Cultura commestibile 254

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Numero

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Una figura che mi piace molto di quel periodo è quella di Walther Darré (SS Obergruppenführer che si occupò del sequestro dei beni agli ebrei e diresse l’Ufficio per la razza e le colonie, ndr), colui che si potrebbe definire il Ministro dell’Ambiente del Terzo Reich. Darré ha introdotto in politica l’ecologia, per non parlare di altri aspetti come la ricerca scientifica e anti cancro Mario Borghezio

Il nuovo che ritorna Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Due bimbi cinesi molto vivaci di fronte al portone del loro palazzo, uno di quel vecchi palazzi decisamente belli anche se in condizioni di manutenzione non proprio all’altezza. Sono rimasto colpito al mio primo impatto con loro. Ero stupito ogni volta che incontravo dei cinesi ed ero anche abbastanza curioso. Non avrei mai pensato che dopo non più di venti anni me li sarei ritrovati a Firenze come vicini di casa. La concentrazione attuale nell’area pratese è arrivata a dei livelli decisamente molto, ma molto consistente anche in rapporto alle stesse situazioni negli altri paesi europei. Grazie ai consigli “interessati” dei miei amici americani che mi hanno mollato perché non vedevano l’ora di squagliarsela, ho perso l’occasione di raccogliere immagini più approfondite di quella realtà. Mi ero riproposto di tornarci in un secondo momento, ma come quasi sempre accade in questi casi, l’occasione non si è più ripresentata.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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Bloody Gina Le Sorelle Marx

Vedi Napoli e poi muori Lo Zio di Trotzky

Lo zitello I Cugini Engels

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Riunione di famiglia

In questo numero E se un cinese avesse scoperto l’America? di Francesca Merz

Rock per il Grande Spirito di Alessandro Michelucci

Universo ritrovato di Laura Monaldi

Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi

Musicistartista di Andrea Granchi

Il mio dolore per Idy di Angela Rosi

Macbeth con la resolza di Susanna Cressati

La Caffettiera del Chianti di Paola Facciotto

Gonfienti una metropoli etrusca inter amnes di Giuseppe Alberto Centauro

I numeri e i riferimenti cosmologici duali nel Progetto etrusco di Mario Preti

Touring Club a cura di Cristina Pucci

Muscat, mille e un giardino, senza grattacieli di Andrea Caneschi

Specchi d’assenza di Simone Siliani

L’universo pensa se stesso di Gianni Bechelli

e Remo Fattorini, Ines Romitti, M.Cristina François...

Direttore Simone Siliani

Illustrazione di Lido Contemori

Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

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di Francesca Merz La Cina è vicina, mai come adesso ci pare verissimo e così falso, una cultura con la quale abbiamo a che fare ogni giorno, e che allo stesso tempo avvertiamo così inafferrabile e distante. Da dove deriva questa nostra percezione? E’ sempre stato così anche nei secoli passati? Una storia semi-sconosciuta e affascinante ci può aiutare a comprendere, dal punto di vista culturale, il diverso approccio della Cina e del popolo cinese nei confronti del resto del mondo. Prima ancora delle grandi scoperte geografiche europee, nel XV secolo, la Cina viveva il suo apice di sviluppo economico e commerciale grazie all’espansione della Via della Seta, via terra e via mare, il che aveva consentito all’Impero Cinese di progredire velocemente nella “tecnica” della navigazione. Tra il 1405 e il 1433 la dinastia Ming navigò dal Sud-est Asiatico, passando per l’Indonesia, arrivando all’India e al Golfo Persico, fino a giungere all’Africa orientale. A capo di una flotta di oltre 27.000 uomini era un ammiraglio, dimenticato dalla tradizione occidentale: Zheng He. La sua flotta era la più grande del mondo e il suo primo viaggio ebbe luogo ottanta anni prima della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo e un secolo prima del viaggio di circumnavigazione del mondo da parte di Ferdinando Magellano, il che ha dato luogo, di recente, anche ad alcune fantasione teorie, come quelle di Gavin Menzies, ex-ufficiale della Royal Navy, il quale nel suo libro “1421. La Cina scopre l’America” propone una nuova ipotesi, basata sul ritrovamento di antiche carte nautiche (ritenute dagli storiografi dei falsi moderni) secondo la quale fu proprio Zheng He a raggiungere per la prima volta le coste americane e a compiere il primo viaggio completo intorno al mondo. Aldilà di queste rivisitazioni rimane centrale nella storia della navigazione la figura dell’ammiraglio Zheng He, eunuco musulmano e ora vero eroe nazionale per Pechino. Nel 1381, quando Zheng He aveva circa dieci anni, Zhu Yuanzhang, l’imperatore Ming, inviò un’armata a conquistare lo Yunnan: Zheng He fu fatto prigioniero e costretto a diventare un eunuco. Quando Zhu Di ascese al trono decise di spedire una flotta in Occidente, per estendere l’influenza dell’impero Ming e per sviluppare

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E se un cinese avesse scoperto l’America?


le relazioni amichevoli e commerciali con i paesi stranieri. A comandare la flotta scelse Zheng He, uomo superiore per intelligenza e abilità. Dal 1405 al 1433, Zheng He viaggiò per sette volte lungo la Via della Seta attraverso l’Oceano Indiano. Ad ogni sosta nei porti stranieri, omaggiava con una visita di cor-

tesia il governatore del luogo e si impegnava in scambi culturali e commerciali con gli abitanti, rafforzando le relazioni diplomatiche con quei paesi. In ogni viaggio, inoltre, inviati stranieri si univano alla flotta per il viaggio di ritorno in Cina. Nel suo sesto viaggio tornarono con lui più di 1200 inviati da 16 paesi. Questi contatti amichevoli potenziarono la comprensione reciproca fra i popoli della Cina, dell’Asia e dell’Africa, facendo incontrare uomini e merci: la flotta di Zheng He trasportava all’estero manufatti di seta, di bronzo, di ferro, di porcellana, di oro e di argento e monete. D’altro canto porcellane cinesi sono state scoperte durante gli scavi archeologici in quasi tutte le aree geografiche toccate dalla flotta: nelle tombe e nei castelli del Kenya e della Tanzania, risalenti al XV secolo, sono stati rinvenuti piatti e vasi cinesi in porcellana. Spezie, colori da tintoria, gioielli e animali rari furono importati in Cina, i diari in particolare raccontano dell’arrivo delle giraffe insieme alla flotta di Zheng He. Infine, i sette viaggi di Zheng He verso l’Occidente ci illuminano globalmente sulla fiorente industria cinese delle costruzioni navali e sulla avanzata maestria nella navigazione durante la dinastia Ming. Ognuno dei vascelli di Zheng He era lungo 147 metri, aveva una larghezza di sei metri, 12 vele e 9 alberi con equipaggi di 200-300 marinai. Questi abili navigatori decidevano la loro direzione con l’aiuto di bussole e osservando il sole di giorno e le stelle di notte, sondavano la profondità delle acque ed esaminavano il fondo marino, il che consentiva loro di viaggiare nel burrascoso oceano con sicurezza come andassero sulla terra ferma. Si comprendono dunque facilmente le differenze che intercorrono fra le spedizioni cinesi e quelle dei navigatori europei di alcuni decenni dopo. Quando nel 1498 Vasco de Gama con i suoi vascelli apparve nell’Oceano Indiano non pochi di quegli abitanti pensarono che i cinesi fossero tornati. Ma in realtà si trattava di qualcosa di molto diverso; le motivazioni innanzitutto erano diverse: i Portoghesi, piccola nazione periferica dell’Europa. non pretendevano certo, come i Cinesi, di essere il centro del mondo; le loro intenzioni erano quelle di commerciare: piccole imprese private, sovvenzionate solo minimamente dai governi nazionali, andavano alla ricerca di fortuna al di fuori degli stretti confini nazionali. Esclusi dal Mediterraneo, in cui da sempre passavano i commerci, i Portoghesi sognavano di commerciare circumnavigando l’A-

frica, raggiungendo direttamente l’Oriente, evitando quindi l’intermediazione araba. Non volevano territori da governare ma basi navali. I Cinesi invece non avevano alcuna intenzione di aprire nuove strade non conosciute, non si diressero verso il mare che avevano di fronte, l’Oceano Pacifico, perché non vedevano nessuna utilità nell’esplorare quelle terre barbare e primitive. Per i Cinesi il motivo dei commerci, fondamentale per i Portoghesi, era abbastanza secondario rispetto a quello di stabilire la supremazia politica sull’Oceano Occidentale. Le navi portoghesi erano piccoli vascelli, la flotta cinese una specie di città galleggiante, poderosa espressione dell’Impero, ma incapace di percorrere immense distanze come le piccole navi Europee. La Cina era già stata per millenni una grande potenza, talmente convinta di esserlo da chiamare se stessa l’Impero del Mezzo (o del Centro): è questo il significato della parola Zhongguo. Questo nome sancirà il vero punto culturale di approccio della Cina rispetto alle differenti culture: la consapevolezza di partire da un Impero Celeste, massima espressione culturale, grande e da preservare rispetto al resto del mondo. E così, con l’ascesa al potere del nuovo imperatore Hung Hsi, nel 1434, venne ordinata la fine dei viaggi, che non furono mai più ripresi, si dispose anzi che non si costruissero più navi tanto grandi da poter sfidare l’Oceano. Per questa decisione, che a noi appare sorprendente, si devono considerare due cause fondamentali: una più contingente di carattere economico (le imprese costavano moltissimo), una più generale relativa alla cultura e alla politica della Cina: i cinesi erano convinti che nulla di veramente importante e utile si potesse trovare al di fuori dell’Impero, e che nulla vi fosse che non potesse essere fatto meglio nell’ambito dell’Impero stesso. L’idea comune, appoggiata dai conservatori burocrati Mandarini, era quindi che la Cina costituisse non “una” delle civiltà, ma propriamente “La” civiltà”, e che intorno a loro fiorissero principalmente enclave barbariche e seminomadi che periodicamente non facevano altro che lanciarsi contro l’Impero mettendone a repentaglio stabilità e prosperità. Fu dunque la linea di chiusura a vincere; le imprese di Zheng He costituirono un’ eccezione mai ripetuta, un’ anomalia della politica cinese, che ora lo celebra, e si domanda: chissà come sarebbe andata se quelle navi non fossero state distrutte, e un cinese avesse scoperto l’America?

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Le Sorelle Marx

Bloody Gina

Sono tempi di super-lavoro per il super-presidente Donald Trump, Dopo aver cambiato il 374° membro del suo governo, rimandando Rex Tillerson a pascolare la sua mandria di vacche nel Texas, promuovendo Gneo Pompeo Magno (in arte “Mike”) al suo posto e facendo assurgere Gina Haspel (soprannominata Bloody Gina per la sua ammirazione per Darya Saltykova, la sadica torturatrice russa del ‘700), The Donald si è fatto un bel giretto in California dove doveva sistemare degli importanti affari di Stato. In un incontro con il CEO della Bechtel, la prima ditta edile americana nel mondo, ha discusso questioni decisive per il futuro del mondo. Ecco alcune registrazioni di cui siamo entrati in possesso.

I Cugini Engels

Trump: “Hey Brendan, how are you? Ti vedo in forma, vecchio maiale. Allora, senti, io devo costruire questo wall per tenere quei puzzolenti di mexican al loro posto. But, voglio materiale molto buono: non bado a spese... tanto faccio pagare quel sorcio di presidente che hanno Enrique Peña Nieto. Understand?” Bechtel: “Of course, Mr. President. Qui ho proprio un bel catalogo e qualche esempio. Abbiamo bellissimi blocchi di pietra in tufo, molto artistici...” Trump: “What the fuck, Brendan!!! Cosa mi importa che siano belli, tanto ci devono sbattere il grugno i mexican. Bullshit! Voglio che sia indistruttibile, non beautifull!” Bechtel: “Ok Mr. President... allora avrei questo modello, che noi chiamiamo generale Grant, perché è grigio come la sua divisa: fatto di calcestruzzo...” Trump: “Cosa??? Tu dai dello strunz a me?? Fuck you, stupid asshole! IO sono Presidente, no strunz. Fammi vedere un altro modello, you

Lo zitello

“Mamma non mi vuole nessuno” si confessò il ragazzo dopo avere attraversato il corso principale del paese dove lo struscio domenicale era l’occupazione principale dei giovani e delle giovani del paese. “Eppure sono stato bravo, ho preso un bel 32,5% agli esami, sono pettinato bene, mi metto sempre la cravatta e ho un bel fisichetto” continuava il poveretto “ma nessuna delle ragazze del paese mi fila neppure un pochino. Anzi quando passo tutto bello azzimato con il sorriso sulle labbra e pronto a carpire il minimo segno di interesse -un sorrisino, un gesto dello mano, uno sguardo più prolungato di altri- sembra che si girino dall’altra parte”. La mamma di Luigino lo guardò con tenerezza. Come poteva fare a consolare questo suo figlio, cresciuto troppo in fretta nei vicoli di Napoli, che si era messo in testa di maritarsi dalla mattina alla sera solo perché aveva preso un bel voto? Ma lei lo sapeva che non era un “buon partito” per un matrimonio. Era ancora troppo giovane e poi non aveva “né arte né parte”. Aveva sì e no fatto qualche lavoretto da disoccupato cronico e anche ladovve sembrava che le ragazze lo avessero guardato un pochino (una volta aveva avuto un flirt con una livornese, si era anche fidanzato con una bella ragazza di Roma ma poi l’aveva lasciata per una signora di Torino) alla prova dei fatti era stato un disastro. Era stato troppo ondivago e incerto. Non sapeva mai che pesci pigliare. Ora che voleva fidanzarsi con una del Paese tutte lo scansavano. La mamma di Luigino lo prese fra le sue braccia e gli disse: “Coccolo della mamma non ti preoccupare devi solo diventare grande e un po’ più uomo. Le donne hanno bisogno di sicurezza. Ora dormi vedrai che domani sarai più sereno” E dicendo così gli rimboccò le coperte. Ma Luigino era tanto triste e mentre si addormentava pensò: “Vuoi vedere che rimango zitello per tutta la vita?”.

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Lo Zio di Trotzky

idiot!” Bechtel: “Ok, non si arrabbi... abbiamo questo modello che chiamiamo Michelangelo perché è in marmo di Carrara... un po’ costoso però... soltanto 1.2 miliardi di dollari... e poi ci vogliono 6 mesi per andare a prenderlo in Italia dove c’è un presidente della Regione Toscana, un certo Henry Red, che non vuole che si taglino le sue montagne e...” Trump: “What??? Un Red che non mi vuole dare le sue shitty mountains?? Fuck him too. Prendiamo altro materiale nostro: ricorda, America first!!!” Bechtel: “Allora avremmo questo cemento armato, che chiamiamo modello “Italian Mafia”: solido, si modella bene e costa poco... con un paio di milioni di dollari e... qualche mancia a un paio di padrini, ce la caviamo. What do you think?” Trump: “Fantastic, Brendan: I buy it... anzi no, mettilo in conto al sorcio Peña Nieto. And fuck the Democrats della California che non vogliono costruire il muro mettendo così a rischio i destini del mondo”.

Perdi Napoli e poi muori

Il dopo-voto nel Pd si fa incandescente e ovviamente tanto più nelle zone dove il sangue è più caliente. E’ il caso di Napoli dove, all’assemblea del Pd provinciale, è quasi finita a botte. A scatenare la bagarre è stato l’intervento dal palco di Nicola Oddati, già candidato alla segreteria provinciale sconfitto proprio da Massimo Costa e autore di un ricorso al giudice ordinario. L’intervento del sanguigno Nicola, diciamo, non ci andava di scartina: “Masìm te na aia’ andarè! Tu nun si nu’ massimò, si nu’ minimò! Tu si na’ schifèzz e’ na’ schifezzà! Cu te avimm perdùt pure e’ mutànd!” A questo punto si sono alzati un po’ di scugnizzi, qualche disoccupato storico, un nobile decaduto, tre figli di De Luca, un venditore di sfogliatelle napoletane, due falsari e un fornaio di babà e hanno cominciato a spintonarsi e prendersi a male parole. Confusi fra il pubblico pure qualche iscritto al Pd, che passava di lì per caso. Il segretario Massimo Costa cerca di riportare l’ordine dando la parola a Marco Sarracino, ex segretario dei Giovani democratici di Napoli, della corrente di Andrea Orlando, ma tanto non se l’è filato nessuno, come da tradizione. Ad un certo punto arrivano i carabinieri per riportare la calma: allora sì che è iniziato il finimondo, perché Oddati ha accusato il segretario di voler falsare i risultati dell’assemblea facendo votare i militi. Ma la risposta di Costa è stata ferma: “Nicolà, ma ca’ vuoì? In chistu partìt hannò votatò canì e porcì! pecché nun possono votarè e’ carabinierì? Avantì, si votà. Chi è a favorè e’ me? Benè, centò ppe centò. Tuttì a casa”


Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Il Paese nutre la massima fiducia nella saggezza e nell’equilibrio del Presidente della Repubblica

Segnali di fumo di Remo Fattorini Dopo il voto si riparte a parlare di riforme. Qualcuno per uscire dall’impasse propone un governo con tutti dentro proprio con questo obiettivo. Se ne parla da quando avevo i calzoni corti e siamo sempre lì. Ci si riempie la bocca con grandi progetti, ma nella realtà le cose cambiano poco, lentamente e non sempre in meglio. Il tema direbbero gli esperti è iper-inflazionato. E non scalda più il cuore a nessuno. In realtà, lo dico sottovoce, una riforma utile da fare ci sarebbe. Ma guarda caso non ne parla quasi nessuno, almeno nei palazzi del

potere. Mi riferisco alla necessità di applicare, finalmente, il principio costituzionale di uguaglianza tra i cittadini (leggere l’articolo 3 della nostra Costituzione). In realtà è proprio lo Stato, per primo, a violarlo trattando i cittadini in maniera diversa in base alla regione dove vivono. Sono cittadini di serie A quelli residenti nelle 5 regioni a statuto speciale con una capacità di spesa pro-capite 3, ed anche 4 volte superiore a quella delle 15 regioni ordinarie, abitate da cittadini di serie B. A parlare sono le cifre contenute nel rapporto della Ragioneria Generale dello Stato: la spesa media regionale per abitante è di 3.600 euro. Di fatto le regioni a statuto speciale sono tutte abbondantemente sopra: Trentino con 7.730 euro; Val d’Aosta con 7.651; Sardegna con 5.292; Friuli con 4.978; Sicilia con 4.419. La spesa dello Stato precipita, invece, sotto al media nazionale per i cittadini che vivono in Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana, Marche, Piemonte, Umbria, Puglia e Campania. Men-

tre nel Lazio, Liguria, Basilicata, Calabria, Molise e Abruzzo la spesa è, anche se di poco, superiore alla media. Differenze insopportabili e non più tollerabili. Fatto sta che mentre a Bolzano c’è la giustizia più efficiente d’Italia, in Friuli i livelli scolastici con standard superiori a quelli europei e nel Trentino servizi per gli anziani all’avanguardia, nel resto delle regioni i cittadini vivono in condizioni di inferiorità. È vero c’è anche chi spende male. Ma per questo ogni 5 anni si vota anche per le regioni e i cittadini possono mandare a casa gli amministratori incapaci. Sarebbe giusto e utile riconoscere a tutte le regioni lo statuto speciale; oppure far fare un passo indietro a quelle speciali e uno avanti a quelle ordinarie; o ancora cancellare tutti gli statuti speciali. Sarei per un’Italia federalista, con uno Stato centrale leggero e regioni autonome e responsabili. Ma se la politica continuerà a far finta di nulla perché non pensare ad un referendum?

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di Laura Monaldi Nelle opere di Andrea Chiarantini vivono segni e pittogrammi che richiamano alla memoria l’esistenza di una lingua arcaica, primitiva e primigenia, la cui purezza viene riscoperta alla luce di una nuova consapevolezza visiva, tesa a unire tempi e spazi immaginari densi di pathos e contemplazione. Il lettore dell’opera d’arte si trova di fronte a una soddisfacente fruibilità che indaga il mistero comunicativo a metà strada fra la prosa sensoriale delle immagini e l’allusione a una rinnovata creatività capace di ristabilire gli equilibri persi della coscienza sociale. Nella sintesi indissolubile di tecnica e fantasia, l’artista si muove nella riscoperta dell’armonia delle parti, del sogno e della meditazione, dalle quali fa scaturire con innegabile incanto immagini che appartengono a una incognita dimensione, attraverso una resa cromatica che riassume tutta la sua poetica e la sua carriera artistica. “Fili d’erba” e “pittogrammi” si uniscono in queste nuove opere dalla forma irregolare per ricordare lo sforzo liberatorio dell’artista

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Universo ritrovato

contemporaneo volto a emancipare le forme geometriche dalla loro bidimensionalità per porle in una dimensione nuova, ricca di significati e di evocazioni. Alla Galleria Immaginaria, dal 17 marzo al 3 aprile, Andrea Chiarantini presenta “Universo ritrovato”, una serie di insoliti parallelogrammi e dipinti graffiati da un pennello che sembra solcare la campitura colorata, per mettere in scena “Icone” astratte di un magico mondo, fatto di immagini pacificate, liberissime e in armonia le une con le altre. L’artista sembra incidere con il colore immagini inedite che svettano nello spazio dipinto, alludendo a un mondo magico di paesaggi interiori, mosso da passioni e sentimenti, presentando visioni che giocano su equilibri rigorosi riscoperti alla luce della propria irregolarità. “Universo ritrovato” è il vasto immaginario estetico che l’artista porta dentro di sé e che in questa mostra restituisce al fruitore in tutta la sua espressività, combinando il rigore dei grandi prati realizzati negli anni Settanta ai puri segni astratti che hanno fatto della sua pittura un inedito ludus di favole visive.


Musica

Maestro

Rock per il Grande Spirito

di Alessandro Michelucci La musica, come tutte le arti, non sarebbe quella che è se non fosse ricca di contaminazioni: in altre parole, di artisti che in un modo o nell’altro si sentono attratti da culture diverse. È una storia che comincia da lontano, ma per limitarci all’ultimo mezzo secolo possiamo citare l’interesse di George Harrison per la musica indiana e l’amore di Patrizia Laquidara per quella brasiliana. I casi più noti sono soltanto la punta di un iceberg, enorme ma in larga parte sconosciuto. Se lo esploriamo scopriremo numerosi episodi che pur essendo ignoti per noi hanno svolto un ruolo decisivo nella parabola artistica di molti musicisti. Un caso di particolare interesse è quello che riguarda i legami fra il rock e gli Indiani del Nordamerica. Fenomeno poco noto, si diceva, ma oggi possiamo conoscerlo grazie al documentario Rumble: The Indians that Rocked the World, che verrà proiettato al Cinema “La compagnia” il 19, il 20 e il 21 marzo. Presentato al Sundance Film Festival del 2017, il documentario diretto da Catherine Bainbridge trae ispirazione dalla mostra Up Where We Belong: Native Musicians in Popular Culture, tenutasi al National Museum of the American Indian nel 2011. Particolare importante, Up Where We Belong è anche il titolo di una canzone che Joe Cocker e Jennifer Warnes cantano nel film Ufficiale e gentiluomo. Il brano, premiato con l’Oscar nel 1983, è stato scritto da Buffy Sainte-Marie, cantante cree, insieme a Jack Nitzsche e Will Jennings. Buffy è anche l’autrice e l’interprete di “Soldier Blue”, che canta nel celebre film omonimo (Soldato blu, 1970), ispirato al massacro di Sand Creek. Molto è stato detto e scritto sul rock americano, ma quello che ha tratto ispirazione dalle culture amerindiane è stato sempre trascurato. Questo documentario colma il vuoto mettendo in evidenza che i legami con espressioni musicali più note sono meno marginali di quello che si pensa. Legami che ovviamente procedono in due

SEZIONE RESTAURO

ReCoRD

Restauro e Conservazione, Ricerca e Didattica rassegna casi studio per la didattica e la ricerca nel restauro 19 marzo | 20 aprile

sensi: americani che si sono ispirati alle culture amerindiane e indigeni che hanno collaborato con musicisti americani. Pensiamo al chitarrista mohawk Robbie Robertson, cofondatore del gruppo The Band; a Link Wray, chitarrista shawnee, autore dello strumentale “Rumble”; a Neil Young, instancabile difensore dei nativi americani. Il materiale scelto da Catherine Bainbridge alterna concerti, interviste e altro materiale d’archivio. Compaiono anche molti artisti celebri, fra i quali Quincy Jones, Martin Scorsese e Iggy Pop. Un panorama stimolante e ricco di sorprese, una storia che ci appartiene anche se molti non lo sanno. Per ovvi motivi, Rumble si concentra sul mondo musicale nordamericano (Canada e Stati Uniti). Ma sarebbe auspicabile che qualcuno esplorasse anche quello britannico: dagli Shadows di “Apache” al Joe Cocker di “Delta Lady”, dalla Keef Hartley Band a Manfred Mann, il materiale non manca. Senza dimenticare il pianista Tony Hymas, autore di quel capolavoro indimenticabile che è Oyaté.

inaugurazione lunedì 19 marzo ore 17 Santa Teresa ultimo piano via della Mattonaia, 8 Firenze

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di Susanna Cressati Come farlo ora? È l’interrogativo che percorre martellante il teatro contemporaneo. Come fare oggi (in un modo che non voglia dire semplicemente “rifare”) in questo nostro mondo così “moderno”, così industriale, così tecno, così liquido e globalizzato, un testo che appena l’annusi sa di arcaico, di pietra ammucchiata, graffita, polverizzata, di metallo graffiato dalle scintille del corpo a corpo, del rosso di vino e sangue? Oh, quanto Macbeth nella nostra vita. Dalle prime letture del testo originale (il pentolone delle streghe, le piccole mani macchiate di sangue, gli alberi che camminano). Poi infinite rivisitazioni, Orson Welles con le trecce come un barbaro, le armature stile Mazinga di Akira Kurosawa. L’erba che sa ancora di sangue tra le lapidi del cimitero della Futa. Eppure qualcosa di nuovo si può fare. Si può ancora fare un Macbeth che colpisce, che emoziona. Che non ci lascia andare in pace. Alessando Serra ha riportato in scena il nefasto re shakespeariano in una versione apparentamente ostica (dialetto sardo, senza concessioni) ma in realtà così espressiva da rendere inutili i sottotitoli, per altro quasi indecifrabili, proiet-

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Macbeth con la resolza tati sulla “mantovana” nera del palco del Cantiere Florida. Non so se il regista, anche scenografo dello spettacolo, abbia pensato ai metalli bruciati di Alberto Burri per comporre l’ambiente. Sta di fatto che il metallo brunito e il suo ripetuto clangore sono parte essenziale dello spettacolo. Come il piccolo catino smaltato intorno a cui la lady, una Circe spilungona e barbuta, chiama alla crapula i cortigiani trasformati in porci a bell’apposta perchè, stravolti dal vino, dormano senza poter testimoniare l’omicidio. Come il pane carasau sparso in larghe falde sul tavolo del banchetto e che l’ombra di Banquo calpesta lentamente, inesorabilmente, come la celebrazione di un sacrilegio. Come le maschere di sughero, che sono debitrici più alla

fantasia inarrestabile della natura che a quella degli uomini. Uomini ambigui, sinistramente ambigui. Re sanguinari e creduloni, cortigiani ingordi, streghe baffute e ammiccanti con la gonna lunga e il fazzoletto legato sotto il mento, tagliagole con la “resolza” facile ma inetta, portinai fasulli e ubriachi persi. Ecco come si può fare uno Shakespeare in sardo che si capisce in tutto il mondo. Quando gli attori si presentano al pubblico per raccoglierne gli abbondanti applausi si scopre che sono otto in tutto. Durante lo spettacolo sembravano il doppio, per presenza scenica, abilità gestuale, mobilità di portamento, espressività e ricerca vocale. Premio Ubu 2017 meritato.


vetrine d’arte vetrine d’autore

Il viaggio immobile delle piante

di Vittoria Maschietto Le piante viaggiano. Soprattutto le erbe. Si spostano in silenzio, in balìa dei venti. Si spostano con i loro pensieri, fatti di polline, polveri e filamenti sottili come capelli. Anche le onde viaggiano. Scivolano come un tappeto sulla superficie del mare. Persino i suoni viaggiano, finché il silenzio non li assorbe con il suo respiro ovattato. E viaggia anche la luce. Anzi, pare che vada più veloce di tutti e che neanche Dio sia mai riuscito a raggiungerla. Certe volte anche io mi alzo la mattina e vorrei soltanto viaggiare, andare lontano, andare via. Poi qualcosa mi frena. Devo fare colazione, prima. Lavarmi i denti. Decidere cosa mettermi addosso. Devo fare la valigia. Anzi, no. È tardi. Devo andare a lavoro. Poi dovrò prenotare un treno, forse un aereo. Dovrò decidere dove andare. Ci andrò da sola o con un’amica? Forse dovrei consultare un’agenzia, o uno di quei siti di viaggi, come si chiamano: “Avventure nel mondo”, “Viaggi avventura”? Due anni fa ero sul punto di partire per l’Honduras. Avevo trovato un lavoro in un quartiere remoto, da qualche parte nella periferia di Tegucigalpa. Mi dissero che avrei dovuto rispettare alcune regole per la mia incolumità. Che una macchina sarebbe venuta a prendermi ogni mattina. E che la stessa macchina mi avrebbe riportata a casa la sera. Tutto questo ogni giorno, per dieci mesi. Perché il tasso di criminalità era troppo alto per rischiare di fare il tragitto a piedi, da sola. Decisi che il cammino di Santiago sarebbe stato un’alternativa più che convincente. Ma quando partire? A maggio o a settembre? Meglio iniziare dal sud della Francia, o direttamente in Spagna? Suona la sveglia. D’istinto allungo la mano verso il cellulare e penso: oggi vado via. Dove? Deciderò mentre faccio colazione, mi dico. Passano pochi attimi e vengo assalita dalle preoccupazioni. E a lavoro cosa invento? Racconto che sto male? No, non io. Si è sentita male mia sorella. E se poi scoprono che ho mentito? E se poi me ne pento? E se le succede davvero qualcosa?

Accidenti, realizzo. Proprio ieri ho prenotato un treno per Firenze. È un po’ che non torno a casa. Da quando sto a Roma, non capita spesso di rientrare. Mi alzo, faccio il caffè. Mi vesto, vado a lavoro. Quella sera arrivo a Santa Maria Novella. Sono stanca, ma ho comunque voglia di fare una passeggiata. Casa mia non è distante. Devo solo prendere via della Scala, girare a destra, attraversare il ponte e poi ci sono. Non importa se lo zaino pesa sulle spalle. So che quando arriverò sull’Arno, potrò fermarmi a contemplare la città. Come è bella Firenze, anche se è buio, anche se detesto ammetterlo. Detesto ammettere che è ancora un traguardo nei miei pensieri errabondi. Anche se non ci vivo più. Anche se ancora non sono arrivata al portone di casa. Non ho neppure raggiunto l’Arno, in effetti. Ma un segnale già mi avverte che sono giunta a destinazione. E’ una bandierina rossa appesa a mezz’aria in via dei Fossi, sul marciapiede di destra. “Arrivo”, leggo, anche se sopra c’è scritto “Todo Modo”. Nella mia città, quel nome lo conoscono tutti. E’ una libreria. E la bandierina rossa, la sua insegna. Ora è tardi, la serranda è abbassata, ma so già che domani ci tornerò. Mi alzerò, mi vestirò e andrò a Todo Modo a bere un caffè, a scegliere la mia meta. A scegliere il libro al quale affidare il mio destino. Se ne sta lì, in vetrina, sotto al profilo sporgente della bandierina rossa. Si intitola “Elogio delle Vagabonde”. Racconta delle erbacce che vivono in terra. E spiega come l’uomo, i diserbanti, il cemento, i dissoda-

menti e le mille insidie del no- s t r o mondo abbiano permesso a queste piante randagie di insediarsi e crescere. Piante selvatiche, piante infestanti: oggi mi sento una di loro. Sarò tenace, dunque, sarò irremovibile, nonostante il cemento, nonostante le avversità? Farò come le piante, che restano, contro ogni previsione. Non scapperò. Gli animali scappano. Gli animali e gli umani, che non sanno cosa fare o a chi parlare. Le piante invece stanno ferme, sedimentano ed evolvono. Affondano le radici nella terra, ci entrano dentro come se fosse una storia o un libro, e anche se non voltano pagina, si voltano. Farò come le piante, che viaggiano anche se nessuno lo sa. Che stanno radicate al suolo, ma è come se corressero nel vento. Maschietto Editore – Libri d’Arte via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

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di Giuseppe Alberto Centauro Perché la Gonfienti etrusca è stata fondata proprio lì dov’è riemersa dal pantano? Una domanda questa che si è fatta ricorrente col progredire delle ricerche in particolare, dopo il 2004, con la scoperta sui Monti della Calvana di vari siti d’altura e di diffuse aree di sepoltura. A quel tempo anche il quadro conoscitivo degli scavi condotti all’Interporto si andava dilatando con nuove evidenze archeologiche messe in luce con il grande palazzo del Lotto 14. La restituzione di testimonianze e reperti di straordinaria rilevanza tratte da stratigrafie a bassa profondità 60/70 cm., determinava la necessità di nuovi approfondimenti e la prosecuzione delle indagini geofisiche fra Prato e Campi Bisenzio per stabilire l’estensione del sito (cfr. Notiziario SBAT, 1/2005, pp. 78-83). Al centro dell’attenzione era proprio “la domus di Gonfienti” che evidentemente non poteva essere disgiunta dall’abitato scavato e interrato nel 2001 e dalle “glareationes” che a NO e SE tracciavo un ampio reticolo insediativo ben infrastrutturato con strade, acquidocci e pozzi (fig. 1) Il sito etrusco di Gonfienti si trova, come evidenziato dalle indagini sedimentologiche, sopra un rialzo morfologico posto a pedecolle, oggi non più percepibile dal piano di campagna a causa dalle deiezioni alluvionali che nel corso dei secoli hanno interessato tutta la Val di Marina e l’asta inferiore del Bisenzio, ben oltre lo sbocco nella piana. Questo oblungo plateau, posto ai piedi della Calvana (a sud di Pizzidimonte), ha costituito fin dal XVI/XIV sac un sito ideale di stazionamento e di convergenza delle transumanze, legando inscindibilmente le propaggini meridionali del poggio al fertile pianoro, luogo di maggiore confluenza delle acque. L’antica vocazione insediativa è dimostrata dalle cospicue vestigia della media età del bronzo, con l’abitato e il sepolcreto, sorti dove adesso è solo il cemento dello scalo merci, in relazione coi resti di altro villaggio posto poco più a sud, a ridosso dell’arteria Mezzana Perfetti-Ricasoli. In mancanza di continuità di scavo, perdute le permanenze archeologiche, ma stante la documentazione fotografica (Carta Archeologica della Provincia di Prato, SBAT ©, 2011, pp. 335-348) risulta dirimente per dare risposta alla domanda inizialmente posta, l’analisi topografica e geo-antropica dell’antico assetto territoriale. Risalendo dalla lettura degli idronimi e oronimi attuali fino ai lemmi originari e valutando i caratteri geomorfologici, siamo in grado di stabilire un’unità geografica in grado di inquadrare le

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Gonfienti

una metropoli etrusca inter amnes

Fig. 1 – Lo scavo superstite del Lotto 14 dopo la sua messa in sicurezza (da Google Earth ©, 2017)

possibili giaciture degli antichi insediamenti. L’eloquente significato del toponimo Gonfienti (da: lat. confluentes) è ribadito dalla contemporanea presenza nel vecchio catasto di “luogo detto” Roselle (da: lat. Rusellae), come pure dell’odierno “il Rosi”. Toponimi che gli autori concordano di interpretare nel significato di “paese delle correnti”, “luogo di scorrere delle acque”. Se osserviamo la carta idrografica attuale, sovrapponendo ad essa, lo studio del paleo alveo del Bisenzio e l’antico corso della Marinella che in origine si univa alla Marina all’altezza di Gonfienti, potremo facilmente comprendere come il sito etrusco sia stato fondato tra i due fiumi “inter amnes” (lett. “fra le acque”), luogo sacro per definizione che ritroviamo nella dizione gallo romana riservata alle città maggiori, costituendo un’appendice di un ben più vasto ambito territoriale fortemente antropizzato fino all’epoca tardoarcaica, successivamente colonizzato in epoca Romana. Testimone è la grande rete idrografica del bacino, oltre lo

stesso Bisenzio (da: Visentius fl.) e l’Ombrone (da: Umber fl.), con le presenze di idronimi quali Marina e Marinella (da Mars, Martis fl.), Camerella, anche oronimo (da acc. Kamaru/ da: gr. Camars), e Chiosina (fiume della regione Chiusina) che confermano l’ascendenza etrusca dell’area dal Monte Morello alla Calvana. Inoltre i toponimi Calenzano (da acc. Kalum, lat. Clusium), nel significato di “terrapieno, riparo, argine”, come del resto indica lo sbarramento della Marina alla Chiusa, avvalorano l’esistenza a nord di Gonfienti, intorno alla conca di Travalle (da: lat. Intra vallum) di un articolato sistema antropico teo-pianificato che si erge su poderose muraglie e valli fortificati, ben servito da acque canalizzate e darsene. Questo assetto territoriale disegna un ambito di grande rilevanza ambientale e paesaggistica, tale da prefigurare la formazione in epoca etrusca di una vasta metropoli, centuriata, munita di strade extraurbane e scali fluviali in connessione con l’Arno.


di Mario Preti La dimensione del tempio etrusco era di 5x6 moduli: 5, lo spazio terreno, della natura, e 6 lo spazio ctonio (Fig.1). Infatti il tempio etrusco classico aveva un’unica fonte di illuminazione che era data dalla facciata 5 e doveva generare un effetto caverna, indicando che il culto era eminentemente ctonio. La lettura della forma di questi monumenti, ma anche della città e del territorio, si fa sempre con una coppia di numeri e proprio la dualità è una caratteristica della religione del mito: Il concetto “come in cielo così in terra” è duale, espresso come 4x5 (un rettangolo) dove la classe 4 è il cielo (4,8,16), e la classe 5 è la terra (5,10,20 ecc.). Il cortile della cosiddetta Domus di Gonfienti è proprio di 5x4 moduli (Fig.2). Se passiamo dall’architettura al territorio troviamo che questi numeri sono i divisori più importanti di 360 e 720, misure della figure della divisione spaziale come il rettangolo Bur di 360x720 e il quadrato etrusco (centuria) di 720x720 cubiti. La centuria romana sarà il suo quadruplo, di 1440x1440 cubiti (2400 piedi). Essi sono il 4-8, il 5, il 6, che formano tre classi: quella che indica il cielo, cioè un’area sacra, col 90-45; quella della terra, natura, uomini, col 72; quella che indica un’area ctonia, una necropoli, col 60-120, espressi in cubiti etruschi. Nella città gli spazi per la residenza, il commercio, il lavoro, sono divisi sulla base di 72x72 cubiti (Acnua, lat. Actus, di 36 mt) o 72x144 (Iugerum, come quello romuleo); le acropoli sono divise sulla base di 45-90 cubiti (22,5-45 mt), misure usate anche in architetture come il Tempio dell’Ara della Regina a Tarquinia; le necropoli sono divise sulla base di 60-120 cubiti; usati anche in architetture dedicate a culti ctoni, come il Palazzo di Murlo (120x120 cubiti, pari a 60x60 mt). Ne viene fuori una organizzazione della città e del territorio sempre in sintonia col cosmo attraverso riferimenti duali fra i tre mondi di terra, cielo, sottoterra. Così è organizzata la teo-pianificazione canonica etrusca. In altre culture, come la greca coloniale, troviamo chiaro il 72: la maggioranza delle nuove città greche dall’Africa alla Sicilia alla Magna Grecia, presentano divisioni di isolati di circa 36 mt di spessore, a rimarcare la presenza nel Mediterraneo di una cultura della divisione spaziale urbana dai netti contorni mediorientali. Per ultimo, fra gli strumenti del Progetto devo riportare la scoperta delle misure etrusche, che mancavano da sempre nell’archeologia: il cubito, il piede e il palmo. Nel mio studio (vedi al sito mariopreti.it) fornisco anche i rapporti certi con le misure mesopotamiche (da cui pro-

I numeri e i riferimenti cosmologici duali nel Progetto etrusco vengono) e con le romane. Voglio sottolineare che la misura è essenziale per capire l’architettura e il territorio, soprattutto per le culture antiche che rimettevano tanta importanza nella simbologia dei numeri. I progetti tornano a parlare e danno significato alle cose. Le misure per le culture antiche erano importanti non per la loro dimensione spaziale (riservata alla geometria) ma per il valore numerale che possedevano. Quindi il progetto era primariamente matematico-simbolico, non descrittivo. Nella valle dell’Arno, ho ritrovato nel Tumulo della Montagnola la più piccola misura territoriale citata da uno dei più importanti agrimensori latini, Columella, nel I sdc: si tratta del mezzo scripulum, che lui definisce “una misura antica, non più utilizzata”. È un piccolo rettangolo di 3x6 cubiti (1,5x3 mt) integrato in un ampio sistema organizzato di misure territoriali di cui fanno parte anche lo scripulum,

l’uncia, lo Iugerum, l’Heredium (tutti derivati dalla divisione per 5 del 360-720): le camere laterali del Tumulo sono esattamente 3x6 cubiti, a dimostrazione che le misure romane derivano da quelle etrusche, e del loro uso già nel VII sac fra Fiesole e Gonfienti, cioè in un’area che dimostra sempre più la sua importanza rispetto alle valutazione corrente (Fig.3). In sostanza, gli strumenti di indagine di cui mi sono dotato aprono a una lettura molto più precisa dei dati archeologici etruschi -ma anche egiziani, mesopotamici, anatolici, micenei- e sono una svolta incontestabile nella qualificazione di quella cultura, giustificando la precoce presenza nella valle dell’Arno di tanta sapienza progettuale. Gonfienti ne è un documento eccezionale. Peccato che non si è indagato di più, perché avremmo potuto avere il terzo esempio di città etrusca archeologicamente evidente, dopo Pompei e Marzabotto.

A fianco figura 1: Tempio vitruviano 5x6 schema. (CR Mario Preti La Ricerca di E). In basso a sinistra figura 2: Cortile del Palazzo di Gonfienti 4x5 moduli. (CR Mario Preti La Ricerca di E); a destra figura 3: 1/2 Scripulum nelle camere laterali 3x6 cubiti. Tumulo della Montagnola. (CR Mario Preti La Ricerca di E)

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di Paolo Marini Dal 16 marzo al 22 luglio 2018 la mostra al Palazzo Strozzi di Firenze, “Nascita di una nazione - tra Guttuso, Fontana e Schifano”, esplora artisti, fermenti e avanguardie tra il secondo Dopoguerra e il ‘68, senza la pretesa di presentare il panorama artistico dell’epoca nella sua completezza. Il curatore, Luca Massimo Barbero, ha inteso procedere “per opere e figure emblematiche di quella che allora costituiva l’alterità delle ricerche di avanguardia, e che oggi retrospettivamente rileggiamo come il territorio più fecondo e determinante ad aver tracciato una via italiana alla contemporaneità”. Via segnata da molteplicità, differenze, contrasti anche violenti; probabilmente è da ciò che ha tratto la sua energia o la sua forza, tanto da pretendersi propagata alla stessa mostra, che il curatore ha definito “non (…) una operazione di nostalgia ma di vitalità, non una celebrazione ma un atto coraggioso”. Sembrano concetti un po’ retorici, occorre poterli/saperli ritrovare nel percorso espositivo. Il primo impatto è con l’enorme tela di Renato Guttuso, “La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio” (1955), carica di un realismo mitologizzante che evoca il Dopoguerra come un secondo Risorgimento. Ma già a pochi metri “Il comizio” (1950) di Giulio Turcato propone un linguaggio altro e la sua anima è segnatamente astratta. Nelle sale successive si incontreranno opere di svariatissimo segno, anche monocrome e/plurimateriche – tra le altre “Concetto spaziale. Attesa” (1965) di Lucio Fontana, “Superficie bianca” (1968) di Ernico Castellani, con plurime minuscole estroflessioni, e “Sacco e bianco” (1953) di Alberto Burri - e vere e proprie installazioni, come la “Coda di cetaceo” (1966) di Pino Pascali. Salvo tornare poco più in là, dialetticamente, ad un registro più familiare, ancorché trasfigurato in chiave pop, con gli smalti “Kennedy” e “Krusciov” (1963), di Sergio Lombardo, “Gold Woman” (1965) di Cesare Tacchi e “Sequenza di balletto” (1965) di Tano Festa. Non mancano opere di Mimmo Rotella, Emilio Vedova, Piero Manzoni, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Mario Schifano, Franco Angeli, nomi di richiamo anche per chi non fosse propriamente un addetto ai lavori. Nondimeno è, questa, una mostra che più di tante altre esige un tempo metabolico incompatibile con l’usuale mordi e fuggi. Non si può apprezzare senza comprendere, non si può comprendere senza decifrare. Il linguaggio dell’arte moderna (non già contempora-

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nea, come giustamente specificato, essendo tutte opere che hanno almeno mezzo secolo) esige una sorta di apprendistato che insegni a cogliere, negli ardimentosi e misteriosi gesti di rottura estetica, segni di una libertà e di una sfida anzitutto intellettuali. Senza di che il rischio di vedere in certe opere soltanto ‘cose mostruose’ - un po’ come fece Palmiro Togliatti vergando su “Rinascita” un’aspra critica della Prima mostra di Arte Contemporanea, a Bologna, nel 1948 - è tuttora incombente. Se nel Dopoguerra, per l’Italia tutta, uno scarabocchio era uno scarabocchio e non si potevano spacciare per arte chiodi, barattoli e immondizie, sarebbe imprudente confidare che lo sguardo del pubblico sia oggi radicalmente mutato. E’ infine da segnalare come “Nascita di una Nazione” esalti il ‘contesto’ in un triplice senso: in primis perché propone un patente intreccio tra arte e storia, trattandosi di un’arte che spesso dialoga, sospinge e reagisce apertamente ai fatti del momento; in secundis,

perché la mostra è congegnata per esondare in un nutrito ‘fuorimostra’ che è non solo l’itinerario possibile tra istituzioni e luoghi della città (l’Accademia della Crusca, La Biblioteca Nazionale, il Gabinetto Viesseux, il Museo Marino Marini, il Museo Salvatore Ferragamo, la sede regionale RAI, ecc.) e della Toscana (tra cui le Fondazioni Michelucci e Primo Conti di Fiesole, il Museo Piaggio a Pontedera, il Centro delle Arti Plastiche di Carrara, il Centro per l’arte contemporanea “Luigi Pecci” di Prato) ma anche un ciclo di conferenze - parimenti distribuite sul territorio - per l’approfondimento dei contenuti e una scelta di proiezioni al cinema Odeon per raccontare l’epoca con i grandi registi del tempo. Il terzo contesto è dato, dulcis in fundo, dalla collocazione spaziale delle opere, che in alcune sale genera una percezione ulteriore, quella di una loro ricercata ed intimamente dialogante interazione, particolare inatteso - tutto immaginativo - a disposizione di chi lo vuole intercettare e interrogare.

Molteplicità energizzante: correnti e artisti italiani negli anni ‘50-’60


di Danilo Cecchi Lo scopo delle immagini fotografiche non è solo quello di raccontare o di interpretare il mondo, ma è anche quello di inventare il mondo. Come in ogni altro tipo di linguaggio, o di strumento espressivo, la fotografia finisce per costituirsi come un sistema complesso ed autonomo, una sorta di realtà parallela dotata di proprie regole e di meccanismi propri, che mantiene con il mondo fisico una serie di somiglianze e di similitudini, ma in cui gli oggetti e le cose cambiano di peso e di significato. L’artista visuale americano J. John Priola, nato nel 1960 a Denver, diplomato in Belle Arti al college di Denver nel 1984 e con un Master in fotografia all’Istituto d’Arte di San Francisco ottenuto nel 1987, realizza le proprie opere usando fotocamere di grande formato 10x13cm puntandole con un estremo rigore geometrico verso ambienti ed oggetti apparentemente privi di qualsiasi interesse di tipo visivo. Nella serie “windows”, composta da sedici immagini, ad esempio, mostra il riquadro di altrettante finestre illuminate, prese una per una e poste su di uno sfondo completamente nero. Non mostra quello che succede all’interno delle stanze o nelle strade su cui le finestre si affacciano, ma solo il vano della finestra, compresi eventuali tendaggi, griglie, inferriate, tendine o quant’altro completa la finestra. Nella serie “fundation vents” composta da sei immagini mostra invece le piccole griglie di ventilazione dei locali seminterrati, poste sulle pareti esterne in prossimità del marciapiede, e nella serie “weeds” composta da cinque immagini mostra i piccoli ciuffi d’erba che spuntano nelle intersezioni fra i muri esterni e la linea del marciapiede. Nella serie “weep holes” composta da quindici immagini mostra i fori di scolo o di drenaggio dei muri contro terra, anche questi fori sono posti in basso sulle pareti in prossimità del marciapiede. Un’altra serie, “numbers”, composta da dieci immagini, mostra i numeri civici di alcuni edifici, fotografati di notte ed illuminati artificialmente per essere resi leggibili contro la parete immersa nell’ombra. La serie “white walls” composta anch’essa da dieci immagini, mostra al contrario porzioni di muri bianchi, intonacati e tinteggiati, che presentano piccoli rigonfiamenti, sottili crepe, piccoli fori, chiodi sporgenti o interruttori. Non si tratta di immagini scattate a caso, ma di una selezione di immagini raccolte durante una serie di passeggiate, in diverse parti della città, o di visite in diversi ambienti, realizzate in base a stimoli estemporanei, non meglio specificati, e successivamente selezionate e scelte in funzione della “completezza” dell’opera. Il

J. John Priola Estetica del banale

mondo inventato da Priola è angosciosamente vuoto, desolato ed ambiguo, privo di profondità e di spessore, ridotto a due sole dimensioni, ed il criterio della ripetizione seriale del tema gli sottrae anche la dimensione temporale e gli conferisce una esasperante monotonia. Anche gli altri temi trattati da Priola nelle serie successive, come “horizons”, quattro paesaggi con la scena completamente nera ed una piccola striscia di cielo visibile in alto, oppure “graves”, trentadue immagini di tombe scavate per terra ed individuate da pochi oggetti decorativi o da piccoli mazzi di fiori, realizzate di notte con l’illuminazione artificiale, ed infine le quattordici immagini panoramiche della serie “farm sites” realizzate in aperta campagna nei luoghi una

volta occupati da edifici agricoli ed oggi abbandonati alla vegetazione, si basano sull’assenza di contenuti visivi pregnanti, su di una esecuzione impeccabile e del tutto spersonalizzata, e sulla serialità come elemento omogeneizzante, oltre che sull’assenza di figure umane o riconducibili all’azione dell’uomo. Immagini apparentemente prive di significati e di contenuti, e per questo aperte ad ogni tipo di significato e passibili di essere riempite di ogni contenuto. A partire dal fatto, incontrovertibile, di essere le immagini oggetti artistici, perché realizzati da un artista, e raffigurazione di temi artistici, perché individuati ed indicati da un artista. Nella più pura tradizione dell’arte (e della fotografia) concettuale.

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di M.Cristina François 28 marzo 2018: inaugurazione dei restauri della Cappella Capponi. Nella mia qualità di ex-archivista della Chiesa di S.Felicita, prima di tutto vadano i miei personali ringraziamenti ai generosi Sponsors e agli encomiabili Restauratori. Poi, considerato che è stata restaurata la cupoletta settecentesca e riportato alla luce l’originale affresco di Domenico Stagi (prima metà del XVIII sec.), si potrebbe allestire per l’occasione l’arredo devozionale riconducibile a quell’epoca e, peraltro, non molto dissimile da quello cinquecentesco, attenendosi il più possibile a quanto risulta dai documenti. Prima di accedere alla Cappella, spegnerei - almeno per questo evento inaugurale – i fari moderni che illuminano, fissi ed impietosi, l’interno di essa e le sue opere concepite per il chiarore mobile e incerto delle candele: almeno per una volta si guardino i dipinti come dovevano essere guardati al tempo loro. Restituirei alle fiammelle dei ceri l’originario diritto di far luce, ponendo al centro della Mensa i due Candelieri suoi propri e pertinenti “nei quali esiste l’Arme e l’iscrizione di Mons. Orazio Capponi” e, distribuiti ai lati di essi e sullo scalino, gli altri “10 candelabri di diverse grandezze da disporre a scalare” ‘alla romana’, così come descritto dall’Inventario [Ms.197, a.1787, redatto da Andrea Falaboni, pp.1-2]. Quanto alla “Lampada all’Altare dei Signori Capponi” [ibidem] decorata col blasone familiare e pendente dal centro della cupoletta, oggi essa non esiste più. Quanto al “Monumento di S.Carlo Borromeo [per il cui significato in situ rimando al mio articolo n.246 in “Cultura Commestibile”, intitolato “Tra Pontormo e San Carlo”, pp.20-2], esso oggi appare sapientemente restaurato compreso il tamponamento della buchetta che albergava, prima dello scasso, “una cassettina di ferro ben serrata con molte reliquie di detto [S.Carlo] e di altri Santi” esposte sotto la tavola del Pontormo nella ricorrenza del loro “dies natalis”. L’immagine di questo reliquiario inventariato dalla Sovrintendenza (scheda n.405, foto n.298026, v. fig.2) può permetterne una fedele ricostruzione. Sulla Mensa d’altare l’“Ordo Missae secundum consuetudinem Romanae Ecclesiae” (promulgato da Pio V nel 1570) recita che le to-

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Il teatro sacro della Cappella Capponi

vaglie devono essere tre e di lino (Decreto Gen. 2600): “Altare operiatur tribus mappis […] oblonga usque ad terram pertingat ab utroque latere, duabus aliis brevioribus”. Nella Stanza della Guardaroba di S.Felicita c’è solo l’imbarazzo della scelta, tante sono le antiche tovaglie in lino ricamato, sia lunghe che corte. Esse, recita sempre il Pontificale, “misticamente rappresentano il Sudario e gli altri lini con cui fu involto il Corpo del Salvatore rappresentato

dall’Altare” [cfr. Pontif. “Ordo Subdiaconatus”]. Si impone a questo punto una riflessione di Antonio Natali che interpreta il movimento dei due giovani nell’atto di calare il corpo di Cristo sulla Mensa come evocazione dell’“eterno, misterioso ripetersi d’un evento salvifico […]. La disponibilità di quel corpo [deposto sul lino dell’Altare] a essere il pane vivo per il popolo cristiano” [A.Natali e C.Falciani, “Pontormo”, Firenze, ed. Menarini, 2014, p.192]. Proseguendo nell’arredo sacro, “Al centro della Mensa un piccolo tabernacolo farà l’ufficio che gli è liturgicamente riservato, senza dimenticare un Crocefisso “assolutamente necessario per la lecita celebrazione della Messa” il quale “deve essere in mezzo ai candelabri ed in altezza sorpassarli” [Decreto n.2621] e - prosegue il Decreto - “se non è possibile per la struttura dell’altare, tener la Croce fra i candelieri è concesso collocarla sopra il tabernacolo, ma non mai dinanzi all’usciolo del medesimo”, eccetto per ostendere le “Reliquie di prima classe”, cioè quelle della S.Croce (v. fig.1) [Decreto n.4136] oltre che del Redentore. Anche un Messale col suo leggio non dovrà mancare sull’Altare, ma non il sontuoso Messale per le grandi Feste di Natale e Pasqua, realizzato dall’orafo Meyer nel 1704 ad uso esclusivo dell’Altar Maggiore di questa Chiesa. Nell’ipotesi ricostruttiva di questo ‘teatro sacro’ all’interno della Cappella, sarebbe significativo da un punto di vista teologico inserire - in assenza dell’originale, nella sua primitiva forma rotonda, quale paliotto d’altare - una riproduzione della “Madonna col Bambino” del Pontormo attualmente presso Palazzo Capponi delle Rovinate. Non ci sembra opportuno, inoltre, immaginare un tappeto, nel rispetto del chiusino rotondo inscritto e posto al centro del pavimento. Infine, sostenuto da una base a stallo, dovrebbe essere presente ai piedi dell’Altare un quadretto con S.Girolamo o il Sacro Cuore di Gesù, come attestato da documenti coevi.


Musicistartista

Pensieri per Daniele Lombardi

di Andrea Granchi Con profondo dolore e costernazione dobbiamo registrare la prematura scomparsa di Daniele Lombardi (Firenze, 1946), pianista, compositore, docente, artista visivo e multimediale, uno dei rappresentanti più singolari, attivi e incisivi nel campo della ricerca musicale e artistica contemporanea internazionale. E’ stato capace di coniugare, come pochi, le sue capacità di pianista esecutore con una particolare forma di scrittura musicale che egli volle sviluppare negli anni, creando una personalissima trasposizione dei suoni in partiture di forte ideografia, trasformando la notazione musicale in un disegno visivo da “suonarsi con gli occhi”. Inaugurò così quel suo modo intelligentissimo di scrittura che lui denominò “Notazioni di fatti sonori che l’esecutore ricrea nella propria immaginazione” la cui presentazione pubblica avvenne per la prima volta al Festival “Autunno Musicale di Como” del 1972. Per tutta la vita, con grande coerenza, ha sviluppato questo rapporto, per lui imprescindibile e inseparabile, tra suono e immagini visive producendo, in oltre cinquant’anni, un imponente catalogo di composizioni, eventi visivi e sonori, disegni e rotoli dipinti, video, registrazioni sonore, dischi e importanti realizzazioni plastiche basate su sue partiture (la Porta Sonora, Villa Celle, 2016). Notissime le sue Sinfonie per 21 pianoforti che egli, per lo SMAC (sistema Metropolitano per l’Arte Contemporanea), eseguì e fece eseguire negli anni ’90 in luoghi eccellenti come il cortile degli Uffizi a Firenze, il Palazzo Fabroni a Pistoia, il Pecci di Prato ma anche in importanti capitali all’estero in varie e prestigiose circostanze. Come raffinato interprete pianista è stato uno dei massimi esecutori di composizioni del Futurismo italiano che ha contribuito a far conoscere e apprezzare in tutto il mondo e di cui ci ha lasciato l’approfondito saggio Nuova Enciclopedia del Futurismo musicale (Milano 2009). Profondo e appassionato anche il suo lavoro di studioso, organizzatore e coordinatore dell’avanguardia musicale a Firenze (Grossi, Cardini, Bussotti, Chiari...) di cui ha redatto un’approfondita cronologia in Attraversamenti. La musica in Toscana dal 1945 ad oggi (Firenze 2002). Significativa anche la sua attività di direttore e fondatore di riviste di musica contemporanea (“La Musica”, 1985 con Bruno Niccolai) nonché di direttore arti-

stico della “Casa Editrice Musicale Edipan” di Roma con la quale ha pubblicato, in edizioni discografiche, rarità musicali, dal barocco al contemporaneo, chiamando importanti artisti contemporanei ad arricchire i libretti di accompagnamento con opere e disegni originali. Per l’antica e fraterna amicizia che ci ha sempre legato fin dalla nostra adolescenza e che ha visto anche, tra noi, una forte collaborazione

Adunanze dell’Accademia delle Arti del Disegno, presentò, in prima assoluta, l’inedito Miroir 4 (2010). L’ultima uscita assieme con lui fu al Museo Marini con la prima assoluta del suo pezzo polistrumentale e visivo “Miroir 5. Le campane di Firenze” per flauti, due violini, pianoforte, percussioni e video, brano dedicato ad Alessandra Marchi Pandolfini, in cui mi chiese di realizzare l’articolato video integrati-

artistica in più circostanze, non posso prescindere da alcuni vividi e incancellabili ricordi personali: come le sue sensibili esecuzioni delle Ballate di Chopin, a 16 anni, di cui conservo gelosamente i nastri da me registrati. Tra le collaborazioni più mature realizzò nel 1975 al Museo di Capo d’Orlando (ME) un sonoro improvvisato al pianoforte sul mio film “Della Presenza” (film oggi perduto) e tra il 1985 e l’88, per i suoi “Il cuore a Gas” e “Amor d’un’ ombra e gelosia d’un’ aura” al Teatro Ghione a Roma, volle utilizzare, come scene, mie maschere e film d’artista. Ancor più di recente lo volli con me per “Traiettorie città delle Arti” un progetto che intrecciava eventi musicali e arti visive ed in cui, proprio nella Sala delle

vo (2014). A lungo docente di Conservatorio e professore Ordinario della Classe di Pittura dell’Accademia delle Arti del Disegno, Daniele Lombardi, con la sua scomparsa, lascia un vuoto profondo e probabilmente incolmabile nella vita culturale e artistica fiorentina, italiana e internazionale. Ci mancherà la sua presenza affettuosa, la sua disponibilità a condividere, la sua voce e il suo appassionato, acuto e instancabile contributo in favore del binomio artemusica che ha visto in lui un protagonista ineguagliato. Il mio affettuoso e commosso abbraccio va alla moglie Loretta Innocenti, autorevole anglista, che ha accompagnato e condiviso per una vita intera l’evoluzione umana e artistica di questo inimitabile musicistartista.

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di Andrea Ponsi

Mappe di percezione

Downey Street

Una corta stradina dalle parti di Haight-Ashbury, Downey Street si arrampica sulla collina quasi cercasse un punto da dove abbracciare il panorama di tutta la città, dall’oceano a North Beach. Downey street è una strada alberata e ogni albero è diverso. Anche ogni casa è diversa: tutte però al massimo tre piani. Alcune hanno il tetto piano, altre a capanna e disegnato come un piccolo tempietto. Nel timpano triangolare, dietro una piccola finestra, vi è l’attico, la stanza più alta della casa, la più intima, quella che un tempo faceva da deposito ma che spesso è trasformata in un’ accogliente cameretta dove a malapena si sta in piedi, e solo al centro. Le facciate delle case sono un carnevale di colori, una fantasia lignea di bovindi, abbaini, terrazzini, logge di entrata, colonnette, legni intagliati, balaustre. A volte le facciate sono rivestite di scaglie di legno sovrapposte di forma quadrata o a semicerchio, altre volte da sottili assi orizzontali o da pannelli incorniciati come armadi di altri tempi. Una fessura piccolissima divide ogni casa da quella adiacente. E’ un taglio netto, altissimo e profondo quanto l’intero edificio. Non esistono pareti in comune. Suppongo che questa separazione dei volumi sia dovuta a ragioni sismiche, all’americanissimo desiderio di individualità e al bisogno di lasciare autonomia a ogni casa non solo di scegliersi lo stile che gli pare ma anche la libertà di essere abbattuta e sostituita a suo piacere. Ma non ci cade mai niente in quello spazio stretto pochi centimetri? Non ci rimane mai incastrato un gatto che cerca di acchiappare un animale? Chi pulisce l’interstizio? Chi lo lava? Vecchia Berkeley

Mi trovo nel giardino di una villa suburbana di Berkeley costruita intorno agli anni ‘20: il prato , in leggera pendenza, è dominato da tre altissimi redwoods: dicono che abbiano almeno trecent’anni. Ognuno è composto da due o tre tronchi rossastri che si staccano dal suolo come frecce scoccate verso il cielo. L’esterno della casa è un tappeto di “shingles”,

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San Francisco

ovvero scaglie di legno sovrapposte, anch’esse rossastre come i tronchi dei redwoods. L’edificio ha un aspetto ottocentesco con bovindi, fioriere alle finestre, portico e tetti spioventi punteggiati da camini in laterizio; vengono in mente Bernard Maybeck, i fratelli Green, il Bay Region style, i tempi andati quando gli architetti avevano colletti inamidati e cravatte a farfallina. Lo stile Arts &Crafts è ancora più evidente nell’interno. Modanature e rivestimenti in legno scuro prevalgono sul resto delle pareti bianche e lisce. Soffitti a cassettoni, caminetti, scale con robuste ringhiere, anch’esse in quercia scura. Poi abbaini, grandi stanze, piccoli spazi di collegamento, tanti armadi, mensole e, dovunque, parquet a spina di pesce. Questa casa è la perfetta immagine della vecchia Berkeley, quella nata a cavallo tra i due precedenti secoli. A rinforzare l’atmosfera inizi Novecento, tra gli alberi, a distanza di un paio di isolati, si scorgono i tetti bianchi del grande Claremont Hotel. Il Claremont Hotel, monumento del favoloso passato locale è stato, chissà perché, dipinto di bianco; forse per farsi notare ancora di più, come se, fantastico castello in Shingle Style,

non si notasse già abbastanza. Qui la casa intima, privata, poco più in là l’hotel, una montagna candida, innevata, con terrazze pubbliche, piscine, solarium, saloni, bar, ristoranti. Il Claremont Hotel è una vera città in miniatura. Come in un cristallo o in una forma organica, ogni singolo elemento architettonico sembra derivare per partenogenesi da altre forme simili: tetti a capanna incastrati in altri tetti a capanna, abbaini sopra altri abbaini, torri accanto a torri, cupole e cupolette e, infine, un alta cuspide con una poderosa bandiera americana. Questo concentrato di forme urbane emerge tra palme altissime, eucalipti piangenti, querce, aceri rossi. Bianco e gioioso, il Claremont Hotel non trasmette un senso di soggezione o magniloquenza. E’ monumentale ma anche familiare; il suo volume, sebbene dominante, non incombe, proprio perché spezzettato in una infinità di volumi minori. E’ un edificio aperto, calmo, solare. Si differenzia comunque dai contemporanei Grand Hotel d’ Europa, suoi cugini d’oltreoceano: è qualcosa di più rustico, simile semmai a un albergo di un parco nazionale. Simbolo di un tempo andato è l’icona presente dell’America che fu.


di Gianni Bechelli La scienza non ha mai amato molto che si speculi su i suoi risultati o sulle sue teorie o ipotesi; ma vedo che ora più che qualche scienziato, sulla base delle nuove incredibili esperienze sulle quali l’umanità è chiamata a riflettere, si interroga su grandi quesiti. Il richiamo è attrattivo, ma anche rischioso per il proliferare di ipotesi e teorie, ed è probabile che prima o poi si troverà almeno temporalmente una sintesi sufficientemente stabile. Ora siamo in campo aperto con rischi anche di spettacolarizzazione , come avviene per tutto, appena il tema diverrà più attrattivo (e qualche segnale già c’è in questo senso). E tuttavia un punto mi sembra significativamente acquisito: il recupero del pensiero (che ovviamente c’è sempre stato nella ricerca, ma carente di una propria consapevole soggettività per paura di cadere nella metafisica) e della sua centralità nella ricerca scientifica che ha avuto, nel meccanicismo e nell’empirismo, il suo protagonista nell‘era moderna, che lo ha messo in un ruolo di disvelatore e ordinatore del mondo, per trasformarlo ora anche in quello di un protagonista-compartecipe della creazione della realtà che ci circonda. Si badi bene, non è la vittoria dell’idealismo sull’empirismo e il materialismo, anzi sono proprio quest’ultimi che hanno reso possibile una nuova avventura scientifica e culturale che ha superato vecchie contrapposizioni: è un nuovo campo di discussione culturale che si apre. Il “cogito ergo sum” di Cartesio fondava l’unica certezza nel pensiero, ma divideva la realtà in res cogitans e res estensa e non riusciva a produrre poi un a riunificazione credibile. No, qui non si tratta di un mondo diviso tra materia e pensiero per poi stabilire una gerarchia: se è utile qualche riferimento culturale ci vedo semmai la sostanza unitaria divina di Spinoza e l’immanentismo del suo Deus sive Natura e cioè, detto molto sommariamente, Dio e Natura come la stessa cosa. Il pensiero, nella scienza attuale, è prodotto e produttore di un Cosmo dalle possibilità infinite, noi stessi siamo, in fondo, l’universo che pensa sé stesso e si disvela a sé stesso, in una delle sue possibilità, grazie a noi che lo osserviamo e lo viviamo e lo riflettiamo. Non siamo, perciò, altro da ciò che osserviamo, ne siamo parte essendo fatti della stessa sostanza di ciò che osserviamo. Il tutto si collega in modi a tutt’oggi misteriosi, ma si collega. Il ruolo dell’osservatore cambia l’approccio scientifico e l’interpretazione della realtà. Le incursioni, che vanno di moda, di una parte della scienza, nelle filosofie orientali, lo Shiva danzante e creatore e distruttore cosmogonico simile ad

una forza fisica, il Brahma, Il Taoismo, assunti a metateorie sull’attualità delle nostre scoperte scientifiche, mi paiono suggestive, a volte anche molto, e tuttavia penso che la religione ha questo di bello, che puoi trovarci quello che stai cercando a prescindere ; del resto, la creazione biblica dell’universo è così poco rispetto all’uovo cosmico orientale ? e l’atman é così più vicino alla spiritualità scientifica di una religione che ha fatto nascere Dio come un uomo di carne e ossa ? Non è mia intenzione difendere la religione cristiana, che mi interessa certo come fenomeno culturale, ma nemmeno mi piacciono le semplificazioni modaiole. E’ vero che in occidente il cristianesimo è stato sinonimo di oscurantismo anche fanatico e a volte sanguinario, e questo l’ha diviso dalla scienza, ma alla fine è qui che nasce la scienza

moderna e contemporanea, non da altre parti. E in questo forse qualcosa c’entra, nonostante la volontà della gerarchia ecclesiastica, anche l’ umanesimo cristiano. Kant aveva separato Dio dal cosmo dicendo che non è lì che andava cercato, e su questo si è retta la scienza moderna e laica. Forse questo non basta più. La risposta non mi spetta e non sarei in grado di darla, anche se penso che forse si comincia ad avvertire la necessità di una qualche forma di spiritualità laica, senza nessuna necessità teologica e religiosa, ed è in fondo ciò che certa scienza cerca nelle religioni orientali, meno vincolanti dottrinariamente. In uno sforzo di ottimismo cito il coro dell‘Antigone di Sofocle: ”delle molte cose mirabili la più mirabile è l’uomo”. La scienza oggi sembra confermarlo. La storia assai meno, purtroppo.

L’universo pensa se stesso

19 17 MARZO 2018


Bizzarria degli

oggetti

Dalla collezione di Rossano

Touring Club

a cura di Cristina Pucci Nel parlarvi dell’acquisizione da parte di Rossano di alcune vecchie e complete annate della rivista del Touring Club Italiano, avevo promesso di raccontarvi qualche “novellina” tratta dagli interessanti e, oggi, bizzarrissimi articoli che in esse compaiono. Sfoglio il 1910. Intanto leggere queste attempate riviste da come la sensazione di vivere in diretta la Storia. Nel numero di marzo si trovano descritte le “Ferrovie Metropolitane” di Parigi,

NewYork, Londra e Berlino, l’articolo è corredato da foto delle loro piantine e di stazioni e percorsi sotterranei nella fase di costruzione. Sentite come l’autore presenta la città. “Si sono formate nel mondo poche agglomerazioni umane che hanno un formidabile potere di attrazione su tutta la restante umanità. Ivi l’attività degli affari, il concentramento

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dei poteri pubbici, dei mezzi di studio, delle tradizioni storiche ed artistiche, l’abbondanza dei piaceri e degli svaghi richiamano a folla le genti o per un temporaneo soggiorno o per la stabile dimora”... Ammiro l’eleganza della prosa, esauriente e ricca di parole desuete, “ivi” e “a folla” davvero inaspettati ed impagabili! Noi, oggi, in una città non grande nè dotata di metropolitana, ci lamentiamo del traffico e del caos e invece sentite “Chi abbandonando un silenzioso paesello, viene per la prima volta in una grande città -il cuore gonfio di speranze, la mente ingombra di sogni- è colpito prima di ogni altra cosa dal diverso ritmo di vita che vi si conduce. Nel paesello gli parea che tutto fosse fermo; vi si viveva lentamente, pacatamente. Qui tutto si muove: pare che gli edifici stessi, gli stessi alberi, il suolo delle vie corrano dietro alla ridda delle

persone e dei veicoli. E gli uomini hanno un modo di camminare che non è o non appare consueto, i loro garretti paiono forniti di molle e sembra che qualche cosa li sospinga sempre....” (il garretto negli umani è la parte posteriore della caviglia) “e questo moto che al nuovo arrivato da quel senso di vertigine da tutti avvertito, si accentua a misura che si passa da una grande città ad altra più grande. Parigi si muove più di Milano, Londra più di Parigi, Nuova York più di Londra”...”muoversi vuol dire fare, creare, agire, produrre...Il bisogno di questo moto che è l’essenza stessa della vita nelle grandi metropoli, ove tutto richiede attività, prontezzza, rapidità, ha fatto sorgere i più perfezionati mezzi di comunicazione.”... Io trovo tutto ciò molto romantico! Ai tempi pesca e soprattutto caccia erano attività sportive tenute in gran considerazione, praticate alla grande e, la seconda, da ricchi, nobili e Altezze Reali. In molti numeri, sia all’interno che in copertina, pubblicità ai fucili Beretta, in evidente assenza di animalismi fanatici. Orbene, Edoardo VII, Principe di Galles “In mezzo al rigido puritanesimo della Corte di sua madre Vittoria, fu giudicato un giovane di facili costumi ed eccessivamente dedito ai piaceri....i viaggi, le corse, la caccia, i giuochi tradizionali l’ebbero campione infaticabile ed ammirato, dentro e fuori i vasti confini del materno dominio.” Appena sedicenne fu ritratto in costume scozzese con fucile e prede ai piedi. ..”ebbe campo in seguito, specialmente nel famoso viaggio che egli fece in India, di procurarsi le maggiori soddisfazioni venatorie.” Grande sterminatore di cervi, tori, cinghiali, tigri ed anche un elefante imbizzarritosi. L’enorme orso da lui atterrato a S. Pietroburgo, imbalsamato e “adattato a sopportare con una zampa un braccio a due lumi e con l’altra un grande nécessaire per fumatori” stazionava nel salone di una delle sue residenze. Il Principe era anche provetto ballerino e “quantunque avesse 35 anni, (sic!) meravigliava il sesso gentile per la straordinaria resistenza.” In ogni fascicolo pagine di moda, tenute da caccia, da tennis e da viaggio per signore, improponibili direi, sempre e comunque sottanoni e lunghe gabbane. I cappelli, sia pure enormi, sono belli.


di Paola Facciotto I ponti di Firenze hanno tanti aneddoti e curiosità quanto è lunga la loro storia. Tutti conosciamo qualcosa sul Ponte Vecchio, sul Ponte alle Grazie o sul Ponte Santa Trinita ma poco o nulla sul Ponte San Niccolò o meglio sul ponte preesistente il secondo conflitto mondiale. Quando fu costruito tra il 1836 ed il 1837 questo attraversamento si chiamava San Ferdinando in onore del padre dell’allora Granduca Leopoldo II. L’ opera di costruzione fu affidata alla società francese dei fratelli Marc e Jules Seguin, famosi ingegneri esperti nella progettazione di ponti metallici e che contemporaneamente eseguirono la costruzione del gemello S. Leopoldo poi sostituito col Ponte alla Vittoria nel secolo successivo. La ditta francese operò in concessione riservandosi il diritto della riscossione di un pedaggio per 104 anni. Ma la vita del S. Ferdinando fu breve, l’alluvione del 3 novembre 1844 se lo portò via! Fu ricostruito allora con una più semplice struttura metallica nel 1853 ma anche questa non era molto solida ed allora dal 1890 ci fu un nuovo ponte con nome San Niccolò, a travate di ferro, capace di ben sostenere il passaggio della “Tranvia del Chianti”. Questa via ferrata partiva da Piazza la Croce (l’odierna Piazza Beccaria); il variopinto convoglio, rosso per la prima classe debitamente riscaldata nel periodo invernale da contenitori di zinco riempiti di acqua bollente posti sotto i piedi dei passeggeri, e verdi per la seconda, dopo aver attraversato il ponte San Niccolò si inerpicava sbuffando sul Viale dei Colli alla folle velocità di 20 Km/h. La “Caffettiera del Chianti”, così chiamata dai fiorentini, arrivata all’incrocio con Poggio Imperiale scendeva fino a Porta Romana per accogliere i passeggeri d’Oltrarno e quindi risalito lo stesso viale imboccava a destra Via del Gelsomino realizzata proprio per far passare il convoglio. Il viaggio proseguiva lentamente attraverso Galluzzo, Tavarnuzze, Falciani dove la ferrata di divideva in due tronchi, uno arrivava fino a San Casciano Val di Pesa, l’altro a Greve in Chianti; un viaggio che durava più di due ore! Inaugurata il 12 marzo 1890 con trazione a vapore ebbe da subito un grande successo fino al 16 settembre 1907 quando la linea fu elettrificata fino a Tavarnuzze. Qui i passeggeri dovettero da allora scendere e proseguire con la vecchia “Caffettiera”.

Ma il peggio arrivò durante il conflitto ‘15’18 quando per la scarsità di rifornimento di carbone o lignite spesso i passeggeri furono costretti ad andare nei boschi a tagliar legna per riuscire ad arrivare a destinazione. L’alto costo di manutenzione e l’inizio nel

1917 di regolari corse su gomma della ditta SITA che percorreva lo stesso tragitto in circa mezz’ora decretò il lento ed inesorabile declino del servizio su rotaia e il 25 aprile 1935 fu effettuata l’ultima corsa della gloriosa “Caffettiera del Chianti”.

La Caffettiera del Chianti

Foto di

Pasquale Comegna

Corpi di marmo Musei Vaticani

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di F.B. Sabato 17 marzo alle ore 12,00, Quadro 0,96 a Fiesole, Via del Cecilia, 4 presenta due recenti opere di Virginia Panichi: Horomaki. La narrazione di Virginia segue un filo sottile, il significato nascosto ed implicito che il lettore può scoprire tra la semantica delle sue immagini, o decidere di fermarsi piacevolmente all’ estetica della forma. Un’ arte questa che richiede talvolta una lettura dei simboli, del gesto e dell’espressione di volti e corpi femminili, che abitano paesaggi che richiamano moderni ‘capricci’. Quest’immagine si muove agli antipodi, se da una parte ricorda il classicismo nella veduta alle spalle della donna, nella sua posizione all’ interno dell’arco/tabernacolo, dall’altra ha un eco post-apocalittico. Il pesce gronda un liquido nero e tossico che macchia il corpo e la veste; il volto è nascosto da una sorta di benda, un filtro che cela l’identità perché tutti siamo potenziali fruitori o colpevoli di questo scenario. Sospesa sul palmo della mano una pietra in levitazione che torna spesso nei lavori di Virginia, l’ appartenenza alla terra madre che ci presta la sua energia per vivere, e che un giorno dovremo restituire e tornare a lei. Un immagine forte questa, che ci racconta di quanto poco rispetto abbiamo per la nostra casa e per la vita e ci offre uno sforzo di riflessione empatica, anche solo per un istante.

Horomaki, naturam nisi Dei

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Oman

Muscat, mille e un giardino, senza grattacieli

di Andrea Caneschi Muscat, la capitale, con i suoi edifici eleganti, bianchi o ocra, si distribuiscono lungo le strade segnate da giardini curatissimi, pieni di fiori. Non ci sono grattacieli a rompere l’orizzonte; le sedi dei ministeri e di alcune rappresentanze estere si azzardano ad imporsi con volumi complessi, ma mai eccessivi, in equilibrio con le belle ville e villette che ci accompagnano lungo il percorso e che ci raccontano di un benessere diffuso e di una ricchezza che si esprime sempre con moderazione e rispetto delle tradizioni, anche nelle forme architettoniche, che pur modernissime richiamano continuamente la passata potenza araba dei tempi in cui il Sultanato dominava Zanzibar e le coste africane di levante. A Muscat visitiamo due spettacolari testimonianze dell’opera di ricostruzione di una identità nazionale ancorata alle tradizioni omanite, ma aperta alla modernità, entrambe volute e finanziate dall’attuale sultano Qaboos Bin Said, come un dono al suo popolo, che ricambia – sembra di capire – con rispetto ed affetto. La Grande Moschea di Muscat, inaugurata nel 2001, si impone per la purezza delle linee architettoniche e per l’eleganza degli spazi, oltre che per il lusso degli arredi e per le decorazioni degli interni: granito locale, marmo di Carrara, rivestimenti in legni pregiati, mosaici raffinati. La pressione di un folto gruppo di turisti in crociera, ci costringe a rimandare la visita, ma ci lascia apprezzare intanto dall’esterno la vastità del complesso, separato dalla strada da un vasto spazio a giardino con un grande parcheggio, e circondato da una muraglia merlata, nello stile delle antiche fortezze del deserto. Quando riusciremo ad entrare, il giorno successivo, potremo passeggiare tranquilli nell’ampio giardino che circonda la moschea vera e propria, attraversato da viali pavimentati in marmo e granito e rinfrescato da eleganti fontane che sgorgano su pavimentazioni in marmo decorate ad intarsi. Pochi turisti, giovani donne che studiano all’ombra degli alberi, vicino alla grande biblioteca della moschea, grande silenzio. La luce del sole, in un cielo di un azzurro purissimo, è ammorbidita dall’ocra degli intarsi che decorano i marmi e i graniti dei pavimenti e delle strutture verticali e danno spessore e movimento alle arcate

che separano i cortili davanti alle sale di preghiera. Sequenze di archi arabescati, decorati con scritte e motivi tratti dalla architettura dei palazzi arabi di Spagna, inquadrano un sottile minareto che si innalza verso il cielo; donne in nero passeggiano nel cortile di marmo lucido: la ricchezza del petrolio non si è allontanata troppo dalle tradizioni del passato, componendo un mondo che pur nella evidente ricchezza diffusa non ha rinunciato alla sobrietà e alla modestia dei costumi della gente del deserto. Intravediamo una civiltà musulmana accogliente, ospitale, moderata anche e prima di tutto nella sfera religiosa e delle relazioni sociali, rigorosa nelle proprie tradizioni e nelle abitudini civili, ma rispettosa della diversità delle fedi e dei costumi altrui, diversità che viene accolta, chiedendo altrettanto rispetto. La stessa ricchezza e lo stesso splendore delle architetture e degli arredi lo ritroviamo nella Royal Opera House, lungo la Sultan Qaboos, la grande strada che attraversa tutta Muscat. Teatro dell’Opera, ma anche Centro Culturale per la promozione delle arti musicali in Oman e nel mondo arabo – Muscat è stata Capitale Araba della Cultura nel 2012 – , si innalza costruita in granito locale su di una ampia piazza in marmo, lucidissimo come in nessuna delle nostre case sarebbe probabilmente possibile, moderna, ma indubbiamente legata alla cultura araba, eppure destinata ad ospitare le grandi compagnie teatrali mondiali, come un ponte ancora una volta tra la cultura del passato e una modernità non subita. Anche qui legni pregiati, preziosamente intarsiati, volte decorate con motivi della tradizione araba, lusso ed eleganza, ma anche modernissima funzionalità della sala concerti, con le poltroncine dotate di schermo digitale per la lettura dei libretti d’opera, un palcoscenico enorme, ulteriormente ampliabile a spese delle prime file di platea con un ingegnoso meccanismo di piani scorrevoli, spazi di servizio a misura di tanta dimensione. E ancora una volta ci sorprendiamo per la pulizia che regna dappertutto, nei bagni, nei corridoi, negli spazi all’aperto, continuamente monitorati e mantenuti da personale addetto; pulizia peraltro richiesta a tutti i frequentatori, quasi ovunque in Oman, da perentori cartelli che minacciano provvedimenti ai trasgressori, sostenendo in tale modo una diffusa disposizione del popolo omanita

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di Simone Siliani Esce, per i tipi di Interlinea e promossa dal Festival di poesia civile città di Vercelli, la raccolta poetica di Faraj Bayrakdar, “Specchi dell’assenza”, grazie alla pulita e forte traduzione di Elena Chiti. Bayrakdar è poeta siriano e scrive queste sue poesie dal carcere in cui è stato recluso dal regime degli Assad, padre e figlio in una tragica continuità generazionale, “La scrittura in carcere, per me, è stata un atto di resistenza alle condizioni asfissianti della detenzione”: così l’incipit della “Storia di questo libro” che introduce la raccolta, scritta a Stoccolma nell’agosto 2017. Non ho potuto fare a meno di pensare ad un altro poeta del carcere, Alexandros Panagulis, della cui vicenda giudiziaria e umana abbiamo visto di recente una pregevole riduzione teatrale diretta da Giancarlo Cauteruccio al Teatro Niccolini di Firenze. Stessi baffi, stesso orgoglio, stessa passione per la libertà, quella profonda. Bayrakdar scrive che “...per fortuna la libertà che ho trovato in me era più forte delle prigioni in cui mi sono trovato. Insomma, la scrittura era un atto di libertaà”. E’ noto che Panagulis scrisse nella prigione di Boiati i suoi poemi migliori sulle pareti della sua cella o su pezzi microscopici di coperta, spesso con il suo stesso sangue in assenza negata di carta e penna. Tra il 1997 e il 2000, gli ultimi 3 anni dei 14 trascorsi in carcere, Bayrakdar scrive queste poesie e, alla liberazione, le invia al Ministero della Cultura siriana per chiederne la pubblicazione: la stessa forza interiore, sfrontata certezza della poesia, con cui Panagulis riconosceva e combatteva il potere che lo processava e lo condannava, pretendendone eguale riconoscimento di nemico. Alla fine sia Panagulis che Bayrakdar scelgono la poesia, quella che abbatte i muri e scioglie menti e cuori marmorizzati dalla dittatura, come arma indistruttibile contro il potere. Perché se il carcere consiste, in realtà, nel privare di senso la vita del carcerato (“Contro il senso./ Tutto qui è/ contro il senso” e poi “Di chi è il funerale Vecchio?/ chiedo e mi allontano./ Del senso, Figliolo”), allora la poesia è la ricostruzione di un senso alle cose, che spalanca le porte delle prigioni (“che abbiamo dentro”, avrebbe detto Doris Lessing), Una poesia, dunque, di battaglia, per quanto leggera, istantanea e con non pochi richiami alla tradizione: “E le mie poesie dicono di me/ quanto la freccia/della preda/a cui è sca-

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gliata”. E’ certamente poesia politica, quella di Bayrakdar, perché non può esservi discorso più politico che non quello sulla libertà- Talvolta è anche poesia militante: “Grazie caro Dittatore/il tuo discorso mi fa ridere/neanche fossi il figlio di tuo padre/ anzi/del precedente dittatore”. Ma è prima di tutto una poesia sulla fede, un giuramento sulla libertà: “un giorno/berrò la libertà/ fino in fondo” e ancora “non c’è canto/che non sia di libertà” fino al sogno “Tra un anno o due/dieci o venti/la libertà si metterà/la minigonna/e mi accoglierà”. Un poesia che affonda nella tradizione poetica e letteraria del mondo arabo. Elena Chit, che oltre ad essere raffinata traduttrice è profonda conoscitrice della letteratura araba, in un ampio articolo pubblicato sul mensile “Poesia” del marzo 2016, ritrova queste radici nella “padronanza perfetta dell’arabo letterario, declinato fin nelle sua varianti più classiche, attraverso riferimenti alla poesia preislamica o alla produzione abbaside, ed echeggiato talvolta in componimenti che ripropongono le sonorità della mistica sufi”. E, infatti, il ripresentarsi di continuo nelle poesia di Bayrakdar di figure poetiche di quella tradizione, come le ali, le colombe dalle ali spiegate, lo fanno immaginare anche a noi lettori digiuni di questi studi. Ma non si può non riflet-

tere che mentre in occidente la poesia di impegno civile è in regressione e comunque sembra essersi distaccata da decenni dalla tradizione poetica occidentale, è proprio nei paesi della “periferia” (ma, poi, se vi è una periferia deve esservi un centro che, però, ormai non esiste più nel mondo globalizzato) che possiamo ritrovare la passione e la militanza politiche (Bayrakdar viene arrestato perché appartenente al partito comunista siriano) e la profondità della poesia che non se non è dato dall’appartenenza politica, certamente con essa convive con risultati poetici notevoli. Nel già citato articolo, Elena Chiti si sofferma sulla poesia carceraria nel mondo arabo, che resta tutta ancora da scoprire e che – ne sono sicuro – ci darà la poesia viva e libera di questo secolo. E Bayrakdar ne è uno dei più potenti interpreti, in quanto poeta della libertà. Come lo fu, trent’anni prima, Alekos Panagulis: Se per vivere, o Libertà / chiedi come cibo la nostra carne / e per bere / vuoi il nostro sangue e le nostre lacrime, / te li daremo / Devi vivere

Specchi dell’assenza


Firenze ha due macchie di sangue indelebili sulla sua mappa cittadina: piazza Dalmazia e ponte Vespucci. Macchie di vergogna, rabbia, dolore e tante lacrime che si allargano invisibili su di noi che allibiti e increduli guardiamo la pazzia insinuarsi nell’animo umano. Sabato scorso sono andata sul ponte Vespucci per chiedere perdono a Idy ma, Idy, puoi perdonare un simile atto? Un fiorentino voleva suicidarsi e invece ha ucciso te con tre colpi di pistola, l’ultimo alla testa. Idy sei stato sfortunato a trovarti nel posto sbagliato e nell’ora sbagliata eppure hai preso il treno da Pontedera per venire qui a vendere la tua merce come ogni giorno, ma non potevi sapere che non saresti mai più tornato a casa, mai più avresti sorriso, mai più abbracciato. Ora il tuo volto sereno ci guarda, perdono Idy perdono. Quello che provo è un immenso e profondo dolore, le lacrime mi appannano la vista, immagino la tua vita faticosa ma anche felice perché il tuo sguardo è buono e il sorriso inonda il tuo volto, Idy perdono. Al mio fianco un uomo piange, d’istinto la mia mano tocca il suo braccio per avere un contatto, per dirgli che anch’io soffro anche se Idy non l’ho mai conosciuto. Istintivamente vorrei abbracciare uno ad uno questi uomini tuoi connazionali, smarriti come smarriti siamo tutti noi. Non abbraccio nessuno, per pudore, per timidezza o altro ma guardo la foto, i fiori e leggo le tante scritte andi Ines Romitti Ci sono luoghi che attraggono, raccontano la loro storia, stimolano evoluzioni, trasformazioni e usi virtuosi. Come l’area dell’ex Cnr di Scandicci dove, in un glorioso passato, si coltivava una preziosa collezione varietale di piante da frutto sperimentali. Messa a dimora, a scopo di ricerca negli anni ‘50, dal fondatore del Centro di propagazione delle specie legnose, il professor Morettini ordinario di Coltivazioni Arboree della Facoltà Agraria e Forestale di Firenze, è rimasta a lungo abbandonata. Oggi l’area è entrata nel mirino dell’Amministrazione comunale impegnata nella volontà di recuperarla e restituirla alla collettività. Nel 2017 la giunta ha coinvolto l’Associazione Ong non profit di volontariato culturale, Le tribù della terra, che, con la collaborazione di esperti e scuole, ne ha ricevuto in uso una parte, accessibile da via Pantin, tra il castello dell’Acciaiolo e la foresteria ex Cnr, verso via Galilei davanti al Polimoda. L’Associazione, specializzata nella ricerca colturale di specie autoctone e

Il mio dolore per Idy che di bambini, di persone che ti conoscevano e di persone, come me, che non ti hanno mai visto. Il dolore è tanto ed è trasversale, la sofferenza non ha colore o nazionalità è universale, il pianto appartiene a tutti gli uomini della terra senza distinzione, ci accomuna come la morte e la nascita. Idy perché? Mormoro una preghiera nella mia lingua. Le preghiere non hanno religione e lingua arrivano tutte al Cielo e arriveranno anche a te Idy perché ora sei anima leggera che non soffre più e ci proteggerai anche se ti abbiamo ucciso. Il tuo assassinio è la sintesi di un periodo di campagna elettorale che ha usato l’immigrazione come capro espiatorio, seminando odio e paura. Colui che ti ha sparato è folle o no ma ci deve far pensare a quanta rabbia e livore abbiamo dentro e a quanto siamo infelici. La comunità Senegalese la ricordo sin da bambina: pacifici, sorridenti, dignitosi e spesso colti, i senegalesi a Firenze ci sono sempre stati ma adesso hanno paura, chi li difenderà? Le istituzioni? Un governo di destra e populista? Chi? Noi che amiamo la nostra città e tutte le etnie che ci sono a chi dobbiamo dare la nostra fiducia? Quest’ultimo periodo è stato segnato da violenze inaudite contro innocenti, Macerata, Firenze per non parlare degli atti fascisti e razzisti in altre città italiane e la sinistra come se niente fosse continua a dividersi aspirando solo al potere. Io sono arrabbiata, sconcertata

e addolorata perché le aperture e la caduta dei muri hanno portato solo intolleranza e violenza. Mi sento impotente di fronte a tutto ciò e il mio piccolo contributo è dare voce ai miei sentimenti affinché siano riflessione e aggregazione. Per dire vedo, sento, parlo e la mia solidarietà è per tutte le minoranze, dico no alla violenza, al razzismo, al fascismo e al populismo perché sabato scorso, dopo essere stata sul ponte da Idy, non ho saputo “godermi” l’ inaugurazione di due mostre d’arte, una parte di me è rimasta sul ponte con lui. Niente a senso, neppure l’arte che per me è vita, se non rispettiamo noi stessi e i nostri simili. Bianchi, neri, rossi, gialli, a pallini o a righine non fa differenza, tutti siamo esseri viventi.

Foto di Maurizio Berlincioni

di Angela Rosi

Tulipani nell’ex-CNR di Scandicci promotrice di interventi per il miglioramento scientifico e culturale del territorio, ha ideato un “progetto – evento” che prende vita dalla partecipazione e condivisione dei cittadini. Specifico per il luogo, Wander and pick, individua, nella messa a dimora di oltre 200mila bulbi di 65 rare varietà di tulipani e narcisi, una straordinaria occasione di Arte ecologica che da aprile inizierà a fiorire, strutturando lo spazio in una decina di gigantesche pennellate multicolori. Un’idea che, con la macro tessitura di fasce allineate ai filari del vecchio pomario, attrae, stupisce e aiuta la narrazione in senso contemporaneo del patrimonio ambientale. Grazie alle variegate fioriture e all’immersione nel sito - si potrà liberamente guardare, ascoltare, annusare, passeggiare, cogliere fiori... - viene stimolata la percezione del territorio legato all’agricoltura, alle tradizioni e alla terra. Gli esotici tulipani, che evocano antiche passioni anche in Toscana, sono una coltivazione stagionale e possono lasciare in futuro il posto ad

altri fiori autoctoni e specie indigene toscane per dare sviluppo e interesse al settore della floricoltura. Si potranno poi valutare evoluzioni culturalmente e socialmente innovative e la scelta di varietà diverse in sintonia con la passata “tradizione” scientifica del luogo, perseguendo nel recupero delle numerose varietà del pomario e nella ricerca di nuove piante sperimentali da coltivazione biologica. L’evento partecipato mira inoltre a ripensare l’idea del progetto dello spazio aperto non come un’esperienza conservativa statica, ma come una realtà dinamica collettiva, basilare per elaborare la storia e la memoria, dove le azioni paesaggistiche fortificano la coesione sociale e l’identità di questo luogo, che emana energia magnetica e può rappresentare il fulcro per lo sviluppo futuro di nodi strategici della città. Apertura dal 1 Aprile: gratis per le scuole da lunedì a venerdì ore 10 – 13; al pubblico tutti i gg ore 13 - 18 e ogni we ore 10 – 18, per sostenere il Progetto, 3 € per 2 fiori. www.wanderandpick.it

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1982 Carlo Cantini a New York

Museo di Arte Moderna

26 17 MARZO 2018

di Carlo Cantini


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