Cultura Commestibile 197

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

Il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese Lenin

Iskra искра editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

17 DICEMBRE 2016 pag. 2

Simone Siliani s.siliani@tin.it di

Y

ang Lian è uno dei più importanti poeti cinesi viventi. Nato in Svizzera nel 1955, è cresciuto a Pechino. Ha iniziato il suo lavoro poetico negli anni ‘70 e si è affermato negli anni ‘80, soprattutto con la sua sequenza poetica “Norilang” (1983) Mentre Yang Lian era in viaggio in Australia e Nuova Zelanda fra il 1988 e il 1989, divenne sule a seguito dei fatti di Tien An Men. Ha pubblicato 13 raccolte di poesie, due di prose e i suoi lavori sono stati tradotti in oltre venti lingue. Nel 2015, Yang Lian ha vinto il premio di poesia “Li Bai” e nel 2012 il premio internazionale di letteratura Nonino in Italia,assegnatogli dalla giuria internazionale presieduta da V.S.Naipaul. È stato insignito anche del premio “Flaiano” di Poesia internazionale nel 1999. Lo abbiamo incontrato a Firenze durante un reading delle sue poesie alla galleria d’arte Cartavetra, organizzato all’interno del Festival di poesia internazionale “Voci lontane, voci sorelle”, introdotto da Elisa Biagini. Vorrei iniziare con una curiosità: la tua poesia, le tue lunghe sequenze poetiche si collocano in un qualche punto fra la poesia classica cinese e il clima contemporaneo della poesia, dove le parole sono lì per riempire il vuoto dell’egoismo di questo folle mondo di oggi. Come sta la tua poesia fra questi due opposti poli? Se concepiamo la poesia ad un più profondo livello, ciò significa indietro nella più antica esperienza della poesia, al modo di pensare la poesia, vediamo che non vi è poi quella così grande differenza fra la poesia e i poeti classici e la poesia contemporanea. Ad esempio da noi in Cina, durante la dinastia Tang, il grande poeta Du Fu nato circa 1.200 anni fa; oppure Dante che pure ha vissuto 800 anni fa: quando leggiamo la loro poesia riusciamo a comprendere la loro comune esperienza di esiliati e soprattutto la loro straordinaria capacità di scrittura e nel rendere vitale la loro esperienza in una forma e in un linguaggio universale. Io penso che questo modo di pensare, di concepire la poesia è sempre continuato,

La poesia cinese con una prospettiva globale fino ad oggi. Certamente, i poeti contemporanei, io stesso, affrontiamo la vita contemporanea in Cina, la globalizzazione o l’ordine mondiale, ma quando penso alla mia poesia la concepisco come una piattaforma di creativa trasformazione di quel modo di pensare classico, di questa storia continua. Io avverto il passato, ma anche la realtà unirsi nel mio corpo e nella mia scrittura. È qualcosa di simile al rapporto con il Rinascimento a Firenze: la cultura classica, il modo di concepire l’Uomo al centro del mondo che rifondano la cultura contemporanea. E’ il problema di comprendere che non vi è alcuna distanza fra il passato e il contemporaneo. Esattamente. Io sento che la modernità è qualcosa di collocato nella tradizione, o se preferisci nel passato; ma il passato e la tradizione sono anche situati nella vita moderna

in quanto livello profondo di questa realtà. In questo caso direi che Cina e Italia condividono questa esperienza, se naturalmente comprendiamo la tradizione non come un qualcosa di bloccato, bensì come vita vivente. Una vita di cui dobbiamo, però, trovare la vera energia. E così, di nuovo, i grandi poeti sono certamente delle figure individuali che però hanno una comprensione di ogni tempo, dagli inizi fino a loro, e non solo in quello in cui loro vivono. Quindi dobbiamo assumere la tradizione come un libro aperto, con una scrittura che ancora oggi continua. Sento questa quando cammino per Firenze: vedo che la classicità, la tradizione e la modernità sono unite insieme. Hai parlato di Dante e Du Fu come di due poeti dell’esilio; ma anche tu sei stato un esule in Nuova Zelanda durante la crisi di Tien An Men. Allora, prima

di tutto, cosa vuol dire essere dei poeti esuli nel mondo globalizzato di oggi? E cosa pensi oggi della Cina e quali relazioni mantieni con essa? Sì, sono stato un poeta esule dopo il massacro di Tien An Men, ma in qualche modo anche prima: i miei lavori erano stati duramente criticati, messi all’indice e mi sono trovato in situazioni davvero molto pericolose. Ma dopo Tien An Men, come molti altri intellettuali cinesi, sono stato esiliato fuori dalla Cina, con motivazioni molto politiche. Ma la trasformazione economica della Cina e il mondo stesso sono cambiati drasticamente. E quindi nella cosiddetta età della globalizzazione, mi sento ancora più profondamente esiliato. Perché, certamente dopo il 1989 posso dire di essere stato un poeta cinese in esilio, ma nel 2016 chi non è esule? In questo enorme controllo commerciale del mon-


Da non saltare

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do, in questa globale condizione di egoismo e cinismo, in un mondo in cui nessun principio sopravvive se non il profitto, per i poeti certamente, ma in generale per ogni individuo con una libertà di pensiero, che non voglia seguire il mainstream che è un flusso di peccato, la sensazione di esilio è molto forte e chiara. In secondo luogo, in Cina ho parlato con molte persone dicendo che è vero io sono un poeta cinese in esilio, ma non sono mai stato esiliato dalla lingua cinese e come poeta sono parte integrante della poesia cinese contemporanea. Di nuovo, con la mia esperienza di vita internazionale, posso anche vedere la Cina e i suoi cambiamenti da un punto di vista globale. E posso vederne i cambiamenti positivi: negli ultimi 20-30 anni le condizioni economiche sono migliorate, ma di nuovo se è importante importante spingere queste trasformazioni in Cina nella prospettiva della globalizzazione, è ancora più importante comprendere la Cina e che la Cina sia responsabile. Prima mi dichiaravo “poeta cinese”, ma oggi mi definisco un “poeta cinese con una prospettiva globale”. Questo significa che la letteratura cinese e tutto quello che ha a che vedere con la cultura cinese deve entrare in contatto con questa prospettiva e responsabilità globali. In breve non si può comprendere la globalizzazione senza comprendere la Cina, ma non si può veramente comprendere le cina se non si ha una comprensione delle dinamiche globali: sono due questioni intimamente legate. Dunque, in qualche modo parafrasando il titolo della tua sequenza poetica “Where the Sea Stands Still”, il mare non è mai veramente immobile. Sì, è vero: il mare è sempre in movimento se lo osservi dalle increspature sulla superficie, ma se scendi al livello profondo comprendi la sua immobilità. Così è per la Cina nel mondo globale: movimenti importanti sulla superficie e continuità nel profondo. Così è anche per il rapporto fra classicità e modernità Come dico sempre, fra la Cina e il mondo esterno, la poe-

Intervista a Yang Lian sia è la comune lingua madre. È interessante notare come in altri paesi lo sviluppo economico sia l’opposto della poesia; ma in Cina i cambiamenti nell’economia portano ad un surriscaldamento e a un eccitamento della poesia. Anche il fondo della società, gli operai, sono investiti da questa onda e moltissimi scrivono bellissime poesie. È anche il caso dei migranti lavoratori che scrivono poesie con un linguaggio davvero innovativo, completamente diverso da qualsiasi tipo di linguaggio collettivo e propagandistico; è un linguaggio estremamente individuale, unico. Cos’è? La reazione a decenni di omologazione collettivistica? Certo, una reazione, ma molto più di quello. Oggi tutti sentono che nella nostra vita c’è una grande questione aperta e tutti sono alla ricerca di quale sia la questione cinese. Prima,

durante la Guerra Fredda tutto era chiaramente bianco o nero: c’era il potere autocratico, le lotte politiche interne, ma oggi i cinesi non sono più in condizioni di quasi schiavismo e diventano i manager della propria azienda; producono oggetti di alto livello tecnologico e il profitto è globale. Ma non ci sono sindacati dei lavoratori, non c’è un sistema di welfare e di assicurazione sanitaria. La poesia è un modo speciale non per dare la chiara risposta a tutto ciò, ma per esplorare e cercare la risposta alla domanda. E quindi la strada della poesia è davvero la strada per la ricerca del proprio cuore. Tu hai iniziato il tuo lavoro poetico fondando un gruppo denominato “I sopravvissuti” e oggi sembra che i sopravvissuti lo siano davvero e inizino ad alzarsi in piedi e reclamare il proprio ruolo nella società cinese.

Sì, proprio un mese fa abbiamo rifondato il club dei “Sopravvissuti”: dopo 28 anni, i tre fondatori del gruppo “I sopravvissuti” sono sopravvissuti, invecchiati, ma con maggiore esperienza e ricchezza di pensiero. Quindi ci siamo riuniti con altri membri del gruppo e molti altri giovani poeti e nuovi amici, poeti e artisti. Tutti amiamo questa parola, “sopravvissuti”, perché 28 anni fa durante la Guerra Fredda aveva un certo significato, ma oggi con un significato molto più ricco e ampio, queste persone ancora oggi impegnate nell’arte e nella poesia, riconoscono che quello era un modo per mantenerli in vita. Durante l’incontro c’era un bel clima e, dal mio punto di vista, si è creata anche una piccola tradizione di sopravvissuti, senza però una veste ufficiale (il che significa che ciascuno mantiene la propria individualità) e con un alto livello di qualificazione culturale. Attualmente abbiamo a Palazzo Strozzi a Firenze la mostra di Ai Weiwei, uno che in qualche modo parla anche lui di sopravvissuti. Cosa ne pensi di lui? Non sapevo che aveva questa mostra qui. Ho scritto un poema per lui che riguardava la sua opera relativa alla sua condizione di isolamento, “Semi di girasole”. Sono stato all’inaugurazione della sua installazione alla Tate Modern: sapevo che c’erano molti significati simbolici in questa sua installazione “Semi di girasole”, relativi alla vicenda storica di milioni di cinesi durante il periodo maoista. Ma quando lui andò nei luoghi del terremoto nel Sichuan, molti osservarono che egli, con la sua propria vita e presenza, aveva dato nuovi significati attuali a quell’opera. Poi con i problemi che lui ha avuto in Cina e i problemi dell’arte nel nostro tempo, si sono aggiunti ulteriori significati. Così ho scritto una breve poesia “Semi di girasole linee di negazione” nella quale ogni riga è nella forma di negazione, fino all’ultima riga che non non parla solo a lui, ma a tutti,che dice: “non accendere questa poesia, affonda nella morte e nella fredda e indefinita bellezza”. Avessi saputo di questa mostra, avrei fatto una traduzione di questa poesia.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

Lo Zio di Trotzky

Natale in India

La guerra delle valute

Leviamo oggi la nostra (ormai stridula) voce di donne a difesa della nostra amata Alessandra Moretti, già candidata renziana sconfitta alla Regione Veneto e oggi capogruppo del Pd in quel consiglio regionale. Non la lasciano proprio in pace la povera Alessandra! Prima tutte le storie sul fatto che andava una volta la settimana dal parrucchiere per distinguersi dalle sfigate bruttine della sinistra. Ora la “surreale” (così l’Ale l’ha definita) polemica per il suo viaggio in India durante il dibattito in aula sulla Legge di Stabilità. Ma insomma, lei lo aveva detto in chat: “sono malata, non potrò esserci”. Ma poi è improvvisamente guarita, giusto in tempo per andare al matrimonio di Jorge Sharma, noto gioielliere della sua Vicenza. Ma poi, durante la quattro giorni di festeggiamenti, guarda caso, si è improvvisamente riammalata, come ha dichiarato a Radio Capital: “In India mi sono riammalata, come succede a tutti quando si viene qui. E adesso sto rientrando. Ma di cosa mi devo giustificare?”. Qualcuno

Quest’anno grandi festeggiamenti fra i cambiavalute della città. Ne sono stati visti molti fare il trenino sotto i portici di piazza della Repubblica, con bottiglie di spumante, cappellini colorati e fischietti in bocca, darsi alla pazza gioia. La spiegazione di questo inusuale fenomeno non sta nell’inattesa performance delle borse e degli scambi dell’euro sul dollaro, bensì della preannunciata campagna d’inverno del sindaco Nardella contro le esose provvisioni che certi cambiavalute del centro praticano sulle operazioni di cambio. Dopo le denunce di Adusbef, rimbalzate su Repubblica e le lamentele dei turisti, Nardella ha tuonato: “E’ un esempio delle rendite di posizione che affliggono la città e che questa amministrazione intende combattere e stroncare!”. Ipse dixit. Il panico ha incominciato a serpeggiare fra gli operatori: “Aiuto! Ora Nardella farà dei controlli, farà pressioni sul settore... Siamo rovinati!”. Ma uno di loro in famiglia aveva uno che gestiva un kebab, il quale in dialetto fiorentin-palestinese gli ha spiegato: “Tranquilo

ha malignamente commentato che nella foto su Instagram la Ale sembrava in piena forma e non troppo sofferente, ma alla Ale non la si fa e lei ha risposto piccata: “mi sembra surreale tutto questo interesse, per il mio stato di salute e per la mia vita privata”. La Moretti è al di sopra di queste miserie umane perché come per il mantra del movimento Hare Krishna, lei è in diretto contatto con Lui, Matteo of course: “O Signore! O energia del Signore! Per favore impegnatemi nel Vostro divino servizio”. E ci pare che il suo desiderio di servizio sia stato esaudito.

I Cugini Engels

Il fraintendimento dell’ala

Come i Guardiani della Rivoluzione islamica iraniana (o dal persiano Pasdaran) o il più letterario “Davanti alla giustizia”, la parabola di Kafka in cui un gigantesco guardiano impedisce all’uomo di campagna di entrare nel portone della Legge, si sono erti a difesa della Legge renziana e dei suoi profeti i consiglieri regionali toscani Baldi e Scaramelli contro il proditorio attacco mosso, niente di meno che su Facebook, dal portavoce del Presidente Rossi, Alfonso Musci, contro Luca Lotti. Infatti l’ombroso Musci avrebbe osato commentare la notizia dell’assessorato allo Sport a Lotti “Allora hanno dato lo sport ad Ala?”. I dioscuri renziani sono insorti all’unisono: “Prenda le distanze Rossi dal qualunquismo saputello, dalla gogna politica e dal letame verbale di Musci!”. Purtroppo, si sa, quando un regime inizia la sua rovinosa discesa, la prima cosa che svanisce è l’ironia e prevale il senso del ridicolo. Non sfugge a

nessuno, infatti, che il portavoce Musci intendesse alludere ai passati fasti sportivi del Lotti che, pare, fosse una discreta ala (destra, ça va sans dire). Ma i lombrosiani renzisti non l’hanno intesa. Del resto, a parlare di ali si rischia spesso di venire fraintesi. Si narra che nel campionato di calcio 1955-56 la Fiorentina allenata da Fulvio Bernardini avesse vinto lo scudetto grazie ad una incomprensione fra l’allenatore e il campione brasiliano Julinho: Bernardini, durante lo scontro con la Juventus (vinto dai Viola 4 a 0), avrebbe urlato a Julinho “Vai all’ala”, ma il brasiliano poco familiare con il calcio italiano e soprattutto con la lingua rispose “Mai-all’ala”; Bernardini scambio il rifiuto con un’offesa che coinvolgeva la di lui madre e prontamente lo tolse dal campo di gioco inserendo l’argentino Montuori, cambiando le sorti della partita e del torneo. Morale: a scherzar con l’ala, si rischia grosso.

disegno di

Roberto Innocenti

Giovanni, noi fatto affari d’oro da quando quel bischero di Nardela ha giurato guera a noi kebabbari! Lui non fatto niente! E noi vendiamo kebab come piovesse!”. Un altro cambiavalute aveva un genero che gestisce un minimarket indiano in via del Proconsolo: “Nardela contro voi? Grande!!! Farete grandi afari. Se tu vuole io lascio minimarket a tua filia e vengo a lavorare con te. Tanto è sicuro che Nardela fa niente!”. Un terzo ha chiesto al figlio che fa il cameriere in un locale della movida: “Ma che se’ grullo, babbo?! L’è una pacchia se ‘i Nardella vi dichiara guerra. Noi gli si va in culo alla grande: si tiene aperto quanto si vole e si vende gli shottini anche ai neonati! Alla grande!”. Le paure si sono sciolte definitivamente dopo le minacce di provvedimenti draconiani dopo lo sforamento dei limiti dello smog: giubilo fra i rivenditori di marmitte abusive. Così i cambiavalute si sono convinti che le minacce nardelliane sono, in verità, il suo modo di fargli gli auguri di buon Natale e hanno iniziato i festeggiamenti.

Innocenti e colpevoli


17 DICEMBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

V

edere l’America con gli occhi di un europeo è sempre un’esperienza un poco scioccante, anche quando chi guarda non è affatto digiuno di letteratura, cinema e musica americane, cioè, in sintesi, di “cultura” americana, ed anche quando lo sguardo si concentra solo su New York, forse la meno “americana” delle città di oltre atlantico. Eppure, l’incontro fra lo sguardo “europeo” e lo scenario “americano” genera sempre un certo grado di stupore, meraviglia, fascino e curiosità, soprattutto se l’incontro si colloca storicamente fra la metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta, in un’epoca in cui ancora la globalizzazione non ha fagocitato del tutto ogni aspetto della realtà “visibile”, come moda, consumi, abitudini, costumi, arti, letture ed informazioni, rendendo gli scenari sempre più simili al di là ed al di qua dell’oceano. Lo sanno bene i colleghi, come Maurizio, che hanno vissuto fotograficamente l’esperienza americana molto prima di noi, e lo conferma l’esperienza del fotografo tedesco Sepp (Josef) Werkmeister (nato nel 1931), che a partire dal dopoguerra non ha avuto che due grandi passioni, la musica jazz, importata in Europa dai vincitori quando lui era ancora un bambino, e la fotografia. Sulla fusione delle sue due passioni Werkmeister ha basato la sua fortunata carriera professionale, fotografando i maggiori esponenti del jazz del dopoguerra ed entrando in relazione con loro, realizzando numerosi ritratti, servizi fotografici, copertine di libri e di dischi, seguendo i principale eventi europei degli anni Cinquanta e Sessanta, ed arrivando a sbarcare a New York nel 1965, per tornarvi poi frequentemente negli anni successivi, sempre inseguendo da vicino i suoi interessi musicali. Accade così che, un poco per caso, ma soprattutto per scelta, il giovane fotografo tedesco si trovi a vagare per le strade di New York con una fotocamera in mano, e non può esimersi dal fotografare tutti quegli aspetti dell’America che stridono o contrastano con quanto ha visto nelle strade delle città europee. Aspetti che, rivisti oggi, a quaranta o cinquant’anni

Un tedesco a New York di distanza, e con il mondo profondamente cambiato, possono sembrare scontati, prevedibili o addirittura banali, ma che visti all’epoca rivelano le caratteristiche strutturali del sistema, basato su profonde fratture sociali, sulla difficile convivenza degli opposti, sulla ostentazione della ricchezza e del benessere, in maniera debordante e perfino grottesca, accanto alla manifestazione altrettanto visibile della miseria e del malessere, della ghettizzazione e dell’abbandono. Werkmeister scatta le sue immagini senza nessuna precisa finalità, mosso solo dalla sua inesauribile curiosità, che lo spinge anche nei quartieri difficili, dove un fotografo bianco e straniero viene visto con sospetto ed ostilità, anche all’interno dei locali in cui viene ignorato e mal sopportato. In molte occasioni nasconde la fotocamera in una borsa, provvista di fori per poter inquadrare e scattare senza mettersi troppo in mostra, ma la maggior parte delle sue immagini sono realizzate nel più puro spirito della “street photography”, mettendo al centro dell’immagine i suoi personaggi, uomini o donne, bianchi o neri, giovani o vecchi, ricchi o poveri, sempre ripresi nel vivo della loro attività, come nei momenti di stanchezza o di riposo. Se è facile trovare nelle immagini di Werkmeister l’eco, a volte lontano, a volte nitidamente percepibile, di fotografi di tradizione europea, come Henri Cartier-Bresson, Lisette Model o Thomas Hoepker, è innegabile l’influsso esercitato da americani come William Klein o Garry Winogrand, e perfino in una certa dose da Diane Arbus, a dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanto Wekmeister sia stato in grado di assorbire il flusso culturale del momento, e di nutrirsi dell’esprit du temps. Il passaggio dal bianco e nere al colore sembra il corollario naturale di questo percorso, con riferimenti diretti o indiretti non solo ad Ernst Haas, ma anche a Stephen Shore ed William Eggleston. Realizzate al di fuori della sua attività commerciale, ed ignorate a lungo dalla critica, le immagini di Werkmeister vengono raccolte nel libro “New York 60s“ pubblicato nel 2016, quasi a celebrare gli ottantacinque anni dell’autore.


17 DICEMBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

le e sonora, in quanto parte integrante del brano musicale e poiché la musica appartiene alla vita e a tutto ciò che circonda l’uomo. La sua prassi artistica cambiò profondamente il mondo musicale contemporaneo, trasformando con il suo famoso 4’33’’ la storia della musica e dell’estetica, volta ora come non mai alla percezione del suono come un’esperienza emozionale aleatoria ma, al contempo, aderente ai ritmi esistenziali dell’umanità.

N

el Novecento l’avanguardia musicale fu un vero e proprio mutamento di prospettiva che si qualificò come un processo di ricerca articolato in diverse direzioni – serialismo, musica elettroacustica, musica concreta, musica sperimentale, musica minimalista – ossia sperimentazioni sul materiale sonoro che non solo trovarono un terreno fertile a livello filosofico, ma che furono esplicate tramite progettazioni e chiarimenti critici di alto livello intellettuale, includendo un atteggiamento provocatorio comune a tutta l’Arte contemporanea. È a partire dalla scuola di Darmstadt – dove ogni due anni si tenevano i Corsi estivi di composizione per la Nuova Musica, presso L’istituto Internazionale della Musica – che Webern rivoluzionò i tratti pragmatici e sintattici del linguaggio musicale del XX secolo, attraverso le tecniche di composizione seriale e il totale rifiuto del concetto di tradizione e di valore estetico che la storia e lo scorrere del tempo sono in grado di donare alle opere. L’avanguardia ebbe dunque un duplice compito: da una parte si prefisse lo scardinamento sistematico di ogni nesso linguistico tradizionale, ricercando lo scandalo e la dissacrazione, dall’altra costruì una dimensione sonora totalmente nuova e inedita. Proprio con John Cage, allievo di Schönberg, il suono riacquistò la sua aurea culturale di ascolto e non solo di produzione, tanto che l’estetica musicale venne negata da un punto di vista prettamente strutturale: le tecniche aleatorie e causali, unite al concetto di sinestesia artistica, servirono per avvicinare il processo creativo alla naturalezza del suono, rifiutando il principio composizionale della consequenzialità logica e della musica come suono organizzato. Di conseguenza la figura del compositore di stampo romantico venne definitivamente abbattuta, in nome di una figura artistica più vicina alla realtà esistenziale e quotidiana, in linea con la poetica degli Happenings e di Fluxus. Con John Cage anche il silenzio acquistò una valenza musica-

John Cage di

Autoritratto, 1979 Fotografia in b/n cm 30,5x23,5 Senza titolo, 1979 Fotografia in b/n cm 30,3x23,8 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


17 DICEMBRE 2016 pag. 7 Ruggero Stanga stanga@arcetri.astro.it di

I

l 14 di novembre c’è stata la Superluna, l’ultima di questo 2016. Che poi non è niente di che. L’orbita della Luna intorno alla Terra è una ellisse, cioè una circonferenza un po’ deformata, che ha due assi perpendicolari che non sono uguali. La Terra sta quasi al centro dell’ellisse, per cui la distanza della Luna dalla Terra cambia di giorno in giorno. Il punto a distanza minima si chiama perigeo, quello a distanza massima apogeo, e stanno agli estremi dell’asse maggiore. A ogni orbita, dunque, la Luna passa una volta dal punto più vicino (circa 360.000 km) e una volta dal punto più lontano (circa 405.000 km). Quando la Luna passa dal perigeo, e succede che è anche Luna Piena, allora sui giornali compaiono i titoli “Ecco la Superluna”. Effettivamente, essendo più vicina, appare più grande e più luminosa, però la differenza con le altre lune piene “normali” è così piccola da essere impercettibile all’occhio umano, e, comunque, di scarsa rilevanza scientifica. Perché il fatto arrivi ai titoli dei giornali, in periodi in cui, tra l’altro, le notizie non mancano, è questo, il fenomeno curioso. Eppure, gli effetti della Luna sulla Terra da raccontare non mancano. Per esempio le maree: l’acqua del mare si alza e si abbassa due volte al giorno a causa dell’azione combinata di Terra e Luna. Ogni punto della superficie della Terra risente di una forza di attrazione gravitazionale verso il centro della Terra, a cui si aggiunge la (molto più piccola) attrazione gravitazionale verso il centro della Luna. I due effetti si sommano o si sottraggono, secondo la posizione del punto sulla Terra. Bene, la parte di Terra proprio sotto la Luna risentirà di una attrazione gravitazionale lunare in direzione opposta alla attrazione terrestre: la Terra cercherà di allungarsi in direzione della Luna. E nella direzione opposta? L’attrazione gravitazionale lunare sul centro della Terra è maggiore di quella sulla porzione di Terra nella direzione proprio opposta alla Luna, perché il centro della Terra è più vicino alla Luna.

Maree Quindi la Terra si allungherà anche in direzione opposta alla Luna. In conclusione, la Terra si troverà con due rigonfiamenti opposti lungo l’asse Terra Luna. L’acqua è libera di seguire queste differenze di forze, incanalata dall’andamento delle coste, là dove ci sono, e questo è il fenomeno delle maree: a Mont Saint Michel, in Francia è particolarmente suggestivo e appariscente. Ma, per quanto molto più rigido dell’acqua, anche il suolo terrestre si deforma lungo l’asse Terra Luna, di qualche decina di Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

centimetri due volte il giorno. Non ce ne accorgiamo, perché è un fenomeno molto lento, e coinvolge tutta la Terra, e non solo l’edificio in cui ci troviamo; strumenti opportuni, comunque, sono in grado di misurare anche queste maree del suolo. Anche il Sole ha la sua parte nelle maree terrestri e contribuisce a rendere il fenomeno più o meno appariscente, secondo la sua posizione rispetto alla Luna. Gli effetti mareali sono dunque dovuti alla differenza di attrazione gravitazionale che si risente

Scavezzacollo

nelle varie regioni di un corpo esteso (la Terra in questo caso) sottoposto alla forza gravitazionale di un altro corpo, e sono fenomeni molto comuni nell’Universo. I “rigonfiamenti” terrestri sono sincronizzati con il moto della Luna, che impiega circa un mese a fare una orbita terrestre, e quindi sono più lenti della rotazione giornaliera della Terra: l’effetto finale è che la Luna “cerca” di frenare la rotazione diurna terrestre e non sarà “soddisfatta” fino a quando la rotazione della Terra intorno al suo asse non avverrà nello stesso tempo della rivoluzione della Luna intorno alla Terra. Ci vorrà un tempo di parecchi miliardi di anni (visto che i paleontologi hanno evidenza che circa 620 milioni di anni fa la durata del giorno fosse di un po’ meno di 22 ore, solo due ore meno di adesso), in un’epoca in cui il Sole avrà abbondantemente terminato il suo ciclo di vita. E quest’anno 2016 durerà un secondo in più per tenere conto di questo rallentamento. La sincronizzazione è però già successa alla Luna, che infatti ha un periodo di rotazione uguale al periodo di rivoluzione (“la Luna rivolge sempre la stessa faccia alla Terra”), e proprio per effetto della maree indotte dalla Terra.


17 DICEMBRE 2016 pag. 8

Il piacere del successo

Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

l’arte richiede sacrificio ed è oltre la vita. Il suo lungo apprendistato lo fece prima nello studio di Coubert poi nelle sale del Louvre dove studiava e copiava in maniera quasi ossessiva i maestri del passato, Giorgione, Velasqzquez...Non disdegnò il confronto e l’amicizia con gli artisti suoi contemporanei come Degas, Manet, Morisot e altri numerosi impressionisti ma respinse le loro teorie moderne sull’arte e non partecipò mai alle loro mostre e quando dopo

tanti anni nei quali si guadagnava la vita come copista decise di partecipare al Salon di Parigi nel 1859 la sua opera che seguiva la tradizione realistica e aveva un sapore d’antico e non venne accettata. Nello stesso anno l’amico Whistler lo portò a Londra e lo introdusse nell’ambiente artistico della capitale inglese. E qui le nature morte di mazzi di fiori che lui raccoglieva nel suo giardino ritratti su sfondi neutri in ocra, beige, grigio e nero, senza il pathos di

una dimensione narrativa ma con una perfezione che trasmetteva una misteriosa sensualità vennero molto apprezzate dal mercato e dalla critica tanto che la Royal Accademy gli dedicò una mostra. Sono felice con le mie nature morte nel mio studio in completa solitudine. Ma ben presto si stancò del soggetto e nel 1864 dipinge un quadro dal titolo Omaggio a Delacroix, e nello stesso anno, finalmente, venne accettato al Salon. Iniziò così una serie di ritratti delle persone che facevano parte della sua vita, le sorelle, la moglie, gli amici fatti con la stessa precisione e lo stesso distacco con i quali Fantin-Latour aveva dipinto i suoi mazzi di fiori. Le figure sono fra loro isolate, i colori austeri, i gesti contenuti, nessun messaggio particolare ma solo il piacere visivo della perfezione estetica. Ritratti severi e allo stesso tempo dolcissimi e misteriosi. Nel 1870 una sua opera venne acquistata dallo Stato Francese. È la consacrazione ufficiale. Aver successo senza alcuna concessione mi ha procurato un grande piacere. In seguito le opere di questo idealista che sognava di sfuggire con l’arte al mondo influenzeranno molti pittori simbolisti, facendo di lui, che si era sforzato tutta la vita di restare un pittore classico refrattario ai cambiamenti, moderno suo malgrado.

ne abbiamo ascoltate tante, ci abbiamo creduto, sperato anche se poi, alla fine, spesso ci hanno deluso. Accanto alle parole tradite troviamo montagne di parole offensive. Alcuni sostengono che chi conosce poche parole ha anche poche idee: più parole si conoscono e più ricca è la vita democratica, la discussione, il confronto. Al contrario invece si va incontro al dileggio, alla violenza. Una ricerca dimostra che i ragazzi più aggressivi sono quelli con un vocabolario ristretto, con scarsi strumenti linguistici, i più incapaci di raccontare le proprie esperienze, di esprimere i bisogni. Ma accanto alla ricchezza o povertà del vocabolario c’è anche e soprattutto la qualità delle parole, il loro stato di salute. E oggi

non si può certo dire che sia ottima. Assistiamo ad una loro progressiva perdita di aderenza alla realtà, anzi spesso narrano “verità” che non esistono, finendo per produrre danni e ferite, per sdoganare la trasgressione, le offese, le umiliazioni. Trasformando la nostra comunità in una specie di far west. E i cattivi esempi purtroppo arrivano dall’alto, vengono ripresi dai media e amplificati dai social, fino a diventare consueti e familiari. Quando coloro che sono sotto i riflettori e ai vertici delle istituzioni insultano il Presidente della Repubblica, parago-

nano un ministro ad un orango, oppure dichiarano di voler rottamare le persone, asfaltare gli avversari, di riesumare la “decimazione” verso i senatori e di entrare nel loro partito con il lanciafiamme, beh… allora la convivenza civile si trasforma in autoritarismo personale. A quel punto tutti ci sentiamo autorizzati a fare altrettanto. Penso che la spirale della maleducazione e della violenza, psicologica e fisica, trovi alimento anche da esempi come questi. Continuerà così fino a quando non smetteremo di far finta che le parole non siano importanti.

I

l pizzetto rossastro, i capelli arruffati lunghi e biondi, lo sguardo intenso e lontano, è con questo autoritratto fatto a 24 anni che Ignace Henri Jean Fantin-Latour (1836-1904) accoglie i visitatori alla mostra , la più completa a lui dedicata, al museo di Luxembourg a Parigi fino al 12 febbraio e poi da marzo fino al 18 giugno a Grenoble, sua città natale. Il nome dell’artista in Italia non è molto conosciuto anche se alcune delle sue mirabili nature morte ora esposte le abbiamo viste in molti libri d’arte dedicati al genere. La mostra con 150 opere tra dipinti a olio, litografie, disegni e molte delle foto, soprattutto nudi femminili che lui collezionava è una vera delizia per gli occhi e vale senz’altro la pena d’immergersi dentro per respirare un po’ quella pacata intimità che emanano. Henri Jean-Lautour arrivò a Parigi da Grenoble a cinque anni con le sorelle, la mamma russa e il babbo, docente di disegno e ritrattista la cui severa disciplina in nome dell’arte sarà determinante nello sviluppo della sua personalità. Per tutta la vita infatti Fantin-Latour inseguirà in una forma quasi mistica d’intransigenza un ideale d’arte non legato al suo presente ….ogni giorno che passa la mia visione dell’arte mi allontana da questa vita, perché

di

Remo Fattorini

Segnali di fumo Parole, soltanto parole. No, a pensarci bene le parole sono qualcosa di più e di più grande. Varrebbe la pena non scherzarci, non sottovalutarne l’uso e soprattutto l’abuso. Sarebbe sconsigliata anche la superficialità. Qualcuno ha detto che le parole sono pietre, sono finestre oppure muri. Roba da trattare con cura e da maneggiare con attenzione, anche se oggi hanno perso valore. Come si dice: contano solo i fatti e le parole le porta via il vento. In effetti di parole


17 DICEMBRE 2016 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

L

a gru occupa un posto importante in molte culture. Gli aruspici etruschi osservavano il suo volo per predire il futuro. Secondo una leggenda giapponese questo uccello vive mille anni e porta fortuna: donare una gru significa augurare mille anni di vita. Donarne mille rafforza l’augurio. Ma le gru volano anche sul Bosforo: lo dimostra A Thousand Cranes, (Asphalt Tango, 2016), appunto “mille gru”, il nuovo disco di Çiğdem Aslan. Dopo lo stimolante esordio di Mortissa (vedi n. 78), la giovane cantante kurda conferma le proprie qualità con questo nuovo lavoro ispirato alla gru, che simboleggia anche la libertà e la bellezza. Il CD alterna brani tradizionali e originali. Alcuni sono cantati in greco, altri in turco; per ciascuno il libretto riporta la traduzione inglese. La strumentazione è molto varia: chitarra, piano, violino e mandolino, ma anche Luisa Moradei moradeiluisa@gmail.com di

Domenica 11 dicembre a Badia a Settimo (Scandicci) è stata presentata la scultura Colloquium dedicata a Dino Campana e Sibilla Aleramo. Con questa opera l’amministrazione comunale ha inteso rendere omaggio al poeta che morì tristemente nel vicino manicomio di Castel Pulci e celebrare la ricorrenza del settantesimo anniversario della traslazione delle sue spoglie all’interno della badia di San Salvatore e San Lorenzo a Settimo. La scultura, posta in allestimento permanente nella piazza dei Cavalieri di Vittorio Veneto, è realizzata dall’artista Valentino Moradei Gabbrielli e si pone a coronamento di un’operazione di rinnovamento e riqualificazione che ha interessato tutta la piazza - ripavimentazione, inserimento di nuovi arredi e riassetto del verde pubblico. Il gruppo scultoreo risulta l’unico elemento emergente della piazza ma rinuncia volutamente alla centralità per collocarsi in una posizione laterale che ne consente la totale fruibilità e si pone come trait-d’union fra il vecchio borgo che costeggia un lato e un vastissimo spazio che prelude a nuovi sviluppi. Valentino Moradei Gabbrielli, nel creare questo gruppo articolato in due figure, ha voluto

Libera come la gru

bouzouki, kanun e santouri. Nel gruppo spicca il polistrumentista Nicolas Baimpas, responsabile degli arrangiamenti. La presenza di vari musicisti ellenici sottolinea i legami fra il mondo turco e quello greco. Al tempo stesso, però, il disco contiene anche influssi arabi, armeni, persiani, slavi…

Libera come la gru, Çiğdem Aslan è un’artista cosmopolita: kurda alevita nata a Istanbul, oggi inserita nell’ambiente musicale londinese, legata alla Grecia nel nome del rebetiko. Senza contare l’amore per la musica klezmer, come attesta la sua presenza nel gruppo She’Koyokh.

Il Colloquium di Dino e Sibilla sintetizzare il rapporto poetico, sentimentale e umano tra Dino Campana e Sibilla Aleramo che si materializzano, quasi emergendo dalla pavimentazione, dando vita al loro incontro spirituale, il Colloquium appunto. Un colloquio di cui è partecipe chiunque si trovi a circolare per la piazza e che attraverso la poesia offre l’occasione per riflettere sui sentimenti e le reciprocità. L’opera, pur nei suoi tre metri e oltre di altezza, si offre quasi “demonumentalizzata” a tutto vantaggio di una comunicazione di immediatezza e compartecipazione dello spazio circostante di cui recupera velatamente la centralità tramite un’asta lapidea, inserita nella pavimentazione, sulla quale sono incisi i versi dello stesso Campana. Il gruppo scultoreo si articola con agilità senza offuscare la splendida veduta del complesso monumentale dell’abbazia e le due figure, definite da un disegno compositivo che le trova in costante dialogo, si relazionano con l’ambiente quasi fossero due passanti che partecipano con discrezione alla vita della piazza, omaggio garbato alla poesia e all’umanità.


Bizzaria degli oggetti

17 DICEMBRE 2016 pag. 10

Olio

Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it a cura di

E

questa volta il piccolo, delizioso e vecchissimo, manifesto pubblicitario di Rossano ci apre un mondo di conoscenza su una ditta, toscanissima alla sua nascita ed ora sperduta, accorpata, spersonalizzata, frammentata fra spagnoli e cinesi e multinazionali che gestiscono gran parte del cibo del mondo, Bertolli. Qualcuno potrà aggiungere “vuol dire qualità!” motto di un famoso carosello degli anni ‘60. Andiamo con ordine. Piccolo cartoncino sagomato che pubblicizza il vino Bertolli, all’incirca del 1921, dal disegno particolare e moderno per l’epoca, molto grazioso, opera di Romano Di Massa, pittore, ceramista e grafico pubblicitario. Che raccontare di questa Bertolli...intanto che nel 1865 nacque, a S.Donato, paese vicino a Lucca, ad opera di Francesco e sua moglie Caterina, una botteguccia che vendeva prodotti del territorio circostante, olio, vino, formaggi.Visto il successo e l’accumulo di un piccolo capitale nel 1875, Francesco aprì in pieno centro di Lucca una Banca, piccola, che cambiava valuta e prestava soldi a chi voleva emigrare. Fu proprio questo giro di persone che si sparpagliarono per il mondo a costituire il primo tessuto per le esportazioni, questi italiani in terra straniera richiedevano e compravano il buon cibo della lontana patria. Francesco capì che per incrementare il mercato estero occorreva conoscerlo e farsi conoscere, si recò quindi a S Francisco e in seguito inviava i figli oltreoceano in viaggi di formazone prima di impegnarli nella Ditta di famiglia, uno di loro si occupava esclusivamente della Banca. Diciamo che era un grande imprenditore... antifemminista, tutti in Ditta i cinque figli maschi, le tre femmine casalinghe di superlusso. Una sua nipote, ultima sopravvissuta di quelle generazioni, ricorda come non si potesse discutere intorno a questa esclusione e le meravigliose estati nella villa di Porto Rotondo dove i vicini erano i Doria, gli Agnelli, Tognazzi, Virna Lisi .... All’ inizio del ‘900 la Bertolli era un vero e proprio impero economico, Olio, Vino, Formaggi, Esportazione, Banca...Nel 1910 venne costruito un bellissimo Palazzo, decorato secondo i canoni liberty, in centro a Lucca e altre

Bertolli dalla collezione di Rossano

Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Analisi del rating da parte di una delle più prestigiose esperte della Standard & Poor’s Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

due grandissime costruzioni vicino ad esso. Salterei altri particolari del permanere nel successo della Ditta e anche del passaggio ad altri negli anni settanta e parlerei di un famosissimo Carosello del 1960, che rimase in auge per dieci anni, Olivella e Maria Rosa. La prima una donna superperfettina, capelli cotonati all’ultima moda, trionfa in tutto quel che fa, l’altra, secchignaccola e con una crocchina demodé, che, “invidiosa come lei vuol far”, non ne indovina una. Racconti con titolo e varie ambientazioni, propongo quello in cui Olivella, in visita a Firenze, assiste compassata allo scoppio del carro in piazza Duomo, la sfigatissima Maria Rosa, arrampicata sul “Brindellone” salta in aria all’arrivo della Colombina. Ricorderanno i più “grandi” la musichetta “là là là là..tutto bene mi va” “oh oh oh oh ed invece a me no....” Alla fine la perfettina “..un consiglio ti do, tutto bene ti andrà se userai Bertolli che vuol dire qualità”. Ideazione e realizzazione di questi sketch a cura della TvKey la cui sede, a Firenze, ho visitato per intervistare la moglie del titolare, grande collezionista di bottoni. In essa esistono i macchinari per la registrazione e la proiezione di quel tempo e l’archivio storico con tutte le pizze delle produzioni. Una meraviglia.


17 DICEMBRE 2016 pag. 11 di

Rossella Seniori e Marco Zappa

I

rkutsk, la nostra ultima tappa sulla Transiberiana, è una bella città della Siberia sud-orientale, fondata a metà del XVII secolo. Vi furono deportati i dissidenti del regime zarista che avevano preso parte alla rivolta “decabrista” del 1825. Divenne presto un vivace centro culturale e commerciale. Ne sono testimonianza le bellissime case di legno colorate appartenute agli aristocratici decabristi qui in esilio e ai numerosi mercanti che vi si stabilirono e svilupparono un fiorente commercio con l’Oriente. Fortissimi furono gli scontri tra Bolscevichi e “Bianchi” che si svolsero nella zona di Irkutsk e che dettero un contributo decisivo alla vittoria dei rivoluzionari e anche qui sono molte le effige di Lenin. Terra di esilio anche per i dissidenti del regime staliniano, Irkutsk, come altre città della Siberia, si avvantaggiò dell’arrivo di intellettuali e artisti. Da tempo definita “la Parigi della Siberia”, oggi Irkutsk è una elegante città moderna che pur essendo la più a oriente di quelle che abbiamo visitato è quella di taglio più “europeo”. Irkutsk è tappa obbligata per visitare il lago Baikal e l’isola di Olkhon. Vi arriviamo con 4 ore di pulmino. Allontanandoci da Irkutsk, vediamo cambiare il paesaggio; si passa attraverso prati ondulati verdi e viola; gli alberi si fanno via via più rari, mucche e cavalli al pascolo. Alberi e totem votivi decorati con nastri colorati (lungo

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Transiberiana

le sponde del Baikal e a Olkhon il buddismo e lo sciamanesimo tibetano sono religioni diffuse). “Un paesaggio che comincia ad assomigliare alla Mongolia”, ci dicono alcuni che arrivano da Ulan Bator. E l’idea di proseguire per Ulan Bator e Pechino ci affascina. Chissà, magari il prossimo anno! Il Baikal è la riserva d’acqua dolce più grande della terra (contiene circa 1/5 dell’acqua dolce dell’intero pianeta) che si estende per oltre 31.000 chilometri di lunghezza e 630 di larghezza in parte nell’Oblast di Irkutsk e in parte nella repubblica di Burazia. Ha acque limpide e ricchissime di ossigeno e per questo è popolato da vari tipi di pesci e altre forme di vita anche nelle zone più profonde (si raggiungono 1637 metri di

profondità). Qui vive la “nerpa”, l’unica foca di acqua dolce al mondo. D’inverno la temperatura è perennemente sotto lo zero e il lago è ghiacciato per diversi mesi. Per la verità, ci dicono che il terreno a 80 centimetri di profondità è ghiacciato anche d’estate (il permafrost), ragione per cui le radici degli alberi si sviluppano in superficie e ogni cantina funziona da perfetta cella frigorifero. Traghettiamo a Olkhon. Pochissimi insediamenti abitativi. Un’unica strada sterrata la percorre per tutta la lunghezza. Ci fermiamo a Khuzhir, il villaggio principale dell’isola, dove incontriamo un turismo internazionale. Facciamo un’escursione alla punta Nord dell’isola con un pulmino assai mal ridotto. La strada passa

attraverso un parco naturale ove vive lo zibellino. Freddo, pioggia, un autista che guida molto disinvoltamente su stradelli che con la pioggia sono diventati una pista di fango. Il pulmino, tra l’altro, si guasta e gli ultimi 2 chilometri li facciamo a piedi. Ma i panorami sono impressionanti nel loro contrasto fra paesaggio siberiano e insenature di acqua azzurro scuro “mediterraneo”. Abbiamo la fortuna di vedere un branco di nerpe. La compagnia è simpatica. Con noi un francese, una giapponese, una giovanissima ragazza americana e una coppia di russi di San Pietroburgo che bevono abbondantemente e che ci offrono un cocktail di vodka e Cassis. Finiamo la giornata sotto una specie di gazebo che ci ripara un po’ dalla pioggia e ove ci offrono una zuppa di pesce calda. Pochi riescono a mangiare anche un pesce crudo da poco pescato e tagliato al momento. Ha un gusto acutissimo e può andare giù solo con la vodka. Il giorno dopo il sole splende, la temperatura è perfetta e facciamo un bel giro in battello sul lago. L’acqua è limpida, la costa è alta punteggiata di alberi. Ci fermiamo su un isolotto ove è stato recentemente costruita una “stupa”, il tempietto buddista tibetano; poi ci soffermiamo su una riva pianeggiante per godere la tranquillità del posto, i cavalli al pascolo, l’acqua limpidissima, fredda, ma che non impedisce ai russi di immergervisi dentro. Al ritorno, il tramonto sul Baikal è fantastico. Stormi di uccelli selvatici ci riaccompagnano a casa.


17 DICEMBRE 2016 pag. 12

Giuseppe Prezzolini e la strage di New Orleans

Annamaria Manetti Piccinini piccinini.manetti@gmail.com di

M

i sono ricordata di questo libretto di Giuseppe Prezzolini in occasione delle elezioni americane e delle minacce razziste di Trump rivolte ai migranti di oggi, e cento anni fa realizzatesi nei confronti degli immigrati italiani. Il giovane fondatore della “Voce” e poi il professore della Columbia University, un po’ imbalsamato nella sua stessa storia, fu comunque sempre un uomo libero e di grande curiosità intellettuale .Non è il caso qui di ripercorrere la biografia di un personaggio così noto .Ricordiamo solo che lasciò l’Italia nel 1929, da “apota” - secondo una sua espressione - cioè come “uno che non la beve”, in pieno trionfo del regime fascista, e che visse negli USA per oltre 25 anni, divenendo cittadino statunitense nel 1940 . Nel 1958, trovandosi a New Orleans quasi per caso, da quel giornalista di razza che era e continuò ad essere, gli rifrullò in mente un episodio d’ intolleranza razziale, che la città ,certamente non pacificata dopo la guerra di secessione, induceva a ricordare. Scartabellando e ricercando fra le collezioni di vecchi giornali, tornò alla luce la sanguinosa storia della strage di New Orleans, in tutto

il suo selvaggio odio razziale, per non dire tribale. I fatti furono i seguenti. Il capo della polizia di New Orleans, certo Dave Hennessey, poliziotto con le caratteristiche di un ex gangster se non avesse vestito i panni dello sceriffo - scrive Prezzolini - commise l’errore ,nella sua dubbia attività un po’ di poliziotto, un po’ d’investigatore privato, di mescolarsi nella rivalità di due fazioni di Siciliani - come venivano chiamati tout court gli Italiani - cioè le famiglie dei Provenzano e de i Matranga, che controllavano il grosso mercato della frutta in città. Sembra che Hennessey proteggesse, almeno in parte, i Provenzano. Quando Hennessey, il 15 ottobre del 1891, cadde in un agguato, e fu ferito a morte, l’accusa di omicidio ricadde ovviamente su Carlo Matranga, indicato da Hennessey stesso, prima di morire, come il suo assassino. Matranga fu arrestato insieme ad altri 20 italiani del suo giro. Ma il boss

assoldò i migliori “poliziotti privati,” ossia investigatori privati ,che dimostrarono la sua estraneità ai fatti e riuscì a farsi assolvere. Dei 21 arrestati, 16 furono portati davanti al tribunale per essere giudicati. Ma per far capire quale fosse la disposizione d’animo del pubblico e l’ambiente di diffusa violenza, un amico di Hennesey ,durante la fase istruttoria, sparò in aula e uccise uno degli imputati, cavandosela con pochi mesi di reclusione. Comunque, la popolazione tutta era convinta che i siciliani fossero colpevoli e che tali sarebbero stati dichiarati. Il processo durò 4 mesi, da novembre a marzo. “Pare che la comunità italiana - riferisce Prezzolini - o almeno quella meglio organizzata e chiamata mafia”, si fosse tassata e avesse raccolto denaro sufficiente per pagarsi i migliori avvocati e investgatori privati. Furono ascoltati 319 testimoni e tutti i Siciliani furono assolti. La sentenza fu sostanzialmente equilibrata nei confronti dei sedici imputati, ma la città non l’ accettò. Accusò i giurati di essere stati corrotti e organizzò la vendetta di popolo, secondo il principio, ben radicato negli States dell’epoca, che quando la giustizia pubblica non funziona o sembra che non funzioni, il popolo ha diritto di farsi giusti-

zia da sé. Gli Italiani furono comunque trasferiti in carcere per evitare altre violenze. Intanto la città si organizzò rapidamente per compiere la vendetta. Ci fu un gruppo di cittadini, detto dei Cinquanta, che organizzò, diresse e si prese la responsabilità ,insieme agli altri, di sostituirsi alla legge e di agire mano armata .Fu messa insieme una squadra di 25 persone che doveva entrare, ed entrò, nel carcere. Il guardiano capo aprì le celle dei prigionieri italiani e questi furono trucidati con armi da fuoco e bastoni. I pochi che riuscirono a fuggire furono inseguiti e ammazzati fuori. Dopo l’eccidio fu nominato un giurì che approvò l’azione di popolo. Quando la notizia del fatto giunse in Italia vi fu una crisi diplomatica fra Italia e Usa, ma il governo centrale americano si giustificò dicendo che non poteva entrare nelle autonomie, inviolabili, dei vari States. Conclude Prezzolini: .”Una folla è nulla di per sé. Non credete mai che una folla abbia pensato o deciso o agito: c’è sempre qualcuno che la guida e la dirige” A noi, in questo nostro tempo, verrebbe da dire “Estote parati” (da: Giuseppe Prezzolini “La strage di New Orleans”, Barion, Palermo,2013)

Intervengono all’incontro: gli

GIANNA PINOTTI

artista e curatrice della mostra

della

ARCHI TETTI nuova città FIRENZE 1944-1966

scrittrice e critico r

con il patrocinio di

MARIELLA BETTARINI

s

Residenza Johanna via Bonifacio Lupi 14 Firenze

Sabato 17 Dicembre ore 16 PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI

ROBERTO MOSI

poeta e fotografo

ROBERTO MOSI

Centro per l’arte contemporanea “Luigi Pecci”

viale della Repubblica, 277 - Prato

p

POESIE 2009 – 2016 LADOLFI EDITORE

NELL’AMBITO DELLA MOSTRA VIRGILIO E I SEGRETI DELLA NATURA

Convegno

A cura di

giovedì 22 dicembre 2016 ore 9:30 - 18:30


17 DICEMBRE 2016 pag. 13

Caccia agli anglicismi

Paolo Marini p.marini@inwind.it di

L

a lingua italiana, si sa, è popolata da un nutrito assembramento di forestierismi, tra cui molti vocaboli o termini importati dalla lingua inglese. Poco tempo fa, dopo una petizione (“Dillo in italiano”) firmata da 70 mila persone e dopo il convegno fiorentino (febbraio 2015) su “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi”, in seno all’Accademia della Crusca è stato costituito il “Gruppo Incipit” (composto da studiosi e specialisti della comunicazione tra cui Claudio Marazzini, Luca Serianni e Annamaria Testa), la cui missione è suggerire vere e proprie alternative all’uso sovente incontrollato di vocaboli, in particolare, inglesi. Mario Barenghi ha condensato una riflessione condivisibile, sull’argomento, in un articolo dello scorso giugno dal titolo (“L’italiano non è sexy”) suggerito da una intuizione dello scrittore Tim Parks. Vi afferma, in soldoni, di non definirsi un puro (si direbbe, anche: purista) in ambito linguistico e, nondimeno, di ritenere che la misura sia colma, nel senso che l’uso di vocaboli o termini mutuati da altre lingue è divenuto ormai, in molte situazioni, intollerabile. Barenghi si è domandato il perché del fenomeno e, premettendo con logica ineccepibile che “l’’italiano’ è un concetto astratto: in concreto, esistono solo gli esseri umani che parlano”, ha risposto che quello della lingua è un problema di tipo sociale - oltre o prima che linguistico. Lo spunto meriterà di essere sviluppato in un’altra occasione; qui occorre tornare al lavoro del Gruppo Incipit (che - a maggior ragione per quanto detto – elabora delle proposte e rifugge da ogni ‘autoritarismo’ linguistico, peraltro estraneo allo spirito della Crusca) ed apprezzarne i risultati concreti, con la umile pretesa che anche un non-linguista, un mero utilizzatore della lingua possa aspirare ad esporre il proprio punto di vista. Prendiamo l’esempio di ‘whistleblower’ (per Wikipedia, alla lettera: “soffiatore di fischietto”), la cui traduzione proposta è ‘allertatore civico’. Si tratta – per inciso - della più recente (il comunicato stampa dell’Accademia è del 28 novembre) sfornata dal Gruppo

Incipit, che osserva: “L’angloamericanismo, presente nella stampa italiana con qualche rara occorrenza fin dagli anni Novanta, si è ampiamente diffuso nel 2013 in relazione al “caso Snowden”. L’allertatore civico è colui che, dopo aver constatato sistematiche irregolarità all’interno dell’organizzazione pubblica o privata per cui lavora, decide di denunciare l’illecito per il bene della collettività.” Il Gruppo, prendendo atto che “la proposta di legge 1751 sul tema è attualmente ferma e non ha ancora optato per nessun termine specifico in italiano”, auspica che il legislatore voglia tenere conto della segnalazione. Nel Compact English Dictionary della Collins (edizione 2009) si definisce whistle-blower “a person who informs on someone or puts a stop to something”; su Investopedia “a whistleblower is anyone who has and reports insider knowMichele Morrocchi twitter @michemorr di

Che fra Firenze e la Fiorentina esista un legame unico, speciale, non serve essere tifosi per capirlo. Che questo però rappresenti un fatto strano per una città capace di dividersi su tutto rimane ancora un elemento misterioso, forse spiegabile con un altro tratto del carattere dei fiorentini, il loro essere totalizzanti nelle loro passioni. Esagerati. Fu così per il fascismo prima e il comunismo poi, anche se una buona parte delle élite cittadine non dimenticò mai la strada verso il Duomo o verso la Loggia. Si dirà che questo non c’entri con la squadra di pallone della città, ed è invece proprio il punto di partenza del volume scritto da Marcello Mancini e Mario Lancisi, La Fiorentina è molto più di una bistecca (Giunti, 2016), che intreccia proprio i 90 anni di vita

ledge of illegal activities occurring in an organization”. La prima osservazione è che nelle definizioni inglesi non v’è traccia del fine della ‘soffiata’. L’idea che la denuncia dell’illecito sia fatta “per il bene della collettività” pare ultronea (attributo assai ricorrente – e mi si perdonerà - nel mondo del diritto): chi può escludere che il whistle-blower agisca, piuttosto, per risentimento o, semplicemente, per ottenere un compenso in denaro o un qualsiasi altro vantaggio? Donde origina l’esigenza di evidenziare la finalità dell’azione? Forse da un giudizio di valore, che però è del tutto fuori luogo. Parimenti, e a tacer d’altro, anche la pretesa sistematicità delle irregolarità o violazioni non sembra autorizzata. La seconda osservazione concerne il termine ‘allertatore civico’: allertare (dal vocabolario Treccani on line) significa “mettere in stato

di allerta, cioè di allarme” e mi pare (uso il ‘mi pare’ per doverosa prudenza) che il concetto di allarme non sia coerente con quello di soffiata. Si pensi soltanto che l’allarme normalmente si rivolge a destinatari anche innumerevoli - ove non indefiniti -, alla stessa opinione pubblica; mentre, all’opposto, la soffiata si svolge in ambiente ristretto o riservato. Se poi si passa all’attributo, la criticità della proposta si fa anche più marcata: ‘civico’ è ciò che si correla alla città, alla cittadinanza, e pertanto ha a che fare solo con uno dei possibili contesti in cui il whsitleblowing si può verificare. In più, ‘civico’ porta con sé - quanto meno nel suono - quel tanto di buono, di edificante e di corretto che basta a farne qualcosa di nuovamente traboccante, rispetto al senso della parola inglese. Può essere d’altronde che, semplicemente, whistleblower sia intraducibile - sempre che la pretesa punti alla conversione in uno o due vocaboli e voglia evitare una locuzione più ampia. Con questo esempio si può allora levare l’auspicio che il rapporto con i vocaboli stranieri si tenga lontano tanto da un atteggiamento acritico e passivo, quanto da un opposto attivismo che assuma le sembianze di una inedita caccia il cui obiettivo non sarebbe l’uccisione della preda ma il suo improbabile addomesticamento

Firenze e Fiorentina della squadra di calcio con la vita, politica e sociale, della città. Un libro leggero, mai noioso, che però non sceglie la via facile dell’aneddoto ma affronta con la semplicità del bravo cronista passaggi importanti della vita della squadra e della città. Così Don Milani e la fiorentina yé yé si mischiano nella stagione della gioventù che si affaccia al mondo adulto, quello dove si sbagliava (ma si vinceva il secondo scudetto) da professionisti, per dirla con Paolo Conte. Un libro agevole che ha il grande pregio, raccontando le vicende della Fiorentina di questi anni, di non cadere nel punto di vista del tifoso e di fornire una ricostruzione sulla vicenda della Cittadella Viola che ho trovato tra le più accurate, con

meno pregiudizi e sincere che abbia letto, anche in testi che vorrebbero esser “seri”, in tutti questi anni. Garrisca quindi a lungo il labaro viola e continui ad unire e raccontare la nostra città.


17 DICEMBRE 2016 pag. 14 Claudio Cosma claudiocosma@hotmail.com di

I

l lavoro collocato nel locale di ingresso della Casalini Libri si evolve da una singola tavoletta pensata e realizzata nel 2015 e successivamente divenuta un modulo, inteso come la parte più piccola e quindi non ulteriormente riducibile, di un processo costruttivo. La successiva proliferazione del modulo iniziale, ovvero una tavoletta di legno medium density dal formato di 8x10x2 cm, ha fatto raggiungere all’installazione il numero di 124, di cui 100 incise e le restanti 24 a formare una interpunzione neutra e asemantica costituita da 3 serie di 8 tavolette nei colori nero, celeste e grigio/ verde cemento. Il termine grammaticale “interpunzione” è usato con funzione letterale, ne cito una definizione tratta da un dizionario: Collocazione in un testo scritto di segni convenzionali che separano gli elementi di un enunciato scandendo le pause e indicando le variazioni di tono che ne agevolano l’interpretazione. Il passaggio da significati simbolici o ideali a quelli reali e descrittivi è una costante nell’opera di Aldo Frangioni, che la usa nelle “Mappe” e negli “Alfabeti”. Anche queste serie di lavori sono partecipi, con le tavolette, del desiderio di formare delle pitture pattern infinite, ovvero di ricoprire, là dove si potesse realizzare la sua idea globalizzante, il mondo intero, come la Mappa dell’Impero 1:1 ipotizzata da J.L. Borges nel suo libro “Storia universale dell’infamia”. La similitudine con le singole lettere dell’alfabeto, che accoppiate e moltiplicate diventano parole, frasi e racconto, costituiscono la similitudine della singola tavoletta, che tuttavia non rappresenta una solitaria ed unica lettera, ma già di per se stessa contenitore di una narrazione. Le tavolette sono sistemate a formare una griglia con linee orizzontali continue e brevi linee di 10 cm, tutte nere, che scandiscono il ritmo evidenziando l’equilibrio

della composizione, offrendo come una grande tavola tipografica dei suggerimenti di lettura indirizzando l’occhio da sinistra a destra, dall’alto al basso, ma anche in diagonale, non negando una lettura o visione onnicomprensiva, concentrandosi sugli agglomerati di colore e sulla geometria della gabbia. Sarà necessario guardarla come si farebbe con l’intreccio reticolare di una città vista dall’alto o come, riducendo la visione a bidimensionale, si analizza il quadro di P. Mondrian: “Broadway Boogie-Woogie”. Così come appare, l’installazione del Frangioni assomiglia ad una tavola enigmistica o meglio ad un colossale cruciverba, e tutti gli aggettivi tratti da quello specifico mondo che gli si possono attribuire sono pertinenti e aiutano ad apprezzarne il clima misterioso, come: sciarada, rebus, indovinello, crittografia, enigma. Anche una componente oracolare è possibile: le infinite interpretazioni delle immagini possono essere simili ai responsi di una Sibilla dell’Arte che non dà mai risposte intellegibili in quanto le domande poste dai visitatori non sono mai diacroniche, ma sempre simili alle semplici

interrogazioni rivolte ai maghi, di cui le sibille sono i nobili antenati. I colori a tutto fondo delle tessere che separano i gruppi di immagini accostate per similitudini scandiscono la visione, regolandola, nelle direzioni orizzontale e verticale, senza opporre una efficace barriera alle presenti e sfuggenti linee diagonali. Questi colori rappresentano ognuno: il Nero, l’arresto, l’assenza, il vuoto abissale. L’Azzurro, l’etere, il cielo, l’acqua, una componente che sale. Il Grigio/ Verde Cemento, l’attività umana, il basso, il costruire secondo natura. Termini questi, puramente evocativi, tratti liberamente dal “Libro dei Mutamenti, l’I King”, antico testo cinese di divinazione, che servono ad aumentare la possibilità di associazioni e metafore che sempre i lavori d’arte suggeriscono. Altro elemento da prendere in considerazione in quanto di pari importanza con le parti presenti è rappresentato da quelle che mancano, in qualche modo negate alla partecipazione collettiva nell’opera, rappresentate dagli spazi bianchi, prive di lavoro di incisione e di pittura, ma altrettanto laboriose nell’inserimento. Si sapeva che questi spazi erano presenti e dovevano necessariamente trovarsi dove effettivamente si trovano, si doveva soltanto trovarli e per farlo è stato necessario

Nel nostro prossimo destino Una cosmogonia per immagini

un impegnativo lavoro fatto di spostamenti minimi e di sostituzioni che a volte comportavano il cambiamento di intere serie. La tecnica usata per rappresentare le immagini è quella di togliere, grattando con un raschietto il colore di troppo, come una incisione a rilievo. Questa procedura, lenta e meticolosa, evidenzia il desiderio di apparizione che le piccole tavole contengono, una volontà di trovare in quello che è dato, ma nascosto dal colore, similmente ad un paesaggio coperto da una spessa nebbia che diradandosi mostri, in effetti, la forma che già esisteva precedentemente. Quello che appare è dunque un sogno combinatorio delle esperienze culturali, emotive, quotidiane e sensibili dell’autore, ma allo stesso tempo un cliqué xilografico, una matrice che, inchiostrata, darebbe più esemplari dello stesso soggetto. Questa qualità intrinseca all’opera non è semplicemente una tecnica per la rappresentazione, ma contenuto espressivo, in quanto rimanda alla possibile moltiplicazione dei singoli soggetti o temi narrativi. Una germinazione incontrollabile che si ritrova in tutti i lavori dell’artista, che asseconda una fervida fantasia sempre presente in tutte le sue fasi creative. Altro elemento legato al numero e alla disciplina del metodo che lega doppiamente “Nel nostro prossimo destino” al luogo che lo accoglie, oltre all’evidente gioco che accomuna il metodo creativo, il cliqué, alla attività tipografica, è quello del collezionismo. Questo elemento, in corso di definizione, ma ben chiaro nel desiderio di migliorare l’accoglienza del luogo di lavoro, è uno dei motivi che ha fatto scegliere questo “polittico orizzontale”, che contiene in sé, attraverso il modo nel quale è installato, la completezza di una opera unica, ma anche la motivazione stessa del collezionare, essendo questa propriamente una collezione, formata da 124 elementi interpretabili come opere singole autonome con caratteri stilistici omogenei che si dispongono come una autentica quadreria in miniatura.


17 DICEMBRE 2016 pag. 15 Gianni Biagi g.biagi@libero.it di

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n convegno per l’Arte Pubblica Oggi. Un convegno internazionale per fare il punto su cosa sia, e se esista, un’Arte Pubblica e su quale ruolo debbano giocare le istituzioni pubbliche per l’Arte Pubblica. Questo il tema oggetto del Convegno che si è tenuto ieri nella grande sala della Palazzina Reale, progettata da Giovanni Michelucci, a Firenze. Un convegno al quale hanno partecipato istituzioni pubbliche, curatori d’arte, direttori di musei italiani e stranieri, con il coordinamento di Arabella Natalini, che è stata la ideatrice e l’organizzatrice del Convegno. Un modo utile per fare il punto sulla presenza di opere d’arte nei luoghi pubblici della Toscana e per dibattere sulle condizioni e sui modi per promuovere lo sviluppo e la “governance” di questo settore artistico. Il convegno è stato lo spunto per interessanti notazioni che sono venute da Chiara Conducci assessore al Comune di San Casciano in val di Pesa (comune che vanta una decennale esperienza nella presenza di opere d’arte in luoghi pubblici, come il Cervo di Mario Merz sulle mura trecentesche), che ha ricordato come solo l’arte può svolgere il ruolo di comunicare i valori della contemporaneità anche in contesti storici e di rappresentare e trasmettere i valori culturali contemporanei in un mondo che sta cambiando sotto i nostri occhi. Arabella Natalini ha ricordato come la Toscana sia luogo di importanti presenze e di interventi che hanno fatto scuola in questo settore come le installazioni di Enrico Crispolti a Volterra nel 1973, per proseguire fino a quelle più recenti in vari luoghi della regione, partendo dalla prima mostra di Henry Moore nel 1972 al Forte Belvedere a Firenze. Stefano Pezzato responsabile e conservatore del museo Pecci di Prato ha invece introdotto il tema dell’Arte Diffusa come declinazione dell’Arte Pubblica raccontando l’esperienza della città di Prato e del suo Museo che ha disseminato nei luoghi pubblici della città la collezione di opere prima “racchiuse” nel parco del vecchio allestimento museale. Un racconto, quello che si è svolto nella mattina, concluso dalle riflessioni di Valentina Gensini direttore artistico Le

Arte pubblica. Oggi Murate sull’esperienza in corso di “RIVA”, opere d’arte in rapporto e sul rapporto con il fiume della Toscana centrale. Un racconto che, insieme alla eccezionale varietà di interventi e di soggetti operanti in Toscana, ha fatto emergere anche la eterogeneità e la frammentazione dell’intervento, specie quello pubblico, nel settore. Frammentarietà che si trasforma in precarietà dei progetti sul lungo periodo e nella sostanziale difficoltà alla catalogazione e alla conservazione delle opere esistenti. Un quadro che si fa ancora più critico se confrontato con le esperienze straniere emerse dagli interventi del pomeriggio con la presenza di Magdalena Malm Direttrice Pubblic Art Agency di Stoccolma, di Vivienne Lovell Direttrice di Modus Operandi di Londra e di Charlotte Cohen Direttrice del Brooklin Arts Council di New York. Esperienze, come si deduce anche dal nome delle istituzioni rappresentate, che fa emergere un quadro di strutturata organizzazione del settore pubblico nel sostegno e promozione, oltre che di indirizzo e selezione, della Arte Pubblica in quei paesi. Certo le realtà sociali, politiche ed economiche sono diverse ma certe volte qualcosa si potrebbe “copiare”. (con la collaborazione di Arnaldo Marini)

Giovani collezionisti del Bisonte Torna la mostra di stampe per i Giovani Collezionisti di Stampe d’Arte. Progetto riservato a bambine e bambini frequentanti i cicli scolastici delle elementari e delle medie. Finanziato dalla Regione Toscana. Una mostra allestita appositamente per loro, con stampe realizzate appositamente dagli artisti del Bisonte, in un formato facilmente archiviabile e in tiratura limitatissima (ovviamente). Ci saranno le opere delle edizione passate e in più quelle appena realizzate. I Giovani Collezionisti le potranno ottenere spendendo i punti guadagnati visitando, gratuitamente, le nostre inaugurazioni, infatti le spese sono sostenute

da noi e dai nostri sponsor, o frequentando i nostri corsi. Se invece non si sono ancora iscritti ai Giovani Collezionisti di Stampe d’Arte questo è il momento buono, avranno un punto in omaggio al momento dell’iscrizione e po-

tranno spenderlo durante questa mostra; se invece sono già Giovani Collezionisti di Stampe d’Arte ma non sono riusciti a guadagnare nessun punto dall’ultima mostra ve ne sarà dato uno da spendere per le edizioni successive.


L immagine ultima

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17 DICEMBRE 2016 pag. 16

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

n altro scatto all’interno del Central Park. Stessa ora, stessa manifestazione contro la guerra. Questa giovane donna “indossa” un cartello decisamente esplicito che recita così: “1776 / AMERICA 19?? / Voi uccidete e mentite tutti i giorni, conquistate lo Spazio schiacciando i corpi degli esseri umani. IL TEMPO: NOI SIAMO IL FUTURO, Voi siete il Passato”. Purtroppo in quel momento la densità dei dimostranti si era già molto rarefatta.

NY City, agosto 1969


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