LO SPIRITO DELL’ADDIZIONE. Una lezione di Vittorio Savi

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Lo Spirito dell’Addizione Una lezione di Vittorio Savi


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Progetto grafico e impaginazione esecutiva: Veronica Dal Buono _ Lab MD Material Design Copyright: 2013 Alfonso Acocella ISBN 978-88-908475-1-6


DA dipartimento di architettura universitàdeglistudidiferrara

La pubblicazione Lo Spirito dell’Addizione è stata promossa dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara, a cura di Rita Fabbri, Marco Mulazzani e Susanna Pasquali. La lezione di Vittorio Savi, tenuta presso la Facoltà di Architettura di Ferrara il 13 giugno 2006, è stata raccolta da Ramona Loffredo che ha curato la trascrizione e la redazione delle note. I criteri di trascrizione sono da lei illustrati nella Postfazione. Si ringraziano la Famiglia Savi, Gloria Savonuzzi, Salvatore Topa e Paolo Barbaro.


Vittorio Savi nell’ex Palazzo Sant’Anna. (foto Paolo Barbaro)


Lo Spirito dell’Addizione Una lezione di Vittorio Savi



Sommario

Prefazione

Alfonso Acocella

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Lo Spirito dell’Addizione

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Postfazione

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Una lezione di Vittorio Savi

Ramona Loffredo



Prefazione Alfonso Acocella

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A Vittorio critico-narratore dell’architettura La cifra metodologica ed intellettuale di Vittorio Savi, architetto e critico dell’architettura, ritengo sia emblematicamente sintetizzata in un passaggio del suo saggio Critica in cinque punti apparso nel 1992 sulle pagine di «Lotus»: “Piaccia o dispiaccia, dal momento che la critica viene sempre ex post, il suo artificio consiste nel racconto – categoria propria del mito e di quella forma evoluta della mitografia che è la letteratura. La critica avvertita sfrutta ogni virtù del racconto, sia la prerogativa di aderire a tecniche analitiche specialistiche e riferire obiettivamente dell’evento e del fenomeno, sia la capacità di inventare e reinventare. Con l’ovvia puntualizzazione che il meccanismo inventivo funziona e serve non il fine arbitrario, bensì l’interpretazione verosimile, più vera del vero. Risulta fatale che la critica narrativa si risolva nella scrittura artistica. È appena auspicabile che si tratti di buona prosa, mentre è obbligatorio che permetta di istituire una specie di equivalenza tra il testo architettonico e il testo critico” 1. Il testo architettonico (l’opera di architettura) potrebbe apparire come un artefatto che non ha bisogno di nulla, forte com’è del suo profilo formale evidente, della propria realtà insediativa e spaziale, della sua stessa vita di relazioni interne ed esterne che lo rendono di per sé comunicante. Gli assetti materici, soprattutto, solidificano il testo architettonico consegnandogli rilievo morfologico preciso, fisso; un modellato plastico capace di affermare le proprietà generali e i dettagli con la massima evidenza, ancorandosi – allo stesso tempo – allo spazio contiguo che lo circonda. Ma la sua vita di relazione e di affermazione con l’esterno – soprattutto con l’esterno lontano, alimentato dai linguaggi della cultura e della trasmissione del sapere – ha sempre presupposto una restituzione, una interpretazione e alla fine un racconto. La natura dell’indagine e della narrazione presuppone la costruzione di un nuovo testo (di un racconto, appunto) a volte di carattere storico – interessato ai fenomeni delle genealogie, delle trasmissioni, delle riprese, delle cesure – altre di taglio critico orientato verso il disvelamento delle strutture più intime e recondite dell’opera creando un movimento centripeto ed assoluto verso la peculiarità, l’unicità dell’opera stessa. Il testo critico è un dispositivo che punta – contestualmente – ad una restituzione e ad una interpretazione dell’oggetto che si intende indagare per comunicarlo a distanza mediante i segni astrattivi della scrittura. L’oggetto, richiamato in presenza attraverso i caratteri interni che gli sono propri, attende sempre l’incontro con l’interprete che selezionerà i punti di riferimento, la loro triangolazione e i modi 1 Vittorio Savi, Critica in cinque punti, in «Lotus», n. 72, 1992, p. 128.

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della discesa nelle viscere dell’opera stessa. In funzione di tali scelte – inscritte in un procedimento in parte “oggettivo” e in parte “libero” ed “inventivo” – il lavoro di restituzione e di narrazione, di volta in volta, cambierà inevitabilmente natura. Il testo critico – per dirla con le parole di Jean Starobinski – “non è una rappresentazione fedele dell’opera, una sua duplicazione in uno specchio più o meno limpido. Ogni critica completa, dopo aver saputo riconoscere l’alterità dell’essere o dell’oggetto a cui si rivolge, sa anche sviluppare intorno ad essi una riflessione autonoma, trovando per esprimerla un linguaggio che sottolinea con rigore la propria differenza” 2. Al critico – soggetto attivo e interrogante – conseguentemente spetta il compito di scegliere i capisaldi di riferimento, le chiavi di accesso e di interpretazione dell’opera architettonica trascinandola, poi, lontana dallo spazio topologico per farla rivivere altrove e in diverso modo. Il testo critico tende all’incontro e alla prossimità con il testo architettonico ma la sua risposta presuppone uno scarto e un orizzonte altro in cui l’evento della ri-presentificazione possa avvenire. Questo spazio altro dove proiettare l’evento dell’incontro – fra l’opera e l’interprete – è lo spazio astratto della scrittura e del racconto dove analisi puntuali, concetti penetranti, linguaggi raffinati ed eleganti possono gettare nuova luce ed interesse sull’oggetto che si intende conoscere meglio. La critica narrativa a cui ci ha abituato Vittorio Savi nei suoi saggi vive di questi caratteri speciali e del brio legato alla sensualità della scrittura: testi mai descrittivi, convenzionali, prudenti, opachi – preclusi al godimento di chi scrive o chi legge – ma “testi di piacere” capaci di portare con sé interpretazioni inedite, visioni illuminanti che puntano al disvelamento delle singolarità dell’oggetto indagato. Frequentemente testi “efficaci”, essenziali e corti, composti secondo il principio dell’iceberg formulato da Hemingway – citato da Ramona Loffredo nella postfazione a Lo Spirito dell’Addizione – o la tesi, simmetrica, di Barthes secondo cui “un testo del piacere non può essere che corto” 3 . Nelle narrazioni critiche di Vittorio Savi le parole brillano, i costrutti linguistici incalzano conferendo ritmo alla lettura; la scrittura è – spesso – “artistica” e sempre ricca d’immagini, di collegamenti, di metafore che puntano a farci scendere nelle viscere dell’oggetto architettonico per conoscerlo, apprezzarlo e goderlo al meglio. Ricorderemo sempre con ammirazione i “colpi di pedale” impressi da Vittorio per dare vigore alla sua personalissima macchina critico-narrativa dell’architettura...

Firenze, 11 gennaio 2011

2 Jean Starobinski, Il testo e l’interprete, in Le ragioni del testo, Bruno Mondadori, Milano, 2003, p. 16. 3 Roland Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1975, p. 17.

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S “Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima guerra. Ma la spinta, l’impulso a farlo veramente, l’ebbi soltanto un anno fa, una domenica d’aprile del 1957”1. [È] l’inizio del Giardino dei Finzi-Contini, il romanzo che tutti abbiamo letto e, se non lo abbiamo letto, occorre affrettarsi a farlo per individuare un campione del racconto letterario della città, nel senso del documento e nel senso del primato. Si potrebbe parafrasare quest’inizio memorabile di una memorabile prova memorialistica e dire, con un poco di presunzione o molta presunzione: da molti anni desideravo raccontare qualcosa su Ferrara e sullo Spirito dell’Addizione 2. Ma la molla quale poteva essere? Aggirandosi per la mostra sugli Este3, una mostra premiata dal successo della critica e del pubblico, era possibile imbattersi in una didascalia, che si ritrova anche nel catalogo della esposizione. La didascalia4, vergata da uno studioso giovane e reputato, recitava le parole che vedete scritte sullo schermo. “Bruno Zevi ha il grande merito di essere stato il primo a riconoscere l’importanza su scala europea del caso ferrarese, imponendo all’attenzione internazionale la figura di Biagio Rossetti, «primo urbanista moderno»; tuttavia, la stessa forza innovatrice delle sue tesi interpretative ha finito per condizionare profondamente le indagini successive, ancorandole a una serie di questioni di carattere essenzialmente formalistico, certo nodale nel dibattito urbanistico novecentesco («piano chiuso o piano aperto?», «piano bidimensionale o tridimensionale?», ecc.), ma del tutto ideologiche se riferite alla realtà cittadina tardomedievale” 5. Parla di uno storiografo dell’architettura, tra i più insigni del secolo scorso, Bruno Zevi, che ebbe la cittadinanza onoraria ferrarese. Ci dice della sua importanza e dell’importanza della sua interpretazione della città di Ferrara, ma poi comincia una critica piuttosto corrosiva: ha dato pregio, ma ha anche vincolato

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G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, Einaudi, Torino 1962, p. II. Il termine Spirito è d’ora in avanti scritto con l’iniziale maiuscola, secondo le intenzioni di Vittorio Savi. Gli Este a Ferrara. Una corte nel Rinascimento, cat. mostra a cura di J. Bentini, Ferrara, Castello Estense, 14 marzo - 13 giugno 2004, Silvana, Cinisello Balsamo 2004. Non è stato possibile recuperare la didascalia e si è, quindi, riportato il brano del saggio di M. Folin, presente nel catalogo della mostra, cit. M. Folin, L’architettura e la città nel Quattrocento, in Gli Este a Ferrara. Una corte nel Rinascimento, cit., pp. 74-75.

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l’autentica lettura. In realtà lui ha fatto un’opera di “morfologismo” e questa lettura morfologica non va più bene. Altra è la realtà della Ferrara che ad un certo punto viene ingrandita. Questa frase – lo confesso – m’infastidì non poco perché non era questione di schierarsi a favore dello storiografo scomparso o dello storiografo emergente, non era un fare il tifo, ma era una questione disciplinare, per usare questo termine. Di sensibilità disciplinare. “Morfologismo”, lo studio della forma della città e dell’architettura della città, era ed è – a mio modo di vedere – un’arte progettuale e una scienza analitica. Prima l’una che l’altra per la verità, ma certamente qualche cosa di fondamentale per la formazione di tanti, che si sono applicati, prima o poi, allo studio dell’architettura. Ecco, quindi, il desiderio di verificare la nuova affermazione e se possibile di ritornare a quella vecchia. L’inizio di questa riflessione, che oggi facciamo insieme in un’occasione particolare che poi si dirà6, è forse collocabile non proprio sulla nostra locandina (fig. 1), ma in un paese che sta a monte di Ferrara. Com’è noto, nel 1152 il Po rompe gli argini a Ficarolo e questo evento tragico, come ogni piena del grande fiume, ne cambia il corso, lo stato dell’idrografia padana, il territorio, l’economia e via via continuando. Questo è il paese di Ficarolo, un paese arginale, in cui il campanile della parrocchiale segna il riferimento visivo e forza il senso dell’orizzontalità della pianura alluvionale: come sempre le torri campanarie di qualsiasi tempo e di qualsiasi spazio nella pianura padana. [...] Soffermiamoci ora sull’affresco della Galleria delle Carte geografiche in Vaticano a Roma: la carta dedicata al Ducato di Ferrara è singolarmente chiara e bella, degna di essere sorvegliata da due erme7, una delle quali il Giano bifronte8 qui, nel taglio della diapositiva, rivolto al passato del territorio. Siamo alla fine del Ducato estense, quando Ignazio Danti fa quest’affresco (fig. 2)9. La città di Ferrara nella sua forma compiuta, murata, è in questo punto. Ficarolo è all’origine della deviazione delle acque10.

6 Sulla dedica della lezione, cfr. Postfazione. 7 Cfr. L. Gambi, A. Pinelli, La Galleria delle Carte geografiche in Vaticano, Testi, Panini, Modena 1994, p. 385. 8 Guardando la carta: a sinistra la “testa di Hermes su erma moderna”, a destra “doppia erma con Eschilo ed Omero” (ivi, p. 400, schede nn. 521-524). 9 La Carta del Ferrariae Ducatus “tien dietro solo di qualche anno alla prima figurazione topografica dello stato degli Este. Essa ci dà la situazione del Ducato negli anni intorno al 1580; ma la didascalia contenuta nella imponente targa mediana, appoggiata ai margini bassi del quadro [...] ricorda la devoluzione del Ducato (più propriamente della sua parte ad oriente del fiume Panaro) allo Stato Pontificio nel 1598. La didascalia non è quindi l’originale, e quale sia stata la primitiva si ignora. La targa è sicuramente degli anni di Urbano VIII, come provano le tre api che la ornano sopra e sotto la didascalia” (ivi, p. 307). 10 “La bassa pianura deltizia che proclama la sua acquosità via via più marcata a misura che da Ficarolo (qui Ficheruolo) ci si sposta a lato dei corsi d’acqua verso oriente, va ad affacciarsi con coste falcate al mare Adriatico” (ivi, p. 310).

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fig. 1 Vittorio Savi, Lo Spirito dell’Addizione, locandina della lezione, 13 giugno 2006.


fig. 2 Ignazio Danti, Carta del Ferrariae Ducatus nella Galleria delle Carte geografiche in Vaticano.

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Il Po grande continua nel Po di Venezia fino al mare e il Po di Ferrara diventa un corso d’acqua minore, un’idrovia che in prossimità di Ferrara, del Polesine di Sant’Antonio, si ripartisce nel Po di Volano e nel Po di Primaro fino al Reno e poi al mare11. La città è còlta anche in un cartiglio a parte12. Questa prerogativa della cartografia, anche di una cartografia sui generis come quella affrescata, di usare differenti piani (primo piano, secondo piano) è qualche cosa che la rappresentazione al computer erediterà in qualche modo con uno scambio estremamente differente, estremamente interessante – voglio dire – tra i diversi livelli. Mettere in risalto in questo modo Ferrara, come d’altra parte Comacchio13, ha un che d’insigne […]. Rappresenta un assetto molto maturo, completo nel territorio urbano e soprattutto nel territorio extraurbano, nell’acqua-terra, nel triangolo che sembra allargarsi da Ferrara. Per la verità, si allarga a partire dalla fatidica Ficarolo, ma il triangolo forse più rilevante è questa sottofigura, che ha il suo vertice nella città di Ferrara, una città che, con questo discorso, non poteva essere stata non anfibia. Era stata anfibia. Era stata una città fluviale dove l’acqua e la terra si spartivano le parti, se le scambiavano e il suo fondo era necessariamente la palude, come avrebbe detto il pittore-scrittore de Pisis14. La sua organizzazione sarà arginale, al confine tra terre vecchie emerse da tempo inenarrabile e terre nuove che andranno emergendo verso est e che i successivi, tanti consorzi di bonifica andranno via via recuperando ed essiccando con un procedimento che a lungo sembrerà naturale e irreversibile e che solo in tempi recenti subisce una sorta di revisione critica e di discussione, molto proficua, devo dire.

N 11 “La parte più bella della carta è di certo quella che riguarda la pianura con il suo quadro ricchissimo e molto curato della rete idrografica e la eccezionalmente densa maglia della viabilità. La rete idrografica, solo leggermente deformata nella parte mediana (si vedano i corsi del Secchia e del Panaro intorno a Modena), è resa in modo quasi perfetto alle estremità occidentale (il Reggiano) e orientale (il Ferrarese coi suoi “polesini”): in modo particolare nei corsi serpeggianti del Po vecchio di Stellata - ove si riversano il Panaro e il Reno (quest’ultimo dal 1525) - e nelle sue diramazioni finali del Volano e del Primaro” (ivi, p. 309). 12 Trompe l’oeil con la pianta di Ferrara. “La pianta in prospettiva di Ferrara è orientata col nord in alto, ma spostato di 18° a sinistra; la città è figurata nella situazione urbanistica degli anni seguenti la devoluzione allo Stato della Chiesa” (ivi, pp. 314-315). 13 Trompe l’oeil con la pianta di Comacchio (ivi, p. 316). 14 Nel suo diario de Pisis, il 4 marzo 1919, riferendosi a Ferrara annota: “La città dove sono nato e fino ad ora, salvo brevi interruzioni, ho passato i miei giorni [...] è un fondo di palude che emette esalazioni metafisiche” (De Pisis: dalle avanguardie al “Diario”, Mazzotta, Milano 1993, p. 43).

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A Chi studia la città arginale si trova di fronte ad un corpo allungato lungo una banchina, la quale storicamente coincide con l’andamento di via Ripagrande, che oggi, qui vicino, nel tratto orientale, si chiama via Carlo Mayr. Una “A”, l’inizio di un alfabeto e di qualsiasi elenco, ha il fascino dell’elencazione logica-razionale. Questa logica rappresenta una forma d’organizzazione che noi diamo alla caoticità delle cose. Dove possiamo ritrovare una “A” così stentorea? La ritroviamo in una delle tante rappresentazioni dell’illustre tradizione cartografica ferrarese. Quando l’Ateneo compie il quinto centenario15, un ingegnere, l’ingegner Filippo Borgatti, servendosi di supporti rappresentativi precedenti, disegna lo stato della città nel 1597, all’estinguersi dei padroni della città, della dinastia estense o meglio, più che all’estinguersi, alla loro perdita, che è come un’estinzione della capitale in Ferrara. E la “A” si ritrova qui, in posizione centrale, rispetto alla città fluviale, che si è determinata lungo le banchine portuali. “A” è al centro (fig. 3). Ma una città d’argine, una città fluviale, ha veramente un centro? La sua estensione longitudinale non comporta un’equivalenza di luoghi e una sorta di possibilità di estendersi ad oriente e ad occidente nelle direzioni in cui scorre il fiume o, paradossalmente, a risalirne la corrente? Quel centro spontaneamente non c’è; quindi occorre costruirlo e sarà abbastanza vicino al centro geometrico, ma non così precisato come in una città che si è sviluppata radialmente, che è quindi attraversata al massimo da un corso del fiume e che quindi asseconda un ventaglio di direttrici, non un’unica direttrice. Per la costruzione del centro, indubbiamente, il posizionamento di una fabbrica successiva, alternativa alla cattedrale di San Giorgio – che è spostata fuori dalla carta in basso – è un fatto importante, primigenio. C’è chi ha studiato in maniera scientifica l’organizzazione della città fluviale, come il Savonuzzi e Mari16, che sono due collaboratori distinti: uno, forse, l’ingegnere–architetto più interessante del secolo scorso da queste parti, e l’altro, l’ingegnere Eligio Mari, suo braccio destro in tante imprese analitiche e sintetiche.

15 Il V centenario dell’Università ferrarese fu festeggiato nell’aprile del 1892. 16 Cfr. E. Mari, C. Savonuzzi (a cura di), Mostra dello Sviluppo urbanistico di Ferrara attraverso i tempi, Industrie Grafiche, Ferrara 1952.

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fig. 3 Filippo Borgatti, Pianta di Ferrara nell’anno 1597, elaborata nel 1895 (Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara, fondo cartografico Crispi, serie rossa-3).

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Ma qui li vediamo unirsi per dare questo piccolo studio, che sarà poi preso, quasi “rapinosamente”, da Bruno Zevi e pubblicato alle pagine 211 e 212 della monografia rossettiana (fig. 4)17 della quale parleremo. Il libro è vecchio, si sta sfasciando e, poiché la posizione della riproduzione non è delle più felici, c’è come una divaricazione che s’introduce in corrispondenza di che cosa? Appunto del centro città. La città va dalle due isole fluviali, che saranno annientate entrambe dall’isola di Belvedere ad occidente e dal Polesine di Sant’Antonio ad oriente. Di nuovo un ritorno al Borgatti in bianco e nero: l’immergersi in questa carta ha un valore molto importante per gli apprendisti architetti e per gli architetti, perché nel taglio del tessuto abitativo, come nella collocazione dei monumenti, è possibile scoprire la forma delle cose fisiche. Iniziamo a combattere il parere del giovane storico, secondo il quale la forma delle cose fisiche, il fisico e la relativa forma, non hanno grande importanza sul destino degli uomini, il destino storico degli uomini. [...] Senza questa scena fissa indicata nella pianta topografica difficilmente la vita avrebbe campo e significato. [...] Com’è possibile vedere è cominciato un interrimento, come è cominciata la recinzione e la protezione della parte emersa. Questi tagli lunghi perpendicolari al Po, che non sono provocati da un individuo ma da una stratificazione, da un’operazione collettiva, sembrano indicarci un orientamento. Non rappresentano affatto una lettura superficiale, bensì qualcosa di più profondo. L’impronta reale impressa su queste terre – sì, asciugate, ma sempre con un umido che sale dal fondo – restituisce il senso dello stiramento e dell’allungamento, qualcosa di fatale che solamente potrà essere evitato dalla costruzione di una centralità. Il Duomo – la Cattedrale che sostituisce quella di San Giorgio – è all’inizio monocuspidato e poi via via, con successivi interventi molto distanziati tra loro, viene ad assumere la forma complessa che vediamo sullo schermo (fig. 5). Un processo, che va dal XII secolo in avanti, segna un punto che è per il momento ai bordi della misura edificatoria tutt’intorno alla città fluviale e che indica uno spostamento verso l’alto.

17 Nella monografia su Biagio Rossetti, la planimetria è attribuita al solo ing. Savonuzzi (B. Zevi, Biagio Rossetti: architetto ferrarese, il primo urbanista moderno europeo, Einaudi, Torino 1960, pp. 211-212). Nelle pubblicazioni successive Zevi specifica “Carlo Savonuzzi”, forse per evitare un possibile scambio di persona fra i fratelli ingegneri (cfr . B. Zevi, Saper vedere l’urbanistica. Ferrara di Biagio Rossetti, la prima città moderna europea, Einaudi, Torino 1971, fig. 61; B. Zevi, Saper vedere la città. Ferrara di Biagio Rossetti, «la prima città moderna europea», Einaudi, Torino 1997 (IV edizione), fig. 21). Nelle note bibliografiche (edizione 1960) è presente: E. Mari, C. Savonuzzi, Mostra dello sviluppo urbanistico di Ferrara attraverso i tempi, Ferrara 1952. Questo testo non è più citato nell’edizione del 1971 e l’edizione del 1997 è priva di note bibliografiche. Sia nel 1960 che nel 1971 si attribuisce erroneamente nell’indice dei nomi citati il seguente saggio, presente nelle note bibliografiche, a Carlo (il vero autore è Claudio, nipote di Carlo e figlio di Gerolamo Savonuzzi): C. Savonuzzi, I quattro pannelli del Tura a Ferrara, in «Emporium», gennaio 1949.

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fig. 4 Doppia pagina del libro di Bruno Zevi dedicato nel 1960 a Biagio Rossetti con la planimetria della cittĂ di Ferrara nel XIII secolo disegnata da Carlo Savonuzzi (in basso al centro).

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fig. 5 Cattedrale di Ferrara nel 1952 (Dipartimento di Architettura di Ferrara, Fondo Savonuzzi).

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Ha minore importanza il Palazzo comunale, da questo punto di vista, che non fa che duplicare la centralità del Duomo e ha una vicenda costruttiva insieme più complessa e meno gloriosa: diventerà un palazzo principesco, un palazzo degli Este, ma poi anche in questo sarà sostituito dal Castello. Il Castello, innalzato da Bartolino da Novara a partire dagli anni Ottanta del XIV secolo, viene via via trasformato fino ad assumere una figura emblematica. Sottolineo in particolare l’innalzarsi delle torri, torri telescopiche, e vi invito a tenere presente questa metafora della telescopia, del cambiare nel salire dal basso verso l’alto, che è già sottolineata dalla muratura piena e dalle correzioni dovute al trasferimento della sede principesca qui dentro. Il Castello è un’icona sempre contemporanea nella figurazione urbanistica e territoriale ferrarese e via via occupa un luogo sempre più nodale, centrale, per insistere sul medesimo termine, non solo per i fatti concreti, collocazione e costruzioni materiali, [ma ancor di più per le] rilevanti relazioni. La relazione tra la Cattedrale e il Castello ad un certo momento sarà sottolineata da una loggia, la Loggia di piazza, che si dispone perpendicolarmente rispetto a quella del fianco della Cattedrale e al sagrato. Questa loggia verrà poi sopraelevata, forse in un modo architettonicamente non ottimo, e diventerà una strada coperta, che ormai cogliamo quasi come un corpo di fabbrica da sempre esistente, ma che significa, bello o brutto che sia, la consacrazione di un tratto essenziale di una nuova città. La città dei primi Este con la via dei Sabbioni (l’attuale via Mazzini) sempre risente della giacitura padana, della giacitura parallela agli argini, alle banchine e naturalmente all’idrovia. La sua edilizia – come si sarebbe detto in seguito caratteristica, pittoresca – [è fatta] delle case di via delle Volte, delle volte, dei soprapassaggi che congiungono gli edifici commerciali lungo Ripagrande, di magazzini e di depositi retrostanti. Ma forse tutto questo è una “A”, è un inizio determinante, ma ora bisogna passare oltre […]. Qualsiasi città è un organismo dinamico e questa dinamicità si manifesta nei suoi pezzi più statici, in breve nelle sue architetture.

N

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B Che cos’è “B” alla lettera? Torniamo alla pianta del Borgatti che inventa l’alfabeto urbano e scopriamo la “B” spostata più in alto, per noi che guardiamo. Geograficamente è a nord verso il canale Giovecca, che rappresenta il collettore delle acque che vengono da settentrione e che sono confluite e scaricate in Po. Lì c’è un terreno che si viene asciugando e che diviene terreno edificabile. C’è un Foro boario, un prato per il bestiame, e lì s’immagina, con Niccolò III, una prima Addizione. [...] Il parallelismo al Po e al corso della Giovecca, l’esistenza dell’asse dell’attuale via Savonarola confermano che l’Addizione non vuole muovere eccezione alla regola della città fluviale, ad una regola d’ingrandimento longitudinale. È empirica, forse modesta nell’impianto più che negli esiti. Il quartiere orientale più a ridosso della Giovecca è tutt’altro che trascurabile, eppure questo segno con successive croci ha – come ripeto – qualche cosa di modesto, di non decisivo per una configurazione matura. Per la verità, tutto questo rappresenta un antefatto: solo con il nuovo secolo, la coscienza morfologica e ideale della città sembra affermarsi. Sono necessarie delle intelligenze potenti come quelle degli Este della prima metà del secolo, che sono più o meno delle canaglie che esercitano il loro potere in maniera molto spregiudicata – ma com’è, come non è – riescono a farsi attrattori di queste energie intellettuali, ideali, spirituali, prima ancora che materialmente e direi materialisticamente costruttive. La presenza ombratile di Leon Battista Alberti è una di queste energie. [Sulla sua presenza] si scrive un capitolo storiografico piuttosto tentennante e c’è anche chi si vergogna di questa presenza e di questo passaggio. Vediamolo però anzitutto nelle idee. Alberti ha forse degli scambi con gli intellettuali di corte importanti. [...] Anche a Ferrara [si] cominciano ad introdurre le pietre, come nell’arco, che è il basamento per la statua equestre di Niccolò III: rappresenta una pietra di paragone architettonica assai commovente, non tanto per il modo con cui s’innesta prospetticamente nello spazio urbano in via di definizione, ma appunto perché pretende di rappresentare un paradigma ideale, quali che poi saranno le definizioni concrete. Forse sarà inglobato nella Loggia di piazza, quindi entrerà in gioco molto direttamente, ma – lo sottolineo ancora – non è questa l’aspirazione di Alberti; forse la sua volontà non è proprio quella di erigere la torre campanaria. Tra l’altro non si sa bene se questa costruzione, che comincia alla metà del XIV secolo in coincidenza con la scrittura del trattato De re aedificatoria, sia stata minimamente – minimamente – seguita da Alberti. Diciamo di no. Una vicenda della quale ci sfuggono i contorni progettuali [arriva] alla realizzazione che vediamo, persino difettosa.

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Sempre in un articolo un po’ tentennante su Alberti a Ferrara, in occasione di una mostra di una decina di anni fa18, un autore che ha i suoi meriti e i suoi demeriti, come Rykwert, si diverte a fare le pulci, a trovare in questa costruzione di cubi sovrapposti le contraddizioni alle prescrizioni del trattato19. L’impulso è di quelli decisivi, è come il racconto, il raccontino nel prologo dei Finzi e Contini; è come la frase di Marco Folin di cui ci ricordiamo adesso. Basterebbe considerare l’avvento di Biagio Rossetti. Io credo che senza Alberti questa figura, affatto esigua, di un architetto non considerato, nemmeno menzionato dal Vasari, non sarebbe stata possibile. È uno dei paradossi che Marco Folin non ama affatto, ma mi sento di ribadirlo: senza Leon Battista Alberti, Biagio Rossetti neppure sarebbe potuto nascere e si accettano discussioni in proposito. Biagio Rossetti che razza di architetto è? Lo può dire il sottotitolo della monografia del ’60 – 1960 – di Zevi che viene al seguito di una mostra che si tiene in Ferrara nel ’56 e di un corso di Storia dell’architettura, che si tiene l’anno precedente a Venezia20. Che razza d’architetto è? Non è Dinocrate; Alberti lo ha raccontato21, riprendendolo da Vitruvio22, chi era Dinocrate: un architetto servile che quando deve presentarsi al suo padrone si veste come vediamo nell’immagine successiva (fig. 6), anzi non si veste. Lui unge il suo corpo, mette degli abiti trasparenti, come quelli che possono usare oggi, e va da Alessandro Magno portando il plastico di una Alessandria, di una città di Alessandro, che deve essere costruita nelle terre che lui, il nuovo padrone, va conquistando. Deve essere costruita sul palmo della sua mano. 18 Leon Battista Alberti, cat. mostra a cura di J. Rykwert, A. Engel, Mantova, Palazzo Te, 10 settembre - 11 dicembre 1994, Olivetti - Electa, Milano 1994. 19 J. Rykwert, Leon Battista Alberti a Ferrara, in Leon Battista Alberti, cit., p. 161. 20 Così Zevi, allora professore a Venezia, racconta la genesi della mostra e del libro su Biagio Rossetti: «Nel 1955 il sindaco di Ferrara, prof. Luisa Balboni, e l’assessore alle BB. AA. sen. Mario Roffi si rivolsero al preside dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, prof. arch. Giuseppe Samonà, per invitare la cattedra di storia dell’architettura a predisporre le celebrazioni di Biagio Rossetti nel quattrocento quarantesimo anniversario della morte [...] Dedicai il mio corso al maestro ferrarese, mentre gli allievi del primo anno rilevarono vari monumenti, e quelli del secondo, con la guida del mio assistente dott. Giuseppe Mazzariol, svolsero indagini documentate in una serie di tesine. Contemporaneamente, con l’ausilio del dott. Marino Berengo, furono iniziate le ricerche d’archivio nella Biblioteca Estense di Modena. La mostra “Identità di Biagio Rossetti” fu inaugurata il 28 giugno 1956 nel Ridotto del Teatro Comunale, e sortì l’effetto desiderato: volevamo rivelare Rossetti ai ferraresi mediante visioni inedite di edifici che ognuno poteva osservare direttamente passeggiando per qualche ora nella città , ma il cui significato espressivo esigeva una presentazione critica [...] Dopo la mostra, l’idea di pubblicare un libro sul Rossetti nacque spontanea. Ma occorsero quattro anni per realizzarla, anche perché i documenti trascritti da Cittadella e da Campori si dimostrarono spesso inesatti, i rilievi inattendibili e graficamente scadenti, i dati largamente lacunosi» (B. Zevi, Riconoscimenti, in Id., Biagio Rossetti..., cit., p. 727; Id., Saper vedere l’urbanistica..., cit., p. 366; Id., Saper vedere la città..., cit., p. 209). 21 Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, VI. 4. 22 Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, II. 2.

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fig. 6 Francesco di Giorgio Martini, Dinocrate, Cod. Magliabechiano (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze).

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[Propone] una grande statua sul fianco del monte Athos, grandissima, enorme, impossibile, babelica – possiamo dire – che tiene sul palmo una città altrettanto impossibile che omaggia Alessandro. Che è più sensato di Dinocrate. Infatti questa storiella va a finire male, anzi va a finire bene. [Alessandro] gli dice: no, guarda, questa città facciamola in un altro punto, costruiamola razionalmente, lucidamente, facciamo veramente una delle tante Alessandrie di cui voglio costellare e segnare la conquista del territorio23. [Rossetti] non è Dinocrate, forse altri architetti che noi chiamiamo rinascimentali sono stati dei Dinocrate, come lo sono le Archistar del giorno d’oggi, [inventori di] città molto improbabili e in questo peccaminose, più invitanti al biasimo e al rifiuto che al consenso. Ma è tutto il contrario e così va il mondo. Biagio Rossetti è un architetto a cui vengono attribuite delle caratteristiche opposte. È un architetto che tiene conto della tradizione, ma questo tener conto non è plausibile senza un desiderio di novità, senza la declinazione del nuovo. [Manifesta] soprattutto una vocazione registica, coordinatrice; è insomma un po’ l’antesignano di Michelangelo Antonioni, che nel cortile della ex residenza estense dirige faticosamente il suo penultimo film24. Non ha più l’uso della parola, [...] ormai muto, colpito da ictus, Michelangelo – Antonioni – è però capace di tendere il braccio e dare un’indicazione, testimoni tanti di voi, testimone certamente Wim Wenders, che lo accosta nel girare Al di là delle nuvole e rimane stupefatto dall’energia di comando di Antonioni-Rossetti. Abbiamo già parlato all’inizio di questo corso – e sempre lo riprendiamo – di Eupalino25, che la notte è asserragliato nei più alti pensieri e la mattina scende in cantiere e parla per ordini e per numeri, meglio, potremmo dire, agisce, fa per ordini e per numeri essendo sanza lettere come Biagio Rossetti. All’inizio lui [Rossetti] deve lavorare – anche quando è diventato architetto ducale continua a farlo – a partire dal 1483 nella terra vecchia, nella città allungata con una centralità spostata verso l’alto, con un polo attrattore a nord. Tutti indicano la sua volontà di obbedire alla città, alla sua natura, che è testimoniata nella forma, prima ancora che nella materialità della costruzione, come vorrebbe invece il giovane storico.

23 Ibid., II. 3. 24 Al di là delle nuvole (1995) è diretto da Michelangelo Antonioni con la collaborazione di Wim Wenders. Trae ispirazione dal libro dello stesso Antonioni, Quel bowling sul Tevere. Attori: John Malkovich, Fanny Ardant, Kim Rossi Stuart, Jean Reno, Sophie Marceau, Irène Jacob, Marcello Mastroianni, Peter Weller e Inés Sastre. 25 Del dialogo Eupalinos o l’Architetto, pubblicato da Paul Valéry nel 1921, esistono tre traduzioni in italiano, quella di Raffaele Contu del 1932, quella di Vittorio Sereni del 1947 e quella di Barbara Scapolo del 2011. Il prof. Vittorio Savi stava lavorando, da diversi anni, ad una nuova traduzione.

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Alberti, che forse non incontra neanche nei cantieri giovanili dove lui andava come capomastro, ha lasciato delle indicazioni che corrono su fili invisibili. Prendiamo il campanile di San Giorgio. San Giorgio era una chiesa e un borgo estremo, estremo padano potremmo dire, un punto. Lo vedete, il campanile al fondo di questa visuale che ha come quinte i nostri baluardi – certo sono successivi, cinquecenteschi ecc. ecc. e questa è un’altra storia – ma vedete il campanile rossettiano. La prossima immagine è una fotografia di Gianluca Topa che, per iniziativa spontanea con l’aiuto di [Giuliano Mezzadri e] Rita Fabbri, lavora alla sua tesi di laurea (fig. 7). Non è un caso che prenda questo edificio per farne il rilievo come base di un consolidamento, che è un tipo di impresa che un architetto – erede di uno spirito che abbiamo già designato come lo Spirito dell’Addizione, ma che in questo momento potremmo designare in altro modo – porta avanti come ricerca fino alle soglie della discussione della tesi di laurea. Ma c’è un valore superiore a quello pratico. Qual è il valore? Quello di interpretare un’architettura e soprattutto, in questa fase più perfezionata, di far intendere come analisi e sintesi possono essere fuse insieme. Soffermatevi su questo schizzo di Gianluca: è un disegno che serve al rilevamento di una realtà esistente o è un progetto? Tutte queste annotazioni, queste calcolazioni servono per conoscere Rossetti, l’opera a dadi sovrapposti di Rossetti, o servono al progetto di consolidamento del corpo di fabbrica fuori di piombo, non saldissimo sul territorio, anfibio umido ferrarese? [Oppure servono] anche un progetto più generale, che ci sembra di scorgere attraverso questi tracciati di studio, dove la parola studio assume un senso pregnante? Rossetti si occupa, anche, di una parte urbana che sta tra la prima Addizione e la seconda Addizione borsiana. Il fulcro di quest’area intermedia, che passa da via Scandiana, potrebbe essere rappresentato da Schifanoia, dalla delizia suburbana che serve per schivare la noia della esistenza, anche ducale, in terra padana. Sappiamo come Schifanoia si venga definendo e modificando come un corpo, approssimativamente diciamo pure un palazzo lungo, longitudinale. La longitudinalità è la prerogativa della città fluviale. La strada, la via Scandiana, fa un gomito e poi vistose eccezioni, che sono necessarie per reiterare la continuità muraria. La costruzione del cornicione [è] come una grande freccia lunga cento metri, che va da ovest a est. Come sappiamo Schifanoia è la sede di una ‘officina’, contiene questo salone prezioso affrescato con le immagini dei mesi. Ma detto così, sarebbe semplice e potrebbe richiamare uno dei tanti cicli improntati alle spartizioni del tempo, soprattutto quelli della pianura padana, quelli scultorei e quelli pittorici. Ma qui c’è una significazione dettata da un cervello lambiccato come [quello] dell’astrologo di corte Pellegrino Prisciani, una figura che da trent’anni vuole essere studiata, ma che ancora non ha trovato la sua collocazione e la sua identità, nemmeno a forza, come invece è stato fatto per Biagio Rossetti da Zevi.

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fig. 7 Gianluca Topa, Prospetto del campanile della Chiesa di San Giorgio a Ferrara, 2002 (courtesy Salvatore Topa).

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Il Salone dei Mesi è un’aula di ventiquattro metri per undici, centimetro più centimetro meno, con un’altezza di sette metri e mezzo. La disposizione delle finestre e l’alternanza delle fonti luminose danno una tensione mistico-cromatica a quest’architettura. Ci sono naturalmente i guasti del tempo, le necessità del restauro, ma questo è un discorso che faremo in altra occasione. Intanto vediamo meglio, almeno, la struttura dell’immagine: la fascia superiore è quella delle divinità pagane, la fascia intermedia è quella dei segni astrologici zodiacali e delle misteriose enigmatiche figure dei decani e, in basso, [la fascia] della vita vissuta nella città e nella campagna secondo i lavori abituali degli Este. [...] Non si sa dove soffermare l’attenzione perché tanto rigida è la ripartizione, così è ammaliante il risultato. [... C’è] qualcosa che innamora – come abbiamo detto – e qualcosa che mette a dura prova il lavoro dello spettatore, particolarmente dell’interprete. Ci ricorda, senza dubbio, il piacere masochistico di un visitatore–interprete d’eccezione come Aby Warburg. Nel 1911 Aby Warburg va in questa stanza e da questa contemplazione passa ad uno studio matto che lo porterà ad un contributo saggistico da proporre al convegno di Storia dell’arte dell’anno successivo26. [È] una storia che è stata ripercorsa, che è stata narrata, ma con il gusto della forzatura noi possiamo riassumerla in un punto che ci preme particolarmente, che preme a noi architetti e futuri architetti: [nel] 1912 Warburg si accorge di non avere, nella sua copia degli Atti della Deputazione di Storia e Patria27, l’allegato, cioè la pianta del Borgatti. Allora scrive subito al direttore dell’Ariostea e gli chiede, che cosa? Gli chiede questa figura28 (fig. 3) così analitica e al tempo stesso suggestiva, che abbiamo imparato a conoscere. Scrupolo storicistico, tutti interpretano. Certo, lui accingendosi a studiare questo nucleo, questa cellula della città d’arte, vuole sapere anche com’era tutto il resto. È uno straordinario astrologo primo novecentesco, pazzo, che finirà malato, malato di nervi, ma però è come tutti gli altri: vuole sapere come stava la topografia.

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26 Il Congresso Internazionale di Storia dell’Arte si è tenuto a Roma nel dicembre del 1912 (cfr.: Aby Warburg e le metamorfosi degli antichi dèi, a cura di Marco Bertozzi, Panini, Modena 2002; Lo sguardo di Giano: Aby Warburg fra tempo e memoria, a cura di B. Cestelli Guidi, Aragno, Torino 2004). 27 F. Borgatti, La pianta di Ferrara del 1597, in “Atti e Memorie della Deputazione ferrarese di Storia e Patria”, VII, 1895, pp. 1-73. 28 Cfr. M. Bertozzi, La tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia, Sillabe, Livorno 1999, pp. 133-134.

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c “C” dice Borgatti e la “C” corrisponde alla seconda Addizione: la città fluviale, la “A”, è posta nella stessa serie delle addizioni a sé medesima. La città di Borso, l’Addizione di Borso, è quella in cui ci troviamo in questo momento e la regola formativa non è troppo cambiata: una grande dorsale che può sostenere i pettini delle fabbriche e degli edifici. [...] Il Polesine di Sant’Antonio è stato fortificato, le mura si estendono a oriente e Biagio Rossetti può occuparsi di via della Ghiara, che è un luogo rinascimentale di quel Rinascimento sostanziale che tiene la sua culla, appunto, in Ferrara e nella sua trasformazione. Palazzo Tassoni, la futura sede della nostra Facoltà, che Gianluca non potrà vedere ma che sarà in qualche modo abitata anche da lui, sembra essere alle scaturigini di questo tracciato. La sua pavimentazione originaria, a ciottoli di fiume, è quanto di più congruente ci possa essere. Bisognerà togliere queste automobili, bisognerà costruire anche l’arco orientale da abbinare all’arco occidentale com’era nella veste rossettiana. [...] Più oltre, lo sappiamo, ci sono palazzi come il Palazzo detto di Ludovico il Moro, in realtà per il suo ambasciatore nella capitale estense. All’angolo tra via della Ghiara e via Porta d’Amore – un nome che è tutto un programma – c’è la lesena, la pilastrata, la pilastrata a lesene. [...] Questa sottolineatura, che può essere interpretata in vario modo, ma che nello Spirito dell’Addizione non può essere letta che come una sottolineatura urbanistica – come una chiave urbanistica – [... consolida] l’occupazione dello spazio urbano sotto forma d’isolato per punti salienti, cioè nel vertice angolare. Sappiamo da altri esempi d’architettura di città, come l’angolo sia determinante ai fini della configurazione interna dell’assetto urbano. Tutto poi finisce via via lontano, laggiù, nella Porta Romana, che è appunto la costruzione di un terminale e di una sforatura nel territorio. Ora, bisognerà tra poco cambiare il programma e questa operazione non sarà breve. Ne approfitto non tanto per darvi un riposo, anche se forse ne avremmo tutti quanti bisogno, ma per introdurre la riflessione sulla seconda parte di questa lezione, quella che prende di petto l’Addizione terza. Biagio Rossetti assume pienamente il ruolo di regista – non so se sia così – ma, nelle insigni fabbriche che è chiamato a costruire, è abbastanza distratto, nella misura in cui le fabbriche saranno puntuali, ma non sarà di sicuro altrettanto distratto per ciò che esse cederanno alla costruzione del nuovo ingrandimento.

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C’è il Barco. Mi ha sempre incuriosito questa “B” che si trasformerà in una “P”. C’è un parco, ormai, oltre il canale della Giovecca. C’è un luogo che non è più una palude, se volete è anche territorio di caccia, un luogo che ha una sua organizzazione, per quanto criptata e ora si tratterà di scoprirla. Gli anni sono quelli di una capitale scoperta geografica, com’è la scoperta dell’America; non c’è da trattenersi nel paragone: quando si apre il cantiere dell’Addizione Erculea, Cristoforo Colombo scopre l’America; cercando le Indie scopre l’America. E così, vedete, [Zevi] dice “Piano Regolatore Erculeo”. Siamo negli anni Cinquanta del secolo scorso ed evidentemente non può non esserci l’influenza delle battute della ricerca di allora. L’architetto che si fa urbanista è una figura centrale nella società occidentale. Bisogna pianificare le trasformazioni contemporanee, bisogna dare questo genere d’ordine planare e dispositivo, bisogna essere cartesiani. Naturalmente sembra che un antesignano possa essere rappresentato dal regista Biagio Rossetti. Naturalmente il compito di Rossetti è a grande scala.

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D Se diamo un’occhiata alla rappresentazione prospettica conservata all’Estense di Modena29 – in questo momento alla Triennale di Milano in una mostra molto stimolante intitolata Good N.E.W.S.30 – vediamo che la città fluviale lungo le banchine è determinante: è il proscenio di questo palcoscenico che si innalza a nord verso l’alto, verso il cielo. Le fabbriche che abbiamo appena richiamato ci sono: c’è il Duomo, c’è l’Arco del cavallo ancora con la sua scultura di Niccolò III – la statua sarà poi demolita, quella che si trova adesso lì è una copia del 1927, ma non distraiamoci – c’è la porta sul fondo, la Porta dei Leoni a fianco della torre castellare e ancora oltre. Anzitutto notate quest’aspetto del palcoscenico, della longitudinalità che diventa palcoscenico per il luogo centrale. Diciamo che, oltre le mura che sono ancora costruite lungo la Giovecca, c’è il Barco. [Oltre] la recinzione muraria, che rappresenta il segno di una acquisizione territoriale, c’è del territorio, forse ancora umido, che deve essere bonificato, che può rappresentare la sede, il più vasto teatro, di un’organizzazione architettonica urbana. Gettare le mura per raggiungere un territorio è un meccanismo che ha più del bonificatorio che dell’insediativo. E, non a caso, gli storici materialisti e poco idealisti hanno parlato non della costruzione di una parte di città, non dell’addizione con la “A” maiuscola o con la “D” maiuscola – perché a questo punto dell’alfabeto siamo arrivati – ma appunto di una bonifica protetta: prima si recinge, poi si asciuga, si tracciano le strade, come in fondo potrebbe far credere il disegno dettato, non dico vergato, da Pellegrino Prisciani31. Anche lui sarebbe stato richiamato – lui l’astrologo, l’intellettuale purissimo che ha la testa nelle stelle, però ha i piedi per terra – e, quindi, si applica a dettare la terra nuova erculea: terra nuova, altro che Piano Regolatore, altro che città nuova, altro che città ideale. Le cose stanno così, ma vediamo un po’ più attentamente. [...] Gli assi, per così dire, cardo-decumanici si incrociano con degli angoli che sono determinati dalle grandi direttive territoriali e dalle aperture delle porte urbiche, piuttosto che da un orientamento astrologico. [...] C’è il Castello, il castello è una residenza principesca che non può non avere il suo viale. Se volgiamo le spalle al Castello, ci rendiamo conto di una “infinitazione” dello spazio stradale, ma non ancora della qualità dello spazio urbano. Se invece guardiamo il controcampo, allora tutto ci è più chiaro perché quest’ambiente rivelato dall’incrocio, dal quadrivio di

29 L’alzato di Ferrara del 1499 è conservato nell’Archivio di Stato di Modena. 30 Good N.E.W.S. Temi e percorsi dell’architettura, cat. mostra a cura di F. Irace, I. Rota, Triennale di Milano, 16 maggio-20 agosto 2006, Electa, Milano 2006. 31 Trascrizione della carta del Prisciani, elaborata da Filippo Borgatti.

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memoria classica e d’informazione trattatistica, ci dà non soltanto lo spazio stradale più bello del mondo, come senza neanche tanta retorica è stato affermato, ma anche rappresenta un innesco di un meccanismo regolare e complesso. Rossetti interviene nelle fabbriche che designano l’incrocio, ne è l’autore, ma lì conta soprattutto che ciascuna fabbrica ceda, ad aumentare la qualità dello spazio, qualche cosa. Soprattutto nell’angolo, che diventa sintetico della costruzione puntuale come di una costruzione più generale. [...] Questi sono i disegni di Carmassi32 (fig. 8) [elaborati] con sofisticati programmi per dare la “A” uguale alla “A”, anzi la “D” uguale alla “D”, ma con la rimozione di una serie di ostacoli, di ingombri visivi dovuti alla contemporaneità, rappresentano già un progetto – come si dice oggi – di riqualificazione urbana. In fondo anche il quadrivio, l’incrocio tra via degli Angeli e la via dei Prioni, ora corso Rossetti, corso di Porta Po, corso di Porta Mare, ne ha una qualche necessità. Questo luogo, come abbiamo detto assolutamente sintetico, propone una visione potenzialmente più ampia. [...] Piazza Erculea [oggi Ariostea], quest’anfiteatro romano ad est che rappresenta un recupero ancora della longitudinalità antica, non è così sostanziale: bellissima nella sua misura, nel suo posizionamento, ma noi crediamo che lo Spirito dell’Addizione abbia già “spiritato” al momento dell’incrocio. Bisogna procedere più velocemente e quindi salto una serie di precisazioni polemiche, più o meno polemiche, su questa o quella fabbrica. Possiamo pensare che si sia affermato un centro: la città ha conquistato, con sorta di stentatezza, un’indipendenza dalla vicenda idrografica, ma il punto è forse un altro. [...] La città si è ormai, alla lettera, raddoppiata nella sua superficie autenticamente fondiaria, ma è rimasta una, una e una soltanto, integra e unitaria. Raddoppiarsi restando unica: è questa una conquista anche superiore alla scoperta dell’America, alla scoperta di un territorio che è altrove. Ci sono tutta una serie di rapporti tra la città vecchia che ingloba le due prime Addizioni e la città nuova che è nuova veramente. Questi possono essere la spiegazione di un meccanismo di raddoppiamento che dà un risultato unitario come si otterrà poche volte. Ma ancora ricorrendo al gusto del paradosso, possiamo vedere questo fenomeno come un fenomeno meraviglioso, miracoloso, che ha una sua spontaneità. Ricordate La fondazione mitica di Buenos Aires scritta da Borges? La conclusione di questa poesia – starei quasi per dire poesiola – “ma è tutta una frottola” 33: Buenos Aires non è stata fondata, né miticamente né realmente; è sempre esistita come l’aria, l’acqua e la terra, come Ferrara potrebbe dire questa fiaba.

32 Cfr. Massimo e Gabriella Carmassi, Studio della collocazione urbana del polo museale d’arte moderna e contemporanea di Ferrara e per la redazione dei rilievi degli edifici costituenti il polo museale, snt 2002. 33 “A me sembra una fandonia che Buenos Aires ebbe inizio: la giudico tanto eterna come l’acqua e l’aria” (J. L. Borges, Fondazione mitica di Buenos Aires, in Quaderno San Martín, a cura di D. Porzio e H. Lyria, in J. L. Borges, Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 2000, vol. I, p. 143).

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fig. 8

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Massimo e Gabriella Carmassi, Progetto per il Polo d’arte moderna e contemporanea di Ferrara, 2002 (Archivio Carmassi Studio di Architettura).


fig. 9 Copertina della rivista “Casabella”, n. 75, 1934, in cui è pubblicato l’articolo di A. Pica, “L’Addizione Erculea” di Ferrara.

Cosa segue? Segue, come dire, una crisi di questo apogeo. Rossetti ha tempestato la terra nuova come la terra vecchia di fabbriche, di un non finito che non indebolisce, ma anzi rafforza l’idea del compiuto e del solido. Questo sistema va in crisi. Debbono passare almeno cento anni, con un decorso della società, della civiltà estense, assai discendente, per avere la rottura, l’inceppamento del sistema. Non sto parlando del fatto che l’Addizione Erculea rimanga poco edificata. Quando noi prendiamo in mano il [libro dello] storico valdese Burckhardt leggiamo l’elogio della città italiana, della Ferrara italiana34. Egli dice che la città è la più moderna d’Europa perché era stata previdente e aveva messo a disposizione dei sudditi un luogo in cui abitare con una lungimiranza quale non è proprio fisica, ma è metafisica. E poi, via via gli studi che, servendosi di un input di questo genere, cercano di decifrare il geroglifico. Anni Trenta del Novecento: «Casabella», che era già la rivista d’architettura più importante d’Europa, se ne esce con una copertina di questo tipo e un articolo che vuole cogliere il segreto di quell’Addizione Erculea (fig. 9)35. Quando uscirà da Einaudi la monografia su Biagio Rossetti, il logo in copertina studiato da un grafico che non sappiamo chi sia, forse suggerito dall’autore medesimo o forse altro, sarà stampigliato sulla tela come un diagramma (fig. 10). Lo vedete: è la città longitudinale, la città centrale con i suoi particolari accorgimenti, che ha raddoppiato la città longitudinale lasciandola una sola, lasciandola integralmente essa stessa. Disturba un poco questa croce, che sta ad indicare l’impresa edilizia vistosa e colossale [realizzata] dopo la devoluzione di Ferrara al Papato: la costruzione della cittadella ad opera dell’Aleotti e di altri. Intanto, però, tutte le annotazioni possibili sul filo dell’idealità sono state dettate. Proprio tutte no, questo è solo un modo di dire, ciò che conta è l’affermazione di un taglio interpretativo. Qui ci sono dei collage di pezzetti critici che si ritrovano nella monografia di Zevi e queste annotazioni sono tutte ipotetiche. La storia non si fa con i “se”, sarebbe irriguardoso nei confronti di un metodo storico acclarato, ed invece i “se” sono molti. Guardate la [figura] cinque (fig. 11): se Biagio Rossetti avesse fatto ricorso alla maglia ortogonale, l’insieme che ne sarebbe risultato sarebbe stato un’Addizione alla lettera, una “D” troppo letterale, molto prosaica; in definitiva insignificante come le razionalizzazioni periferiche di cui le città europee venivano fatte oggetto e, soprattutto nel futuro, sarebbero state oggetto. È un modo di ragionare che si presta alla generalizzazione, perché indica una corrente critica e progettuale al tempo stesso.

34 “Ferrara ist die erste moderne Stadt Europas” (Jacob Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien. Ein Versuch, Basel 1860). 35 A. Pica, “L’Addizione Erculea” di Ferrara, in «Casabella», n. 75, marzo 1934, pp. 32-35.

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Non è affatto casuale che la ripubblicazione nel tempo della monografia intitolata a Biagio Rossetti si chiami Saper vedere l’urbanistica nel 1971 e poi, un altro passo in avanti, diventi addirittura Saper vedere la città [1997]36. Che cosa è successo in questo secondo e terzo passaggio? È successo che l’urbanistica, come disciplina progettuale, sia andata in crisi, non avendo ottenuto quei risultati che la sua intrinseca moralità, che la sua tecnica virtuosa avevano fatto sperare. Quello che rimane è, allora, la città segnata da localizzazioni concrete e non dal piano studiato a tavolino. Per cui Ferrara è saper vedere non una disciplina ma un’opera, anzi un capolavoro attuale sul piano contemporaneo: la città. [...] Molti modelli sono stati tentati, qui ne richiamiamo a mo’ d’esempio due-tre, certo modelli fallimentari – adesso ragiono, parlo con la bocca di altri, ma comunque è possibile dire fallimentari – come la “Città per tre milioni di abitanti” di Le Corbusier o Ville Radieuse, oppure lo studio razionalizzante e disumanizzante come la Großstadt di Ludwig Hilberseimer, oppure anche Broadacre City di Wright che lo Zevi venera. […] [Torniamo nella Galleria delle Carte geografiche in Vaticano]: in questo punto del delta viene studiato un tracciato, che forse è l’organizzazione di una delizia, ma più probabilmente è un’organizzazione di una città portuale alternativa a Venezia, o meglio al dominio veneziano del golfo adriatico. [...] Danti la registra nel suo affresco cartografico, per così dire, ma poi in realtà la cosa non si realizza. Potrebbe dire il critico idealista: per forza non si realizza, perché era impiantata su una base ortogonale, banalmente ortogonale, priva di idee ortogonalmente. Resta il punto fermo della città, sottoposto ad uno sforzo non indifferente, ad una temperie molto acre. Quando si tratta di costruire la fortezza, annientando l’ultima isola fluviale rimasta nei pressi di Ferrara, il cartografo, che in questo caso è anche l’architetto e farà funzioni di architetto, Aleotti, scrive: di qui lo studio della cittadella se il Po ritorna a Ferrara e anche se non ritorna. Come a dire, che il risorgere della città fluviale era ancora l’obbiettivo di chi aveva conosciuto, di chi aveva alle spalle l’Addizione. Tanto questo modello era alto, quasi imprendibile, alla lettera incomprensibile. Si voleva ritornare peccaminosamente alla città longitudinale e fluviale. La cittadella naturalmente viene costruita, ma come vedete [sembra appesa a] un punto fisso, come un quadro ad un chiodo. [Ricorda] una frase scritta nel libro Il senso del passato di Henry James, che dice – adesso la rovinerò ripetendola – che solo quando la vita veniva incorniciata dalla morte, allora il quadro rimaneva realmente appeso37. Il quadro della città, che entra in una fase lunga, una lunga fase esiziale, ha questo chiodo per poter essere realmente appeso. La cittadella sembra sia stata odiata dai ferraresi fino alla sua distruzione dopo l’unità italiana.

36 B. Zevi, Saper vedere l’urbanistica..., cit.; Id., Saper vedere la città..., cit. 37 “Quando la vita era incorniciata nella morte, solo allora il quadro stava realmente appeso” (H. James, Il senso del passato, Garzanti, Milano 1983, p. 46).

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fig. 10 Dettaglio della copertina telata del libro di Bruno Zevi dedicato nel 1960 a Biagio Rossetti con il diagramma della pianta della città. fig. 11 Sovracopertina del libro di Bruno Zevi dedicato nel 1960 a Biagio Rossetti.


Uno storico accurato e scrupoloso non la dice così, anzi Ranieri Varese, che studia Andrea Bolzoni, dice: ma ecco, una città che ha un suo volto così pieno e disteso, vedete una delle edizioni della Pianta piano-prospettica del Bolzoni [...] basterebbe questa a dire che [...] il governo legatizio non è così annichilente, ma c’è la sua civiltà, la maturazione anche osmotica dell’Addizione Erculea. Di interpretazioni, opinioni, portate a questo estremo, se ne può e se ne deve discutere. La città dei cartografi militari ottocenteschi, ad occhio austriaci se non vado errato, è quella che abbiamo già visto: una forma ferma, quasi sicura, un baluardo tra le terre emerse asciutte da tempo e le terre ancora fradice, ma che potranno diventare le nuove terre.

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E Non ci sono altre lettere a disposizione (fig. 3), ma c’è in realtà una “E”, che può stare come “esito”. La città deve essere uguale a tutte le altre a seguito dell’industrializzazione, dell’attrezzatura ingegneresca. Se noi prendiamo una pianta di Ferrara agli inizi del secolo scorso, vediamo che il quartiere ferroviario è evidenziato [...] e l’appendice di Pontelagoscuro diventa una città satellite con dignità di approdo, che storicamente veniva riservata alla città longitudinale. Il Po grande, però, non ritorna più, colpa dei Veneziani naturalmente, che hanno fatto di tutto per rendere Ferrara, in una prima forma d’omologazione, una città niente affatto anfibia e tendenzialmente di terra. Anche se le esalazioni che vengono dalla terra, dalla canapa sommersa, dalla palude che diceva de Pisis38, producono una strana [...] atmosfera. Lo sa bene un non ferrarese, il quale decifra non in maniera scientifica tutta la storia della città. Vi avevo detto di guardare al proscenio: allora, vedete nel quadro39 che sarà il più celebre di de Chirico, arrivato più o meno casualmente, ma seguendo il segno di un destino40, a Ferrara. Ecco, la prima cosa che lui pensa è questo impiantito, queste assi, le assi di un palcoscenico (fig. 12). Sulla scena, in fondo il profilo della città estense che è dato da ingredienti tra loro allotropi: il Castello con questo rosso acceso, con le torri telescopiche, che diventeranno una cifra di una certa parte dell’arte novecentesca, come le ciminiere degli impianti idrovori di Codigoro. Questo palcoscenico al tramonto – perché le ombre vanno da occidente ad oriente – è popolato di queste muse, che sono sfuggite dal chiuso estense, dal Castello estense. Questa ricerca della forma di Ferrara è [...] un’ossessione feconda. Guardate l’altro quadro dechirichiano: disposto sul palcoscenico vedete il pane ferrarese41 (fig. 13); sul fondo la forma della città pentagona, il recinto dell’Addizione erculea; ci sono anche degli assi e un cerchio, che è come quella via che abbiamo visto nella fotografia aerea, cioè la via oggi a Mare, cioè la via che gira tutt’intorno e prosegue nella città vecchia; o viceversa, gira dalla città vecchia e volta nella terra nuova.

38 Cfr. nota 14. 39 G. de Chirico, Le muse inquietanti, 1918, olio su tela, mm. 970x660 (collezione privata). 40 Giorgio de Chirico scrive, nel 1915, a Paul Guillaume: “Per quel che mi riguarda sono abbastanza felice in questa bella e malinconica Ferrara dove mi ha condotto la fatalità della vita” (P. Balducci, De Chirico. 1888-1919. La Metafisica, Leonardo Arte, Milano 1997, p. 298). 41 G. de Chirico, Le salut de l’ami lointain, 1916, olio su tela, mm. 482x365 (collezione privata).

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fig. 12 Giorgio de Chirico, Le muse inquietanti, 1918. Olio su tela, mm. 970x660 (collezione privata).

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Questa macchia, questo forse grande occhio, si fissa – come scriveva D’Annunzio – sulla “deserta bellezza, sulle vie piane larghe come fiumane”42. Non è struttura, non è materialità: ci sarebbe da lamentarsi di questa divisione, di questa proiezione sul piano. Ma così è: qui bisogna cedere alla forza dell’arte progettuale perché questo è un disegno, una raffigurazione di qualche cosa che esiste, ma anche un progetto, anche un buttare oltre l’immaginazione, come le mura dell’Addizione, a racchiudere un territorio incolto, certo da bonificare ma senza positivismo. Le fabbriche saranno sempre queste, sarà sempre questa piccola “officina” del 1917, forse Codigoro, ma la citazione c’interessa fino ad un certo punto. Quello che ci interessa è il gioco teatrale del progetto, dei piani successivi, del progetto che è realtà. La realtà del progetto è, in questo gioco, in fondo illusoria. In primo piano un quadro, poi via un secondo, un terzo, molti piani di tele rovesciate.

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fig. 13 Giorgio de Chirico, Le salut de l’ami lointain, 1916. Olio su tela, mm. 482x365 (collezione privata).

42 “O deserta bellezza di Ferrara, ti loderò come si loda il volto di colei che sul nostro cuor s’inclina per aver pace di sue felicità lontane [...] Loderò le tue vie piane, grandi come fiumane, che conducono all’infinito [...]” (G. D’Annunzio, Le città del silenzio. Ferrara, Pisa, Ravenna, in Versi d’amore e di Gloria. Laudi del cielo - del mare - della terra e degli eroi, libro II (Elettra), in Id., Versi d’amore e di Gloria, edizione diretta da L. Anceschi, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. II, Mondadori, Milano 1984, p. 367).

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F Una lezione difficile da intendere. Certo, de Pisis Tibertelli è in una posizione privilegiata, come ci indica anche la mostra testé conclusa43. Quando fa il metafisico alla lettera, il dechirichiano più dechirichiano di de Chirico, l’esito è modesto. [...] Il discorso dei piani della visione, che è anche una visione progettuale, può essere giocato nella chiave più metaforica possibile e la conferma straordinaria è quando, preda della sua passione, Filippo rappresenta Carlo44. Vedete il nudo acefalo disposto con pochi tratti, ecco in primo piano le tavole scomparse del palcoscenico, ecco la figura del secondo piano; ecco lo sfondo, forse un tratto della penna smarrito, che suggerisce la successione mortale delle vite delle persone e delle cose. La città reale naturalmente è questa. Un piano regolatore, un architetto di qualche valore, non come quei pessimi suoi coetanei; un Contini, non come i fratelli – pessimi fratelli – Boari. Ma [Ciro] Contini “regge”, diciamo, lo scenario europeo e, nella parabola discendente della città, studia per creare la “F”, per creare l’ennesima Addizione. Hanno tolto la grande fortificazione e qui c’è [la possibilità di realizzare] un’Addizione che poi si verificherà, quella del Quartiere Giardino. Studia aggiunte che possano lasciare la città unitaria. C’è, in questa figura di operatore, uno Spirito dell’Addizione: lo si capisce dalle testimonianze concrete che lascia, dalle opere – voglio dire – che lascia. Si capisce inoltre da questo disegno, che ha anche una sua evoluzione burocratica. [Il piano Contini]45 sarà adottato, non proprio approvato, nel 1926 e gli ingegneri Savonuzzi, che sono due fratelli, avranno da lavorare su questa falsariga. La città degli anni Venti è ormai congelata: è una natura morta come quelle di de Chirico o quelle di de Pisis; è uno spazio fermo, fermato se non proprio fermo, in cui la dinamica entrerà, dovrà entrare con qualche forza e di malagrazia. [Carlo] Savonuzzi ha evidentemente una sua cultura europea, ma non vuole – e sottolineo l’ausiliario – dimenticare la lezione, lo Spirito dell’Addizione. Vedete in quest’auditorium [Frescobaldi a Ferrara], in cui resta incollata la facciata della “chiesa”; laddove

43 De Pisis a Ferrara. Opere nelle collezioni del Museo d’arte moderna e contemporanea Filippo de Pisis, cat. mostra a cura di M. L. Pacelli, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 12 marzo-4 giugno 2006, Ferrara Arte, Ferrara 2006. 44 F. de Pisis, Nudo acefalo disteso (Carlo), 1937-40 circa, acquerello su carta, mm. 246x327 (Ferrara, Museo d’Arte moderna e contemporanea “Filippo de Pisis”). 45 Cfr. B. Marangoni, E. Marchigiani, Ferrara. Piani 1870-1995, Politecnico di Milano Laboratorio RAPu-Triennale di Milano Rete Archivi dei Piani urbanistici Comune di Ferrara - Libreria Clup, Milano 2003, pp. 97-100.

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fig. 14 Carlo Savonuzzi, Planimetria della cittĂ di Ferrara nel XIII secolo.

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si trova anche la cella del Tasso, in Sant’Anna, egli tiene conto di elementi come il cornicione, quali le cornici delle varie aperture, come i dislivelli della composizione architettonica. Questa è soltanto una parte di un intero distretto che lui, sfruttando un impulso continiano, riporta nel centro della città. C’è una relazione che accompagna il progetto per il Centro studi [in cui Savonuzzi descrive quest’area] ancora come il centro della città. È la città che vale, che fra l’altro lui aveva studiato cartograficamente in quel disegnino che ci sembra ben poca cosa, ma che in realtà è qualche cosa che Zevi desidera rubare e pubblicare in maniera rapinosa (fig. 14)46. Ecco Ferrara: è ancora la Ferrara longitudinale, la Ferrara che va lungo il Po; che ha trovato un suo centro attraverso il modulo Duomo-Castello, modulo pure lui esteso in controllata, calcolata lunghezza. Da questo centro non è bene andare via perché, nella sua visione primo novecentesca, la centralità è un valore e lo è davvero rispetto alla costruzione della periferia, che può cominciare in quegli anni, ma che non sa capire né la città vera e tanto meno potrà capire le Addizioni. Bisogna costruire delle fabbriche centrali, perché sono più servite, perché sono più partecipi di un’organicità della città; il resto è periferia, può andare bene per un pittore che sia in ricerca di un’esistenza diversa, alla ricerca dell’estetica periferica, ma non va bene per l’architetto costruttore che si trova, tra l’altro, ad esercitare un ruolo registico. Il fratello [Gerolamo] fino al ’43, quando morirà assassinato dai Repubblichini nella “lunga notte”, è il capo dell’Ufficio Municipale. Carlo [gli] subentrerà nel primo dopoguerra, pur continuando ad essere un architetto professionista, anche in proprio, e costruirà delle opere eccellenti con una sorta d’eclettismo, che può essere tipico di una certa mentalità. Il Magazzino della Darsena, qui evocato soltanto attraverso un dettaglio (fig. 15), potrebbe essere una fabbrica esteticamente gravida di futuro. Come vediamo, è molto vicino ad una sensibilità segnica contemporanea. Intanto che cosa succede? Questa sorta d’arresto della dinamica, lo sfruttamento della terra ecc., [hanno determinato] una sorta di grande teatro – abbiamo detto palcoscenico, proscenio – il grande anfiteatro padano per una tragedia moderna, contemporanea. Il postino suona sempre due volte è la storia di un avventuriero e di una donna confitta in un posto di frontiera: scoppia una passione, ammazzano il marito di lei e fuggono senza riuscire a sfuggire da se stessi. James M. Cain, nell’atmosfera della Depressione americana, conclude tragicamente questa storia, una sorta di Elettra dei giorni di allora47. Prima abbiamo visto la versione

46 Il professor Savi si riferisce alla planimetria elaborata da Savonuzzi e pubblicata da Zevi. 47 J. M. Cain, Il postino suona sempre due volte, tr. it. di G. Bassani, Bompiani, Milano 1946 (edizione originale: The postman always rings twice, 1934).

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fig. 15 Carlo Savonuzzi, riproduzione fotografica della prospettiva dei Magazzini generali alla Darsena della Cassa di Risparmio di Ferrara, 1940 (Dipartimento di Architettura di Ferrara, Fondo Savonuzzi).

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fig. 16 Immagini dall’album fotografico relativo all’attività professionale di Carlo Savonuzzi (Archivio privato della Famiglia Savonuzzi).

americana [del film] del ’4648, ma [nel 1943] Luchino Visconti va nel Delta padano per girare Ossessione49, che è la storia de Il postino suona sempre due volte. [...] La storia verte su tre vertici: Ancona, il Delta padano e, naturalmente, Ferrara. Qualche volta gli amanti, [Massimo] Girotti e [Clara] Calamai, vengono a Ferrara in piazza Castello; qui Girotti tenta un’avventura con una ballerina di stanza a Ferrara. Ed è vicino a un giardino di Ferrara, che Gino [interpretato da Girotti] si sfoga perché vuole uscire da questa trappola esistenziale, ma è difficile fuoriuscire da quelle mura. E poi, direbbe Savonuzzi, non è bene fuoriuscire dalle mura. [...] Ancora un ritorno alla realtà, che forse il più fine, il più inquieto appunto Carlo Savonuzzi è costretto ad interpretare. La realtà è quella di una città come tutte le altre: vedete la costruzione della salita al Castello, mediante questi immobili assicurativi, delle grandi compagnie assicuratrici negli anni Venti, le Case del Fascio, le fabbriche del fascismo, ecc. ecc. Tocca agli antifascisti Savonuzzi, tocca agli israeliti come Giorgio Bassani di filtrare questa trasformazione che ha del virulento. [...] Quando Savonuzzi dovrà costruire per un imprenditore edile il suo palazzo di città50, vicinissimo al Castello, farà questo edificio, poco moderno ma perfettamente interprete della ricerca angolare, così sentita dalla Ferrara estense. Nella foto del centro città – fotogramma che ritroviamo tra le carte Savonuzzi (fig. 17) – vediamo come questo asse con la sua appendice (piazza Trento-Trieste con la configurazione del palazzo dell’Upim, cioè della “ricostruzione” del Palazzo della Ragione, ad opera di Marcello Piacentini) simbolicamente è lo spazio della centralità: fermezza monumentale, odiosa fermezza monumentale, ma anche amata fermezza monumentale. [...] Questa è la pianta Savonuzzi-Mari, la più manifestante che si possa tracciare a conclusione della mostra sull’urbanistica ferrarese del 195251. Le carte residue e le fotografie di documentazione, che lui, Carlo Savonuzzi, andava raccogliendo scrupolosamente, emergono all’apparenza archivistica come una serie di frammenti, ma nella realtà sono una costruzione, [...] potremmo dire rossettiana, dell’organismo urbano. Se vedete gli elenchi dell’album sinottico della sua attività, lo scorrete, trovate edifici che sono familiari, appartenenti alla famiglia del centro città ferrarese (fig. 16). [...] Il suo pensiero, la sua azione, vengono inghiottiti da una sorta di studio, di riflessione successiva, e naturalmente tocca a loro gestire la centralità, che è estensibile a tutto il meccanismo delle 48 The postman always rings twice, 1946, diretto da Tay Garnett; in Italia il film è arrivato nel 1949. Interpreti principali: Lana Turner (nel ruolo di Cora Smith) e John Garfield (nel ruolo di Frank Chambers). Nel 1981 è uscita un’altra versione per la regia di Bob Rafelson; interpreti: Jack Nicholson (Frank) e Jessica Lange (Cora). 49 Ossessione, 1943, diretto da Luchino Visconti, liberamente ispirato al libro di James M. Cain. 50 Palazzo Droghetti Masotti. 51 E. Mari, C. Savonuzzi (a cura di), Mostra dello Sviluppo..., cit.

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fig. 17 Palazzo della Ragione di Ferrara nel 1958 (Dipartimento di Architettura di Ferrara, Fondo Savonuzzi).

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Addizioni, ma anche le appendici periferiche. Per carità però: non la macchia d’olio, ma sempre la ricerca di una figura come la fascia che, per la prima volta, procede dal sud-est al nord-ovest, fino all’approdo, al nuovo autentico approdo, fluviale. C’è stata la mostra rossettiana, ci sono stati questi disfacimenti di Ferrara, come affermerà qualcuno – il nipote di Carlo Savonuzzi, Claudio Savonuzzi – e ancora l’attenzione è su questo esempio edilizio. Ma io credo che ci siano più fraintendimenti che prospezioni chiare al Convegno sull’edilizia artistica ferrarese del 1958. Naturalmente non abbiamo più grandi memorie dirette, ma finalmente ci saranno gli atti indiretti ed ecco la relazione di Renato Bonelli, in cui si propone addirittura la cancellazione del Portico del Merciai, addossati al Duomo, perché brutto52. Allora io penso che ci sono due idealismi: uno è quello alla Zevi che è la forza delle idee e l’altro è l’idealismo come ideologia estetizzante. Bonelli si pronuncia al convegno dell’edilizia ferrarese; Zevi si pronuncia e invoca il nuovo come rinsanguante il vecchio, come possibilità del nuovo all’interno del vecchio53. C’è una terza relazione, diciamo così cardinale, del convegno di un architetto operoso in Ferrara, forse di lontana estrazione locale, come Piero Bottoni54. [...] Forse la posizione più interessante, anche se la meno eclatante. E poi, in questa sintesi del convegno, c’è naturalmente la voce di Giorgio Bassani che ha pubblicato già, è già una figura carismatica, ha già abbandonato Ferrara, fa già ricorso alla memoria, ha già fatto uscire Cinque storie ferraresi, ha vinto il premio Strega. Nel ’60 tramuta le Cinque storie ferraresi in Le storie ferraresi attraverso una riscrittura esemplare, secondo taluni variantismo, secondo me – mi permetto – una ricerca ossessa di una perfezione dello strumento della memoria attraverso la città, che è morta. Ferrara è sempre uno spazio fermo di storia non storia, in cui irrompe una certa vita dolente. Non so se sia il caso, a questo punto, di richiamare qualcuna delle storie, almeno Una notte del ’43, che venne aggiunta al corpo delle cinque storie: è la storia di un luogo, di un punto, della spalletta del canale del Castello laddove è “lungheggiante” il marciapiede. Avevo già impiegato quest’aggettivo, che ho rubato a Bassani55 e che ho rubato alla città originaria su cui si concentra l’attenzione. 52 R. Bonelli, Metodi vecchi e nuovi nei restauro ferraresi, in Ferrara. Spazi, orizzonti. 1958: Convegno sull’edilizia artistica ferrarese, Documenti e testimonianze raccolte a cura di R. Bazzoni e P. Ravenna, Neri Pozzi Editore, Vicenza 1979, p. 35. 53 B. Zevi, Interventi architettonici moderni come strumento di conservazione e integrazione della Ferrara antica, in Ferrara. Spazi, orizzonti..., cit., pp. 37-42. 54 P. Bottoni, Proposte per una vitale conservazione degli ambienti caratteristici in alcune città italiane nell’ambito e con il concorso dei Piani dell’edilizia convenzionata, in Ferrara. Spazi, orizzonti..., cit., pp. 45-50. 55 Cfr, per esempio: “D’estate come d’inverno, col sole o con la pioggia, è molto raro che chi ha da percorrere quel tratto di corso Roma preferisca tenersi al marciapiede di fronte, lungheggiante in piena luce la bruna spalletta della Fossa del Castello” (G. Bassani, Una notte del ’43, in Il Romanzo di Ferrara, libro I, Dentro le mura, in Id., Opere, a cura e con un saggio di R. Cotroneo, Mondadori, Milano 1998, p. 172).

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Lo Spirito dell’Addizione è difficile da intendere. Sempre la città è fluviale: è la città lungo il Po che ha abbandonato Ferrara, è uno spazio da natura morta, che può essere animato con una vicenda accaduta e che finisce male. Barilari, il farmacista, abita qua sopra ed assiste all’eccidio della notte del ’43, in cui i fascisti ammazzano gli antifascisti con il pretesto della vendetta per il Console che loro stessi avevano ammazzato; eppure Barilari non ci può dire quello che ha visto dalla sua sedia di paralitico, perché dovrebbe rivelare il tradimento della moglie, che quella notte era andata con l’amante e non aveva potuto vedere e ascoltare. E, se c’era, non aveva visto né udito l’ammazzamento delle persone celebri, localmente celebri, che vengono ridotte a un “mucchio di stracci” come scrive Bassani56. Ugualmente lui sarà, al momento in cui vennero ripubblicate aumentate Le storie ferraresi, lo scrittore della storia più bella, che è quella del giardino, della casa-giardino lungo corso Ercole e che non ha niente a che vedere con la bruttura della palazzina dei fratelli Boari […] che riconferma la forza di una fantasia evocativa e progettuale nella chiave di una prospezione e non soltanto nel raffermare ciò che purtroppo era già fermo. Guardate invece – senza invece – Antonioni-Wenders: Antonioni in extremis come è capace di comporre lo spazio di Ferrara, spazio che in un tempo non meglio precisato di Ferrara, in questo inquadramento del palazzo sullo sfondo, passa attraverso il pertugio del portale del Palazzo Diamanti. Andiamo via dall’incrocio, andiamo via dal centro della città: c’è chi non è riuscito in questa cura. Per esempio un architetto come Carlo Bassi, molto amabile, che da anni, da venti o trent’anni ripropone la sua analisi della città fluviale longitudinale come matrice dell’Addizione e del programma simbolico intrinseco all’Addizione. Vedete il modulo di partenza è questo: 1-2 o 1-4. Ma l’1-4 che cos’è? È la distanza tra il Castello e il Duomo; è il modulo, è il diametro modulare di una costruzione che poi, di passaggio in passaggio, di colpo di compasso in colpo di compasso, come avrebbe potuto escogitare un Pellegrino Prisciani, porta alla figura del solido puntuto, del diamante ridotto a topografia urbana e territoriale. Ma questo suo disegno per il quale vive, agisce, scrive, fa – e ancora lunghissima vita gli raccomandiamo – certo non riesce a sfondare né a destra né a sinistra. E questa non è mai riuscita, credete, a diventare una lettura alternativa a Zevi oppure a Folin.

56 “Ricordava ogni particolare della scena come se l’avesse ancora adesso davanti agli occhi. Rivedeva [...] i cadaveri, infine, che dal punto dove lei li guardava assomigliavano a tanti fagotti di stracci, e invece erano corpi umani, l’aveva capito subito” (ibid., p. 210).

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Un colpo d’ala ci porta fuori. Non possiamo fare a meno di considerare la modernità, la costruzione del corso Cavour può arrivare alla ferrovia, al margine del quale [...] si prospetteranno le espansioni della città che era una e dovrebbe rimane tale. I grattacieli [...] nella loro parabola da sforzo moderno, non senza qualche effervescenza, [sono] diventati le torri più alte di tutto il Delta padano, insieme ai pennoni, alle ciminiere; ai pennoni della centrale di Porto Tolle, da simboli positivi diventati un simbolo negativo di un orizzonte difficile della pratica progettuale. Due o tre anni fa insieme ad Antonio Ravalli, per la prova agli Esami di Stato, prospettammo la possibilità di una Addizione ennesima, né un’espansione periferica né un’addizione verde come potevano volere le ideologie più correnti. Il terreno era questo, impostato su uno dei lati significativi della città pentagonale, le misure erano queste, dell’asse corso Cavour-corso della Giovecca, le strade cardinali dell’Addizione e una nuova dimensione di parchi pubblici; di terreni pubblici e di terreni privati. Per tentare, non una qualche appendice, ma accontentare, accademicamente pensare, una prova di questo tipo, una prova di addizione laddove lo Spirito dell’Addizione – lo spirito è una parola a doppia faccia, significa il soffio vitale del singolo, l’anima del singolo, così come può essere l’identità collettiva di un fatto complesso e collettivo come una città – lo Spirito ritorna a soffiare nella direzione del lasciare integro il punto saliente del territorio, Ferrara.

N

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Postfazione Ramona Loffredo

L’impresa cui ci accingiamo non è certo nuova. Ci sono anzi numerosi precedenti nella storia del pensiero. Da Aristotele a Hegel a Wittgenstein, quasi tutti i grandi maestri hanno lasciato un insegnamento orale che non si sono impegnati direttamente a redigere. Sono stati i loro discepoli, i loro collaboratori, talvolta i loro amici, ad incaricarsi di stabilire il testo. (M. Bertani, A. Fontana, in M. Foucault, Difendere la societĂ . Dalla guerra delle razze al razzismo di stato, Ponte alle Grazie, Firenze 1990)

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S Stabilire il testo partendo da una trascrizione di un insegnamento orale altrui per un’edizione postuma è un’operazione complessa, ma lo è ancor di più se il relatore ha fatto del “monologo interiore l’artificio narrativo prediletto”1. Si può immaginare una lezione/conversazione del professor Savi come una costruzione geometrica: individuazione del centro/tema, scelta del raggio d’interesse e definizione dell’arco del racconto. Una geometria che, grazie al ritmo ed alla forza impressi, esce dal piano per entrare in uno spazio in cui poesia, letteratura, arte e filosofia s’intrecciano indissolubilmente con l’architettura. L’andamento e la struttura dell’esposizione orale non seguono necessariamente la stessa rigida costruzione del testo scritto, non ne hanno le caratteristiche. Savi, infatti, nella pubblicazione di questa lezione avrebbe omesso molto, moltissimo fino a ridurre il testo all’essenziale e questo nella convinzione che una riduzione, secondo il principio dell’iceberg formulato da Hemingway 2 , avrebbe rafforzato il racconto anziché indebolirlo, lo avrebbe arricchito anziché impoverirlo. Non essendo possibile sostituirsi a Savi nella riduzione, si propone una versione della lezione che, costruita sulla base di una trascrizione fedele alla registrazione su nastro3, offre 1 2

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Tutte le citazioni senza riferimento bibliografico sono espressioni di Vittorio Savi, da ricondurre allo scambio epistolare intercorso fra me ed il professore. In un’intervista Hemingway chiarisce il principio: “Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg: i sette ottavi di ogni parte sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede”. (H. Hemingway, Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare, a cura di G. Plimpton, Il Melangolo, Genova 1996, p. 61; ed. orig., Interview: Ernest Hemingway. The Art of fiction n. 21, in «The Paris Review», n. 18, spring 1958). Nel periodo in cui ero assistente volontaria, in qualità di cultore della materia, al corso di Storia dell’architettura contemporanea tenuto da Vittorio Savi nell’anno accademico 2005-2006 presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara, ho registrato tutte le sue lezioni. La versione della lezione, qui proposta, si basa esclusivamente sulla registrazione. Non si è potuto tenere conto in questa redazione né di suoi appunti manoscritti, usati come traccia per la lezione, né del relativo corredo iconografico. Il tema della lezione non è nuovo, essendo stato affrontato da Savi in occasioni precedenti, ma per la prima volta è trattato nella sua completezza come punto d’arrivo di una ricerca pluriennale. Il 13 giugno 2006 si è tenuta, su mia richiesta, questa lezione sullo Spirito dell’Addizione dedicata alla memoria di Simone d’Agostino (1964-1982), nipote di Carlo Savonuzzi, e a quella di Gianluca Topa (1972-2002), laureando presso la Facoltà di Architettura di Ferrara; per questa versione scritta estendo idealmente la dedica fino ad includere il professor Vittorio Savi ed Amedea Manservisi, madre di Gianluca, entrambi scomparsi troppo presto. Ringrazio tutti quelli che hanno reso possibile la pubblicazione di questo scritto, in particolare i proff. Alfonso Acocella, Roberto Di Giulio, Rita Fabbri, Marco Mulazzani e Susanna Pasquali.

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la possibilità di conoscere quello che nel suo scritto sarebbe scomparso, la parte sommersa dell’iceberg: un monologo appassionato ricco di impressioni4, osservazioni, considerazioni, ipotesi, dubbi, obiezioni e divagazioni. Si è cercato il più possibile di lasciare l’intonazione, il movimento, il timbro, il registro dell’oralità per poter cercare e ritrovare la voce di Savi. Questa versione scritta della lezione è, quindi, fedele alla trascrizione della registrazione, tranne che per le piccole variazioni necessarie al passaggio dall’esposizione orale al testo scritto. Questi mutamenti, che non alterano il contenuto ed il senso, non sono stati segnalati. Si tratta, perlopiù, di aggiunta di nessi coordinanti e congiunzioni, probabilmente pronunciati ma non comprensibili nella registrazione su nastro, dell’eliminazione delle congiunzioni superflue e delle ripetizioni, e di cambiamenti, in rarissime occasioni, dell’ordine delle preposizioni nell’enunciato. Di fronte al problema di parole incomprensibili (a causa di difetti di registrazione e rumori di fondo) e di lacune della registrazione (a causa del passaggio da un nastro all’altro) si è scelto – non volendo compiere interventi di ricostruzione – di conservare i vuoti segnalandoli con punti di sospensione fra parentesi. Le parole aggiunte per facilitare la lettura, non pronunciate da Savi, sono state inserite fra parentesi quadre. La lezione è composta anche da immagini: questo determina che, al cambio dell’immagine, può corrispondere una svolta improvvisa e brusca nel discorso, che non è stata attenuata nel testo scritto con arbitrari interventi di ricucitura. Considerando che per Savi il “testo non commenta le immagini [e] le immagini non illustrano il testo”5 davanti all’impossibilità di restituire, nella totalità, la relazione originaria fra testo ed immagine, si è deciso di inserire solo alcune figure, quelle strettamente necessarie a consentire la comprensione. La punteggiatura cerca di seguire il più possibile il ritmo della forma orale, con qualche eccezione necessaria a rendere più fluida la lettura. Per quanto riguarda le citazioni richiamate da Savi, non sono state apportate modifiche alle parafrasi per ricondurle alla forma del testo originale, che viene, però, riportato in nota. Le note non vogliono essere né una critica né un’analisi del testo ma solo testimonianze, puntuali riferimenti bibliografici o informazioni e chiarimenti su opere, persone e fatti citati. Il testo ben si prestava alla ricerca dei collegamenti fra i temi trattati nella lezione e nell’opera di Savi, ma si è deciso di rimandare ad altro contesto una edizione critica.

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Per il prof. Savi le impressioni rappresentano il/un primo livello della critica. R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, p. 3; ed. orig. L’empire des signes, Éditions d’Art Albert Skira s.a., Genève 1970.

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Di questa lezione, ultima del corso di Storia dell’architettura contemporana6, Savi scriveva: “per ‘Spirito’ bisogna intendere l’insieme delle idee, delle ricerche, degli intenti guardati da un certo punto di vista e non da altri – l’insieme quale presiedette al terzo (ma anche al secondo e al primo) degli ingrandimenti recati a Ferrara vecchia città fluviale, ma per lasciare Ferrara una e una sola. La lezione rilancia la categoria critica e operativa della lettura morfologica già adottata da Bruno Zevi (dal 1954 in poi), e aggiunge qualcosa di originale in sé e di valido contro il risorgente materialismo riduzionistico, intrinseco allo studio delle ragioni speculative, fondiarie, immobiliaristiche. Essa è dedicata alla memoria di Simone d’Agostino, nipote di Carlo Savonuzzi, l’architetto più importante della Ferrara da Metafisica a Ossessione e oltre, nonché alla memoria di Gianluca Topa, studente della locale scuola di architettura, animato dal soffio che lo spinse a indagare una forma archetipica come il rossettiano campanile del San Giorgio”. Dalla lettura del testo emergono le tracce e le direzioni di preziosi percorsi di ricerca e di lavoro che, non sfociati in pubblicazioni, rappresentano l’unica possibilità di conoscere ed attraversare la soglia critica costruita da Savi per approfondire lo studio di Ferrara.

I

6

Il prof. Vittorio Savi ha proposto nuovamente, il 10 ottobre 2006, la lezione sullo Spirito dell’Addizione come prolusione nell’ambito della cerimonia di apertura dell’anno accademico 2005-2006 all’Università per l’educazione permanente città di Ferrara (U.T.E.F.).

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