Cultura commestibile 165

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

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N° 1 AlÏ dagli Occhi Azzurri uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri

Profezia Pieri Paolo Pasolini

Idomeni 2016 Foto di Claudio Gherardini editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Filippo Polenchi filippo.polenchi@gmail.com di

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a natura di Purity, ultimo romanzo di Jonathan Franzen, si offre generosamente alle rassicuranti etichette, tanto che Goffredo Fofi ha definito il lavoro «frigido e sterile» (su «Internazionale»). Saremmo in presenza di una macchina romanzesca implacabile che però mai scandaglia gli abissi, che mai suggella con ‘definitività’ le tematiche che affronta (la coppia intellettuale, WikiLeaks, il rapporto padri e figli, le frustrazioni, i social media), ma soltanto si enuncia narcisisticamente. Penso che in Franzen le cose siano piane soltanto in apparenza. Cos’è l’identità? Intorno a questa domanda si costruisce l’architettura del romanzo, con un movimento di detection che ha nel progressivo svelamento della storia e dei suoi retroscena uno dei punti più gustosi per il lettore. Purity, soprannominata dickensianamente dalla madre Pip, cerca l’identità del padre sconosciuto, nella speranza che possa risolverle più di un problema economico. Su questa strada s’imbatte in Andreas Wolf, carismatico whitsler tedesco di segreti informatici installatosi con il suo Sunlight Project in Bolivia. E così Pip incontrerà Tom Aberant, giornalista americano con una ex-moglie complicata. Ma torniamo alla questione centrale. Wolf dice: «La mia teoria è che l’identità consiste di due imperativi contraddittori […] C’è l’imperativo di tenere i segreti, e c’è l’imperativo di rivelarli. Come fai a sapere che sei un individuo, distinto dagli altri? Tacendo certe cose» (p. 311). L’identità si costruisce su una tensione impossibile da sciogliersi? Di fatto tutto il romanzo è giocato su rapporti binari, su combinazioni (e dunque anche su rapporti di forza e di potere) tra 0 e 1. Pip-Penelope. Andreas-Annagret. Tom-Leila. Tom-Anabel. David-Anabel. Pip-Andreas e così via. Perfino uno dei temi principali – quello di padri, madri e figli – s’iscrive in questo cerchio: una coppia (padre e madre) genera un terzo

Franzen sente le voci

(il figlio), il quale poi si scopre in cerca di una ricomposizione dell’unità, non già quella familiare, ma quella identitaria. Quando un terzo elemento, l’altro, irrompe nel rapporto necessario e naturale dei “due” ecco che il modello dinamico va in frantumi, l’ordine diventa disordine, il privato si fa politico. I social media sono un osceno altro contro il quale rovina la fragile unità dell’Io. «[...] la persona privata ridotta a una generalità pubblica: a quel punto la persona poteva anche essere già morta» (p. 526). Tutti i personaggi sono scissi; la stessa protagonista Pip/Purity vive la contraddizione del


Da non saltare

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doppio nome, come una marca schizofrenica e benché sia ancora validato l’equivoco di un Franzen ‘narratore onniscientÈ , basta adoperarsi nella lettura di questo romanzo polifonico per capire che le cose non sono così semplici. Nelle sette parti che compongono Purity le voci recitanti sono differenti l’una dall’altra, così come diverse sono le focalizzazioni. L’identità, che per Franzen – homo americanus illuminista, East Coast e liberale, intellettuale e consapevole – è sempre unità, integrità, pulizia, purity, è soltanto un’apparente conquista. Ogni approdo è provvisorio. L’astrattismo concettuale dell’autore – che usa solo termini assoluti e ideali per i suoi ultimi romanzi, dalle Correzioni alla Libertà alla «purezza» - si scontra con la frustrazione e infatti il romanzo è disseminato di atti mancati, di desideri sciagurati e auto-impedimenti. Frustrante è anche la battaglia fra verità e menzogna, che è poi

Incertezza e verità in Purity

un modo per definire gli scontri realtà vs. ologramma, analogico vs. digitale. Dai documenti della Stasi nella Germania Est ai leaks del Sunlight Project, dalla celebre rivista «Harper’s» all’online «Denver Indipendent». Non è un caso che il personaggio più squilibrato dell’intero parterre tenti di filmare il proprio corpo millimetro dopo millimetro. Il

corpo in via di smaterializzazione (dal somatico all’ideale, di nuovo) cerca di riappropriarsi di se stesso. La sessualità, per quanto spesso inibita o vendicativa e generalmente mai goduta appieno, è il campo sul quale si gioca molto di questa riconquista. Insomma la verità, che potrebbe essere benissimo il titolo di un futuro romanzo di Franzen,

latita. Le voci messe in campo non sempre sono sincere e su tutto permangono dubbio e sospetto. Cos’è l’identità, allora? Forse da un eponimo – se non addirittura il vero laureato – del Grande Romanzo Americano la chiusura su una domanda aperta, che non esclude la speranza, è il meglio che possiamo aspettarci. E trovare.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx C’è maretta in casa Guidi-Gemelli, come si desume dalla registrazione di questa telefonata. “Pronto, Federica? Buongiorno luce dei miei occhi, tesoruccio dolce, come stai oggi? Ti ricordi, vero amore, quello che ci siamo detti ieri?” “Senti Gianluca, brutto profittatore incontentabile, ma perché non te ne vai un po’ al diavolo? Ma per chi mi hai preso, per una sguattera del Guatemala? Io, caro il mio ciuffo ribelle, lavoro; mica come te che stai a fare il pappagallo da mane a sera con belle donne e VIPs!” “Ma, piccioncino mio, perché ti inquieti così? Dai, che ti fa male, poi ti vengono le guanciotte rosse e ti si arruffano i capelli! Fai la brava, sù”.

Affari di famiglia

“Oh stronzo, piccioncino lo dici a quella arpia della tua ex moglie. Te l’ho detto anche ieri sera, la paghetta mensile non te l’aumento: che me li vai tutti a sputtanare in spritz i soldi che guadagno io!” “Ma no, Chicca, dai: lo sai che sono parsimonioso: avevo fissato con Marchino Carrai di andare al circolino di Greve in Chianti a giocare a biliardino e mi mancano un po’ di spiccioli. E poi, a lui gli dici sempre di sì, che pure è brutto e piccino; mentre a me che ho così fluenti i capelli e son Gemelli (nota la rima!), non mi dai nemmen due lalleri?” “Ti do un pugno in faccia, ecco quello che ti do, scialacquatore dei

guadagni altrui! E poi Marchino fa il presidente degli Aeroporti Toscani, mica il farfallone come te!” “Sei cattiva e perfida, Federica! Allora non ti parlo più e separo i nostri conti correnti” “Fai quello che vuoi, tanto il tuo conto è vuoto come la tua zucca, tonto!” “Ah sì, allora sai che c’è? Le camicie le porto a stirare alla mia mamma, ché tu non sei capace e me le lasci sempre con le grinze!” “Eh certo, vai da mammina, vai! A farti rimboccare le coperte. Bamboccione! Ma non venire più a chiedermi i soldi per la benzina: Total, Shell o altro, da domani vai alla pedona!”

Le avventure di Nardellik Dopo la riunione segreta fra il Leader Minimum e il Servitor Cortese sulle sorti delle grandi opere pubbliche a Firenze la situazione era precipitata. Il Governo (nonostante il Leader Minimum) aveva dato il via libera al tunnel Tav che il nostro Leader Minimum proprio non voleva fare. Un classico conflitto di interessi. Ma si poneva un problema. Come fare per non sconfessare il Leader Minimum? Mica si poteva dire che aveva sbagliato! Il Leader Minimum non sbaglia mai.Ci voleva Nardellik Ed ecco che Nardellik ha la grande idea. Facciamo tutto. Perchè dobbiamo scegliere fra il tunnel Tav, il tunnel del tram sotto il centro storico, il tram sui viali? Facciamo tutto e non se ne parli più. Anzi il nostro Supereroemascherato, sotto le sembianze di Stefano da Signa (signorotto di un paese satellite di Sottofaesulum), mette in fila anche le altre grandi opere che faranno il vanto della città. Ecco l’elenco completo in possesso di Cultura Commestibile: -Funicolare fra piazza Pitti e il Forte Belvedere,

-Teleferica fra piazza Poggi e il Piazzale Michelangelo, -Scale mobili fra San Niccolò e San Miniato, -Tapis Roulant fra la Stazione Ferroviaria di SMN Novella e Piazza del Duomo (così il trasporto del pubblico-che non è il trasporto pubblico ma ci va vicinoraggiunge anche il centro), -Micrometropolitana, -Linee tranviarie per Tavarnuzze e Greve in Chianti, per Campi Bisenzio, per Sesto Fiorentino, per Bagno a Ripoli, per Fiesole (per non dimenticarsi delle periferie) -Nuova pista dell’Aeroporto Amerigo Vespucci con il mantenimento anche dell’attuale (i classici voli incrociati), -Sistemazione delle Mura con un camminamento pedonale da porta San Frediano al Forte Belvedere, -Pista ciclabile e pedonale da Pontassieve a Signa (utile per il jogging del Leader Minimum durante il relax domenicale). Per il prossimo anno può bastare....

Lo Zio di Trotzky

Il conflitto di classe del governatore Rossi

Scrive il governatore Rossi sul suo facebook (un luogo che lui pensa come una vecchia pagina di Rinascita e che invece assomiglia al bar della Casa del Popolo) il primo aprile, dopo le dimissioni del ministro Guidi. “[…] ritrovarmi come ministro dell’industria un esponente nazionale di Confindustria mi ha sempre fatto una certa impressione, perché fin dall’inizio c’era un oggettivo conflitto di interessi che poi è esploso”. Ora, aldilà del merito sul ministro Guidi e i suoi con-

flitti d’interesse, quello che risalta è che il post (ma in generale le riflessioni di Rossi) non citano mai il ministro Poletti, che dalla guida delle coop rosse passa al ministero del lavoro, in modo ancor più diretto e manifesto della Guidi. Dunque il problema per Rossi non è il conflitto d’interesse ma quello di classe. Un ministro industriale non va bene, quello cooperatore non crea problemi. D’altra parte Rossi, pur stando nel PD, non perde occasione per definirsi un comunista, anche

quando scrive un post con sotto l’effige del PSDI di Saragat, il cui anticomunismo, fu genesi e motore. In Rossi del socialismo democratico e liberale non alberga nessun respiro, soltanto una funzionale ripulitura di simboli, nella prosecuzione del togliattismo d’accatto che tanto male ha fatto agli ex comunisti. Un guazzabuglio ideologico che fatichiamo a definire e comprendere ma che appare funzionale a lui e soprattutto al renzismo che vorrebbe, a parole, combattere.

I Cugini Engels

Il signor Schmidt va alla guerra

Nella Galleria degli Uffizi scatta l’allarme alle ore 15 e 34 minuti: vengono avvistati pericolosi intrusi nelle sale dalla 19 alla 23, una colonia di zecche invade il museo fiorentino. Fin quando governavano quei pappamolli di storici dell’arte italiani era una partita persa, ma ora comandano i tedeschi e il feldmaresciallo Elke Schmidt ha calzato l’elemetto e ha comandato in prima persona le operazioni belliche: “dal primo avvistamenten della zecca alla chiusura della sala 19 ci sono voluti zolo 19 minuten; ho controllato io stesso questo pomeriggio. La decisione è stata presa da me”. Dalla situation room – trasformata in un bunker a prova di parassiti - si è capito che la causa erano i piccioni e si è iniziato subito con l’artiglieria pesante. Schmidt ha guidato personalmente, con sprezzo del pericolo, gli attacchi con il fattore “arancio” per sterminare le zecche. Poi è partito l’attacco ai piccioni facendo alzare in volo i potenti Stukas della Luftwaffe con bombe al fosforo. Alle ore 15 e 45 minuti, tuttavia, le operazioni erano ancora in corso e i tenaci pennuti italioti non accennavano ad arrendersi. Allora, il comandante Schmidt ha scatenato una tempesta di fuoco e acciaio con l’arma segreta, i Messerschmitt Bf 109, o meglio il Falco peregrinus, ed è stato le sterminio. Alle ore 15 e 53 l’operazione era conclusa e il comandante Schmidt poteva telefonare al caporale Nardella: Liebe Darien, ancora una folta, ja, noi tedeschi afere dimostrato a foi italiani nostra supremazia nei cieli e in tera. Nostri falchi afere ridicolizzato vostri puzzolenti e merdosi piccioni. Ora, davvero, inziamo a cambiare verso. Heil Darien!”


2 APRILE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

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a questione della proprietà intellettuale delle immagini fotografiche, questione di per sé piuttosto complessa, anche a causa della natura bizzarra delle fotografie, che per definizione sono “tecnicamente riproducibili”, in un numero infinito e con variazioni infinite, anche partendo dallo stesso negativo, si è complicata ulteriormente con l’arrivo della fotografia digitale, dove non esiste nessun “negativo” di partenza, ma solo un “file di immagine”, impalpabile ed etereo, facilmente copiabile, manipolabile e riproducibile, disponibile ad essere moltiplicato e spedito in rete, virtualmente ovunque ed in maniera istantanea. In realtà la questione è molto più antica, ed affonda le sue radici nella Venezia di metà Ottocento. Lo svizzero ticinese Carlo Ponti (1823-1893) arriva a Venezia negli anni Quaranta dove apre in Riva degli Schiavoni una bottega di ottico, affiancando ben presto a questa attività la vendita ai turisti dell’epoca di vere fotografie con le più classiche fra le “vedute veneziane”. Le fotografie che Carlo Ponti stampa e mette in vendita provengono da fonti diverse, alcune sono realizzati da lui stesso, altre vengono realizzate per suo conto da alcuni fotografi veneziani, come Antonio Fortunato Perini, o da pittori che si improvvisano fotografi, come Domenico Bresolin. Mentre Carlo Ponti monopolizza il mercato “turistico”, ed accanto all’attività commerciale sviluppa anche alcune invenzioni ottiche, destinate all’osservazione delle fotografie, abilmente dipinte e ritoccate con effetti prospettici, di rilievo e verosimiglianza, come l’aletopscopio brevettato nel 1861 ed il più grande ma analogo megaletoscopio, arriva a Venezia, dopo quindici anni di viaggi fra Europa, Asia e Nordafrica, un altro fotografo di nome Carlo Naya (1816-1882). Se in un primo momento il nuovo arrivato si mette a disposizione dell’altro, dopo un feroce litigio decide di aprire nel 1868 un proprio studio in Piazza San Marco, ed il successo della sua iniziativa è tale da eclissare la “bottega” del rivale. Carlo Naya è un uomo di cultura, appassionato di arte e di archeologia, ha una laurea in

Carlo contro Carlo giurisprudenza presa a Pisa nel 1840, ha imparato a fotografare a Parigi, e nel corso dei suoi viaggi si è fatto le ossa come fotografo, arrivando ad aprire con il fratello uno studio a Costantinopoli nel 1845. Date queste premesse, le immagini di Carlo Naya si dimostrano molto superiori a quelle messe in vendite da Carlo Ponti, il suo archivio, che arriva ben presto a superare gli ottomila negativi, è molto più ricco ed articolato, ed il suo negozio diventa il luogo di ritrovo e di discussione di artisti, letterati, intellettuali e, naturalmente, di fotografi. Così Carlo Ponti, seguendo una prassi già in uso presso altri fotografi, decide di rifotografare alcune delle stampe di Carlo Naya per metterle in vendita ad un prezzo più basso rispetto al concorrente. Naturalmente Carlo Naya, forte dei suoi studi di giurisprudenza, non esita a fare causa ai rivali. Il processo, iniziato alla fine degli anni Sessanta, ha un vasto eco nell’ambiente fotografico e viene celebrato con tempi estremamente lunghi, paragonabili a quelli odierni. Sull’argomento si dilunga poi anche un altro Carlo, il fiorentino Carlo Brogi che fa stampare nel 1885 due opuscoli, “Sulla proprietà letteraria delle fotografie” e “In proposito della protezione legale delle fotografie”. Per difendere la propria tesi Carlo Naya ricorre ad un piccolo trucco, prima di mettere in vendita le proprie immagini, cancella dal negativo alcuni piccoli particolari, che non compaiono sulle stampe contraffatte, dimostrando così il possesso del negativo “originale” ritoccato. Il fotografo ottiene ragione, ma solo nella misura in cui “ritoccando i negativi si era compiuta da parte di Carlo Naya una operazione di tipo artistico …. mentre invece gli altri, riproducendo passivamente le immagini, avevano operato in maniera assolutamente meccanica”. Essendo il ritocco “opera d’ingegno” esso poteva godere della protezione accordata dalla legge. Il fotografo esce vincitore dalla causa legale, la fotografia non tanto, e comunque la sentenza arriva nel 1882, poco dopo la morte di Carlo Naya, a tutto vantaggio della vedova, Ida Lessiak, che continua a gestire la bottega per parecchi anni, dopo gli sfarzosi funerali tributati al marito.


2 APRILE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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’espressione artistica non si esaurisce nella mera comunicazione di pensieri e riflessioni, ma spesso si insinua nei meandri nell’anima, nella profondità dei sentimenti e delle emozioni umane, cercando di affidare alla tela il senso primo e fondante delle pulsioni più nascoste, remote e indicibili. La dimensione del tragico e del dolore, la sofferenza e l’amarezza di una vita di stenti fanno dell’artista il portavoce della vera faccia dell’uomo moderno, consapevole dei propri limiti esistenziali e annientato da vicissitudini storiche dalle quali non può fuggire. Nella prigione dell’esistenza all’artista non resta altro che la creazione, come strumento di espressione cruda, come atto analitico di studio e ripensamento, nonché la via per trovare una serenità inesistente. Franco Angeli ha affidato alle sue opere il senso della povertà e del dolore: un rammarico concreto e tangibile sulla storia e sull’uomo, poiché i fatti del presente e del passato rappresentano un circolo vizioso di idee e simboli, di significati e significanti che evolvono con il tempo, ma che costituiscono soltanto l’essenza di una lacrima perpetua. La materia artistica è per l’artista un frammento di lacerazione storica: «i miei primi quadri erano così, come una ferita dalla quale togli dei pezzi di benda … dove il sangue si è rappreso ma non è più una macchia rossa. Tutto doveva apparire lacerato, affranto». Nell’atmosfera di completo degrado, a partire dagli anni Sessanta, Franco Angeli tenta il riscatto del passato, sintetizzando i simboli ideologici e celebrativi di quella Roma eterna e capitale che è passata

alla Storia per la sua grandezza mitologica. L’idealizzazione stereotipata agisce direttamente sulle coscienze collettive, invocando la nostalgia e la speranza. La vita e la bellezza della vita

stessa entrano in contrapposizione con la strada, i ruderi, le lapidi, l’antichità in rovina, nell’eterno ritorno di meraviglia e dolore. Quella di Franco Angeli è un’avventura pitto-

Dolore

rica in continua tensione fra l’energia positiva della memoria e la devastazione del moderno, che non fa altro che mettere in risalto un tormento ancestrale e comune a tutto e a tutti.

Franco Angeli Lupa capitolina parlante, 1963 Scultura in gesso dipinta e base in legno cm 180x145x44 compresa la base Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


2 APRILE 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

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a musica tradizionale dell’area germanofona non deve essere confusa con certo kitsch che si sente spesso nelle località sciistiche austriache, sudtirolesi o svizzere. Al contrario, si tratta di un patrimonio stimolante che viene proposto da gruppi e solisti validi, anche se poco noti in Italia. In questo panorama non troviamo soltanto quelli dei paesi dove il tedesco è lingua ufficiale, ma anche artisti delle numerose minoranze germanofone, come quella alsaziana. La sua terra, situata sul confine orientale francese, è una delle due regioni esagonali dove si incontrano la cultura latina e quella germanica (l’altra è il Nord-Pas-de Calais, dove è presente una piccola minoranza fiamminga). La sua storia è stata molto travagliata: in tre secoli (1648-1945) è stata tre volte francese e due volte tedesca. Uno dei gruppi alsaziani più interessanti è Wàldteïfel, un quintetto nato nel 2013 che si dichiara espressione della “nouvelle musique traditionnelle alsacienne”. Il nome significa “diavolo del bosco” nel dialetto regionale. Nel gruppo confluiscono le diverse esperienze dalle quali provengno i cinque componenti. Il violinista

Michele Morrocchi twitter @michemorr di

Comincia tutto con un doppio sogno, sotto (forse) ad un melograno in una notte perfetta e senza luna. Si sviluppa così Gioco di specchi, di Stefano Massini, messo in scena da Ciro Masella, da lui interpretato insieme a Marco Brinzi al Teatro di Rifredi di Firenze fino a stasera. Nella notte senza luna si muovono circospetti Sancho Panza e Don Chisciotte, in attesa di quella che potrebbe essere la loro ultima alba, dato che il doppio sogno premonitore preannunzia la morte di uno dei due. Un gioco di doppi, di ribaltamento, a partire dalla scelta di mettere il pubblico sulla scena, quasi a contatto coi due attori, impegnati anch’essi a sdoppiarsi, a perdersi. Due per-

Polifonie alsaziane Tom Freudenreich è legato agli ambienti della musica tradizionale, mentre Diane Bucciali, cantante e percussionista, ha alle spalle lunghi studi classici (piano e canto). Xavière Fertin, clarinettista di formazione classica, é interessata a progetti che coniugano musica e arti plastiche. Il percussionista Gabriel Valtchev e anche membro di Kaba e Duna Orkestar, due gruppi che si concentrano sulle musiche dell’area balcanica e turca. Fabrice Kieffer (fisarmonica e ghironda) fa parte anche del gruppo En passant par la montagne, dedito alla musica

tradizionale svedese e alsaziana. È proprio in questa varieta di influenze che risiede la novità evocata nel concetto di “nouvelle musique traditionnelle alsacienne”. L’uso del dialetto alsaziano non è quindi la base di un egoismo che esclude gli altri, ma una ricchezza che viene offerta gioiosamente per comporre una polifonia alla quale sono invitati tutti. Nel CD omonimo che segna l’esordio Wàldteïfel non propone la Bloosmusik delle fanfare austriache e tedesche, ma riscopre musiche regiona-

li dimenticate, come quelle raccolte dall’abate Louis Pinck o dal compositore Jean-Baptiste Weckerlin. Il quintetto utilizza anche strumenti insoliti come il Teifelsgig, il “violino di Satana”, che in realtà è un tipo di percussione (uno dei brani è intitolato appunto “Teifelsgiga”). Inoltre sta cercando di ricostruire il Wàldteïfel, l’antico strumento a percussione che ha dato il nome al gruppo. In “D’r sin Tod” e nel suddetto “Teifelsgiga” il testo è firmato dal poeta Francis Krembel. La collaborazione fra musicisti e poeti è frequente in questa regione: pensiamo al CD Fenêtres ouvertes (bf éditions, 2007), con testi di Sido Gall e musiche di Pierre Zeidler, oppure a Winachtszitt (EMA, 1996), realizzato da René Egles insieme al defunto poeta André Weckmann (1924-2012). Lo spirito che pervade il CD in questione ricorda quello che animava il Festival Babel, ideato e diretto dal cantante alsaziano Roger Siffer. Nelle sue tre edizioni (1999-2001) questa bella iniziativa aveva proposto artisti preuviani e bulgari, bretoni e indiani, alsaziani e senegalesi. Purtroppo è durata poco: Fabienne Keller, eletta sindaco di Strasburgo nel 2001, l’ha fatta naufragare perché la riteneva “socialcomunista”: liberté, égalité, stupidité.

Doppio sogno della Mancha Foto di Ilaria Costanza

sonaggi che non svelano sé stessi, né chi siano, né se essi siano personaggi, uomini o sogni essi stessi. Massini gioca col capolavoro di Chervantes, mescolandolo con Schnitzler, Borges o Cortazar; Masella ne esalta le maschere con tratti semplici, minimalisti che focalizzano la concentrazione dello spettatore, il tutto magnificamente esaltato da giochi di luce a cui tocca il compito di scandire le scene e dettare il tempo. Uno spettacolo di grande profondità, un grande corpo a corpo tra due attori perfetti anche nelle fattezze fisiche a interpretare, e rovesciare, le fattezze ormai consuete dei due protagonisti del Don Chisciotte.


2 APRILE 2016 pag. 8 Francesco Cusa info@francescocusa.it di

Z

ack Snyder sa fare del grande cinema e il suo “Batman V Superman - Dawn of Justice” è un film gigantesco, ammantato di un’aura di tragicità che par tracimare dal confine dei fatti narrati. Si ha sempre la sensazione di essere partecipi d’altro rispetto alle vicende dei due supereroi targati DC Comics, che questo “orizzonte degli eventi descritti” possa essere semplicemente una buona occasione per veicolare sentimenti e inquietudini provenienti da un universo intimo e surreale. Tali atmosfere gotiche e disturbate, mi hanno ricordato quelle del “Batman di “The Dark Knight” diretto da Nolan. Il film si incentra sull’eterno dilemma del conflitto tra uomini e dei, tra razionale e sovrannaturale, tra tecnologico e spirituale, dicotomie ben incarnate dal Batman-Uomo che si confronta con il Superman-Dio. Il topos dell’equivoco, il gioco del fraintendimenti che genera la sfida, rimanda forse al mistero della relazione tra Mondo e Oltremondo, alla danza di Siva che genera “l’equivoco dell’esistenza”, l’inganno della sensorialità. Superman è il semi-dio col tallone di Achille, fragile nella misura in cui un elemento proveniente da Kripton può inibire l’unicità del di

Remo Fattorini

Segnali di fumo Tenetevi forte. Anzi rilassatevi, visto che potete osservare il paesaggio, conversare, leggere, inviare email anziché consumare ore e ore della vostra vita al volante dell’auto. Sta per arrivare l’auto senza conducente che cambierà non solo il modo con cui ci sposteremo, ma l’intera società. Tanto che questa settimana “Internazionale” gli dedicato la copertina e un ampio servizio. Nelle strade della California l’auto senza autista, con gli ingegneri di Google a bordo, ha già percorso 650mila km senza incidenti. È dal 2009 che nella Silicon Valley – Google e Apple insieme

Un film gigantesco

suo “dono” (tale quantomeno appare all’ordinario umano il suo “straordinario” che viceversa è poi la “normalità”in Kripton: è sempre un dannatissimo problema di contesti, insomma). “Kal-El” Superman è infatti perfettamente umano nelle sembianze e il suo volto è quello del giornalista Clark Kent, mentre Bruce Wayne necessita di un totale mascheramento e di una distorsione della voce per non essere identificato. Stranamente nessuno riconosce o identifica il giornalista: la discriminante è rappresentata dagli occhiali, da questo oggetto feticistico che simula un difetto della vista per meticciare, depistare gli umani dal riconoscere Superman. Ed

è singolare che a tal fine venga simulato il “difetto” di uno degli organi sensoriali viceversa più potenti: basti pensare al raggio disintegratore che Kal-El può scatenare dagli occhi. In definitiva, l’umano non riconosce (non può riconoscere) Dio; siamo al camuffamento della divinità che assume le sembianze umane per godere dei piaceri terreni, a Giove che si trasforma in Anfitrione per godere delle grazie di Alcmena. Il film è interamente pervaso da questa ossessione per l’elemento “altro” (la pietra-feticcio, la kriptonite, sotto forma di arma venefica, lancia ecc.), e nella sua prima ora mostra un livello davvero intricato del racconto, con repentini cambi di scena,

inserti e rimandi che chiamano lo spettatore ad un notevole sforzo di attenzione. Il regista di “Watchmen” mostra da un lato un Batman davvero oscuro (quanto avrei preferito Christian Bale al paffutello Ben Affleck!), che è fallibile nella sua rabbia in quanto umano e a dispetto del mascheramento, a dall’altro il Superman che si umanizza tramite gli affetti (la fidanzata, la madre, il padre). Il processo è in qualche modo invertito: Batman si traveste per nascondere la sua natura caduca, Superman mostra il volto umano per negare la sua natura divina. Ricordiamo, per inciso, che gli abitanti di Kripton raggiunsero l’immortalità grazie al trasferimento mentale su cloni e che tale processo aveva finito col determinare una collettività progressivamente priva di passioni e sentimenti, fredda, gestita da droidi e intelligenze artificiali. Una specie che finì per riprodursi con l’inseminazione artificiale produce una sorta di “Cristo” che si immola per la salvezza degli uomini. Notevoli gli effetti speciali che si scatenano nella seconda parte, sempre funzionali e prossimi alla narrazione, mai fini a se stessi. Un film da non perdere.

- lavorano a questo progetto. La sfida per chi arriverà prima sul mercato è partita. Da una parte le grandi imprese innovatrici dell’hi-tech, Google ed Apple, dall’altra i grandi gruppi industriali che da sempre costruiscono auto: Mercedes, Toyota, Nissan. La Toyota, addirittura, prevede di lanciare sul mercato di Tokyo l’auto senza autista già nel 2020. Fra soli 4 anni. Mentre in Germania, vicino a Stoccarda, si lavora anche su camion e autobus, con l’obiettivo di affidare la guida al computer intanto per dare il cambio all’autista, farlo riposare, dargli il tempo di bere un caffè e di scambiare qualche parola con i passeggeri o al cellulare. Poteva la Cina stare fuori da questa competizione? No di certo. Secondo il New York Times, i laboriosi cinesi sarebbero addirittura avvantaggiati dal fatto che

lì lo Stato sostiene la ricerca con molte risorse, ma anche perché dalle loro parti non si è mai affermata l’idea di libertà associata al possesso dell’auto. Tant’è che uno studio di Boston prevede che tra soli 15 anni la terra del sol levante sarà il principale mercato delle auto senza conducente. Di più, il colosso internet Baidu ha stretto un accordo con la Bmw per realizzare bus automatizzati entro due anni. Certo affidare la vita ad un algoritmo fa un certo effetto. Ci vorranno tempo e soprattutto dimostrazioni molto efficaci per convincere gli italiani a cedere il volante. Ma i fatti sono fatti. Ed è certo che il computer non si stanca, è sempre vigile, non si distrae, né si arrabbia. È rigoroso nel rispettare il codice, la segnaletica, i limiti di velocità e la distanza di sicurezza. Rispetta

sempre i semafori e gli stop. Ha una buona memoria, tant’è che non si dimentica mai di dare la precedenza. E poi non ha mai fretta. Quella del futuro automobilista sarà dunque una vita a tutto relax, priva di stress. E, forse, anche più sicura.


2 APRILE 2016 pag. 9 di

Riccarda Bernacchi

I

ndustrial è un tripudio di colore, di armonia, di equilibrio. Osservandole difficilmente pensi che siano foto scattate in rete utilizzando Google Earth. Da lontano ne ammiri il colore, la forma, il senso estetico e la composizione, tanto la stampa è calcolata in ogni minimo dettaglio. Viene voglia di toccarle con mano perché i colori sembrano quelli delle tempere. Eppure, nell’immaginario collettivo, Industrial farebbe pensare ad una mostra con siti abbandonati, ruderi rugginosi. Verrebbe in mente il fumo grigio che avvolge gli edifici. Marcel Proust scriveva che l’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi. Ed è così che Marcantonio Lunardi, video artista di fama internazionale e documentarista di formazione, mette in luce in questa sua prima mostra fotografica, presso la Sala delle Grasce a Pietrasanta, siti industriali con un punto di vista diverso, con uno sguardo nuovo. Certo la solitudine, l’abbandono Stefano Vannucchi svan1970@gmail.com di

Un silenzio a perdita d’occhio accoglie chi si pone di fronte alle immagini di Industrial, ultima opera di Marcantonio Lunardi. Un silenzio amplificato dalla profondità e dall’assenza di umanità. A dominare sono infatti manufatti industriali ma dei loro artefici non v’è traccia. Profondità spaziale come metafora delle conquiste dell’era industriale, di quel progresso che si voleva senza limiti e che avrebbe spalancato all’uomo un’età di benessere infinito. Nelle profondità raggiunte durante una corsa col tempo andata fuori controllo invece l’uomo si è perso. L’opera di Marcantonio Lunardi esprime così in immagini la distanza che è necessario percorrere per recuperare umanità e solidarietà in modo da riportare calore fra gli spazi e fra le persone. Una necessità che si fa ogni giorno più urgente perché in quei grandi spazi vuoti e freddi dove crescono rigogliose solitu-

Industrial

ma anche il carattere, la forza, l’equilibrio e la pace. Le stesse sensazioni che ti trasmette l’artista appena lo incontri di persona. Dieci foto di grandi dimensioni, stampate su carta cotone, raccontano, come gli schizzi di

un pittore, un viaggio che va dal virtuale al reale: da Porto Marghera a Hosting, dalla Louisiana a New York, fino a catturare, nel porto stesso della città, la sua parte onirica. Infatti i container rimangono sospesi nel cielo per

Marcantonio Lunardi

La decadenza delle illusioni

uno strano effetto di distorsione della camera in web, diventando così contenitori senza fondo. E ancora, piattaforme petrolifere, tetti di officine meccaniche raccontano di un’economia che fu un tempo florida e ricca e che oggi lascia, dietro di sé, solo reperti da smaltire. In esposizione anche il video The Edge, realizzato, con gli strumenti del web, per raccontare i fatti di Parigi al Bataclan con la voce dei suoi stessi interpreti. La mostra è destinata a far parlare di sé come il suo stesso autore. Quando avrà chiuso i battenti a Pietrasanta il 17 aprile, Industrial giungerà a Bologna, dove di lì a breve sarà accolto grazie ad una nuova collaborazione con il Future Film Festival di Bologna. Ma non solo, nel mese di marzo appena trascorso, Lunardi dopo le due biennali d’arte a cui a partecipato in Cina ha inaugurato a Taiwan una sua personale con 13 opere video al Museo di arte contemporanea KdMoFa di Taipei sotto la curatela di Renyu Ye. Quindi un tour virtuale e reale dietro alla sperimentazione artistica nel pieno del suo vigore.

dine e esclusione i limiti (The Edge) sono labili e facilmente vi si infilano gli istinti e i sentimenti peggiori. Così il silenzio risuona anche nella Parigi martoriata dalle stragi terroristiche, scenario del video The Edge percorso da un solitario avatar, rappresentazione virtuale dell’umanità, spaesato di fronte all’orrore e ai livelli a cui si è giunti. Tutto quell’odio, tutta quella rabbia che contempla provengono anch’essi dall’umanità e ammoniscono a imparare dagli errori. Quel tremendo risentimento è portato infatti da uomini e donne appartenenti a mondi esclusi da quell’era di progresso indefinito e che ora bussano alle nostre porte attirati dal suo miraggio. Le immagini di Industrial invitano a riflettere e scuoterci da un’illusione di cui dovevamo essere consumatori e che invece ci ha consumato in modo da offrire a noi e a loro nuove possibilità di riempire di umanità gli spazi che abitiamo.


2 APRILE 2016 pag. 10 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

L

’ottocentesco mercato di Saint-Pierre, in rue Rouseard 2, ai piedi della scalinata di Montmartre, è da trent’anni uno dei musei più particolari di Parigi. Questa costruzione del 1868 in vetro e ferro è infatti divenuta l’epicentro culturale nella capitale dell’Art Brut e gode della reputazione di museo sperimentale e precursore di generi spesso rifiutati dalle grandi istituzioni ma che tuttavia testimoniano una sensibilità “altra” che apporta un proprio, personalissimo, contributo alla storia ufficiale dell’arte. Gli artisti che presenta, spesso sconosciuti, nelle sempre bellissime mostre narrano di vite in bilico tra genio e follia, fra innocenza e cultura, tra austero e selvaggio, tra fatica del vivere e abbandono. Un’arte intima, frutto di sofferenze e solitudine, con un riconoscimento di valore ( non richiesto) e di mercato il più delle volte tardivi. In questo luogo coloratissimo fino al 26 agosto viene presentata la mostra L’esprit singulier. Collection de l’Abbaye d’ Auberive. Si tratta di una selezione curata dalla direttrice del museo, Martine Lusardy, di 600 opere di una collezione privata che con i suoi 2500 pezzi è una delle più grandi del mondo. Il suo fondatore è Jean-Claude Volot, presidente di una grande società aereospaziale e titolare di numerose importanti cariche istituzionali. Ma quello che lui preferisce, come dichiara ironicamente, è il titolo di Abate della abbazia d’ Auberive, vale a dire il creatore e conduttore di un attivo centro culturale nella regione dell’Haute-Marne. Dal 1975 Volot inizia a collezionare arte naif con entusiasmo quasi compulsivo. Il problema che dopo poco gli si pose era dove esporre le opere raccolte perchè esse fossero di godimento non solo personale. Poi nel 2004 su un annuncio in un giornale scopre che un’intera abbazia è in vendita. Si tratta di un’abbazia circestense fondata nel 1135, che nel corso dei secoli aveva subito danneggiamenti, ricostruzioni, cambi di destinazioni (era anche diventata un carcere femmi-

Selvaggia innocenza

nile) ma che le antiche tracce del passato ne facevano il posto ideale per la collezione. Con Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Cultura Commestibile Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

un attento restauro, l’Abbaye d’Auberive comincia ad ospitare le prime mostre, concerti ed

eventi particolari diventando in poco tempo una meta di grande richiamo non solo culturale ma anche naturalistico. L’abbazia sorge infatti in un territorio poco abitato (appena 4 abitanti per kmq.) circondata da una splendida foresta, popolata da specie d’insetti e altri piccoli animali rari, che il dinamico Volot riesce a far divenire uno dei più bei parchi nazionali della Francia. È quasi impossibile descrivere la mostra L’esprit singulier perché, come suggerisce il titolo, ogni quadro è un mondo a sé, difficile da associare a stili o percorsi artistici conosciuti. Il consiglio, per chi capiti a Parigi nei prossimi mesi e, come è prassi, vada a visitare Montmatre con la sua basilica, la piazzetta con i cavalletti dei ritrattisti e le tante stradine, è di entrare nell’Halle Saint-Pierre, non solo per immergersi nei colori e nei segni di queste opere poeticamente allucinate, ma anche per concedersi nella deliziosa caffetteria e nella fornitissima libreria una pausa dall’atmosfera molto “parigina” al flusso distratto del turismo di stagione.


2 APRILE 2016 pag. 11 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

N

ormalmente è il catalogo il lascito materiale più cospicuo che una mostra ci consegna. Mette in fila le immagini delle opere esposte e offre la presentazione/critica di uno o più esperti, con il compito di rendercele un po’ familiari. Se di solito è così, evidentemente il catalogo della mostra al Palazzo Strozzi di Firenze (“La grande arte dei Guggenheim. Da Kandinsky a Pollock”), edito da Marsilio, è davvero sui generis. Qui i preziosi contributi dei critici non riguardano le opere, bensì le imprese dei loro acquirenti. Del resto, son essi i protagonisti della mostra: Solomon e Peggy Guggenheim. Il catalogo è dedicato al loro investimento di lungo termine e ad essi si riconduce la ‘ratio’ sottesa ai vasti e pregevoli compendi mobiliari offerti - diciamo così, per estratto - ai visitatori. Solomon e Peggy Guggenheim si possono definire mecenati del nostro tempo. Ma chi è il mecenate, o meglio, che cosa fa per essere tale? Stando ai due miliardari americani, provo a descriverlo: non può dirsi un semplice appassionato d’arte; non è un mero collezionista di opere; non è neppure un filantropo che foraggia la carriera di artisti promettenti. Forse il mecenate è prima e più di tutto un accorto e previdente investitore; accorto perché non decide a caso, previdente perché sa guardare lontano. Amore per l’arte e brama d’eterno, fiuto per gli affari e mondana eccentricità vi si mescolano in varia dose e forma. Non muove i primi passi sulla base di competenze proprie, per lo più è giusto il contrario e qui entra in gioco il suo formidabile talento: l’intuizione felice (che gli consente di scegliere coloro che lo aiuteranno a comprendere e ad acquistare l’arte) e l’intelligenza rapace (che gli fa assimilare rapidamente ciò che apprende da chi lo consiglia). Acquisisce oggetti d’arte non meno dell’arte di acquisire l’arte. Sceglie al meglio uomini e manufatti. Tra il mecenate e il suo ‘consigliere’ dovrà - presumo - intercorrere una qualche

Guggenheim

cioè mecenate

Irene Guggenheim, Vasily Kandinsky, Hilla Rebay e Solomon R. Guggenheim al Bauhaus di Dessau, 7 luglio 1930. Courtesy of the Solomon R.Guggenheim Foundation, New York

profonda affinità o consonanza d’intenti. Così dovette essere per Solomon Guggenheim e Hilla Rebay, ch’egli conobbe alla fine del ‘27; nel 1929 egli iniziò a collezionare seriamente l’arte seguendo i suoi consigli, è da osservare che per lei l’importanza di una collezione non dipendeva soltanto dal valore delle opere, altrimenti chiunque avesse avuto un capitale Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

S cavez zacollo

avrebbe potuto accaparrarsi le migliori. Come ci riferisce Tracey Bashkoff, la baronessa Rebay reputava che il valore di una collezione risiedesse nella sua crescita organica e nella selezione delle opere quale riflesso della personalità del collezionista. Nel caso di Peggy fu nientepopodimeno che Marcel Duchamp ad iniziarla all’arte: egli guidava la sua collezione

come un faro della notte, conferma Susan Davidson. Dopo Duchamp fu la volta di Herbert Read, uno dei migliori storici dell’arte dell’epoca: “Peggy e Read formano la coppia perfetta: lei porta determinazione ed entusiasmo contagiosi, Read la cultura impeccabile e una reputazione senza pari nel mondo dell’arte inglese”, riferisce ancora la Davidson. Un giorno, nel corso di una conversazione, Peggy riassunse efficacemente il modo in cui erano cresciute lei stessa e la collezione: “Mi sono fatta consigliare solo dai migliori. (…) Molta gente compra i consigli migliori, e poi non li segue. Io ascoltavo, oh quanto ascoltavo. Ecco come sono diventata io stessa esperta – o quanto meno ne sapevo abbastanza per farcela da sola”. Il mecenate è alla fine un grande creativo, uno la cui ‘arte’ non genera opere ma cultura, un pioniere che lancia – insieme ad artisti - idee, tendenze e suggestioni nuove. Nel saggio di Ludovica Sebregondi un gustoso episodio accaduto all’inaugurazione della mostra di Ragghianti nei locali della Strozzina - correva l’anno 1949 - fa sospettare che il genio del mecenate possa persino disorientare: così la poetessa Elise Cabbot di Dublin, nel New Hampshire, entusiasta della quantità di quadri esposti all’evento fiorentino ebbe a domandare: “Ma dove lo trova, Peggy, il tempo di dipingerli tutti?”.


Bizzaria degli oggetti

2 APRILE 2016 pag. 12

Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

L

e parole di Rossano per l’antefatto dell’acquisizione di questo oggetto, minuscolo, ma davvero carico di storie, memorie e legami. L’ho avuto praticamente in regalo, 15 euro, è di prima degli anni ‘20, è il distintivo della Palestra Ginnastica Fiorentina Libertas, una delle due società che fondendosi, nel 1926, hanno dato vita alla nostra amata Fiorentina! Pensavo di non ritrovarlo dopo che l’avevo perso a un’asta e-bay, questo è integro, in quello in asta, venduto a 270 euro, al posto del piedino c’era una spilla da balia, all’estero non usa l’asola per i distintivi nel risvolto della giacca. Non ho dormito per la felicità! Credo non ci sia nemmeno al museo della Fiorentina... Chi vuole può controllare...La PGF Libertas nacque nel 1877 come società ginnica, ben presto si trasformò in polisportiva, esiste tuttora, ha sede nell’ex refettorio del convento di S. Maria Novella. Nel 1922 riuscì a coronare l’antico sogno di costruire, in v. Bellini, allora periferia, un vero impianto sportivo dotato di palestra, campo di calcio e tennis, tribune, pista ciclistica e per l’atletica e impianti per la palla a cerchio. Nel 1912 aveva messo su anche una squadra di calcio, i popolarissimi “ghiozzi rossi” della Libertas. II soprannome era dovuto sia al colore delle maglie, sia al fatto che il primo campo della P.G.F. era vicino al Fosso Macinante,(unico rimasto della rete dei bisarni, canali scolmatori delle piene d’Arno costruiti a metà ‘300), durante le partite il pallone ci finiva dentro e i giocatori, per recuperarlo, dovevano entrare nell’acqua infestata da questi, in tutta evidenza, pesciacci, a Firenze si usa la parola ghiozzo per indicare un tipo rustico, ignorantello ed inelegante. Nel 1926 fu deciso di dare alla città una squadra di calcio degna di questo nome e fu decretata la fusione della Libertas Calcio con il Club Sportivo Firenze. Ne nacque la A.C.Fiorentina che giocò nello stadio di V. Bellini fino a che, nel 1931, fu inaugurato lo Stadio Giovanni Berta, l’attuale Artemio Franchi di Firenze... e qui Rossano

dalla collezione di Rossano

Distintivi e medaglie

sfodera l’apposita medaglia che lo immortala, dell’epoca e per l’evento, ovvio. Non posso non dire che questo Berta era un fascista, ucciso sul Lungarno per vendicare la morte del comunista Spartaco Lavagnini, ho sentito dal mio babbo la canzone per ricordarlo modificata dagli antifascisti... hanno ammazzato Gianni Berta, figlio d’un pescecane, viva quel comunista che gli pestò le mane... Tempi violenti passati. Sul piedino del distintivo

si legge G.Picchiani, nome del fondatore di una celeberrima e tuttora in gran salute Ditta che produce stemmi, medaglie commemorative, distintivi, ed oggetti in metalli vari. Il signor Gastone, valente artigiano, nel 1896, decise di avviare una sua attività di conio ed incisione, in una cantina, a lume di candela e con un pantografo comprato a rate. Ora si può dire che molti dei più importanti avvenimenti nazionali ed internazionali

dall’incoronazione dello Scià di Persia, all’uccisione di Kennedy, all’alluvione di Firenze e via e via siano stati ricordati da artistiche medaglie coniate nello stabilimento Picchiani & Barlacchi. La maggior parte di queste medaglie sono opera di scultori come Mario Moschi, Bino Bini, Antonio Berti, Consorti (a cui si deve il modello della riproduzione della Porta Santa), Cassioli ecc. Nonostante la distruzione del materiale anteguerra esistono, negli archivi della Picchiani & Barlacchi, oltre 200.000 conii perfettamente conservati. Ed ecco a voi apposita medaglia inneggiante alla Ditta che nel 1921 aggiunse Barlacchi al proprio nome, ora vera e propria fiorente Industria.


in

2 APRILE 2016 pag. 13

giro Associazione Amici Biblioteca di Fiesole

il Palinsesto snc

Sezione Soci Firenze Nord-Est

L’Associazione AMICI della BIBLIOTECA di FIESOLE in collaborazione con il PALINSESTO e il Circolo ARCI Il GIRONE

presenta il Tè alle cinque

Sabato 9 aprile ore 16.30 Circolo ARCI Il GIRONE Via Aretina, 24 – Girone

INCONTRO - DIBATTITO sul libro:

SOTTO UN CIELO SENZA STELLE

Storie delle comunità della Valle dell’Arno tra bombardamenti e deportazioni Intervengono:

Maria Luisa Moretti, Elisabetta Olobardi, Maria Venturi e i protagonisti e i testimoni delle storie Letture a cura di Tamara Tagliaferri Ingresso libero

Associazione “Amici della Biblioteca di Fiesole” tel. 0556594346 cell. 3391834218 e-mail: valdemaro.morandi@alice.it

ARTE E CIOCCOLATO

La mostra è visitabile nei seguenti orari: Lun e Gio ore 10-13 / Mer ore 9-13 / Mar e Ven ore 15-19 / Sab e Dom ore 10-13 e 16-19 Per informazioni e prenotazione visite guidate per gruppi in orari diversi da quelli di apertura: Tel. 055 8256380 – museo@comune.san-casciano-val-di-pesa.fi.it – www.sancascianovp.net

ANGELO MARIA BANDINI RACCONTA LE SUE PASSIONI

Chiesa di Santa Maria al Prato Biblioteca - Museo Giuliano Ghelli

ARCI Babilonia

PERFORMANCE SITE SPECIFIC PER IL MUSEO BANDINI DI FIESOLE di Marco Di Costanzo | con Erik Haglund | produzione Teatro dell'Elce

Museo d’Arte Sacra

9 Aprile - 8 Maggio 2016

DOMENICA 10 APRILE • DOMENICA 17 APRILE • DOMENICA 1 MAGGIO ORE 15,30 e 17,30 | Biglietto 10€ / 6€ | PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA Biglietteria dei Musei di Fiesole: telefono: 055 5961293 • email: infomusei@comune.fiesole.fi.it Al termine, degustazione di cioccolata offerta da TORTAPISTOCCHI® - Firenze

Dinamiche Artistiche Fiorentine

Partners

LOFFREDO PICCOLO FARAONI

COLORE SEGNO POESIA

Comune di Montespertoli

Patrocinio ACCADEMIA DELLE ARTI DEL DISEGNO FIRENZE

Comune di San Casciano in Val di Pesa

ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI FIRENZE

Patrocinio speciale La Via della Carta in Toscana

Un progetto ideato e coordinato da LUCENSE, con il sostegno di ARCUS SpA, ed in collaborazione con il MUSEO DELLA CARTA DI PESCIA ed il Comune di Villa Basilica.

Sabato 09 aprile

CENTRO CONGRESSI SANTA CATERINA Pietrabuona, Pescia

10.00

CONVEGNO La Via della Carta in Toscana Inaugurazione dellʼArchivio Magnani del Museo della Carta di Pescia Antico Opificio Le Carte

13.00

PRANZO A BUFFET

14.30

INAUGURAZIONE Taglio del nastro e visite guidate

Info

09 aprile 2016

R.S.V.P: info@laviadellacarta.it

INAUGURAZIONE ARCHIVIO MAGNANI MUSEO DELLA CARTA DI PESCIA CARTIERA LE CARTE

Patrocinio speciale

Comune di San Casciano in Val di Pesa

ACCADEMIA DELLE ARTI DEL DISEGNO FIRENZE

Villaggio Albergo S.Lorenzo e S.Caterina - Sala Conferenze http://goo.gl/8Qr8nF Via San Lorenzo, Pietrabuona, Pescia (PT)

COLORE SEGNO POESIA

https://goo.gl/z9cpdy 43.921310, 10.694373 Segreteria organizzativa LUCENSE +39 0583 493616

Dinamiche Artistiche Fiorentine

Progetto di restauro dellʼAntico Opificio Le Carte realizzato con il cofinanziamento di: Regione toscana

Comune di Montespertoli

LOFFREDO PICCOLO FARAONI

WEB www.laviadellacarta.it

Fondazione Caripit

ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI FIRENZE

Patrocinio

Partners

9 Aprile - 8 Maggio 2016

Regione Toscana PROGRAMMA OPERATIVO REGIONAL E OBIETTI VO COMPETITIVITÀ REGIONALE e OCCUP AZIONE Fondo Europeo di Sviluppo Regional e

Museo d’Arte Sacra Chiesa di Santa Maria al Prato Biblioteca - Museo Giuliano Ghelli

ARCI Babilonia

La mostra è visitabile nei seguenti orari: Lun e Gio ore 10-13 / Mer ore 9-13 / Mar e Ven ore 15-19 / Sab e Dom ore 10-13 e 16-19 Per informazioni e prenotazione visite guidate per gruppi in orari diversi da quelli di apertura: Tel. 055 8256380 – museo@comune.san-casciano-val-di-pesa.fi.it – www.sancascianovp.net


lectura

dantis

2 APRILE 2016 pag. 14

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Orribili sentio voci potenti e un fetore assieme ripugnante, così capii chi eran quÈ fetenti.

Tra questa gente, senza niun decoro c’avrei messo i milion di farabutti, ceditori del bene del lavoro,

Vendevan buio com’abbagliante, scambiando stagno come fosse l’oro, di gran puzza da dover stare distante.

che belli belli se ne stanno asciutti, donando una miseria di palanche, in cambio di panier pieni di frutti,

ora i lor’arti sono delle branche ricoperte di croste da fa’ schifo come lo sono le attuali banche.

Canto XXIX 9° cerchio 10a bolgia

Alchimisti: coloro che hanno cercato di alterare lo stato dei minerali per trasformarli in oro, sono condannati alla perpetua alterazione dei propri corpi attraverso le più atroci malattie. Il poeta non riesce a sostenere la vista di tanto orrore


L immagine ultima

2 APRILE 2016 pag. 15

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

S

iamo sempre nel quartiere italiano e questo era Toni, il gestore di un punto vendita di una piccola catena di pizzerie di media qualità. Era simpatico ed affabile e sicuramente aveva anche il “look” del vero pizzaiolo napoletano. Abilissimo nel manipolare la pizza era capace di attrarre con le sue acrobazie l’attenzione dei propri clienti. Nei miei frequenti giri per il quartiere mi sono fermato spesso da lui perché era simpatico e mi trattava bene. Spesso non mi faceva neppure pagare la pizza, il che, per gli Stati Uniti, era davvero una cosa abbastanza straordinaria.

NY City, agosto 1969


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