CUSPIDE MAGAZINE

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LA TRILOGIA DEGLI OCCHIALI

Dopo l’appuntamento di marzo, torna in scena al Teatro Palladium il teatro fisico di uno dei migliori talenti nel panorama del teatro italiano, Emma Dante. Sotto il titolo de La trilogia degli occhiali vengono presentate tre pièces indipendenti, ma unite dalla presenza degli occhiali, di cui i protagonisti non sono semplicemente dotati per necessità. Gli occhiali sono talvolta inforcati, talaltra dismessi, avvicinati agli occhi, allontanati, in modo tale da accentuarne volta per volta il significato, nonché il soggettivo bisogno che spinge all’utilizzo di quello strumento. Del resto, questo oggetto ha da sempre catturato l’attenzione dei letterati, dalla curiosa immagine offerta dalla poesia barocca (aggettivo che ben s’addice allo stesso teatro della Dante), all’idea che ne dà la Ortese nel romanzo Il mare non bagna Napoli, di cui senz’altro Emma Dante serba memoria. La prima piéce della trilogia, ovvero la più estesa, intitolata Acquasanta, inscena il dramma tutto personale di un uomo di cui conosciamo solo il soprannome, o’ Spicchiato (Carmine Maringola), dovuto al riflesso provocato dai suoi occhiali, di cui si serve per scrutare il reale, che non è oggettivo, ma conforme a sé, ai propri desideri. Gli occhiali sono il simbolo della sua “intelligenza sovrana”, arriverà ad affermare il protagonista, poiché gli consentono di modificare il mondo secondo la propria volontà. Al centro della rappresentazione vi è la solitudine di un uomo che aveva lasciato la terra per abbandonarsi nelle braccia del grande mare, nonostante tutte le angherie a cui un semplice mezzo mozzo poteva senz’altro andare incontro. La sua passione per il mare, dichiarato senza inibizioni, lo renderà in definitiva oggetto di derisione da parte della ciurma. O’ Spicchiato è ora sulla terraferma, che egli stesso definisce un’illusione – ottica, aggiungerei –, dopo anni vissuti sul mare, al cui ricordo rimane letteralmente attraccato per mezzo delle funi collegate a tre ancore. È ossessionato dalla sua vita passata come mezzo mozzo, di cui rivive le esperienze emotive e corporee: la potenza dell’interpretazione di Carmine Maringola si spinge oltre ogni barriera imposta dalla finzione, tanto da riuscire a consegnarsi all’animo e alla pelle dello spettatore. L’attore è quasi un saltimbanco, un acrobata della recitazione: recita contestualmente la parte del protagonista, del secondo mozzo e del capitano, da cui riceverà la finale ingiunzione di lasciare la nave. La forza e la profondità del suo canto sciolgono ogni residuo di realtà, conducendolo in un altro universo e intensificando il suo rapporto con quel mare, carico di suggestioni leopardiane, che per lui è un infinito non soltanto spaziale. Il secondo segmento di questo trittico, Il castello della Zisa, porta sulla scena due donne (Claudia Benassi e Stéfanie Taillandier) animate da movimenti e bisbigli così rapidi ed insensati da apparire schizofreniche. Queste sono impegnate a prendersi


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