prego il lettore di scusare l'autore, che è malato-, e torniamo ai giorni nostri, al nostro Paese, alla famiglia italiana di oggi. La famiglia indubbiamente rappresenta il nucleo fondamentale nel quale si sviluppa e si concretizza l’accrescimento socio-culturale dell’individuo. In base alle rilevazioni dei vari istituti demoscopici, la famiglia italiana, per di più, ricopre non soltanto una funzione educativa, ma anche un ruolo economico di primaria importanza. La drammatica congiuntura economica cui si trovano a far fronte i giovani del Belpaese, martoriati dall’alto tasso di disoccupazione e dalle difficoltà connesse all’acquisto di una casa, hanno determinato un’espansione direi grottesca delle funzioni e delle incombenze cui la famiglia è chiamata a rispondere. I mammoni, i bamboccioni, gli sfigati -come 110


diversi ministri, espressione del capitalismo più becero, ci invitano a chiamare i giovani-, sono volenti o nolenti costretti a rimanere fra le mura domestiche fino ad un’età così avanzata da giustificare l’evidente decremento demografico. Infatti, quanto precede contribuisce a spiegare il motivo per cui in Italia le famiglie fanno meno figli e in un’età sempre più avanzata. Biberon, ciucci, pannolini, omogeneizzati, rette scolastiche, nuovi capi di vestiario, visite pediatriche, oculistiche e dentistiche, culle, passeggini, biciclette e scooter, abbonamenti per il trasporto dei mezzi pubblici, libri di testo, sono solo alcune delle voci di cui un bilancio familiare deve tener conto nell’eventualità della nascita di un bambino, per la cui crescita è stato calcolato che va accantonata ogni mese circa la metà della retribuzione di un impiegato pubblico italiano. L’abbassamento del tasso di natalità ha comportato inevitabilmente uno stravolgimento dei modelli educativi. Non è un caso che oggi i figli sono molto più viziati rispetto a qualche decennio fa. Nella famiglie degli anni ’50 e ’60 -per non parlare degli anni prima della guerra-, la penuria, la fame, le ristrettezze economiche in cui versava la maggior parte delle famiglie italiane, inducevano i genitori a non assecondare le richieste né tanto meno i capricci dei propri pargoli, anche in considerazione del fatto che il nucleo familiare era mediamente composto da un numero di bambini molto più elevato rispetto a quello che si può riscontrare nei giorni nostri. I genitori di una volta educavano i propri numerosi figli all’austerità, al senso di responsabilità, alla cura e alla conservazione dei beni materiali, a non sprecare il cibo o l’energia elettrica, a riporre gli abiti da festa in modo che non si logorassero, a riutilizzare le scarpe dei più grandi per i più piccini. I figli di una volta crescevano nella consapevolezza del sacrificio posto in essere dai loro genitori per riportare un tozzo di pane a casa, benedicevano il Signore ogni volta che si sedevano a tavola, andavano a scuola con i vestiti rattoppati, si divertivano con dei giocattoli molto più semplici e meno dispendiosi, aiutavano la famiglia nel lavoro e nella cura del bilancio domestico. I ragazzi di oggi, sin dalla loro più tenera età, non hanno vissuto sulla propria pelle nessuna delle ristrettezze materiali che i ragazzi di un tempo hanno dovuto sopportare. Sono circondati dall’agio dei beni confortevoli, ricoperti fino al collo da giocattoli di varia dimensione e natura, inabissati da strumentazioni tecnologiche che hanno spazzato via i vecchi sistemi di relazione e di comunicazione; sono tiranneggiati dalle nuove mode e dalle nuove tendenze commerciali, sia nel comunicare, sia nel vestire, sia nel leggere, che nell’ascoltare la musica. Non hanno provato l’educativa esperienza della fame. Sono abituati ad aver tutto e subito, senza impegno e senza sacrificio, senza se e senza ma! Uno dei motivi per cui si ritiene che le ragazze belle siano per lo più delle stupide oche va forse ricercato nel fatto che grazie al dono della bellezza queste possono arrivare là dove altre non possono. Grazie alla loro avvenenza queste ragazze possono ottenere un posto di lavoro, un’agevolazione in un concorso o in una selezione, vengono circondate da uno stuolo di cicisbei altolocati pronti a tutto pur di compiacerle. Il compianto Nino Manfredi esprimeva il concetto al quale qui si vuole alludere sostenendo prosaicamente che le belle donne sono sedute su una banca, banca che bisogna soltanto saper aprire. Per non parlare poi dell’idea che delle donne avevano autorevoli Padri della Chiesa, per i quali nelle donne l’intelligenza, semmai vi fosse stata, era da interpretarsi come un difetto, per quanto raro. L’intelligenza si affina e si dispiega soltanto in presenza di ostacoli da superare, di imbrogli da districare, di stratagemmi da intuire. Insomma, non occorre certo scomodare lo strumentalismo deweyano per capire che il pieno sviluppo dell'intelligenza lo si ha in presenza di situazioni problematiche da risolvere. Laddove tali situazioni problematiche vengono risolte in tutto o in parte dalla bellezza, l’intelligenza perde l’occasione di affinarsi e di dispiegarsi. Ecco perché le ragazze particolarmente belle risultano il più delle volte delle inguaribili cretine. Naturalmente, quello che vale per le ragazze belle vale in larga parte anche per quegli adolescenti di oggi che vengono a riscaldare i banchi di scuola. Al suono dell’ultima campanella tornano a casa in scooter e trovano la tavola imbandita con ogni ben di Dio e il frigorifero traboccante di leccornie; vanno nella loro stanza a far finta di studiare e si connettono a internet su un pc che costa svariate migliaia di euro; 111


passano tutto il pomeriggio a inviarsi messaggini con dei telefonini cellulari il cui valore equivale alla metà del costo dell’autovettura dei loro proff; prima di cena vanno a farsi un giro al centro commerciale e non ne escono se non dopo aver comprato un intero guardaroba di capi di abbigliamento; tornano a casa per ora di cena, ma non hanno fame perché si sono indecentemente rimpinzati di porcherie nei vari fast-food; e questo nei giorni feriali. Nei fine settimana, se non optano per una destinazione estera, comunque razziano di alcolici le affollate vie del centro cittadino, per poi recarsi fino a tarda notte nelle discoteche più esclusive della loro città. Per quanto ad alcuni possa sembrare caricaturale, questa descrizione del modo di passare il tempo degli adolescenti di oggi credo corrisponda largamente al vero. La risultante è che i ragazzi di oggi sono viziati, non conoscono il senso del sacrificio, non sono abituati a sentirsi dire di ‘no’ dai loro genitori, sono abituati ad avere ogni cosa che viene loro proposta e imposta dai modelli pubblicitari, si sentono perduti se non seguono la tendenza di ultimo grido. I ragazzi di oggi non hanno l’occasione di affinare e dispiegare la propria intelligenza perché non si trovano ad aver a che fare con situazioni problematiche da risolvere. Questo non vuol significare che l’età adolescenziale non sia costellata di incognite tormentose e di pericolose biforcazioni esistenziali, tutt’altro. Il fatto è che l’evanescenza dei ‘no’ genitoriali, la totale mancanza di paletti educativi, in altri termini l’assenza di situazioni problematiche da risolvere non permette all’intelligenza dei nostri ragazzi di affinarsi, di dispiegarsi, di crescere. Si spiega allora perché vengono fuori ragazzi con delle realtà psicologiche complesse, di una fragilità sbalorditiva, deboli, ondivaghi, puerili. Si spiega anche così, credo, la diffusione di psicopatologie come l’anoressia o la bulimia, la cleptomania, la fobia per i piccioni, l’agorafobia, la paura degli insetti. In assenza di un’intelligenza potenziata e adusa alla risoluzione di situazioni problematiche i nostri ragazzi vengono su fragilissimi, incapaci di adattarsi alle circostanze mutevoli che la vita associata propone. La permanenza di una fondamentale immaturità costituisce il drammatico corollario di tutto questo ragionamento. Che il rapporto educativo all’interno delle famiglie italiane sia irrimediabilmente mutato lo si avverte immancabilmente dall’atteggiamento posto in essere dai genitori negli incontri scuolafamiglia. Questi incontri pomeridiani solitamente si svolgono due o tre volte all’anno, ferma restando la possibilità per i genitori di recarsi a parlare dell’andamento didattico-disciplinare del proprio figliolo durante l’orario di ricevimento mattutino che ogni professore è tenuto a rispettare. I ricevimenti mattutini vengono sospesi solo nel mese di Maggio, a ridosso degli scrutini finali, per mettere al riparo il corpo docente da lusinghe e minacce dei genitori, i quali molte volte ricorrono a indecorose quanto indebite pressioni al fine di far lievitare la valutazione del proprio figliolo in questa o quella disciplina. Il secondo dei due incontri scuola-famiglia previsti dall’Istituto scolastico nel quale il nostro professor Sfaticati era in servizio si tenne dalle 15.00 alle 18.00 di un piovoso mercoledì alla fine di Marzo. Una frotta palpitante di genitori prese incredibilmente sul serio l'appuntamento e cominciò a prendere d’assalto il portone del Liceo già al termine delle lezioni, onde evitare la fila di postulanti che puntualmente si crea all’ingresso delle aule nelle quali vengono ubicati i professori. La pioggia battente rendeva l’attesa dei genitori quanto mai disagevole, ma i bidelli impedirono a chiunque l’accesso anticipato all’interno dell’Istituto sulla scorta di una chiara direttiva della Dirigenza (direttiva che in via ufficiosa autorizzava l'ingresso dei genitori alla sola condizione che il temporale fosse cessato). Dopo che la pioggia battente divenne un vero e proprio nubifragio -contro il quale nulla poterono gli ombrelli comprati dai venditori ambulanti all’uscita dalla metro-, e dopo che il nubifragio lascio il posto ad un timido rasserenamento, a pochi minuti dall’inizio ufficiale dell’orario di ricevimento i genitori furono autorizzati a varcare la soglia della scuola. Si scatenò la solita ressa. Saltando uno addosso all’altro, sgomitandosi e sgambettandosi l'un l'altro, dandosi indicazioni volontariamente sbagliate circa la presunta ubicazione dei professori, tutti i genitori cercarono di accaparrarsi le prime posizioni utili a ridosso delle aule nelle quali avrebbero dovuto trovarsi i docenti per dare inizio ai colloqui.

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I professori -o almeno quelli che non avevano fatto ricorso al certificato medico per disertare l'impegno-, dopo una breve pausa pranzo consumata all’interno del bar dell’Istituto, avevano preso posto nelle aule loro assegnate; ma non tutti. Una minoranza non trascurabile di insegnanti aveva saggiamente temporeggiato di fronte a una tazzina di caffè troppo bollente, oppure si era asserragliata in Sala Docenti a far finta di esser impegnata in qualche affare inderogabile e della massima importanza. Quando finalmente i genitori cominciarono a presidiare l’ingresso delle aule destinate al colloquio scuola-famiglia, molte di queste aule risultavano ancora vuote. Il professor Sfaticati andò ad occupare, ma con un ritardo di una buona mezz’ora, l’aula 344. Decine e decine di genitori affollavano, ostruendolo, l’ingresso dell’aula, dando modo al professor Sfaticati di perdere ulteriori dieci minuti prima di far breccia in quella muraglia umana. Quando finalmente riuscì a guadagnare l’ingresso, si diresse immediatamente verso l’unica cattedra rimasta disponibile, ma prima di sedersi allontanò dalla cattedra tutte le sedie e quindi invitò i primi genitori ad entrare, costringendoli di fatto a rimanere in piedi. Lo stratagemma, per quanto irriguardoso nei confronti dei genitori, contribuiva in modo piuttosto significativo ad accorciare i tempi del colloquio, favorendo così lo smaltimento della fila che puntualmente si determina all’ingresso delle aule dei proff. Nell’aula si trovavano, pigramente assiepati dietro le rispettive cattedre, la professoressa Pericle di Greco e il professor Diagonale di Matematica e Fisica. I due salutarono piuttosto distrattamente l’ingresso del professor Sfaticati, poiché erano già impegnati a tenere a bada le richieste, le sollecitazioni, le raccomandazioni e le minacce di alcuni genitori che soltanto in quel frangente cominciarono ad essere illuminati circa la condizione del tutto disperata nella quale versava l’andamento didattico dei loro studiosi figlioli. C’è da premettere che il professor Diagonale, a differenza della professoressa Pericle, era rinomato in tutta la provincia per la severità e la stitichezza con le quali era solito elargire le valutazioni delle prove sia scritte che orali dei propri malcapitati studenti. Se per il professor Diagonale uno studente meritava sia in Matematica che in Fisica al massimo ‘4’, per la professoressa Pericle il rendimento didattico del medesimo studente si assestava solitamente a livelli più che sufficienti. Questa divergenza nelle valutazioni, tuttavia, non era da imputare né alla presunta cattiveria del professor Diagonale né alla ipotetica generosità della professoressa Pericle. Al di là dei diversi profili psicologici e deontologici dei professori che la insegnano, rispetto alle altre discipline la Matematica presenta un maggiorato coefficiente di difficoltà per il semplice fatto che è impossibile agguantare la sufficienza sulle verifiche relative ai capitoli successivi del manuale se vengono trascurate le conoscenze dei capitoli precedenti. Ciò significa, in altre parole, che nello studio della matematica ogni omissione, lacuna, sottovalutazione delle competenze pregresse determina sempre un’acquisizione carente e insoddisfacente delle competenze richieste nelle parti successive. Non si possono calcolare i quozienti delle divisioni o i prodotti delle moltiplicazioni se non si sanno calcolare le somme e le sottrazioni; non si possono risolvere le equazioni di terzo grado se non si sanno risolvere quelle di secondo. Questo discorso vale soltanto in parte per le altre discipline, dove -in Storia- si possono comprendere a menadito i risvolti politici ed economici della Rivoluzione Francese pur non ricordando assolutamente nulla della defenestrazione di Praga, dove -in Italianosi può recitare a memoria l’Infinito di Leopardi senza tener a mente nulla dell’Adone di Giambattista Marino, dove -in Geografia- si possono ricordare a memoria tutte le capitali europee trascurando completamente i capoluoghi di provincia della regione Toscana, ecc. Questa particolarità fa della Matematica una delle discipline più odiate dagli studenti di ogni ordine e grado. Il professor Diagonale, più noto tra gli studenti a lui più affezionati con il vezzeggiativo ‘la Carogna’, consapevole delle difficoltà specifiche che uno studio saltuario avrebbe alla fin fine determinato, aveva la buona abitudine di ripetere più volte la spiegazione dello stesso argomento. 113


Ma, nonostante la professionalità e la chiarezza profuse nel suo insegnamento, buona parte dei ragazzi delle sue classi non riusciva a raggiungere l’agognata sufficienza. Per la professoressa Pericle il discorso era alquanto diverso. Nella sua disciplina i ragazzi gareggiavano ad avere valutazioni sempre più alte, e l’atteggiamento particolarmente ecumenico che contraddistingueva il metodo d’insegnamento della professoressa di Greco facilitava il compito di quanti, con il minimo impegno, puntavano ad ottenere il massimo del rendimento. Del resto la professoressa Pericle aveva fatto il ’68, ed era oramai in procinto di varcare la soglia del pensionamento. Estranea ad un’impostazione gesuitica del rapporto docente/discente, inorridiva all’idea di molestare i propri ragazzi attraverso un atteggiamento vessatorio incline alla puntualità e alla severità delle valutazioni, e preferiva di gran lunga trascorrere le ore di Greco spettegolando con le studentesse più civettuole sulle più sensazionali dicerie che avvolgevano la nomea e la dubbia reputazione dei propri colleghi. Il professor Sfaticati ebbe modo di osservare tra l’altro che mentre il professor Diagonale esauriva l’argomento del colloquio con i genitori in meno di cinque minuti, la professoressa Pericle largheggiava in consigli, suggerimenti, osservazioni rivolte ai genitori al fine di conseguire un ulteriore miglioramento dell’andamento didattico-disciplinare dei propri studenti, osservazioni tali però da allungare a dismisura la durata del ricevimento per ogni famiglia. Il professor Sfaticati, almeno da questo punto di vista, preferiva seguire l’esempio del professor Diagonale, cercando in tutti i modi di snellire il colloquio con i familiari e andare al nocciolo delle questioni. D’altra parte, a suggerire un atteggiamento del genere contribuiva anche il fatto che il professor Sfaticati aveva una memoria limitata come quella di una lucertola, e dimenticava quasi sistematicamente il nome e il cognome dei propri studenti. Ai genitori che gli chiedevano informazioni circa l’andamento in Storia e Filosofia dei propri figli, il professor Sfaticati non poteva far altro che limitarsi ad aprire il registro personale e leggere i voti in precedenza attribuiti. Il più delle volte non sapeva di chi si stesse parlando. Per non dar modo agli interlocutori di sospettare la sua più assoluta amnesia, faceva spesso ricorso a funamboliche tautologie del tipo “se suo figlio si impegnasse di più potrebbe migliorare il rendimento scolastico”, oppure “suo figlio è molto intelligente ma dovrebbe applicarsi in modo più costante”, ecc. A volte però la smemoratezza era talmente palese da ingenerare anche nei familiari il dubbio che il professor Sfaticati stesse parlando a vanvera, senza cognizione di causa. Il professor Sfaticati non amava in modo particolare aver a che fare con i genitori dei propri studenti, e non solo perché inorridiva all’idea di fare brutte figure non ricordando chi fossero i ragazzi di cui gli si chiedeva informazioni, ma soprattutto per la supponenza che li caratterizza in modo sempre più diffuso. Ci sono genitori che pretendono di insegnare all’insegnante ad insegnare. Ci sono genitori che contestano il metodo d’insegnamento se non addirittura la scelta del manuale di testo adottato dal professore. Ci sono genitori che contestano la valutazione espressa dai professori in relazione alle prestazioni scolastiche dei propri figlioli. Non era questo il caso della signora Maria Grazia Fanelli in Quattrocchi e del signor Filiberto Quattrocchi. La coppia, che entrò nell’aula con molta grazia, salutando educatamente e rivolgendo al professore gli ossequi più decorosi, destò immediatamente un’ottima impressione nel professor Sfaticati, il quale gli si appropinquò per stringer loro la mano in attesa che si qualificassero. Quando però capì che si trattava niente popò di meno che dei genitori della studentessa migliore dell’Istituto, cioè di Cecilia Quattrocchi, non avendo nessuna intenzione di perder tempo li invitò immediatamente ad uscire dall’aula, e a non più tornare, visto che l’andamento della loro figlia era semplicemente inappuntabile. I due coniugi rimasero un momento perplessi, incrociarono per un attimo il loro sguardo e poi, simulando una soddisfazione che in realtà non c’era, cortesemente salutarono il professor Sfaticati e si diressero verso la professoressa Pericle, dove si sarebbero intrattenuti per quasi un’ora a godere delle lodi sperticate che la collega ebbe modo di intessere a beneficio della studentessa Cecilia Quattrocchi e dell’amor proprio dei suoi genitori. 114


Quando arrivò il turno della signora Contestabile, il professor Sfaticati si rese immediatamente conto non solo che questa signora apparteneva a quella categoria di genitori che abbiamo in precedenza menzionato (cioè quei genitori che vogliono insegnare all’insegnante ad insegnare), ma anche che, poverina, avrebbe forse dovuto farsi vedere, e da uno bravo. La signora, che non se ne faceva ragione d’esser stata abbandonata dal marito per una ragazzina che per di più era già stata l’audace compagna di suo figlio, presentava sul volto quegli inquietanti sintomi che immancabilmente accompagnano le persone di una certa età devastate da traumi di natura psicologica e affettiva. Come prima cosa si recò dalla parte opposta dell’aula a prendere una sedia che poi trascinò rumorosamente fino alla cattedra del professor Sfaticati, il quale invece rimase in piedi. Prima di sedersi non mancò di appoggiare l’ombrello sulla cattedra irrorando di schizzi d’acqua piovana sia il registro che la cravatta del nostro professore. Quindi, senza salutare con buona creanza l’insegnante, gli chiese di getto: “E’ lei il professore che ha messo ‘3’ a mio figlio?”. “Può darsi, signora. Ma se mi dice di chi stiamo parlando forse potrò essere più preciso”. “Come di chi stiamo parlando? Stiamo parlando di mio figlio!”. “D’accordo, signora. Ma come si chiama suo figlio? E che classe frequenta?”. “Si chiama Ferdinando Bulletti, e frequenta la V C”. “E lei è la signora….?”. “Io sono la madre di Ferdinando, la signora Loredana Contestabile in Bulletti!”. Ragguagliato sugli indispensabili estremi anagrafici, il professor Sfaticati aprì il suo diario ed esaminò la situazione dello studente Ferdinando Bulletti. “Effettivamente, signora, suo figlio ha preso ‘3’ all’ultimo compito in classe sulla filosofia hegeliana. Evidentemente le numerose assenze gli hanno impedito di seguire le spiegazioni e di acquisire le conoscenze richieste dal compito in classe. Ma sono sicuro che potrà tranquillamente recuperare questo votaccio. Lo si vede dall’espressione del viso che è un ragazzo intelligente e vivace. E’ sufficiente un po’ di impegno in più in questo scorcio finale dell’anno e sono sicurissimo che potrà presentarsi agli scrutini finali con una valutazione degna delle sue più rosee aspettative…”. “Non le credo, mi faccia vedere il compito in classe piuttosto!!!”, gli urlò contro la signora Bulletti in Contestabile. “E’ impossibile che mio figlio abbia meritato quel ‘3’! L’ho visto con i miei occhi la sera prima chiudersi in camera per studiare tutta la notte proprio la sua disciplina!”. Evidentemente trascurava, la signora, che suo figlio si era chiuso in camera per la sola ragione di essere lasciato in pace mentre si connetteva alla chat con l’intento di importunare la studentessa Cecilia Quattrocchi della quale, già all’indomani delle radiose giornate di Dicembre, durante l’occupazione, si era perdutamente innamorato. Le urla scomposte della signora Contestabile in Bulletti richiamarono l’attenzione sia del professor Diagonale sia della professoressa Pericle sia dei genitori che in quel momento si trovavano a parlare con loro. Il professor Sfaticati, al quale non piaceva, per ovvie ragioni, rimanere al centro dell’attenzione, cercò in tutti i modi di placare la rabbia della signora, insistendo sul fatto che suo figlio avrebbe senz’altro, vista la sua intelligenza e considerata la sua acutezza di spirito, con un minimo sforzo, recuperato quel voto nelle prossime verifiche. Ma la signora non volle sentire ragioni, e, minacciando d’intraprendere chissà quale azione legale, pretese di visionare il compito in classe che aveva sortito una valutazione così 115


insoddisfacente. Al professore non rimase altro da fare che invitare la signora a rimanere calma al suo posto, mentre lui si sarebbe recato in Sala Docenti a recuperare il plico dei compiti in classe della V C, da dove avrebbe estratto l’elaborato incriminato. Andò e tornò in men che non si dica, e, preso il foglio protocollo recante la firma sbilenca di Ferdinando Bulletti, cominciò a leggere ad alta voce quel poco che vi trovò scritto. Il compito in classe, che era stato somministrato alla classe un paio di settimane prima, verteva sulla filosofia hegeliana ed era composto da due domande. La prima chiedeva: “In che senso la filosofia hegeliana opera la risoluzione del finito nell’infinito?”. Di fronte a questa prima domanda lo studente Bulletti aveva ritenuto opportuno non esporsi e avvalersi della facoltà di non rispondere. Confortato dal foglio completamente bianco a margine di questa prima domanda, il professor Sfaticati ritenne opportuno fare il giro della cattedra e mostrare alla signora Contestabile quanto scritto, o meglio, non scritto dal suo figliolo, in modo tale da giustificare l’insufficienza. “Vede signora, alla prima domanda non mi ha risposto niente… Cosa potevo fare io?”. “Ma cosa vuole dire con questo? Mi sembra che alla seconda domanda abbia risposto eccome… guardi...”. Effettivamente, a margine della seconda domanda comparivano indecifrabili scarabocchi tra i quali si poteva pazientemente intravedere, come in uno di quei curiosi giochi gestaltici, una bozza di risposta. La seconda domanda, la cui formulazione fu letta come richiesto ad alta voce dal professor Sfaticati alla signora Contestabile, chiedeva: “Perché secondo Hegel la filosofia è come la Nottola di Minerva?”. “Me lo dica lei, prima di leggere la risposta di mio figlio...-pretese la signora Contestabile-...così vediamo se ha veramente sbagliato”. Il professor Sfaticati, per venire incontro all’inconsueta richiesta della signora, armandosi di calma e di pazienza, le spiegò quanto segue: “Minerva era la divinità romana della guerra ma anche della saggezza. La figura mitologica di Minerva trova in Atena il corrispettivo nel complesso quadro politeistico della civiltà greca. L’animale sacro sia per Atena che per Minerva è la civetta. La nottola è una specie di civetta, ed Hegel crede che si debba rappresentare la filosofia attraverso la figura della Nottola di Minerva. Questo perché la filosofia, come la nottola, deve spiccare il suo volo al far del crepuscolo, al termine della giornata, quando la Realtà si è già dispiegata, rinunciando a qualsiasi velleitaria pretesa di intervenire sulla Realtà, durante il suo dispiegamento, per condizionarne lo sviluppo. Se l’illuminismo combatteva contro le sperequazioni dell’assolutismo monarchico, per la diffusione dei saperi, per la libertà e l’uguaglianza di tutti i cittadini; se l’illuminismo sosteneva la necessità di applicare la Ragione per la trasformazione della Realtà, e per la realizzazione in essa di un mondo più giusto; mentre, in altri termini, gli illuministi credevano che la filosofia avrebbe dovuto elaborare un modello di ‘dover essere’ alternativo all’ ‘essere’, Hegel riteneva al contrario che la filosofia, come la Nottola di Minerva, doveva limitarsi all’osservazione e all’interpretazione della Realtà esistente una volta che essa si è dispiegata in tutte le sue articolazioni, rinunciando all’idea insana e velleitaria di voler trasformare o migliorare l’ ‘essere’ per il perseguimento di un modello di ‘dover essere’. La filosofia, lungi dal dover trasformare la Realtà, l’Essere, lungi dall’opporre all’ 'essere' un modello ideale di 'dover essere', deve limitarsi a giustificare ciò che la Realtà è, perché è nella Realtà che si manifesta la Razionalità. Ecco perché la filosofia hegeliana è stata tacciata di essere una filosofia giustificazionista, una filosofia, cioè, che si ripropone unicamente di giustificare l’esistente, perché l’esistente, in quanto tale, è l’espressione stessa del divenire della Ragione nella storia. Secondo Hegel, per farla breve, se una cosa è, è perché deve esser tale. Ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale. Ecco perché la filosofia in Hegel viene rappresentata come la Nottola cara a Minerva, la Dea della Saggezza, perché come la Nottola la filosofia spicca il suo volo

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sul far del crepuscolo, e si ripropone solo di osservare la Razionalità che si è dispiegata nella Realtà, senza alcuna pretesa di intralciare il suo dispiegamento. Chiaro signora?”. La battagliera signora, che non aveva capito assolutamente nulla di quanto aveva detto il professor Sfaticati, annuì saccentemente. Al professor Sfaticati non rimase altro che decifrare e leggere la risposta data da Bulletti. “La filosofia per Hegel è come la Trottola di Minerva che spicca il volo dopo aver ripetutamente girato su se stessa…”. A questo punto il professore strabuzzò gli occhi, esaminò più attentamente il capolavoro dadaista di Bulletti, e si sincerò al di là di ogni ragionevole dubbio che lo stesso aveva scritto veramente la Trottola, anziché la Nottola di Minerva. Quindi, senza continuare a dare lettura dell’elaborato, chiuse il compito, lo rimise assieme agli altri, e congedò la signora Contestabile con un cortese “Sparisca! E non si faccia più vedere!”. 16. LE INTERROGAZIONI DI RECUPERO E’ impossibile per un giudice non sbagliarsi mai. Tuttavia, se il giudice non abbandona la buona fede e la onestà intellettuale, allora ogni suo giudizio non può che essere accolto e rispettato da tutte le parti interessate. Purtroppo, non è sempre così che avviene. Troppe volte il giudizio è deformato, ed è deformato perché viene abbandonata la buona fede e l’onestà intellettuale che vengono richieste alla figura giudicante. Questo accade quando il giudice, pur non essendo parte in causa, ha aderenze con le parti in causa. La stessa cosa accade quando un prof conosce i genitori o i nonni degli studenti che vengono sottoposti al giudizio finale. In questo caso, il giudizio si fa distorto, la discussione che lo precede annebbiata e confusa, e la scuola manca clamorosamente il suo compito. La cosa di gran lunga peggiore, è che una volta che la logica delle interessate raccomandazioni si insinua in un Consiglio non c’è quarantena che tenga, e il morbo presto diventa pandemico, dilagante, inarrestabile. Allora un prof che un minuto prima avrebbe giurato che per nessuna ragione al mondo avrebbe perdonato quest’anno qualcosa a qualcuno -ma che per un suo tornaconto poi ci ripensa-, cerca, ovviamente riuscendoci, di convincerne un altro, ancora attardatosi alla difesa del suo ‘4’ o del suo ‘5’, e lo invita, offrendogli un caffè alla macchinetta e dandogli una bonaria pacca sulla spalla, a convenire anche lui sul fatto che “ebbene sì, il ragazzo, sì mi riferisco a quel caro ragazzo Frignini, ricorda, ebbene sì si è impegnato poco quest’anno, il ragazzo avrebbe senza meno potuto fare di più, quello che va detto va detto, lei ha ragione! ma vede… lei lo sa sì che a Febbraio ha fatto l’incidente col motorino, un bruttissimo incidente mi creda! Ha dovuto mettere il gesso alla gamba e lo ha dovuto tenere per più di venti giorni, ricorda? E poi è stato lasciato pure dalla sua fidanzatina, quella ragazza tanto carina della III E, chissà quanto deve aver sofferto in cuor suo poverino! E poi passa tanto di quel tempo per gli allenamenti… Gioca con la polisportiva del rione in promozione, a livelli agonistici, è molto bravo sa, dovrebbe andarlo a vedere allo stadio la domenica, non sa che spettacolo, e soprattutto che piacere gli farebbe, a lui e alla sua famiglia, la conosce? Come non la conosce? E’ quella simpatica famiglia che gestisce quell’ottimo ristorante di pesce in viale Bettino Craxi, all’altezza del civico 67 se non ricordo male… Dovrebbe andarci qualche volta, è buonissimo, ma mi raccomando, prima di pagare dica che è un mio collega e che la mando io… Per carità glielo dica, non voglio mica mandarla nell’occhio del ciclone, gli dica che la mando io, mi raccomando… E poi, suvvia, non si intestardisca con questo suo benedetto ‘5’, non si può mica negare che effettivamente a scuola il ragazzo ci è venuto con una certa continuità… Certo, ha ragione anche lei, la presenza del ragazzo a volte è passata un po’ inosservata, ma sa com’è, è un po’ originale, è fatto a modo suo, è un po’ riservato, eccentrico, è un po’ bislacco il ragazzo, sempre assorto a pensare ai fatti suoi, ma vogliamo mica punirlo per questo, e che diamine! Può mica essere lui il capro espiatorio di un sistema scolastico che fa acqua da tutte le parti! Su, dia retta a me, ché anche lei vedo ha ‘5’ nella sua materia, faccia come me, diamogli un’altra possibilità, passiamo 117


questo ‘5’ a ‘6’ sia nella mia che nella sua disciplina, e l’anno prossimo vedremo se avrà meritato o no quest’aiutino… Su che aspetta il Dirigente prima di correggere il voto, lo faccia subito, no! Aggiunga, lì, il 5 Maggio un bell’ ‘8’ a penna e porti la media a ‘6’, su veloce però che ho mia moglie che mi aspetta fuori dalla scuola… Ha fatto? Bene la ringrazio, no non per me si figuri, la ringrazio così in generale, per dire, piuttosto mi scusi lei l’insistenza e la fretta ma queste cose prima si fanno e meglio si fanno, mi creda, e poi devo correre ché devo andare a riprendere i bambini alla scuola di pianoforte, ché stasera dobbiamo andare a cena dal sottosegretario ai Trasporti… Come? Non lo conosce? E’ l’onorevole Malfattori! La conoscono tutti qui Sua Eccellenza! Sua figlia frequenta questa scuola, non lo sa? La V E, che è una mia classe. Ma veramente non lo sapeva o sta scherzando? Scusi eh, ma lei da quale pianeta didattico arriva? Mi sembra che insegna in un altro pianeta, mi perdoni. Guardi, non si preoccupi di niente, penso io a tutto; se la prossima volta che organizziamo un incontro lei non ha impegni, sarà mia premura prepararle una cena coi fiocchi e un’accoglienza di particolare riguardo! Anzi, cogliamo l’occasione proprio per andare al ristorante dei genitori di questo ragazzo, sì sì proprio di Frignini, quello in viale Bettino Craxi, fa delle spigole al forno con le patate che lei non ha idea! Cosa dice? Se ci sarà anche l’onorevole Malfattori! Ma certo, ma certo, e mica stiamo qui per vendere le olive! Non si preoccupi che glielo farò presto conoscere, certo che può contare sul suo ascolto, è di una disponibilità senza uguali per un politico che ha preso ventiduemila preferenze alle ultime regionali! Come? Suo figlio ha fatto domanda alle Ferrovie dello Stato? Ma si figuri, sarà un piacere per l’Onorevole, non ringrazi, ma lasci stare, ma non si senta in obbligo! Cosa? ‘9’ in matematica a Frignini? Ma suvvia non dica enormità! ‘9’ è esagerato al ragazzo, a malapena merita ‘6’! Io non sono comprensivo dice? Io sottovaluto il ragazzo? Ma mi faccia la cortesia! Quel ragazzo per quanto lo si creda scemo è comunque impossibile da sottovalutare! Suvvia, lo sappiamo tutti e due che è un cretino, un vero e proprio imbecille, e non dica così, ma certo, gliel’ho detto che la faccio parlare con l’Onorevole, ma per favore mi lasci la giacca, per favore, ma guardi cosa ha fatto! Mi ha rovesciato il caffè sulla cravatta! E non si appiccichi, ma mi faccia il piacere, ma se ne vada...”. E così, o se non proprio così senz’altro in modo analogo, uno studente che disperava della promozione finale, che si presentava alla vigilia degli scrutini finali con un paio di ‘6’ tra condotta ed Educazione Fisica, una mezza dozzina di ‘5’ e una quaterna di ‘4’, a scrutini ultimati si ritrova ad avere il giudizio sospeso, perché la stragrande maggioranza delle insufficienze sono nottetempo passate in un modo o nell’altro a ‘6’, vuoi per la disponibilità all’ascolto di un Sottosegretario ai Trasporti, vuoi per la promessa di un generoso sconto in un ottimo ristorante di pesce. Ma del resto, cosa si pretende, anche il professore -solitamente- è un uomo normale, un uomo di mondo, ed anche se il più delle volte ha la testa fra le nuvole, piena di frottole studiate all’università, ha anche lui i suoi problemi, le sue gatte da pelare, i suoi guai; guai che cerca, come tutti i suoi simili, di risolvere in un modo o nell’altro, soprattutto nel momento che appare più opportuno. Fatto sta che molte discussioni che convergono verso la definizione della bocciatura o della promozione di uno studente sono non di rado interessate da tutte queste considerazioni; il che rende gli scrutini finali quanto mai imprevedibili e vivaci, con colleghi che per disperazione alzano la voce, con il Dirigente Scolastico che non di rado arriva ad insultare alcuni professori, fino alla decisione definitiva che viene presa troppe volte a maggioranza, e quasi sempre con la minaccia di querela di una parte contro l’altra. Va premesso che solitamente i criteri per la promozione all’anno successivo sono chiari a tutti. Per l’anno scolastico di cui stiamo parlando erano criteri specificati a chiare lettere nel POF, ovvero nel Piano dell’Offerta Formativa. Il POF, sia detto sinteticamente, è il frutto, il più delle volte, di un indegno taglia e incolla tra la documentazione dell’anno scolastico precedente e la documentazione dell’anno scolastico successivo, taglia e incolla che un docente che ricopre una funzione strumentale fa per compilare una specie di contratto educativo, che poi le famiglie, il personale scolastico e gli studenti si ripropongono di rispettare e far rispettare per l’intero anno scolastico. Il 118


Piano dell’Offerta Formativa dovrebbe essere una specie di Carta d’Identità di un Istituto, dove dovrebbero venir illustrate le linee didattiche seguite dall’Istituto stesso, con la loro ispirazione pedagogica e culturale. Il POF dovrebbe esplicitare le discipline e le attività didattiche curricolari ed extracurricolari scelte dall’Istituto in piena autonomia rispetto alle indicazioni ministeriali; dovrebbe esplicitare le attività di recupero e di sostegno per gli studenti che rivelino nel corso dell’anno scolastico una certa difficoltà nel conseguimento di una valutazione sufficiente; dovrebbe individuare le attività di potenziamento per le cosiddette eccellenze, cioè per quegli studenti che, al contrario dei precedenti, ottengono delle valutazioni semplicemente impeccabili; contiene le griglie di valutazione per le verifiche sia orali che scritte; le modalità e i tempi di verifica; le opzioni didattiche relative ai Viaggi di Istruzione; il calendario definitivo della scuola; i criteri per la composizione o l’accorpamento delle varie classi, ecc. Il Piano dell’Offerta Formativa contiene questo, e molto altro, che però non stiamo qui a riportare per non annoiare il lettore. C’è da aggiungere tuttavia, con una certa amarezza, che questo benedetto POF solitamente non viene letto da nessuno, né dalle famiglie, né dagli studenti, né tanto meno dall’affaccendato personale docente, tranne forse da quel collega, amico del Dirigente Scolastico, che per la compilazione (o, per meglio dire, per l’indegno taglia e incolla) che sta alla base del Piano dell’Offerta Formativa-, riesce a prendere ogni anno una lauta prebenda, sotto la voce ‘compensi per attività strumentali extracurricolari’. Ma al di là di queste osservazioni, e tornando alle nostre questioni concernenti la predisposizione degli scrutini finali, il Piano dell’Offerta Formativa, stabiliva che per il conseguimento della promozione occorreva avere in tutte le discipline una valutazione almeno sufficiente. In questo raro e fortunato caso, la media dei voti finali, per il triennio, avrebbe concorso poi alla determinazione dei crediti scolastici, con i quali i ragazzi si sarebbero presentati al quinto anno all’Esame di Stato. Per bocciare uno studente invece, il Consiglio di Classe avrebbe dovuto rilevare gravi e diffuse insufficienze, che, tradotto in soldoni, significava che uno studente doveva riuscire nell’improbabile intento di presentarsi agli scrutini di Giugno con almeno tre gravi insufficienze (almeno tre ‘4’) o almeno quattro lievi insufficienze (almeno quattro ‘5’). Tuttavia tra la bocciatura e la promozione l’attuale ordinamento scolastico contempla un terzo caso, una specie di purgatorio delle anime e di quegli studenti che rimangono sospesi tra il baratro della bocciatura e le glorie celesti di una promozione. Nel POF dell’Istituto in cui lavorava il nostro professor Sfaticati, ad esempio, veniva a chiare lettere precisato che qualora uno studente non avesse riportato tutte le valutazioni sufficienti (quindi nel caso in cui uno studente non veniva immediatamente promosso) e non avesse tuttavia riportato nemmeno una situazione con una serie di insufficienze gravi e diffuse (cosa che avrebbe comportato la bocciatura immediata), allora il giudizio finale del Consiglio di Classe in merito alla sorte da destinare al ragazzo sarebbe stato sospeso. In questo caso, a conclusione degli scrutini finali, ai ‘quadri’ affissi sul portone della scuola, di seguito al cognome e al nome dello studente non sarebbe apparsa né la dicitura ‘promosso’ né la dicitura ‘non promosso’, bensì l’arcana espressione ‘giudizio sospeso’. La scuola, a beneficio di tutti quegli studenti né promossi né bocciati, che cioè risultavano a Giugno con il giudizio sospeso, avrebbe avviato nei mesi estivi ulteriori iniziative volte al recupero delle insufficienze non gravi né diffuse riscontrate nella valutazione, e quindi si sarebbe proceduto, da parte dell’Istituto, alla calendarizzazione di ulteriori prove di recupero (fissate quasi sempre a Settembre, e comunque sempre prima dell’avvio dell’anno scolastico successivo). L’esito di queste ulteriori prove di recupero avrebbe infine stabilito se lo studente in questione avrebbe potuto frequentare con profitto l’anno scolastico successivo; quindi si sarebbe determinata, finalmente, la promozione o la non promozione dello studente in questione. Sulle potenzialità taumaturgiche di questi corsi di recupero estivi non c’è da dubitare, e non ne dubitavano né gli studenti interessati alla faccenda né i professori interessati all’affare (questi 119


ulteriori corsi di recupero, benché effettuati durante il periodo estivo in cui i proff non lavorano ma percepiscono comunque lo stipendio, danno diritto, a quei professori che li attivano, ad un’ulteriore mensilità retribuita). La quasi totalità degli studenti che partecipano a questi corsi riescono, dopo un anno scolastico dall’esito disastroso e dopo quindici ore di corso di recupero estivo, nel momento delle prove davvero conclusive, riescono dicevamo ad arrivare all’agognata sufficienza, attribuita solitamente dal Consiglio di Classe convocato a Settembre all’umanità, oh pardon!, all’unanimità. Stando così le cose, e i fatti, molti studenti che per tutto il periodo invernale altro non hanno fatto che nidificare nelle aule per evitare di prendere freddo al di fuori delle pareti scolastiche, hanno sempre sperato, e continueranno sempre a sperare fino a quando la legislazione scolastica sul punto in questione non verrà modificata, non tanto di essere promossi immediatamente a Giugno, quanto di avere a Giugno per lo meno il ‘giudizio sospeso’ e di giocarsi per così dire la promozione in zona Cesarini, ai supplementari, frequentando i corsi di recupero e sostenendo le prove a Settembre. Ecco perché, nonostante l’evidenza di una situazione disperata, molti ragazzi fino all’ultimo minuto possibile cercano di portare un ‘3’ a ‘4’, un ‘4’ a ‘5’, o di ridurre il numero delle insufficienze da quattro a tre; potrebbe essere indispensabile per ottenere il giudizio sospeso, e quindi, con calma, dopo la pausa estiva, a Settembre, la promozione. Tutte queste considerazioni sono qui riportate per rendere edotti i lettori del clima, delle aspettative, insomma dell’atmosfera che si respira negli ultimi giorni e nelle ultime ore di scuola. Ecco che si spiega come per un professore sia materialmente impossibile andare al bar a prendere un caffè con un collega, o anche passeggiare per i corridoi ombreggiati della scuola, senza essere preso d’assalto da dozzine di studenti sudati che gli chiedono “professo’ me dice la media?”, oppure “professo’ quanno posso veni’ a recupera’?”, o ancora “professo’ me mette ‘6’ ?”. Questo ci aiuta anche a valutare la tenacia e l’eroismo di quei professori, davvero pochi ormai, che si ostinano a elaborare e difendere una valutazione insufficiente in relazione all’andamento didattico di uno o più studenti. Infatti, mantenere il punto sulla insufficienza ad un ragazzo, significa innanzitutto difendere questa insufficienza dagli arrembaggi del Dirigente Scolastico. “E chi me lo fa fare”, dice tra sé e sé un prof. Un Dirigente Scolastico, se durante tutto l’anno scolastico è rimasto avvolto dalle nuvole mistiche di entità metafisiche, a fine anno si materializza negli scrutini finali. Suo compito, non derogabile, è infatti quello di presiedere, coordinare e il più delle volte orientare l’esito dei Consigli di Classe finali, con ciò determinando la bocciatura o la promozione o ancora la sospensione del giudizio di tutti gli studenti dell’Istituto. Il Dirigente, il più delle volte, non conosce nessuno degli studenti di cui si sta stabilendo la sorte; però conosce i professori, e sa quale dei professori è psicologicamente devastato, chi è stranamente normale, chi ha la moglie che ha fretta di andare in vacanza (e quindi tende a mettere tutte sufficienze, a smontare baracche e burattini e a scappare il prima possibile via dalla scuola e da Roma), chi invece sta a corto di quattrini (e quindi tende, al contrario, a insistere sulle insufficienze per ottenere l’incarico di svolgere un corso di recupero e per sgraffignare così allo Stato un’altra mensilità straordinaria). Il Dirigente non conosce gli studenti, ma sa tutto questo, ed altro, ed allora è giusto, e questo è un modesto parere di chi scrive, che sia lui e non altri a presiedere e coordinare gli ultimi Consigli di Classe. In generale la linea politica seguita in materia di scrutini finali da un onesto Dirigente Scolastico è una linea politica improntata al più schietto realismo. Il Dirigente sa che se l’Istituto ch’egli si ritrova a presiedere boccia più del dovuto, allora se non l’anno dopo, sicuramente in quello ancora successivo si riscontrerà una significativa riduzione degli iscritti. Sa anche, tuttavia, che nel caso contrario, cioè nel caso in cui si registrino troppe e troppo generose promozioni, il suo Istituto prenderà la nomea di un deprimente ‘diplomificio’, determinando se non l’anno dopo, sicuramente in quello ancora successivo un drastico peggioramento della qualità degli iscritti. Il Dirigente ha o dovrebbe avere una visione d’insieme; sa o dovrebbe saper prendere le distanze dall’assordante clamore dato dalla particolarità del caso in discussione; sa o dovrebbe saper cogliere dalle 120


sfumature e dalle insistenze dei professori in quali casi occorre essere un po’ più severi, in quali altri casi un po’ più indulgenti. Ma torniamo nella scuola dove il nostro professor Sfaticati stava oramai per concludere il suo anno di servizio. L’ultimo giorno prima delle vacanze estive, come oramai è d’abitudine da tempo immemorabile, prevedeva la sospensione delle attività didattiche e l’espletamento di una serie di iniziative ideate sia dal corpo docente ma anche dalla scolaresca al fine di rendere più affettato e commovente il commiato del personale e dei ragazzi. Festicciole e bagordi vari furono quindi allestiti in molte aule dell’Istituto, ma prioritaria fu senz’altro l’iniziativa di alcuni ragazzi che, amanti a modo loro di un qualcosa di rumoroso che solevano definire ‘musica’, organizzarono nell’atrio dell’Istituto una manifestazione, appunto ‘musicale’, consistente nell’esibizione di vari gruppi che si alternarono ai microfoni sin dalla prima mattinata fino alla chiusura dell’Istituto. E’ inutile specificare che a seguito di questa iniziativa quasi tutti i professori preferirono tapparsi le orecchie e correre a rinchiudersi in Sala Docenti. Il frastuono provocato da queste bande, che con una certa difficoltà sopportavano l’aggettivo di ‘musicali’, non fu tuttavia l’unica ragione che indusse i proff a precipitarsi in Sala Docenti per poi rimanervi asserragliati come in un fortino. L’ultimo giorno di scuola, infatti, è anche l’ultimo giorno utile per l’acquisizione di valutazioni in vista degli scrutini finali. La situazione, per molti ragazzi, pur non essendo assolutamente seria, era certamente disperata. Per troppi mesi il disinteresse verso le discipline che adesso, l’ultimo giorno di scuola, speravano di recuperare, era ristagnato. La partecipazione per lo più saltuaria alle attività didattiche aveva reso il lavoro dei professori incredibilmente infruttuoso. Lo studio pomeridiano a casa, del tutto inesistente, non consentiva d’altra parte di nutrire fiduciose speranze circa l’esito delle attività e delle verifiche di recupero da porre in essere l’ultimo giorno di scuola. Nonostante queste grigie premesse, una masnada scomposta e minacciosa di studenti, infuriata come zombi accecati dall’odio e dalla fame, evidentemente disinteressata al concerto di fine anno, si aggirava disperata tra i corridoi della scuola alla caccia di quei pochi professori rimasti in circolazione, professori da abbordare senza ritegno, professori cui succhiare ancora il sangue, professori che avrebbero dovuto concedere loro la immeritata sufficienza, il fatidico ‘6’! Appena un professore veniva avvistato in un angolo, dietro una porta, in fondo a un corridoio, si scatenava la ressa, la bagarre più indegna, e l’inseguimento di tutta la scolaresca verso quel prof non poteva essere più disdicevole. I professori avvistati, presi dal panico, come prede braccate cercavano allora riparo nei pertugi più remoti, negli ambiti più estremi, nei posti più impossibili; si precipitavano frettolosamente dentro i gabbiotti dei collaboratori scolastici pateticamente chiedendo loro asilo politico; si nascondevano sotto le scrivanie delle segretarie; si barricavano negli Uffici della Presidenza per poi raggiungere il parcheggio esterno calandosi dalla finestra del secondo piano; si chiudevano nei bagni a doppia mandata; ma, soprattutto, tentavano in tutti i modi di guadagnare la Sala Docenti, dove un folto schieramento di truppe alleate -i bidelli- garantiva l’extraterritorialità di quel lembo scolastico. Non tutti furono così fortunati da giungere in sicurezza al riparo. Molti colleghi del professor Sfaticati erano facile preda di questo brutale arrembaggio, e dopo un breve quanto disperato tentativo di fuga si facevano immancabilmente acchiappare dagli studenti, tutti sudati e con la bava alla bocca, studenti che sarebbero stati senz’altro capaci di divorare il cuore del prof, se il professore in questione non avesse avuto alla fin fine il buon cuore di promettere loro a fine anno l’agognata sufficienza. Era molto pericoloso, per un prof con delle insufficienze formalizzate sul registro personale, circolare tra i corridoi della scuola. E per questa ragione molti tra i colleghi del professor Sfaticati si 121


rifiutavano di andare in giro per l’Istituto, e nemmeno per sogno credevano di dover andare in classe. In merito alle interrogazioni di recupero, c’è da dire che in cuor suo il professor Sfaticati si stupiva di quanto ‘esseruncoli’ insignificanti come i propri studenti ci tenessero alle proprie sorti esistenziali e scolastiche, e non si capacitava dell’importanza e delle aspettative che quegli stessi studenti riponevano nella sua valutazione. L’unico cruccio che avrebbe dovuto assillare quegli studenti -secondo il nostro prof-, avrebbe dovuto riguardare il ponte sul fiume Tevere sotto il quale sarebbero prima o poi stati costretti a dimorare... Braccia rubate all’agricoltura! Ecco cos’erano per il nostro prof! Per questa ragione, il professor Sfaticati, facendo ricorso a speciose argomentazioni filosofiche, cercava di convincere quegli studenti dell’assoluta inutilità delle interrogazioni di recupero, e rivolto a uno di essi gli fece notare: “Tardi, ma che ti cambia se vieni promosso o bocciato? Prima di te c’era l’eternità, dopo di te ci sarà l’eternità? Tu non sei altro che un punto inconsistente che collega queste due eternità? Te ne rendi conto?”. “A professo’…. Proprio perché la mia vita è un punto non la voglio passa’ a scola…!”. Nonostante questo giudizio così tranciante sui propri studenti, animato da uno spirito improntato al buonismo e all’ecumenismo, il professor Sfaticati non rifiutava mai di prestar ascolto non tanto alle loro interrogazioni quanto alle loro suppliche. Del resto, il professor Sfaticati aveva oramai da tempo dismesso l’atteggiamento di chi vuole cambiare il mondo, l’atteggiamento di chi crede che essendo puntuali e integerrimi si possa migliorare la realtà esistente. Il meglio, come si sa, è nemico del bene. Armato di questa nuova persuasione, anziché scansare gli studenti nell’ultimo giorno di scuola, anziché barricarsi come gli altri colleghi in Sala Docenti, decise di dare appuntamento agli studenti presso il bar interno all’Istituto, dove grazie a una camomilla e a dei biscotti alla cioccolata, più facilmente avrebbe potuto digerire le ultime indecorose boiate che gli stessi studenti gli avrebbero detto all’interrogazione pur di rispondere qualcosa alle strane domande del prof. Al bar, quella mattina, si presentarono puntuali come non mai due ragazzi e una ragazza che avrebbero dovuto recuperare le insufficienze accumulate nell’intero anno scolastico. Si trattava, in ordine, del noto Francesco Bulletti della V C, di Mariassunta Alienati della IV C, e Corrado Tardi della III C. Il professor Sfaticati, prima di procedere alla farsa delle interrogazioni, ordinò, come di consueto la mattina al bar, una camomilla con dei biscotti, si accomodò elegantemente al tavolo, accavallò pensosamente le gambe e fece disporre innanzi a sé gli studenti. Chiese quindi loro un argomento a piacere, ma nessuno dei tre ne aveva preparato uno, e allora procedette in ordine di gravità a sollecitare gli impacciati interlocutori. “Dimmi, Bulletti, dimmi un po’ ti ricordi come si è conclusa la Seconda Guerra Mondiale?”. “Sì professo’ eccome se me ricordo. La Germania era oramai caduta, Hitler si era suicidato e Mussolini l’avevano fucilato. Rimanevano soltanto i giapponesi, quei gran fiji… eh volevo dire rimanevano solo i giapponesi che ancora non avevano accettato la resa. Siccome però riuscirono all’ultimo a inventare la bomba atomica prima degli altri …”. “Chi, Bulletti, inventò la bomba atomica prima degli altri?”. “A’ professo’, come chi? I Giapponesi, li mortacci loro…”. “Bene, va avanti, continua pure…”. “Beh, stavo a di’ che siccome i giapponesi inventarono la bomba atomica prima degli altri, allora per far vedere agli americani che loro avevano la bomba atomica decisero il 6 e il 9 agosto del ’45 … vede professo’ ricordo pure le date… allora decisero, non avendo gli aerei in grado di arrivare a

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colpire le città statunitensi, di sganciarne un paio su due città loro… l’effetto fu così stupefacente che gli americani decisero di arrendersi!”. “Bene bene, puoi andare, passiamo a Tardi. Tardi di che mi vuoi parlare?”, chiese il prof sorseggiando la camomilla che ancora era bollente. “E che ne so professo’, faccia lei, per me è uguale, tanto so tutto!”. “Dunque, tu devi recuperare filosofia mi sembra. Senti, da quattro mesi oramai non facciamo altro che parlare in classe del Motore Immobile di Aristotele, ricordi qualcosa da dirmi?”. “Veramente, professo’, quando l’ha spiegato ero assente…”. “Tardi, non è che sei stato assente quando l’ho spiegato, sei stato quasi sempre assente. Comunque, su, è un argomento trito e ritrito. Non faccio altro che fare questa domanda ai tuoi compagni di classe, all’interrogazione, da due mesi e più oramai. Non ricordi niente degli attributi del Motore Immobile?”. “Professo’ me dia un aiutino …”. “Va bene, d’accordo. Ricorderai che per Aristotele il Motore Immobile altri non era che Dio, al quale Aristotele attribuiva la perfezione, ovvero l’immobilità, perché se si muovesse, come ben puoi immaginare, non sarebbe mica perfetto, dacché o perderebbe o acquisirebbe quella perfezione che invece Aristotele vuole attribuirgli per definizione, ricordi?”. “Ah sì professo’ mo ricordo, lo volevo di’ io quello che ha detto lei…”. “E non ricordi null’altro sugli Attributi che Aristotele predicava di Dio?”. “Veramente professo’ adesso sarà l’agitazione, ma nu me ve’ gniente!”. “Su Tardi, non ricordi che il Motore Immobile era la causa finale del movimento dell’universo, che era definito da Aristotele Pensiero di Pensiero… Non ricordi, Tardi?”. “No professo’, adesso non me vie’, mannaggia a me, è che m’emoziono facile… però ste cose che ha detto lei le sapevo, le volevo di’ pur’io professo’!”. “Su Tardi, se mi dici solo qualche altra cosa sugli Attributi di Dio ti metto la sufficienza e ti lascio andare, te lo prometto!”. “Veramente professo’? Me mette la sufficienza?”. “Certo Tardi, certo, ti metto la sufficienza, ma tu qualche altra cosa sugli attributi di Dio me la devi dire, altrimenti non posso mica regalarti il voto!”. “Va be’ professo’, io adesso nu me ricordo proprio bene quello che diceva Aristotele sugli attributi di Dio, ma se si tratta degli attributi di Dio, be'...allora saranno come minimo più grandi di quelli di un toro! Sbajo professo’?”. “Tardi, sei meglio di un teologo medievale, comunque non preoccuparti per la sufficienza, puoi andare tranquillo, buone vacanze…”. Qui il professor Sfaticati sorseggiò nuovamente la camomilla, si grattò un ginocchio, osservò l’orologio, si guardò in giro per individuare uno spigolo contundente contro il quale sbattere la 123


testa, ma finalmente incrociò lo sguardo di Mariassunta Alienati, della IV C, che seduta di fronte a lui aspettava il suo turno per essere interrogata. “E tu che vuoi?”, le chiese il professore. “Come che vojo professo’, me deve interroga’ per il ‘6’!”. “In cosa in Storia o in Filosofia?”. “Come professo’, non ricorda? Sia in Storia che in Filosofia, mica lascio le cose a metà, io!”. “Senti Alienati, adesso non ho tempo, devo scappare in Sala Docenti, ma facciamo un patto…”. “Dimme professo’, che patto?”. “Tu non ti fai interrogare né in Storia né in Filosofia, eviti di venirmi a ricordare che ti devo ancora interrogare perché vuoi farti volontaria, e io ti giuro che ti metto non ‘6’ ma ‘7’ sia in Storia che in Filosofia; basta che sparisci dalla mia vista nei prossimi tre secondi. Ci stai a questo patto?” “Scialla professo’!”. “Però Alienati, mi raccomando, non ti far rivedere per la scuola, nei corridoi, in palestra al bar, per favore, non ti far più vedere e io ti metto ‘7’, d’accordo?”. La studentessa non rispose, era già andata via, lontano dallo sguardo assassino del professor Sfaticati. Alcuni lettori noteranno che l’atteggiamento posto in essere dal nostro professor Sfaticati -atteggiamento orientato ad una politica di condono didattico- pregiudica la serietà e l’efficacia dell’azione didattica nel suo momento topico, cioè nella valutazione delle conoscenze, delle competenze e delle capacità che viene acquisita in sede di verifica orale. L’autore non può che concordare, in linea di massima, con i lettori. Tuttavia, se non per giustificare quella che potrebbe apparire una specie di lassismo del professor Sfaticati, almeno per provarla a spiegare, è d’uopo aggiungere brevi e ulteriori considerazioni. Le bocciature sono sempre più una rarità. Larghissima parte del corpo docente, senza dubbio composta dai professori più professionali e deontologicamente più motivati, preferisce fare la parte del pesce in barile, e cedere a tanta insistenza, fino a scrivere il numero ‘6’ sull’ultima casella a destra del registro del professore. Ma diremo di più. Per difendere un minimo di dignità e di decoro, questi professori addirittura si rifiutano, e fanno bene, di prestarsi alla carnevalata di un’altra improponibile interrogazione di recupero, e assorti in mille confabulazioni sul senso della vita e del loro lavoro non fanno altro che intraprendere la via del condono didattico -siamo o non siamo in Italia, perdinci!- e portare tutte le valutazioni insufficienti a un livello di sufficienza. Le motivazioni di quest’atteggiamento, che è di gran lunga il più taciuto ma sempre il più diffuso tra il personale docente, sono molteplici, e, al di là di considerazioni semplicemente liquidatorie, meritano qualche giustificazione. Innanzitutto le bocciature, e questo è un dato oramai risaputo, determinano l’aggravamento della dispersione scolastica. Uno studente che viene bocciato una volta difficilmente si riscrive per l’anno scolastico successivo, mentre è scientificamente accertato che uno studente bocciato per più di una volta finirà per non riscriversi più, andando prevedibilmente ad ingrossare le fila della manodopera a disposizione di qualche clan camorristico -clan camorristici che oramai stanno facendo affari d’oro anche all’ombra del Colosseo e dei Fori Imperiali. Meglio evitare rischi! Meglio non 124


bocciare! Meglio fare della scuola il saldo presidio della legalità. Molto meglio promuovere e far venire a scuola tutti i ragazzi, piuttosto che lasciarli in mezzo alle strade polverose di realtà disagiate, con alto tasso di tossicodipendenza e di criminalità, magari in contesti familiari per lo più devastati, solo capaci di proiettare un cono d’ombra cupo e inquietante sul futuro educativo e professionale dei loro figlioli. Di fronte a queste argomentazioni, non viene nient’altro da fare che inchinarsi in segno di rispetto, togliersi il copricapo ed esclamare: “Chapeau”! Certo, al professore medio italiano non sfugge che tutti si lamentano, al bar dello sport come al mercato rionale, dal fruttivendolo come dal benzinaio, dal barbiere come in fila alle poste, e tutti si lamentano perché credono che oramai nella scuola italiana si bocci troppo poco e che i ragazzi, per questo, vengono su male, con idee bacate per la testa, senza il senso della disciplina e del decoro che loro, figli delle stelle e del rampantismo socialista degli anni ‘80, hanno da tempo ormai acquisito. Tutti, dal fruttivendolo al benzinaio, dal barbiere al postino, credono che occorrerebbe bocciare di più, come una volta, che bisogna raddrizzarli questi ragazzi, a suon di bacchettate alle mani se necessario; credono, tutti costoro, che bisognerebbe tornare ai metodi di una volta, al rispetto dell’autorità e della disciplina, ecc. E questo il professore lo sa! Sa, il professore, che la ‘società civile’ chiede alla scuola di supplire con il rigore laddove le famiglie largheggiano in elasticità e tolleranza. Sa, il professore, che la ‘società civile’ chiede alla scuola di dire quei ‘no’ che le famiglie non sanno più dire ai loro pochi figli ricchi e viziati. Sa, il professore, che la ‘società civile’ gli affida il compito non solo di istruire ma anche e soprattutto di educare i propri figli. Il professore sa ancora che sul proprio capo incombe minacciosamente sospesa la spada di Damocle del giudizio pubblico, per cui al professore, oltre che una condotta semplicemente irreprensibile in classe, è chiesto anche il decoro e l’austerità nella sua vita privata. Il professore deve essere l’esempio, la guida, il mentore di tutti quei sani valori morali che le famiglie vogliono veicolare sui propri figli, ma se il professore non si trovasse nella condizione di poter ostentare una morale pubblica e privata più che cristallina, allora il suo operato sarebbe sottoposto al ludibrio pubblico, al linciaggio preventivo, alla critica scarnificante. Il professore italiano sa di dover supplire alle mancanze educative delle famiglie, e sa, per questo, che la sua serietà e la sua onestà intellettuale costituiscono la più solida garanzia dell’integrità e dell’efficacia del proprio lavoro. Tuttavia, il professore medio italiano sa anche che dal dire al fare c’è di mezzo il fare. Sa anche, il professore medio italiano, che agli alti intenti educativi e ai sublimi ideali pedagogici che la ‘società civile’ assegna alla scuola non sempre corrisponde, da parte di quella, l’assunzione di una conseguente condotta. Sa anche, il professore medio italiano, che coloro i quali strombazzano mattina e sera la necessità di un ritrovato rigore all’interno delle istituzioni scolastiche, l’improrogabilità di una maggiore severità nelle valutazioni intermedie e finali, ebbene costoro sono gli stessi elementi della ‘società civile’ che predicano bene e razzolano male. Certamente, tutti questi elementi che predicano per un maggior rigore sono ben contenti che si bocci solo con il voto insufficiente nella condotta; sono per la scuola del rigore; sono per una maggiore selezione a scuola sia in ingresso che in uscita; sono sempre e comunque a favore dell’aumento delle bocciature, perché la bocciatura è bella, perché la bocciatura fa bene, perché la bocciatura piace, ecc. Tutti questi pedagogisti, nessuno escluso -dal barbiere che non disdegna di applicare uno sconto particolare sul taglio dei capelli e della barba al prof di sua figlia, al fruttivendolo che crede di fare cosa gentile e gradita nel mettere qualche mela in più nella busta della spesa della moglie del prof di suo figlio, dal benzinaio che regala i punti della tessera al figlio del professore di suo figlio, al postino che fa saltare la fila alle poste all’anziana e claudicante mamma del prof di sua nipote-, ebbene, tutti questi pedagogisti, nessuno escluso, credono che se i professori fossero finalmente più rigidi e severi (con i figli degli altri), se bocciassero di più (i figli degli altri), se si facessero un po’ rispettare (sempre dai figli degli altri), se facessero scattare in piedi all’unisono i ragazzi al loro ingresso in aula, se insomma i ‘professoruncoli’ di oggi riuscissero a fare un po’ come facevano i Professoroni di una volta, allora sì che gli sfaticati sarebbero emarginati e gli onesti lavoratori 125


encomiati, allora sì che ci sarebbero più ordine e disciplina, allora sì che l’Italia andrebbe meglio, ecc. Ma dietro queste posizioni si nasconde un mondo di miserie e di piccinerie che non vale nemmeno la pena prendere in considerazione. Per molti la scuola che veramente funziona è quella scuola in cui il proprio figlio riesce finalmente a riportare una media maggiore del figlio del farmacista, vicino di casa. Al di là delle esagerazioni scherzose, che certo non sono mancate in questo libro, è questo purtroppo l'unico parametro con il quale larga parte della ‘società civile’ giudica l'incisività degli interventi didattici e il lavoro dei singoli insegnanti. Il professor Sfaticati, terminate quelle vergognose interrogazioni di ‘recupero’, poté finalmente concedersi il ristoro di una colazione tranquilla. Quando uscì dal bar, guadagnò l’entrata della Sala Docenti, e li si asserragliò con tutti gli altri professori in attesa del suono liberatorio dell’ultima campanella di quell’anno scolastico. Finalmente, tra le immeritate vacanze estive e il professor Sfaticati si ergeva solo un ultimo ostacolo non del tutto insormontabile: gli Esami di Stato, di cui andremo a parlare nel capitolo successivo, che è anche l'ultimo di questa storiella. 17. GLI ESAMI DI STATO SI CERTIFICA CHE IL PROFESSOR SFATICATI DA ME VISITATO IN DATA ODIERNA LAMENTA ACUTI DOLORI INTESTINALI E NECESSITA DI NON MENO DI DIECI GIORNI DI CURE E DI RIPOSO. SI RILASCIA IL PRESENTE CERTIFICATO SU RICHIESTA DELL'INTERESSATO PER TUTTI GLI USI CONSENTITI DALLA LEGGE. IN FEDE DOTT. FAVORITI

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