Il generale dell'armata morta

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Ismail Kadaré. Il generale dell'armata morta. A CURA DELLA Biblioteca Italiana per i Ciechi Monza 1998. Titolo originale: Le général de l'armée morte Traduzione di Augusto Donaudy Copyright 1970 by Editions Albin Michel Paris Copyright 1982 Longanesi C., Milano Prima edizione TeaDue febbraio 1997 Prima ristampa: 1997 Venti anni dopo la fine dell'ultima guerra, a un generale e a un colonnello cappellano dell'Esercito italiano viene affidato il delicato e gravoso incarico di ritrovare i resti dei nostri soldati caduti in Albania. La solennità della missione si infrange ben presto contro le difficoltà che nascono dall'oscura «alleanza» di un clima ostile, di una terra impervia che pare voler trattenere i resti degli odiati nemici e dell'inesorabile fierezza di un popolo per il quale sembra che la guerra sia una condizione di vita. Quando infine il generale sarà pronto a riportare in patria la sua «armata morta» si renderà conto di avere esumato, insieme con i poveri resti, ostilità, rancori, sospetti, risvegliando così l'atavico istinto di un popolo che come dice lo stesso Kadaré «ha sempre avuto il gusto di uccidere e di farsi uccidere». Rievocando gli orrori della guerra d'Albania, Ismail Kadaré costruisce un romanzo di rara intensità, in cui emergono in tutta la loro crudezza la forza primordiale della violenza che grava sul destino degli uomini e la follia della guerra che unisce vincitori e vinti nella medesima desolazione. Ismail Kadaré è nato nel 1936 nel sud dell'Albania. Narratore, poeta e critico letterario, ha lasciato il suo Paese nel 1990, chiedendo asilo politico in Francia. Tra i suoi numerosi romanzi, ricordiamo: : Chi ha riportato Doruntina?, : Il Palazzo dei Sogni e, già apparsi in questa collana, : I tamburi della pioggia e : La città di pietra. Dal : Generale dell'armata morta Luciano Tovoli ha tratto l'omonimo film con Marcello Mastroianni e Michel Piccoli.

5 Ecco, ve li ho riportati. Il terreno era aspro e il maltempo si è accanito contro di noi.


Parte prima Capitolo primo Una pioggia mista a fiocchi di neve cadeva sulla terra straniera. La pista di calcestruzzo, le installazioni e le sentinelle dell'aeroporto erano inzuppate. La neve sciolta bagnava la pianura e le colline circostanti, facendo luccicare l'asfalto nero della carreggiata. In qualsiasi altra stagione quella pioggia monotona sarebbe parsa a tutti una triste coincidenza. Ma il generale non era affatto sorpreso. Veniva in Albania per assicurare il rimpatrio dei resti mortali dei suoi compatrioti caduti in ogni angolo del paese durante l'ultima guerra mondiale. I negoziati tra i due governi avevano avuto inizio sin dalla primavera, ma i contratti definitivi erano stati firmati solo alla fine d'agosto, quando, appunto, appaiono le prime giornate grigie. Adesso era autunno. Era la stagione delle piogge: il generale lo sapeva. Prima di partire aveva provveduto a rendersi edotto del clima del paese. Dove quel periodo dell'anno era umido e piovoso. Ma anche se il libro che aveva letto sull'Albania gli avesse rivelato che l'autunno, lì, era asciutto e ricco di sole, non per questo quella pioggia gli sarebbe parsa insolita. Aveva sempre pensato, infatti, che la sua missione non poteva esser condotta a buon fine se non col maltempo. Attraverso l'oblò aveva a lungo osservato l'aspetto minaccioso delle montagne, le cui cime aguzze sembrava dovessero in ogni momento squarciare il ventre dell'apparecchio. Dappertutto un rilievo frastagliato. Scarpate sinistre che scivolavano rapide sotto la nebbia. In fondo a quegli abissi e su quei versanti scoscesi giaceva, sotto la pioggia, l'esercito che egli veniva a dissotterrare. Adesso che vedeva per la prima volta quella terra straniera, avvertiva assai più netto il timore, sino allora vago, che il senso di irrealtà legato alla sua missione suscitava in lui da alcuni mesi. Ecco, l'esercito era laggiù, fuori del tempo, rigido, calcificato, coperto di 7 terra. Toccava a lui il compito di sollevarlo dal fango. E questo compito gli faceva paura. Era una missione che valicava i confini del naturale e doveva per certo contenere un che di cieco, di sordo e di assurdo. Era una missione che recava in sé conseguenze imprevedibili. La terra che gli era infine apparsa laggiù, invece di ispirargli, in virtù del suo aspetto reale, un certo senso di sicurezza, aveva solo accresciuto la sua apprensione. All'indifferenza dei morti si aggiungeva l'indifferenza sua, della terra stessa. E non era soltanto indifferenza. Era qualcosa di più. Quella folle corsa sotto la nebbia, quei contorni come straziati dal dolore rivelavano soltanto ostilità. Per qualche minuto il compimento della sua missione gli era sembrato impossibile. Poi aveva tentato di farsi animo. Si era sforzato di neutralizzare l'effetto prodotto su di lui dall'aspetto del suolo, e soprattutto delle montagne, con il sentimento d'orgoglio che la sua missione gli ispirava. Brani di discorsi e di articoli, frammenti di conversazioni, inni, sequenze di film, cerimonie, pagine di memorie, campane: ecco altrettanti elementi sepolti nella sua coscienza che adesso risalivano lentamente alla superficie. Migliaia di madri attendevano le spoglie dei figli e sarebbe stato lui a portarle loro.


Avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere per assolvere degnamente quel compito sacro. Nessuno dei suoi compatrioti doveva essere dimenticato, nessuno doveva essere abbandonato in quella terra straniera. Oh, sì, era una nobile missione! Durante il viaggio si era più volte ripetuto le parole indirizzategli, prima della partenza, da una signora d'altissimo rango: «Simile a un uccello superbo e solitario, lei volerà su quei monti silenziosi e tragici, per strappare alle loro gole e ai loro artigli i nostri poveri ragazzi!» E ora il viaggio volgeva al termine. Da quando si eran lasciati dietro le montagne e sorvolavano valli e pianure il generale si sentiva un po' rincuorato. L'aereo atterrò sulla pista inzuppata. Semafori rossi, poi verdi; poi di nuovo rossi, poi verdi. Un soldato in cappotto. Un altro. Dall'edificio dell'aeroporto alcuni uomini in imper 9 meabile muovevano verso l'aereo che terminava la sua corsa. Il generale scese per primo. Lo seguì il prete che lo accompagnava. Un vento umido li colpì violentemente in viso ed essi alzarono il bavero del cappotto. Un quarto d'ora dopo le loro automobili procedevano a tutta velocità verso Tirana. Il generale girò il capo verso il prete seduto al suo fianco, che, col viso privo di qualsiasi espressione, guardava in silenzio attraverso il cristallo della portiera: ebbe la sensazione che non avesse niente da dirgli e accese una sigaretta. Poi portò di nuovo lo sguardo verso l'esterno. I contorni di quella terra straniera gli apparivano rifratti, contorti dall'acqua che scorreva serpeggiando lungo il finestrino. Una locomotiva fischiò in lontananza. Poiché i binari erano nascosti da una scarpata, il generale si domandò da quale parte sarebbe passato il treno. Vide sbucare il convoglio, lo vide superare lentamente in velocità l'automobile e lo seguì con gli occhi finché l'ultima vettura non fu scomparsa nella nebbia. Tornò poi a girarsi verso il compagno, i cui tratti, però, gli parvero rigidi come prima, e ancora una volta sentì che non aveva niente da dirgli. Osservò tra sé e sé, d'altra parte, che non gli rimanevano oggetti di meditazione. Li aveva esauriti tutti durante il viaggio. Meglio, in fondo, non abbandonarsi più a nuove riflessioni. Era stanco. Bastava così. Avrebbe fatto bene a guardare nello specchio se l'uniforme era in ordine. Quando entrarono a Tirana annottava. Una nebbia fitta sembrava sospesa sopra gli edifici, sopra i lampioni, sopra gli alberi spogli dei parchi. Il generale si era un po' rinfrancato. Attraverso il finestrino distingueva numerosi passanti che si affrettavano sotto la pioggia. «In questo paese ci sono molti ombrelli!» osservò. Avrebbe desiderato scambiare qualche impressione, poiché il silenzio cominciava a pesargli, ma non sapeva come fare per rompere il mutismo del compagno. Lungo il marciapiede, dalla sua parte, vide una chiesa, poi una moschea. Dall'altra parte si ergevano edifici in costruzione rivestiti di impalcature. Le gru, con i fanali acce 11si, sembravano mostri con gli occhi rossi che si muovessero nella nebbia. Il generale richiamò sulla chiesa e sulla moschea l'attenzione del prete. Il quale non manifestò il minimo interesse. Il generale ne concluse che nulla, per il momento, poteva sottrarlo alla sua apatia. In quanto a lui, ora si sentiva d'umore più lieto, ma con chi poteva mai scambiare quattro chiacchiere? Il funzionario albanese che li accompagnava occupava il sedile anteriore, proprio davanti al prete. Il deputato e il rappresentante del ministero che li avevano accolti all'aeroporto li


seguivano in un'altra macchina. Giunto all'albergo Dajti, il generale si sentì subito a suo agio. Salì nella camera che gli avevano prenotato, si rase e cambiò uniforme. Poi chiese al centralino d'esser messo in comunicazione con i suoi. Dopodiché raggiunse il prete e i tre albanesi che si eran messi a sedere nella hall intorno a un tavolo. La conversazione verteva su argomenti vari ma indifferenti. Ciascuno evitava di affrontare questioni politiche e sociali. Il generale era amabile e grave al tempo stesso. Il prete parlava poco. Il generale fece capire d'esser lui il più importante dei due inviati, benché il riserbo del prete lasciasse qualche dubbio al riguardo. Rievocò le belle tradizioni di cui l'umanità si inorgoglisce riguardo alle sepolture dei combattenti. Menzionò i Greci e i Troiani che stipulavano tregue per seppellire solennemente i loro morti. Il generale si mostrava quanto mai entusiasta dell'oggetto della sua missione. Era un compito pio e arduo, che egli avrebbe assolto con successo. Migliaia di madri attendevano i figli. Da più di vent'anni si consumavano nell'attesa. Che però aveva cambiato un tantino natura: non eran più figli vivi quelli che ora esse aspettavano. Ma non si può forse aspettare ugualmente dei morti? Sarebbe stato lui a portare a quelle madri dolenti le ceneri dei figli, di quei giovani che alcuni generali inetti non avevano saputo guidare in battaglia. Ne era fiero e avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere per non deluderle. «Generale, la comunicazione...» Si alzò lesto. «Vi prego di scusarmi, signori», disse, e si diresse con passo lungo e 13 maestoso verso gli uffici dell'albergo. Ritornò col medesimo incedere altero. I suoi compagni avevano ordinato cognac e caffè. La conversazione si era animata. Il generale fece di nuovo capire d'esser lui a guidare la missione, poiché il prete, quantunque col grado di colonnello non era, in quell'occasione, che un rappresentante spirituale. Era lui il capo e toccava perciò a lui il privilegio di orientare la conversazione su argomenti di sua scelta, come le marche di cognac, le diverse capitali, le sigarette. In quel salone, dietro quelle pesanti tende, al suono di quella musica straniera, fors'anche più che straniera, si sentiva davvero come un topo nel formaggio. Stupiva egli stesso di quel suo improvviso compiacersi tanto del confort, di tutto ciò che lo circondava nella hall di quell'albergo, dalle poltrone ben imbottite al gradevole brontolio della macchina del caffè. Forse, più che compiacimento, era una sorta di rimpianto anticipato per qualche cosa che sentiva di dover abbandonare per un lungo periodo di tempo. Il generale, dunque, era raggiante. E non riusciva neppure lui a spiegarsi la ragione di quella improvvisa vampata di benessere. Era la gioia del viaggiatore che trova rifugio dopo un percorso burrascoso. Quell'ambrato bicchierino di cognac allontanava sempre di più dalla sua memoria l'aspetto minaccioso delle montagne che a tratti, anche adesso che era seduto a quel tavolo, gli tornava, inquietante, alla mente. «Simile a un uccello superbo e solitario...» Ebbe, d'un tratto, coscienza della propria forza. I corpi di decine di migliaia di soldati sepolti sotto terra aspettavano da tanti anni la sua venuta, ed eccolo finalmente arrivato, come un nuovo Messia, abbondantemente provvisto di carte topografiche, di elenchi, di indicazioni infallibili, per trarli dal fango e restituirli alle loro famiglie. Erano stati altri generali a portare alla disfatta e alla distruzione quelle interminabili colonne di


soldati. Lui, invece, veniva a strappare all'oblio e alla morte quel poco che ne rimaneva. Sarebbe corso da un cimitero all'altro, avrebbe cercato su tutti i campi di battaglia, per ritrovare gli scomparsi. Nella sua lotta contro il fango non avrebbe conosciuto sconfitte: 15 aveva dalla sua la forza magica che conferiscono le statistiche esatte. Rappresentava un grande paese civile, e la sua opera doveva essere piena di magnificenza. Nel compito cui si accingeva c'era qualcosa della maestosità dei Greci e dei Troiani, della solennità dei funerali omerici. Il generale bevve un altro bicchierino colmo. E da quella notte ogni giorno, ogni sera, nella sua patria lontana, tutti coloro che attendevano avrebbero detto, pensando a lui: «In questo momento sta cercando. Noi andiamo a spasso, andiamo al cinema, al caffè, mentre lui percorre in lungo e in largo quella terra straniera per ritrovare i nostri figli. Oh, è un compito assai arduo il suo! Ma lo porterà a buon fine. Non è stato mandato invano. Che Dio lo aiuti!» Capitolo Ii L'esumazione dell'esercito ebbe inizio il 29 ottobre, alle quattordici. Il piccone affondò nel suolo con un rumore sordo. Il prete fece il segno della croce. Il generale salutò militarmente. Il vecchio sterratore dei servizi municipali sollevò di nuovo il piccone e lo abbatté con forza. «Ecco, è cominciata!» disse tra sé il generale, commosso, contemplando le prime zolle di terra umida che rotolavano ai loro piedi. Era la prima tomba che aprivano e ciascuno di loro, tutt'intorno, stava lì ritto, come impietrito. L'esperto albanese, un giovanotto biondo dal viso emaciato, prendeva appunti su un taccuino. Altri due operai fumavano una sigaretta, il terzo la pipa, e il più giovane, che indossava un maglione col collo rovesciato, si appoggiava al manico del piccone, osservando la scena con aria pensosa. Seguivano attentamente l'apertura della prima tomba, per imparare il modo di procedere a quel lavoro d'esumazione. Il metodo da seguire era descritto dettagliatamente ai paragrafi 7 e 8 del quarto allegato al contratto. Il generale aveva gli occhi fissi sul cumolo di zolle che continuava a crescere ai piedi dell'operaio. Erano nere e mobili ed esalavano un leggero vapore. «Eccola qui, questa terra straniera», pensò. «Lo stesso fango nero che c'è dappertutto, gli stessi sassi, le 17 stesse radici e lo stesso vapore. Una terra come tutte le altre. E tuttavia straniera.» Alle loro spalle, sulla carreggiata, le macchine che passavano veloci facevano udire di tanto in tanto il clacson. Il cimitero, come la maggior parte dei cimiteri militari, era situato lungo la strada. Dall'altro lato pascolavano alcune vacche, i cui rari muggiti si spandevano, pacifici, nella valle. Il generale era turbato. Il mucchio di terra continuava a crescere e il vecchio operaio, dopo mezz'ora, si trovò nella fossa sino al ginocchio. Ne uscì per riposarsi un istante, solo il tempo di permettere a uno dei compagni di togliere dalla paletta la terra che egli aveva staccato con la punta; poi ridiscese nella fossa. Alto nel cielo uno stormo di oche selvatiche passò sopra le loro teste. Un contadino che tirava il cavallo per la briglia procedeva solitario sulla carreggiata. Ignorando, evidentemente, la faccenda a cui erano intenti, gridò: «Buon lavoro!»


Dal gruppetto che circondava la fossa nessuno rispose e il contadino tirò di lungo. Il generale osservava di volta in volta la terra scavata e le facce degli operai, tranquille e gravi. «Chi sa che ne pensano», si chiese. «In cinque, da soli, esumeranno un intero esercito.» Ma dalle loro fisionomie non trapelava nulla. Due di essi accesero un'altra sigaretta, il terzo tirò un'altra boccata dalla pipa e l'ultimo, il più giovane, ancora appoggiato al manico del piccone, aveva sempre lo stesso sguardo assente. Il vecchio sterratore, adesso affondato sino alla cintola, ascoltava le spiegazioni dell'esperto. Poi, dopo un breve scambio di parole, si rimise al lavoro. «Che cos'ha detto?» domandò il generale. «Non ho udito bene», rispose il prete. Tutti, nel gruppetto, osservavano un silenzio di morte. «E' una fortuna che non cominci a piovere», fece il prete. Il generale alzò gli occhi. La nebbia velava l'orizzonte da ogni parte e non si sarebbe potuto dire se le forme più scure che si distinguevano lon 19tano, molto lontano, fossero disegnate dalla nebbia o da enormi montagne. L'operaio, via via che scavava, affondava sempre più nel suolo. Il generale ne osservava la testa canuta che oscillava al ritmo dei colpi di piccone. «Si vede che è pratico di questo lavoro. Certo, altrimenti non lo avrebbero incaricato di dirigere la squadra di sterratori che effettuerà questi scavi.» Il generale avrebbe desiderato che l'operaio scavasse ancora più celermente, che le tombe venissero aperte al più presto e che al più presto si ritrovassero tutti i morti. Era impaziente di vedere al lavoro anche gli altri operai. Allora avrebbe tirato fuori gli elenchi e questi si sarebbero ricoperti di piccole croci rosse, una per ogni soldato ritrovato. Il piccone, adesso, colpiva il suolo con un rumore soffocato che pareva scaturire dalle viscere della terra. Il generale si sentì improvvisamente allarmato in tutto il suo essere. «E se qui non trovassimo niente? Se le carte non fossero esatte e fossimo costretti a scavare in due, tre, dieci posti diversi per ritrovare un solo soldato?» «E se non trovassimo niente?» disse al prete. «Faremo scavare altrove. Pagheremo il doppio, se occorre.» «Non è questione di prezzo. La sola cosa che conta è ritrovare tutti quelli che cerchiamo.» «Li ritroveremo. Non possiamo non ritrovarli.» Il generale, perplesso, proseguì: «E' come se qui non si fosse mai combattuto, come se questo suolo fosse stato calpestato soltanto da queste pacifiche vacche brune che vi stanno pascolando.» «Dopo si ha sempre questa impressione», disse il prete. «Da allora sono trascorsi più di vent'anni.» «E' infatti un tempo molto lungo, e appunto questo mi preoccupa.» «E perché?» domandò il prete. «Qui il suolo è sodo e chi vi è sepolto non si sposta per lunghi anni.» «Sì, è vero, ma, non so perché, non riesco ad abituarmi all'idea che essi sono qui, vicinissimi a noi, a soli due metri di profondità.» «E' perché lei non è mai stato in Albania durante la guerra», disse il prete. 21 «Ma è stato davvero così terribile?» «Sì, terribile.» Il vecchio sterratore affondava adesso nel suolo con quasi tutta la persona. Il piccolo cerchio s'era fatto ancora più stretto intorno a lui. L'esperto albanese, il corpo piegato in due sopra la fossa, non smetteva di dargli istruzioni. La pala, a contatto coi sassi, emetteva un suono cupo. Al generale sembrava di udire frammenti dei racconti fattigli dagli ex combattenti che erano andati a trovarlo prima della sua partenza e che si interessavano alla ricerca


delle sepolture dei loro compagni caduti in Albania. --------- Il mio pugnale, urtando contro i sassi, mandava un suono che mi faceva fremere. Per quanto tentassi, con tutte le mie forze, di lacerare la terra, il mio strumento di fortuna era impotente in quella lotta impari contro il suolo. Riuscivo a malapena a estrarre un pugno di fango e pensavo con rincrescimento: «Ah, se fossi stato assegnato al genio avrei un badile e potrei scavare velocemente, più velocemente!» perché a pochi passi da me giaceva bocconi il mio migliore amico, le gambe penzoloni sopra un fossato per metà pieno d'acqua. Staccai il pugnale che portava al cinturone e mi misi a scavare con tutt'e due le mani. Volevo che la fossa fosse molto profonda, perché questa era stata la sua volontà. Mi diceva: «Se vengo ucciso al tuo fianco, sotterrami il più profondamente possibile. Ho paura che i cani e gli sciacalli mi scoprano, come quella volta a Tépélène. (1) Ti ricordi di quei cani?» «Sì, mi ricordo», rispondevo fumando una sigaretta. E adesso che era morto, mi dicevo mentre scavavo: «Non ti preoccupare, la fossa sarà profonda, molto profonda». Quando ebbi finito spianai il suolo con la massima cura possibile, senza lasciarvi il minimo indizio, per paura che scoprissero e dissotterrassero il suo corpo. Poi, girando le spalle al crepitio delle mitragliatrici, mi allontanai nella notte e, senza fermarmi, mi voltai verso le tenebre in cui lo avevo abbandonato e gli dissi mentalmente: «Non temere, non ti troveranno». --------- «Ancora niente, a quanto pare», com 23 (1) Piccola città dell'Albania. mentò il generale, mal dominando il nervosismo. «Non possiamo ancora pronunciarci», disse il prete, «ma non c'è motivo di disperare.» «Comunque, in guerra, i morti di solito non si seppelliscono così profondamente.» «Può darsi che sia la loro seconda sepoltura. Qualche volta venivano esumati e seppelliti una seconda e anche una terza volta.» «E' possibile, ma se le tombe sono così profonde non la finiremo mai.» «Qualche volta dovremo assumere degli operai di rincalzo, sia pure solo temporaneamente», disse il prete. «In certi casi una ventina alla volta.» «E forse anche di più!» «Sì, può presentarsi l'occasione.» «Può anche darsi che certi giorni ci vediamo costretti ad assumerne un centinaio.» «Non si sa mai.» «Ma questi cinque operai qui saranno continuamente al nostro servizio?» «Sì, è stipulato nel contratto.» «Ma cosa stanno facendo?» riprese il generale. «Non hanno ancora trovato niente?» «E' stata raggiunta la profondità massima», disse il prete. «Se c'è qualche cosa, questo è il momento o mai più.» «Temo che cominci male.» «Può darsi che sia smottato uno strato del sottosuolo», disse il prete. «Quantunque la carta non indichi nessuna zona sismica.» L'esperto si chinò ancora di più verso l'interno della fossa. Gli altri si avvicinarono. «Ci siamo! L'ho trovato!» gridò il vecchio operaio con una voce che saliva soffocata e cavernosa, perché aveva parlato con la testa bassa dal fondo della fossa. «Lo ha trovato», ripeté il prete. Il generale mandò un profondo respiro. Gli altri operai uscirono dal torpore. Il più giovane, quello che rimaneva in piedi, pensieroso, appoggiato al manico del piccone, chiese una sigaretta a un compagno e l'accese. Il vecchio sterratore cominciò a deporre le ossa, una palata dopo l'altra, sui bordi della fossa. Nell'aspetto di quei resti non c'era niente d'impressionante. Mescolati al terric 25cio friabile, sembravano


ramoscelli secchi. Tutt'intorno fluttuava l'aroma della terra scavata. «Il disinfettante!» gridò l'esperto. «Portate il disinfettante!» Due operai si affrettarono verso il camion, parcheggiato dietro l'automobile, su un lato della strada. L'esperto, che fra le ossa aveva scoperto un oggettino, lo tese al generale tenendolo con una pinzetta. «E' una medaglietta. Non la tocchi, la prego.» Il generale avvicinò il viso e distinse a stento l'immagine della Madonna. «La medaglietta dei nostri soldati!» disse a bassa voce. --------- «Sai perché portiamo questa medaglietta?» mi diceva un giorno. «Perché, se veniamo uccisi, si possano riconoscere i nostri resti.» E sorrise ironico. «Ma pensi davvero che li cercheranno, i nostri resti? Be', mettiamo che un giorno li cerchino. Se credi che quest'idea mi consoli! Non c'è ipocrisia peggiore di questa ricerca delle ceneri dopo la guerra. In quanto a me, rifiuto questo favore. Mi lascino in pace dove sarò caduto. Butterò via questa sporca medaglietta.» E infatti, un bel giorno, la gettò e non ne portò più. --------- Terminata la disinfezione, l'esperto prese le misure di ogni osso e per qualche minuto attese a far calcoli sul suo taccuino tenendo la stilografica di traverso fra le lunghe dita sottili. «Altezza un metro e settantatré.» «Esatto», constatò il generale dopo averne verificato la concordanza con l'indicazione che aveva sull'elenco. «Impacchettate le ossa», disse l'esperto agli operai. Il generale seguì con gli occhi il vecchio sterratore che, stanco, andò a sedersi su una pietra sul ciglio della strada, trasse di tasca la tabacchiera e cominciò ad arrotolarsi lentamente una sigaretta. «Perché quell'uomo mi guarda così?» pensò il generale. Di lì a qualche minuto si prendeva a scavare in cinque siti alla volta. «Non ci orientiamo più», disse il generale. «Ho l'impressione che ci siamo cacciati in un vicolo cieco.» 27 «E se dessimo un'altra occhiata alle carte?» «Non ci si capisce nulla. Le cifre delle quote sono confuse.» «Evidentemente gli schizzi delle tombe sono stati tracciati in fretta, durante la ritirata.» «Può darsi.» «E se facessimo un tentativo verso destra? Dove porta questo sentiero di pianura?» «Alle terre della vicina cooperativa.» «Tentiamo da quella parte.» «Fatica sprecata.» «E per giunta questo maledetto fango!» «Ad ogni modo, bisogna tentare verso destra.» «Questo sentiero non ci condurrà in nessun posto.» «Non sono più ricerche, è un guazzabuglio.» «Che fango!» «E non facciamo che segnare il passo.» Le voci inquiete, contemporaneamente ai passi, si allontanarono nella pianura. Capitolo Iii Dopo venti giorni tornarono a Tirana. Era calata la sera. La macchina verde si fermò davanti all'albergo Dajti, ai piedi della cortina d'alti pini che sorge dinanzi all'edificio. Il generale scese per primo. Aveva l'aria abbattuta, i lineamenti tirati. Questo, perlomeno, l'aspetto che gli conferiva l'illuminazione al neon dell'insegna dell'albergo. Fermò per un istante sull'auto lo sguardo. «L'avessero almeno ripulita dal fango», pensò irritato. Ma erano appena arrivati e non poteva prendersela con l'autista se la vettura era sporca. Il generale lo sapeva ma scacciava dalla mente queste ragioni. Salì rapido i gradini esterni, prese la posta al bureau, chiese una comunicazione telefonica con la famiglia e raggiunse lentamente la sua camera. Il prete era salito direttamente nella sua. Di lì a un'ora, dopo aver fatto un bagno


ed essersi cambiati, erano entrambi seduti a un tavolo, nel salone del pianterreno. Il generale ordinò del cognac. Il 29 prete prese una cioccolata. Dalla taverna nel seminterrato salivano i suoni dell'orchestra da ballo. Giovani coppie che scendevano nella taverna o ne risalivano apparivano di tanto in tanto in fondo al salone. Gente andava e veniva anche nella hall. Il salone aveva un'aria austera, con le sue tende scure e le sue ampie poltrone. «Finalmente il nostro primo giro è terminato», disse il generale. «Sì, finalmente.» «Che ne pensa, riusciremo a terminare questa faccenda entro un anno, come previsto?» «Che ne so?» rispose il prete con distacco. «Dipende dalle difficoltà che incontreremo e anche dal tempo. In ogni modo, spero che l'anno venturo a quest'epoca avremo finito.» «E' anche il mio parere», riprese il generale. «All'inizio dovremo condurre le ricerche in zone situate in prossimità delle città, ma le difficoltà aumenteranno nelle campagne dell'interno del paese e soprattutto nelle regioni remote delle montagne.» «Lei è in grado di giudicare meglio di me», disse il prete. «Nelle montagne sarà duro.» «Lo temo anch'io.» «Ma neanche loro hanno avuto il compito facile.» «Giusto.» «Domani esaminerò di nuovo le carte allo scopo di tracciare un piano per il nostro secondo giro.» «Speriamo che non sia brutto tempo.» «Non possiamo farci niente. E' la stagione.» Il prete beveva tranquillamente la cioccolata tenendo la tazza tra il pollice e l'indice della mano dalle lunghe dita affusolate. «Un bell'uomo», pensò il generale osservando il profilo severo e la maschera impassibile del prete. Poi, d'improvviso, si chiese: «Quali rapporti può aver avuto con la vedova del colonnello? Tra loro c'è qualche cosa, ne sono sicuro. Lei è carina, incantevole anzi. Soprattutto in costume da bagno». Si ricordò che una volta che aveva alluso al prete, lei non aveva potuto trattenersi dall'arrossire e aveva abbassato gli occhi. «Quali possono essere i loro rapporti?» si domandò di nuovo il generale senza distogliere lo sguardo dal viso del compagno. 31 «Nonostante tutti i nostri sforzi non siamo riusciti a ritrovare le spoglie del colonnello Z'», lasciò cadere in tono distaccato. «Ci restano ancora delle probabilità», replicò il prete chinando la testa. «Ho buone speranze.» «Sarà difficile, perché ignoriamo le circostanze della sua morte.» «Sì, non sarà certo facile», ammise il prete, «ma siamo solo all'inizio delle nostre ricerche, abbiamo tempo davanti a noi.» «Sino a che punto ha potuto portare i suoi rapporti con la vedova del colonnello?» si chiese, ancora una volta, il generale. «Sarei curioso di sapere sino a che punto questo reverendo padre può spingersi con una bella donna.» «Dobbiamo ad ogni costo ritrovare i resti del colonnello», riprese a dire. «Le ceneri di tutti gli ufficiali superiori sono state rimpatriate da un bel pezzo. Lui è il solo a rimanere ancora qui. E la sua famiglia aspetta ansiosamente il risultato delle nostre ricerche. Soprattutto sua moglie.» «Sì», disse il prete, «ci tiene molto.» «E' andato a vedere il sepolcro del colonnello? Un sepolcro sontuoso, in marmo, che gli ha fatto costruire la famiglia.» «Sì, ci sono andato prima di partire.» «E' un monumento davvero imponente», proseguì il generale. «Con una statua e tutt'intorno aiuole di rose rosse e bianche. Ma è vuoto.» Il prete non disse nulla. Rimasero a lungo in silenzio. Il generale beveva il cognac a piccoli sorsi, volgendo lo sguardo tutt'intorno, uno


sguardo che gli faceva comprendere quanto gli fosse estranea l'atmosfera che lo circondava. D'un tratto si sentì completamente solo. Solo in mezzo alle tombe dei compatrioti morti. Diavolo, voleva scacciare dalla mente la visione di quelle tombe, le sepolture dei suoi «fratelli», non pensarci più, a nessun costo. Per tre settimane si era aggirato in mezzo ad esse. Tre settimane di seguito, giorno e notte, ogni ora, ogni minuto, solo di fronte ad esse, solo con esse. Adesso desiderava liberarsene. Aveva avidamente atteso quella giornata di riposo. Era sabato. Voleva svagarsi. Era vivo, lui. Sì, svagarsi, un di 33 ritto che traeva dalla natura. Dal seminterrato salivano i suoni di una musica. Laggiù si beveva, si ballava. «Dobbiamo riposarci», disse adagio, e invece di «riposarci» pensava «distrarci». Il prete alzò gli occhi. No. Giusto. Era un generale straniero e per di più incaricato di una missione governativa. E questa missione, inoltre, era particolarmente funebre. E, infine, era circondato da un popolo contro il quale si erano battuti all'ultimo sangue. Il generale abbassò gli occhi sul portacenere pieno di mozziconi di sigarette. Capiva che nelle settimane e nei mesi a venire di quel lungo pellegrinaggio che era appena cominciato egli non avrebbe ripetuto mai più quelle parole. La sua breve rivolta era stata domata. D'ora innanzi non sarebbe stato che con loro. Costantemente. Sì, era davvero molto stanco. Tutte quelle strade dissestate, quelle tombe fangose, a volte ammucchiate le une sulle altre, a volte sparse, quell'eterno fango, così deprimente, quelle casematte semidistrutte (delle casematte, come dei soldati, rimanevano soltanto i resti, d'altra parte), e poi la confusione creata dalla presenza delle tombe di militari d'altri paesi mescolate alle loro, i processi verbali da redigere, le quietanze da saldare coi rappresentanti dei servizi municipali, le formalità di versamento di valuta in banca, quanti fastidi tutti in una volta! Il compito più delicato era distinguere i loro morti fra quelli dei diversi eserciti. Spesso fra le testimonianze sorgevano contraddizioni. I vecchi confondevano avvenimenti e battaglie delle diverse guerre. Niente che presentasse un carattere di certezza. Solo il fango deteneva la verità. Il generale bevve un altro bicchierino. «Quella baracca laggiù nella pianura», disse a mezza voce come se parlasse a se stesso. Prima di entrare a Tirana, poiché era stato loro comunicato il divieto di portare le ossa nella città, ne avevano effettuato la consegna in un terreno incolto della periferia, in una baracca eretta a tal fine, secondo i termini del contratto. «Una baracca, un magazziniere... e 35 un cane davanti alla porta.» Il prete rimase in silenzio. Il generale lanciò uno sguardo tutt'intorno. Il salone, come al solito, era tranquillo. Solo un po' più lontano, su un lato della sala, alcuni giovani raggruppati si raccontavano qualcosa ridendo di tanto in tanto. Lui li vedeva solo di spalle. In fondo un giovanotto e una ragazza, probabilmente fidanzati, erano seduti a fianco a fianco. Il ragazzo aveva una testa regolare, la fronte alta e obliqua, la mascella inferiore piuttosto larga. «Tipo alpino», disse tra sé il generale. Il barman era in piedi dietro il banco. La sua testa, perfettamente rotonda, dall'espressione serena, si stagliava tra due piatti colmi di mele e di arance. Entrò un uomo esile, con in mano una borsa, e si sedette a un tavolo accanto alla radio. «Il solito», disse al barman.


Mentre questi gli preparava un caffè l'uomo trasse dalla borsa un grosso quaderno e cominciò a scrivere. Aveva la mascella stretta e le guance piatte. Quando aspirava la sigaretta le guance gli si incavavano. «Eccoli, questi albanesi», disse il generale come se riprendesse una conversazione interrotta. «Uomini come tutti gli altri. Non si supporrebbe mai che in guerra diventino feroci come belve.» «Oh, quando si pensa come si trasformano al fronte!» «E dire che sono così pochi!» «Mica tanto pochi», disse il prete. Un altro uomo dalla fronte obliqua entrò nel salone. «Che razza di compito ci hanno affidato!» disse il generale. «Non posso incontrare nessuno senza chiedermi subito quale dev'essere la forma del suo cranio.» «Mi scusi se mi permetto questa osservazione, ma mi sembra che lei beva un po' troppo», disse amabilmente il prete fissandolo coi suoi occhi grigi. In quel momento il generale ebbe l'impressione che il colore di quegli occhi si confondesse con quello dello schermo del televisore collocato in fondo alla sala. «Di un televisore che non funziona», pensò. «O, meglio, di uno schermo che riproduce sempre lo stesso programma, perfettamente incomprensibile.» 37 Guardò per un istante il bicchiere trasparente facendoselo girare fra le dita. «E che dovrei fare, secondo lei?» disse, con una certa irritazione. «Che cosa mi consiglia? Di prendere delle foto per mostrarle poi a mia moglie, oppure di tenere un diario e annotarvi le curiosità del paese? Eh, che ne pensa?» «Non ho detto niente di questo. Le ho semplicemente fatto osservare che forse beve un pochino troppo.» «E io, guarda un po', trovo sorprendente che lei non beva. Molto sorprendente, anzi.» «Non ho mai bevuto liquori», disse il prete. «Non è una ragione per non berne adesso. Su, faccia come me, beva tutte le sere per dimenticare quello che ha visto nel corso della giornata.» «E perché dovrei dimenticare quello che ho visto nel corso della giornata?» «Perché apparteniamo alla stessa patria di quei poveretti», disse il generale picchiando il dito sulla borsa. «Non ha pietà di loro?» «La prego di non offendermi», ribatté il prete. «Alla mia patria ci tengo quanto lei.» Il generale sorrise. «Sa», disse, «ho notato che i discorsi che ci andiamo scambiando da tre giorni ricordano stranamente i dialoghi di certi lavori teatrali moderni, del resto noiosissimi.» Il prete sorrise a sua volta. «E' nella natura delle cose. Tutti i discorsi, i discorsi di noi tutti, somigliano sempre in un modo o in un altro ai dialoghi dei drammi o delle commedie.» «Le piace il teatro contemporaneo?» «In una certa misura sì.» Il generale lo fissò a lungo negli occhi prima di distogliere lo sguardo. «I miei poveri soldati», disse d'improvviso, come se uscisse da un sogno. «Quando penso a loro mi si spezza il cuore. Mi sento come un padre adottivo che circondi di cure e di premure figli che altri hanno abbandonato. Per questi figli si nutre a volte un affetto ancora più profondo che per quelli del proprio sangue. Ma che cosa posso fare per loro? Come vendicarli?» «Anch'io ho il cuore straziato», disse il prete. «Ma se il mio cuore 39 sanguina, ribolle anche di odio.» «Siamo impotenti, con in mano solo queste carte e questi verbali. Non facciamo che correre dietro alla morte. E dobbiamo cercarli uno per uno. E' triste essere arrivati a questo punto.» «E' il destino.» Il generale scosse il capo. «Ancora una volta come a teatro!» pensò. «Questo prete sembra di metallo. Ma sarei proprio curioso di sapere se con la bella


vedova del colonnello si è mostrato altrettanto metallico.» Tentò di immaginare come il prete potesse comportarsi quando restava solo con una bella donna e come dovesse sollevarsi la sottana per inginocchiarsi davanti a lei. «Le è solamente piaciuto, oppure è stato l'interesse a spingerla verso di lui? E' peraltro possibile che tra loro ci sia stato davvero qualcosa?... Ma, in fondo, che m'importa?» Una voce proveniente dalla radio del salone richiamò la sua attenzione. Tese l'orecchio. L'albanese gli sembrava una lingua aspra. L'aveva spesso sentito parlare nei cimiteri dai contadini che andavano a dare una mano agli operai nei lavori d'esumazione. «E anche quei poveri morti hanno certamente udito questa lingua fatale», pensò. «Ecco, questo dev'essere il giornale radio.» Coglieva infatti parole che gli erano familiari: «Tel Aviv, Bonn, Laos...» «Quante città sparse per il mondo!» disse tra sé e portò di nuovo la mente a tutti quei soldati venuti in Albania da paesi così diversi; alle targhe di latta arrugginita, alle croci, alle tracce sul suolo, ai nomi scritti in malo modo. Ma le tombe, per la maggior parte, non recavano contrassegni distintivi. Peggio: i più dei morti che cercavano non avevano sepoltura. Erano ammucchiati in fosse comuni, gettati alla rinfusa nel fango. E c'erano di quelli che non riposavano neppure nel suolo fangoso, di quelli che esistevano solo sugli elenchi. Avevano ritrovato i resti di uno dei loro al museo d'una piccola città del Sud. Il museo era stato fondato da un gruppo di cittadini appassionati al passato della loro città. In una cella profonda della vecchia cittadella avevano scoperto, fra le altre vestigia, alcuni resti umani. Per settimane, al caffè, gli archeologi dilet 41 tanti avevano emesso le ipotesi più svariate circa l'origine di quelle ceneri. Due di loro stavano addirittura scrivendo un articolo dalle tesi audaci e dotte, destinato a una rivista, quando arrivò il gruppetto dei cercatori di ceneri. L'esperto aveva, per caso, fatto una visitina al museo e vi aveva immediatamente riconosciuto lo scheletro dalla medaglietta. (Gli archeologi dilettanti avanzavano nel loro articolo due ipotesi sull'origine di tale oggetto: o era un ornamento, dicevano, o era una moneta dell'epoca romana. Ma la visita dell'esperto al museo mise fine a tutte quelle congetture.) Rimaneva da chiarire un solo punto: come aveva fatto quel soldato a introdursi nell'impenetrabile dedalo della cittadella, e perché. «Mi chiedo chi può essere quel soldato», disse il generale. «Quale?» domandò il prete. «Quello che hanno scoperto nella cittadella.» «Ma non ne abbiamo ritrovato il nome?» «Sì», disse il generale, «ma avrei voluto sapere se è uno di quelli i cui genitori sono venuti personalmente a trovarci.» «Sono venuti in tanti a chiederci di interessarci ai loro cari!» disse il prete. «Come possiamo rammentarci di tutti quei nomi?» «Infatti non è possibile. E poi ci sono troppi nomi identici. Gli elenchi sono troppo lunghi e io, per parte mia, non riesco più a ricordarmi d'una sola delle loro raccomandazioni.» «Era un soldato come tanti altri», disse il prete. «A che servono tutti quei nomi e quelle schede segnaletiche così dettagliate?» disse il generale. «Un mucchio d'ossa, dopotutto, può ancora portare un nome?» Il prete scosse il capo come a significare: «Non possiamo farci niente, è così!» «Dovrebbero avere tutti lo stesso nome, così come portano al collo una medaglietta identica», riprese il generale. Il prete non rispose. Dalla taverna le


note dell'orchestra salivano sempre fino a loro. Il generale continuava a fumare. «Orribile quel che han potuto uccidere dei nostri», disse come in sogno. «Infatti.» 43 «Anche noi abbiamo ucciso molti dei loro.» Il prete rimase in silenzio. «Sì, anche noi abbiamo ucciso molti dei loro», ripeté il generale. «Se ne trovano tombe in tutto il paese. Sarebbe stato triste e umiliante vedere dappertutto soltanto i cimiteri isolati dei nostri soldati.» Il prete scosse la testa senza, peraltro, far capire se era o no del parere del generale. «Magra consolazione», disse il generale. Il prete scosse di nuovo la testa come dire: «Non possiamo farci niente». «Non l'ho capita», disse il generale. «Trova che questa sia per noi una consolazione oppure no?» Il prete allargò le mani aperte. «Sono un sacerdote, non posso approvare l'omicidio.» «Ah!» fece il generale. I due fidanzati si alzarono e uscirono dal salone. «Ci siamo ferocemente scannati a vicenda», riprese il generale. «Quei demoni erano davvero forti in guerra.» «Si spiega», disse il prete. «Il loro non è un coraggio cosciente. Deriva dalla loro psicologia.» «Non capisco», disse il generale. «Eppure è semplice», proseguì il prete. «In guerra alcuni sono guidati dalla ragione, sia essa solida o precaria, altri invece sono guidati dall'istinto.» «Già!» «Gli albanesi sono un popolo rozzo e arretrato. Gli mettono, appena nati, un fucile nella culla, affinché quest'arma diventi parte integrante della loro esistenza.» «E si vede», disse il generale. «Reggono persino gli ombrelli come se fossero fucili.» «Il fucile», proseguì il prete, «diventando una componente del loro essere sin dalla più tenera età, un elemento costitutivo della loro vita, influisce direttamente sulla formazione della loro psicologia.» «E' strano.» «Ma quando per un oggetto si nutre una specie di culto, si ha naturalmente voglia di servirsene. E qual è il miglior uso che si possa fare di un fucile?» «Uccidere, s'intende», disse il generale. 45 «Proprio così. Gli albanesi hanno sempre avuto il gusto di uccidere o di farsi uccidere. Quando non hanno trovato un nemico da combattere si sono uccisi tra loro. Ha mai sentito parlare delle loro faide?» «Sì.» «A spingerli alla guerra è un istinto atavico. Lo chiede, lo esige la loro natura. In tempo di pace gli albanesi si intorpidiscono, sonnecchiano, come i serpenti in inverno. Solo in battaglia la loro vitalità si dà libero sfogo.» Il generale scosse il capo. «La guerra è la condizione normale di questo paese. Perciò i suoi abitanti sono così feroci, così pericolosi; perciò, quando picchiano, non conoscono limiti.» «In altre parole, questo popolo, divorato com'è da questa sete di annientamento, o di autoannientamento, è destinato a sparire», disse il generale. «Naturalmente.» Il generale bevve ancora. Adesso articolava difficilmente le parole. «Odia gli albanesi, lei?» domandò improvvisamente. Il prete abbozzò un sorriso. «No, perché?» Il generale si chinò per parlargli all'orecchio. Il prete non trattenne un piccolo gesto di ripugnanza sentendone l'alito impregnato d'alcool. «Come perché?» disse il generale abbassando la voce. «So bene che li odia, come li odio io, solo che per il momento non ci conviene dirlo.» Capitolo Iv Si augurarono la buonanotte e il generale, richiusa la porta della sua


camera, si sedette a un tavolino sul quale cadeva la luce di una lampada provvista di abat-jour. Nonostante l'ora tarda non aveva sonno. La borsa giaceva sul tavolo, allungò automaticamente la mano per prenderla. Ne trasse gli elenchi dei militari caduti e cominciò a sfogliarli. Ce n'era un grosso pacco ed eran divisi e tenuti insieme da fermagli in gruppi di quattro, cinque o dieci fogli. Li scorreva e, per l'ennesima volta, rileggeva di passata i titoli in lettere maiuscole di ogni elenco: «Reggimento della Gloria», «Seconda Divisione», «Secondo Corpo d'armata», «Divisione di 47 Ferro», «#:o Battaglione alpini», «#:a Unità speciale», «#.o Reggimento della Guardia», «Divisione Vittoria», «#)a Divisione di fanteria», «Battaglione azzurro» (unità punitiva)... Indugiò un istante sull'ultimo elenco. Vi figurava in testa il nome del colonnello Z., seguivano in ordine alfabetico i nomi degli altri caduti, ufficiali, sottufficiali e soldati, classificati per plotoni e compagnie. «Battaglione azzurro, un bel nome», pensò. Avevano cominciato a battere a macchina gli elenchi in primavera. Nei lunghi uffici dei ministeri, accanto ad ampie vetrate, giovani dattilografe vestite e pettinate all'ultima moda battevano con le dita sottili i tasti delle macchine. Tac-tac-tac... Una specie di mitragliamento sotto i loro occhi indifferenti dalle ciglia spalmate di rimmel. Mise da parte gli elenchi nominali di base e ne tirò fuori altri, pieni di note e di crocette rosse in margine. Questi elenchi contenevano indicazioni concrete che dovevano facilitare la ricerca delle spoglie. I militari, qui, non erano raggruppati secondo le loro formazioni bensì secondo i luoghi in cui erano caduti e accanto a ogni nome era scritta la quota corrispondente al rilevamento delle carte topografiche, nonché la statura e le caratteristiche dentarie di ciascuno. I nomi di coloro che erano stati già ritrovati erano contrassegnati da crocette rosse, ma queste erano ancora rare. «Dovrei trascrivere questi risultati sugli elenchi di base e fare il bilancio del primo giro», pensò il generale. «Ma è molto tardi.» Non sapendo che fare riprese inconsciamente la lettura. Sugli elenchi che recavano le indicazioni dettagliate i titoli erano seguiti in parentesi dalla traduzione, e tutti quei nomi di valli, di colli, d'altipiani, di corsi d'acqua e di città gli parvero stranissimi e macabri. Aveva la sensazione che quei luoghi, ciascuno in misura diversa, si fossero spartiti quei morti e che ora egli fosse venuto a portarglieli via. Fermò di nuovo lo sguardo su uno degli elenchi. Era l'«elenco degli scomparsi» e si apriva anch'esso con il nome del colonnello Z'. «Un metro e ottantadue, primo incisivo destro in 49 oro», lesse il generale; poi esaminò l'elenco sino in fondo. Un metro e settantaquattro, due premolari mancanti; un metro e sessantacinque, molari della mascella superiore mancanti; un metro e novanta, ponte metallico degli incisivi; un metro e settantuno, dentatura completa; due metri e dieci. «Questo dev'essere certamente il più alto dell'elenco. Chi sa quant'è alto il più alto di tutti! In quanto al più piccolo, ne conosco bene la statura: un metro e cinquantuno, è il regolamento. Di solito i più alti sono quelli del #.o Reggimento della Guardia, e i più bassi gli alpini. Ma cosa sono tutte queste sciocchezze che mi passano per la mente!» Spense la luce e si mise a letto. Non riusciva a prender sonno. «Non avrei dovuto bere quel


maledetto caffè a tarda sera.» Fissava il soffitto bianco della camera, spazzato a intermittenza dai fari delle macchine che passavano sul viale. La luce, attraversando le tapparelle non interamente abbassate, si proiettava, zebrata, sul soffitto e lui aveva l'impressione di vedere sopra di sé lo schermo d'un apparecchio di raggi X dove alcuni sconosciuti, l'uno dopo l'altro, si facevano esaminare. «Gli elenchi sono lì sul tavolo, sparsi», pensò, e a questa idea fu colto da un brivido. «Avrei fatto bene a condurre mia moglie con me. Adesso saremmo tutt'e due a letto, a fianco a fianco, nel buio, parleremmo a bassa voce, le confiderei tutte le mie ansie. Ma avrebbe paura, come gli ultimi giorni prima della mia partenza per l'Albania.» Quegli ultimi giorni erano stati assai diversi da quelli della sua solita esistenza, pieni di un elemento nuovo e sconosciuto. Il maltempo era riapparso e lui era appena tornato dal mare quando gli si era presentato in casa il primo visitatore. Stava leggendo nel suo studio quando la cameriera gli aveva annunciato che qualcuno, in salotto, desiderava parlargli. L'uomo era in piedi accanto alla finestra. Fuori, il giorno declinava e alcune ombre dalle forme mobili vagavano, come stravolte, nello spazio. Al rumore della porta che si apriva, il visitatore si voltò e salutò il generale. «Mi scusi se la disturbo», disse 51 con voce sorda, «ma ho saputo che fra poco lei partirà per l'Albania per riportarne i resti dei nostri compatrioti che vi riposano.» «Esatto», disse il generale. «Conto di partire fra una quindicina di giorni.» «Avrei da rivolgerle una preghiera», riprese a dire l'uomo traendo di tasca una carta sgualcita dell'Albania. «Ho fatto la guerra in quel paese, come soldato, per due anni.» «In quale unità?» «Divisione di Ferro, #?o battaglione, plotone mitraglieri.» «L'ascolto», disse il generale. Lo sconosciuto si chinò sulla vecchia carta dispiegata e dopo aver cercato per un momento mise l'indice su un punto. «Qui, nel corso di una campagna in grande stile, in pieno inverno, il nostro battaglione è stato distrutto dai partigiani albanesi. Quelli di noi che riuscirono a scampare alla morte si dispersero, quella notte, in tutte le direzioni. Avevo con me un compagno ferito. Spirò poco prima dell'alba, mentre lo trascinavo all'ingresso di un villaggio abbandonato. Lo seppellii con le mie mani, come meglio potei, dietro la chiesina del villaggio, e andai via. Tutto qui. Nessuno suppone l'esistenza di quella tomba. Ecco perché sono venuto da lei. La supplico, quando passerà di lì, di cercare i suoi resti e di riportarli assieme agli altri.» «Il suo nome deve figurare certamente nell'«elenco degli scomparsi». Gli elenchi sono molto precisi, ma lei ha fatto benissimo a venire da me, perché le probabilità di ritrovare degli «scomparsi» sono sempre poche. Il buon esito è affidato, il più delle volte, al caso.» «Ho preparato anche un piccolo schizzo, alla meno peggio», disse lo sconosciuto traendo di tasca un foglio sul quale aveva scarabocchiato qualcosa che somigliava a una chiesa e, dietro, due frecce sopra le quali aveva scritto con l'inchiostro rosso la parola «tomba». «Poco distante», proseguì «c'è una fontana e, più lontano, a destra, ci sono due cipressi, ecco, in questo punto qui», e fece un altro segno sulla carta, accanto alla chiesa. «Bene», disse il generale. «La ringrazio.» «Sono io che devo ringraziare lei», 53 disse l'altro. «Era il mio migliore amico.» Voleva aggiungere qualche cosa, forse un particolare, ma l'aria grave e severa


del generale gli impedì di dire altro. Poi si era accomiatato senza che il generale gli avesse fatto declinare l'identità o l'occupazione. E quello era stato solo l'inizio. Ogni pomeriggio udiva squillare continuamente il campanello, e nuovi visitatori riempivano il salotto. Era gente d'ogni condizione, d'ogni mestiere o professione, donne, vecchi, genitori di soldati, ex combattenti, e avevano tutti la stessa aria timida quando si sedevano sul grosso divano in attesa di essere ricevuti. Poi ne vennero anche altri, da numerose città e province. Aspettavano in salotto con un'aria ancora più imbarazzata e duravano una gran fatica a spiegarsi, poiché tutte le informazioni che potevano fornire sui loro cari caduti in Albania erano quanto mai sommarie e incerte. Il generale prendeva nota su un taccuino di tutto quello che gli si diceva, badando sempre a ripetere: «Non si preoccupi. Gli elenchi redatti dal ministero della Guerra sono molto precisi e noi, grazie alle dettagliate indicazioni che essi comportano, non mancheremo di ritrovare tutti coloro che cerchiamo. Ad ogni modo, prendo nota delle informazioni che lei mi fornisce. Potranno esserci utili». Se ne andavano dopo averlo ringraziato e l'indomani si era alle solite: ne venivano altri, con l'impermeabile inzuppato. Per quanto badassero a camminare con precauzione sullo spesso tappeto vi lasciavano sempre l'impronta delle scarpe. Alcuni temevano che i loro parenti non fossero iscritti negli elenchi, altri presentavano telegrammi ricevuti dal comando durante la guerra e recanti la data e il luogo in cui il soldato era «caduto sul campo di battaglia», altri ancora, soprattutto i vecchi genitori, non riuscendo a credere che i loro cari potessero essere ritrovati col solo ausilio delle indicazioni tracciate negli elenchi, se ne andavano disperati, supplicando ancora una volta il generale di non risparmiare nessuno sforzo nelle sue ricerche. Avevano tutti la loro piccola storia da raccontare e il generale li ascoltava pazientemente, uno alla vol 55 ta, dalle donne risposate che, all'insaputa del nuovo marito, si interessavano alla sorte del primo, ai giovani di vent'anni, in maglione e trench, che non avevano mai conosciuto il padre caduto in guerra. L'ultima settimana prima della partenza il numero dei visitatori si era accresciuto. Di ritorno dal quartiere, il generale trovava il salotto gremito di gente. La stanza aveva l'aspetto d'un corridoio di clinica pieno di malati in attesa della visita, ma qui il silenzio era ancora più assoluto. I visitatori restavano muti per ore, gli occhi fissi sui disegni del tappeto, e alzavano la testa solo quando un nuovo venuto entrava per andare a sedersi in un angolo. Altri, contadini venuti da lontano, si presentavano con al braccio un fagotto che deponevano ai loro piedi, mentre, fuori, erano le biciclette parcheggiate lungo il marciapiede a richiamare, appena scendeva dalla macchina, l'attenzione del generale. Il quale raggiungeva poi direttamente il salotto dove l'odore acre degli abiti di spessa lana bagnata dei contadini, mescolato al profumo di qualche signora elegante, lo prendeva alla gola. Tutti, quando entrava, si alzavano rispettosamente, senza dire una parola, ben sapendo che non era ancora il momento di parlargli. «Papà», gli domandavano i figli quando, dopo essersi tolto il cappotto, si metteva a tavola nella stanza da pranzo, «chi sono tutte quelle persone?» Il generale, ridendo, tentava di eludere la loro curiosità con una celia.


Ma quelli insistevano. «Partono per la guerra?» gli domandava il figlio. «No, ci sono già stati.» «Ma allora perché vengono qua? Cosa vogliono?» «Hanno dei parenti sotto le armi e desiderano far loro pervenire lettere e pacchi.» Poi, dopo colazione, entrava nel salotto dove i visitatori, a turno, gli esponevano il loro caso. Discorsi che si somigliavano tutti. Ciò ch'egli udiva dalle loro bocche gli era diventato così familiare che alcune donne preoccupate della sorte del figlio o del marito non riuscivano a trattenere i singhiozzi e lui, allora, diventava sempre più nervoso. 57 «Basta!» gridò a una donna in lacrime. «Non è qui che deve venire a lamentarsi! Suo figlio è caduto sul campo di battaglia, dove lo aveva mandato la patria. E' caduto da valoroso.» «Valore funesto!» mormorò la donna. Un altro giorno un pezzo d'uomo, appena entrato, gridò dalla soglia: «La sua missione è un inganno!» Il generale impallidì per l'ira: «E' un linguaggio da venduto! Esca!» A metà settimana notò, fra i visitatori che lo attendevano, una donna molto vecchia accompagnata da una bimba. Sembrava allo stremo delle forze e lui andò subito verso di lei. «Mio figlio è sempre lì», disse lei con voce fioca. «Il mio unico figlio.» E trasse di tasca un sacchetto che aprì con mani tremanti e da cui tirò fuori un telegramma ingiallito dal tempo, che gli porse. Lui vi lesse la formula d'uso del comando militare che annunciava ai genitori la morte del figlio e indugiò sull'ultima parte della frase: «... caduto sul campo di battaglia di Stalingrado». Tentò di spiegarle: «Mi spiace, signora, ma io devo recarmi in Albania, non in Russia». La vecchia lo fissò per un istante con gli occhi spenti, senza evidentemente cogliere il senso di quelle parole. «Devo farti una preghiera», disse. «Potrei riuscire a sapere dove e come è morto, chi si trovava accanto a lui negli ultimi momenti, chi gli ha dato da bere e quali sono state le sue ultime volontà?» Il generale si sforzò di farle intendere che non andava in Russia, ma la vecchia, che continuava a non capire, seguitava a rinnovare la sua preghiera, mentre tutti, nel salotto, si guardavano in silenzio. «Stia tranquilla, mia buona signora», interloquì infine qualcuno con dolcezza, «il generale farà tutto il possibile per accontentarla.» La vecchia, allora, ringraziò e uscì, tutta curva, appoggiandosi con una mano al bastone e con l'altra alla spalla della bimba che l'accompagnava. Un pomeriggio, due giorni dopo, un uomo dall'aria particolarmente cupa attese che tutti fossero usciti. «Anch'io sono stato generale», disse in un tono da cui trapelava l'irri 59 tazione, «e ho fatto la guerra in Albania.» Per un istante si guardarono con disprezzo: l'uno perché aveva dinanzi a sé un generale vinto, l'altro perché si trovava di fronte a un generale di tempo di pace. «Che cosa desidera?» domandò freddamente il generale in servizio. «In realtà nulla. Da lei non mi aspetto effettivamente nulla di serio. A dire il vero, non ho nessuna fiducia in lei e, in fondo, trovo che tutto questo è ridicolo. Ma dal momento che si è assunto questa missione deve andare sino in fondo, diamine!» «Potrebbe esprimersi più chiaramente?» «Non ho nulla da aggiungere. Ho semplicemente voluto avvertirla. Stia in guardia. Tenga la testa alta, non l'abbassi mai davanti a loro. La perseguiteranno con le loro provocazioni, forse con le loro beffe, ma bisogna sapergli rispondere. Dovete esser vigili, lei e i suoi compagni. Tenteranno di recare oltraggio alle ceneri dei


nostri soldati. Li conosco bene. Spesso si burlavano di noi. Se a quel tempo ci trattavano così, si figuri un po' quello che saranno capaci di fare adesso!» «Non tollererò in alcun modo simili comportamenti.» L'altro lo guardò con aria di commiserazione, come se stesse per dirgli: «Poveretto!» e uscì senza neppure salutarlo. I tre giorni successivi, gli ultimi prima della partenza, il salotto del generale era continuamente pieno. Stufo di quei preparativi, ora desiderava partire al più presto. Sua moglie era diventata molto nervosa. Una sera, a letto, mentre chiacchieravano l'uno accanto all'altra, lei gli disse quello che l'accorava: «E se rifiutassi questa missione? Ho l'impressione che la morte sia entrata in questa casa». Lui la tranquillizzò come meglio poté, ma quella notte riuscì a stento a chiuder occhio. Gli sembrava che l'indomani dovesse partire per la guerra. Ricevette l'ultimo visitatore la mattina stessa della partenza. Era molto presto, ché doveva recarsi di buon'ora all'aeroporto. Uscito nel giardino per aprire la porta del garage, scorse due uomini accovacciati, e imbacuccati in una grossa coperta, che 61 dormivano appoggiati al cancello. Erano un vecchio e un giovane, suo nipote. Venivano da una remota regione di confine. Avevano viaggiato per diversi giorni per arrivare finalmente con l'ultimo treno della notte. E non avendo avuto il coraggio di suonare a un'ora così tarda, s'erano buttati giù sul marciapiede e si erano addormentati in attesa del giorno. Il generale ripeté per l'ultima volta le parole che aveva pronunciato tante volte: «Gli elenchi sono stati compilati con la massima cura, non si preoccupi, li ritroveremo». Il vecchio contadino ringraziò con un su e un giù del capo, raccogliendo la coperta che il nipote e lui, svegliati di soprassalto dal cigolio della porta, avevano lasciato cadere ai loro piedi. Tutto qui. Erano terminate a questo modo le ultime due settimane che il generale, di ritorno dal mare, aveva trascorso in città, a casa sua. Capitolo V Erano ripartiti. Cadeva una pioggia sottile. Da settimane percorrevano regioni impervie, con rari villaggi. La loro auto viaggiava in testa, seguita dal camion che trasportava gli operai e gli arnesi. La strada era molto frequentata. Contadini chiusi nei loro stretti abiti di spessa lana nera vi passavano continuamente nei due sensi, a piedi, a cavallo o appollaiati sulla sponda posteriore dei camion. Il generale osservava attentamente il rilievo del suolo. Tentava di immaginare la tattica che dovevano aver impiegato i diversi eserciti contrapposti nel corso delle guerre di cui quel paese era stato teatro. A un chiosco non lontano dal centro di una località si vendevano giornali. Molta gente si accalcava intorno allo sportello. Alcuni leggevano in piedi, altri scorrevano il giornale mentre si allontanavano. «Gli albanesi sono assidui lettori di giornali», disse a un tratto il generale. Il prete, nel suo angolo, uscì dal torpore. «E' perché si interessano molto alla politica. Da quando si sono guastati con l'Unione Sovietica sono rimasti completamente isolati in Europa.» «Come sempre.» «Adesso sono sottoposti a un bloc 63 co.» «Un paese così piccolo e sottoposto a un blocco... Strano!» «Sì, strano, ha ragione. E dureranno fatica a resistere in queste circostanze.» «Un popolo diabolico», disse il generale. «Con la forza, evidentemente, non lo si può domare. Forse si


inchinerebbe davanti alla bellezza.» Il prete si mise a ridere. «Perché ride?» Il prete continuò a ridere senza rispondere. Il generale osservava il cupo paesaggio immerso nella nebbia, i fianchi spogli delle montagne e la gran quantità di sassi d'ogni dimensione che ricoprivano il suolo. Si sentì invadere da una tristezza profonda. Da una settimana, ormai, non vedevano altro che quei versanti rocciosi. Gli sembrava che questi, nella loro selvaggia nudità, nascondessero un terribile segreto. «E' un paese tragico», disse. «Anche i loro abiti hanno qualcosa di tragico. Guardi quei mantelli neri, guardi le gonne delle donne.» «Che direbbe, allora, se udisse i loro canti? Sono ancora più lugubri. Si spiegano con il destino di questo paese. Non c'è popolo che, nel corso dei secoli, abbia conosciuto una sorte più triste. Di qui questa rozzezza, quest'asprezza.» «Non hanno canzoni allegre?» «No. Quasi nessuna.» L'auto scendeva lungo la strada di montagna. Faceva freddo. Ogni tanto i camion facevano urlare i motori. Su un versante si ergeva una grande fabbrica in costruzione. Il paesaggio nudo permetteva al cantiere di stagliarsi, gigantesco, su uno sfondo di nebbia. «Una fabbrica per il trattamento del rame», disse il prete. Ogni tanto, agli incroci, riapparivano le casematte, quadrate, circolari o esagonali, provviste di feritoie che davano sulla strada. A ogni svolta l'automobile entrava nel loro raggio di tiro e il generale fissava le strette feritoie abbandonate, davanti alle quali l'acqua scorreva a goccia a goccia. «Siamo passati!» diceva tra sé ogni volta che la macchina usciva dal raggio di tiro, ma alla curva successiva un'altra casamatta sembrava spuntare 65 dal suolo e la macchina pareva entrare sotto il suo fuoco. Il generale guardava l'acqua scorrere lungo il finestrino e a volte, quando si abbandonava a un pisolino, aveva l'impressione che i cristalli della vettura volassero in mille pezzi sotto i proiettili: allora si svegliava di soprassalto. Ma le casematte erano silenziose e abbandonate. A osservarle con attenzione, facevan pensare vagamente a sculture egizie dall'espressione ora fredda e sprezzante ora enigmatica, a seconda della disposizione delle feritoie. Quando queste erano disposte verticalmente i fortini avevano un'espressione truce e minacciosa, evocante qualche spirito maligno; quando, invece, le feritoie erano orizzontali la strana mimica delle casematte traduceva indifferenza e disprezzo. Raggiunsero verso mezzogiorno la pianura ed entrarono infine in un villaggio con le case sgranate sui due lati della strada. Non pioveva più. Alcuni bimbi, come al solito, si raggrupparono intorno alla vettura. Si chiamavano da lontano e correvano da tutti i sentieri adiacenti verso la strada maestra. Il camion si fermò dietro l'auto, a pochi metri di distanza, gli operai saltarono a terra uno dopo l'altro e cominciarono ad agitarsi sul posto per sgranchirsi le membra. I contadini che passavano si fermavano per guardare gli stranieri. Pareva non ignorassero la ragione di quella visita. Si leggeva sui loro volti. Soprattutto su quelli delle donne. Il generale, adesso, conosceva bene quella espressione indecifrabile negli occhi degli abitanti. «Gli ricordiamo l'invasione», pensò, «e, da una regione all'altra, i volti sono tanto più enigmatici quanto più accaniti sono stati i combattimenti.» Al limite del villaggio, in un terreno incolto, si allineavano numerose tombe. Il cimitero era circondato da un muretto qua e là demolito.


«Tutti quelli che riposano qui sono nostri compatrioti», disse tra sé il generale. Si avvolse con un brivido di freddo nel lungo impermeabile. Un po. più lontano il prete immobile, sembrava una croce nera. «E' facile capire come abbiano potuto farsi accerchiare», pensò il generale. «Hanno certamente tentato di scappare dal ponte che valica il fiume e lì si saranno 67 fatti beccare tutti. Vorrei proprio sapere chi è stato quell'idiota d'ufficiale che li ha cacciati in quella trappola. Le targhe non dicono niente al riguardo.» L'esperto albanese procedette alle formalità d'uso. Altre tombe apparivano più lontano. Erano vicinissime al villaggio e recavano tutte in testa una stella rossa. Il generale riconobbe subito i «cimiteri dei martiri», come gli abitanti del paese chiamavano i luoghi di sepoltura dei partigiani. Qui sette suoi compatrioti erano stati sepolti accanto agli albanesi. Sulle targhette di latta ornate d'una stella rossa si potevan leggere, zeppi di errori d'ortografia, i nomi di quei soldati, la loro nazionalità e la data della loro morte, la stessa per tutti. Su una lastra di pietra erano incise queste parole: «Questi soldati stranieri sono morti da eroi combattendo al fianco dei partigiani albanesi contro le forze del Battaglione azzurro, il 17 marzo 1943». «Sempre questo Battaglione azzurro», disse il generale procedendo lungo i viali del cimitero. «E' la seconda volta che capitiamo sulle tracce del colonnello Z'. In base agli elenchi, due suoi uomini devono riposare in questo villaggio.» «Bisogna chiedere agli abitanti se sanno qualcosa del colonnello», disse il prete. «Quantunque nel marzo del #'dc fosse ancora in vita.» «Esatto. Ma dobbiamo informarci lo stesso.» Mentre i visitatori erano intenti a riempire i formulari delle spese alcuni contadini si erano raccolti, senza farsi notare, lungo il cimitero. Poi avanzarono anche alcune donne. I bimbi si erano spinti ancora più avanti e rimanevano lì a parlarsi all'orecchio, agitando le testine bionde. Tutti seguivano con gli occhi l'andirivieni del gruppetto all'interno del cimitero. Una vecchia con un bariletto sulle spalle mosse verso di loro. «Li portano via?» domandò a voce bassa. «Sì, li portano via», sussurrarono alcune voci. La vecchia, in piedi, sempre col fardello in spalla, guardava la scena come gli altri contadini. A un certo momento fece qualche passo avanti e si rivolse agli operai: 69 «Ditegli di non metterli assieme agli altri. Li abbiamo pianti come i nostri, quelli lì, secondo la nostra usanza». Il generale e il prete si voltarono in direzione della vecchia, ma questa aveva già girato le spalle e si allontanava. Per un momento videro ancora il bariletto dondolarsi, poi la donna scomparve a un gomito del sentiero. I contadini, raggruppatisi lungo il cimitero, se ne stavano così quieti che a stento se ne sarebbe notata la presenza. Osservavano attentamente i movimenti di quegli uomini che col bavero del cappotto alzato per il freddo andavano e venivano con l'aria di cercare invano qualche cosa. «I lavori nei due cimiteri cominceranno domani. Oggi cercheremo i due soldati del Battaglione azzurro e quel pilota abbattuto», disse il generale. Tutti quelli del villaggio conoscevano la storia dell'aviatore. I resti del suo apparecchio erano sparpagliati nel boschetto sull'altro lato del villaggio. Il pilota era stato sepolto dai contadini stessi, accanto all'aereo. Della tomba non si distingueva più alcuna traccia, tranne una grossa pietra che evidentemente ne indicava la testa. In quanto all'aereo, rimaneva solo


un mucchio di rottami arrugginiti. Un contadino aveva loro raccontato che ne erano state smontate a poco a poco tutte le parti che potevano risultare utili, dai pezzi di gomma e di pneumatici bruciati durante la guerra a guisa di candele, ai pesanti pezzi di metallo che si prestavano a svariati usi. Due operai si misero subito a scavare. Il resto del gruppo ripartì verso il villaggio. Da molto tempo non pioveva più, ma i solchi scavati nei sentieri dalle ruote dei carri e dei trattori rimanevano pieni d'acqua. Qua e là si ergevano mucchi di fieno mezzo consunti, ancora fradici di pioggia. Fra i cipressi si profilava in lontananza il campanile della vecchia chiesa; da un campo di là dai cipressi giungeva l'urlo sordo di un trattore. Fecero colazione in macchina, poi andarono a bere un caffè al circolo della cooperativa. La sala era piena di fumo, quasi inesistenti i tavoli liberi. Una piccola radio gridava, a tutto volume. I contadini chiacchiera 71vano a voce alta. Si vedeva che erano uomini della pianura: dai capelli stinti dal sole, dalla pelle sciupata. Anche il timbro di voce era diverso da quello dei montanari, più dolce, più melodioso. Mentre sorseggiava il caffè, il generale percorreva con lo sguardo gli slogan scritti in rosso sulle pareti. Distinse solo le parole «imperialismo», «revisionismo», «plenum» e il nome di Enver Hoxha che lesse sotto una citazione. Poco dopo l'esperto li raggiunse al circolo. Era accompagnato da un giovanotto in giacca di velluto a grosse coste, e l'esperto fece le presentazioni: «Il capo della cooperativa. Il generale...» Il giovanotto fissò sullo straniero due occhi grigi un po' meravigliati, poi guardò l'esperto. Questi allora disse: «Ecco di che si tratta. Questa settimana contiamo di fare degli scavi nei due cimiteri militari situati in prossimità del vostro villaggio. Abbiamo, s'intende, i nostri operai, ma per accelerare i lavori desidereremmo avere, se è possibile, una mano da parte vostra». «Vi occorrono altri uomini?» domandò il capo della cooperativa. «Appunto.» Per un istante il giovane parve imbarazzato, poi disse: «Il fatto è che adesso i nostri uomini sono molto occupati. Siamo in piena aratura e, per di più, quest'anno il tabacco e il cotone non vanno un gran che. Perciò...» «Ma sarà solo per pochi giorni», l'interruppe l'esperto. «E poi devi sapere che gli uomini della cooperativa saranno retribuiti regolarmente. Queste persone», e l'esperto gli indicò con lo sguardo il generale e il prete, «sono disposte a pagare trenta nuovi lek per ogni tomba aperta e cinquanta per ognuna di quelle che contengono i resti di uno dei loro.» «Paghiamo bene», disse a sua volta il generale. «Non si tratta di questo», disse il capo della cooperativa. «Voglio sapere se questo genere di lavoro è autorizzato dal governo. Voglio, cioè...» «Se è per questo, non ti preoccupare», interloquì l'esperto. «Ho un permesso della presidenza del Consiglio. Guarda qui...» 73 Il giovane lesse il foglio che l'altro gli porgeva, poi rifletté un istante. «A ogni modo, dovrete intendervi col Comitato esecutivo del distretto.» «D'accordo!» disse l'esperto. «Domani stesso, quando andremo in città.» «Per parte mia, posso darvi dieci uomini per tre o quattro giorni.» «Benone.» Il generale ringraziò e i visitatori si alzarono. Nessuno, nel villaggio, sapeva niente dei due soldati del Battaglione azzurro caduti e sepolti in quel luogo. In quanto al colonnello Z., gli anziani se lo ricordavano bene. Due volte era passato di lì col suo battaglione


e due volte aveva appiccato il fuoco al villaggio. I giovani si ricordavano solo d'esser saliti in cima alla collina dove si erano rifugiati i contadini, abbandonati averi e bestiame, e d'aver visto di lassù le loro case bruciare. Nessuno aveva mai sentito parlare dei due soldati. Molto verosimilmente dovevano essere stati sepolti dai loro stessi compagni dopo che gli abitanti avevano evacuato il villaggio. «Li ritroveremo lo stesso», disse il generale. «Il punto in cui sono sotterrati è indicato con precisione sulla carta, ma se ho interrogato gli abitanti è perché pensavo che le loro informazioni avrebbero potuto rendere più agevole il nostro compito.» Trascorse più di un'ora con l'esperto albanese per cercare di determinare mediante le indicazioni che figuravano sulla carta il luogo preciso di quelle sepolture. Infine vi riuscirono. Il sito corrispondeva alla stalla delle vacche della cooperativa. Vi si recarono accompagnati da un gruppo di uomini della cooperativa stessa e gli operai, dopo avere allontanato le vacche dal luogo presunto, cominciarono a scavare. Le vacche, coi loro begli occhi tranquilli, guardavano gli intrusi; la stalla mandava un buon odore di fieno. Prima di sera i resti del pilota e dei due soldati erano stati ritrovati. Quelli del primo senza troppa fatica; per gli altri due, invece, bisognò scavare diverse buche, sicché, partiti i visitatori, il suolo della stalla sembrava aver subito un bombardamento. Gli operai colmarono le fosse senza 75 affrettarsi. Avrebbero dormito nel villaggio. Il generale, il prete e l'esperto avevano invece deciso di passar la notte in una piccola località a trenta chilometri di distanza. Dovevano tornare l'indomani di buon'ora. Era già notte quando si misero in viaggio. L'auto procedeva a piccola velocità, illuminando coi fari ora i pioppi che fiancheggiavano la strada ora un carro che tornava dai campi o un cortile di fattoria cinto da alti rosai. «Si fermi!» disse d'improvviso il prete mentre ripassavano davanti al cimitero dei loro soldati. L'autista frenò. Il prete mostrava col dito al generale una scritta sul muro del cimitero. La macchina si era fermata, il prete scese. Lo seguì il generale sbattendo violentemente la portiera dietro di sé. Scese anche l'esperto. «Cos'è questa roba?» chiese vivamente il generale mostrando il muretto. Vi si leggeva, scritta col carbone in grosse lettere maiuscole tracciate malamente, questa frase: : Ecco la sorte dei nostri nemici! L'esperto alzò le spalle. «L'hanno scritto nel pomeriggio», disse. «Stamattina non c'era niente.» «Lo sappiamo», disse il generale, «ma quello che vorremmo capire è con quale intenzione il vostro governo incita a queste vergognose provocazioni.» «Non ci vedo niente di vergognoso», disse calmo l'esperto. Il prete aveva cavato di tasca il taccuino, evidentemente per trascrivervi la frase scritta sul muro. «Come, non è vergognoso?» esclamò il generale. «Una simile scritta sul cimitero dei nostri morti! Farò un rapporto. E' una provocazione grave, un gesto odioso.» L'esperto si voltò irritato. «Vent'anni fa scrivevate le parole d'ordine del fascismo sul petto dei nostri compagni che impiccavate, e adesso insorgete contro questa semplice frase, scritta molto probabilmente da uno scolaretto.» «Non stiamo parlando di quello che succedeva vent'anni fa», l'interruppe il generale. «E' una verità ben nota, in fondo.» «Qui non si tratta di quello che succedeva vent'anni fa.» 77 «Lei rievoca spesso i Greci e i Troiani. Perché non


dovremmo parlare di quello che succedeva vent'anni fa?» «Queste discussioni non approdano a nulla», disse il generale. «Qui c'è un ventaccio.» Si diressero tutti a passi rapidi verso la macchina. Le portiere sbatterono furiosamente, l'una dopo l'altra, come un crepitio, e l'autista mise in moto. Ma procedettero per soli cinque minuti. All'uscita dal villaggio, di là da un ponte di legno, la strada era sbarrata da un carro che aveva perso una ruota. Intorno si affaccendavano due contadini. «Scusateci», disse uno di loro all'esperto, che era sceso. «Non fa niente.» Mentre si adoperava per fissare la ruota il contadino domandò all'esperto: «Di dove sei?» L'esperto glielo disse. «Stamattina abbiamo appreso la ragione della vostra venuta», disse il contadino. «Le donne del villaggio non facevano che parlare di voi. E' cominciato quando abbiamo visto arrivare le macchine.» «Spingi un po', corpo d'una pipa!» gridò l'altro contadino, che da parte sua stentava a farcela. «Dicevano che i soldati stranieri sarebbero stati disseppelliti e riportati al loro paese», proseguì tranquillamente il primo. «E che assieme a loro sarebbero stati disseppelliti anche i ballistes (1) e trasportati all'estero, lontano, dietro il sole calante.» L'esperto si mise a ridere. «Questa era la voce che correva», riprese a dire il contadino. «Che anche da morti dovevano stare col nemico, come c'erano stati da vivi. Alleati ieri, alleati oggi. Così dicevano, al villaggio.» L'esperto rise di nuovo. «No, non è vero», disse. «Nessuno intende occuparsi dei ballistes uccisi.» «Ma spingi, diavolo!» fece ancora una volta l'altro contadino. La ruota non reggeva. Cani abbaiavano in lontananza. Qualcuno veniva dai campi, con in mano una lanterna la cui fiamma tremolava, come impaurita. «Una ruota che fa i capricci, eh?» 79 (1) Collaborazionisti stranieri al servizio degli occupanti italiani e tedeschi. disse il nuovo venuto, e sollevò la lanterna per guardare, tutto meravigliato, l'auto e gli stranieri. «Vieni dalle stalle?» «Sì, da lì.» L'uomo rimase lì un momento, immobile, a osservarli, poi augurò la buonanotte e si allontanò. La luce della lanterna proiettava macchie chiare sui mucchi di fieno schierati silenziosi sul ciglio della strada. I cani continuavano ad abbaiare. «Fai sempre questo lavoro?» domandò il contadino all'esperto. Questi fece un cenno affermativo col capo. «Sì, già da un po' di tempo», precisò dopo un istante. Il contadino mandò un sospirone. «Mica tanto allegro come lavoro.» L'autista fischiettava un motivo recentissimo. «Su, spingi!» La ruota finalmente andò a posto. «Buonasera!» Erano dei contadini che ritornavano dalla pianura, con la zappa in spalla. «Buonasera!» Il carro lasciò finalmente libero il passaggio e la macchina ripartì rapida sulla strada maestra. Sulla pianura era calata la notte ottobrina. La luna, dopo avere invano tentato di spuntare dall'ombra, riversava adesso il suo chiarore attraverso gli strati spugnosi delle nuvole e della nebbia che, imbevuti, saturi di luce, lasciavano che questa sgocciolasse lentamente, dolcemente, uniformemente sull'orizzonte e sulla pianura immensa. Il cielo, adesso, era untuoso, e l'orizzonte, la pianura e la strada sembravano coperti di macchie di latte. --------- In certe notti d'autunno il cielo assumeva un aspetto strano, si immergeva tutto nel chiarore indifferente, lacrimoso e ossessionante della luna. Ciascuno di noi, sdraiato a terra, supino,


doveva certamente dire tra sé: «Dio, che cielo!»--------- La strada era cosparsa di buche che spiccavano grosse e nere quando i fasci dei fari le sottraevano alla notte. 81 Dopo un'ora di strada le luci della città apparvero in lontananza ai viaggiatori. Capitolo Vi L'auto si fermò davanti all'albergo dell'Albturista. Nelle strade inzuppate, davanti alle vetrine illuminate al neon, si scorgeva qualche raro passante. Il vento freddo della notte tagliava la faccia, sicché i viaggiatori si affrettarono a entrare nella hall dell'albergo. Non mancavano le camere libere, dato che la stagione era finita. «Desiderate delle camere che diano sul fiume?» domandò in un inglese zoppicante il direttore. «Sì, possibilmente», rispose il prete. «Grazie.» Un fattorino li aiutò a portar su le valigie. «Di qui c'è una gran bella vista», disse il prete quando furono nella loro camera. «E' già venuto in questa città?» «Sì.» «Quante volte ha visitato l'Albania?» «Diverse volte nel #'ch-#'ci, l'ultima a metà del #'db. Ma ogni volta vi trovavo una situazione molto diversa.» Il generale si avvicinò alla finestra e scostò le tende. In lontananza sulla pianura cadeva sempre lo stesso tremolante chiarore lunare. Riaccostò le tende, poi accese una sigaretta. «E se scendessimo al ristorante?» disse il prete. «D'accordo.» Nel corridoio incontrarono l'esperto che usciva dalla sua camera con un asciugamano sul braccio. «Scende a pranzo con noi?» domandò il prete. «Vengo subito», rispose l'esperto. E aggiunse: «Il generale di divisione che abbiamo incontrato quindici giorni fa sulle montagne è giù al ristorante.» «Davvero?» «Credo che stiano facendo degli scavi in questa città», disse l'esperto. Quindici giorni prima, mentre viaggiavano sulla strada che costeggiava un vasto altipiano, il generale, silenzioso nel suo angolo quando non sonnecchiava, aveva scorto improvvisamente qualcosa di strano. 83 Sul fianco della montagna alcuni sterratori dei servizi municipali in tuta azzurra stavano scavando in quattro o cinque posti. Più lontano, sulla strada, sostavano un'auto e, un po. più distante, un camion protetto da un copertone. I due veicoli erano identici ai loro. Un uomo in uniforme, chiuso nell'impermeabile, stava in piedi accanto alla macchina verde. Sul ciglio della strada un altro uomo, vestito di nero, girava le spalle alla carreggiata. «Cos'è questa apparizione?» si chiese il generale, con la mente ancora intorpidita. «Sto sognando?» Aveva l'impressione di scorger lì se stesso, il prete e i loro operai. Sbarrò gli occhi e asciugò con la mano il vapore umido che appannava il cristallo. Non era un'apparizione. «Guardi un po' da quella parte», disse a mezza voce al prete. Questi, giratosi nella direzione indicata, ebbe un gesto di sorpresa. «Fermi, per favore», disse il generale all'autista. Questi fermò la macchina. Il generale abbassò il finestrino e allungò il braccio verso destra. «Guardi quegli uomini lassù», disse all'esperto. «Cosa fanno?» «Aprono tombe di militari.» «Com'è possibile? Non hanno il diritto di scavare senza avvertirci.» «Cercano i loro», disse l'esperto. «Ah, davvero?» «E' un anno ormai che il nostro governo ha stipulato un contratto con il loro, ma i loro preparativi sono andati molto per le lunghe, sicché i lavori hanno avuto inizio solo l'estate scorsa.» «Ah, capisco. E' anche lui un generale?» «Sì. Un generale di divisione. L'altro è il sindaco di una


delle loro città.» Il generale sorrise e disse: «Qui ci manca solo un generale accompagnato da un hodja.» «Non mi meraviglierei. Un giorno anche i turchi potrebbero venire a cercare i loro.» Mentre il generale chiacchierava con l'esperto i due stranieri, ritti sulla banchina pedonale, si erano voltati e li guardavano con curiosità. «Scendiamo», disse il generale aprendo la portiera. «Sono colleghi. Non faremmo male a stringer conoscen 85 za.» «Perché?» chiese il prete. «Potremmo comunicarci a vicenda l'esperienza acquisita in questo lavoro», rispose ridendo il generale. Avvicinatosi, notò che l'altro generale aveva il braccio destro amputato. Con la mano che gli rimaneva, la sinistra, reggeva una grossa pipa nera. Il civile era un uomo corpulento e calvo. Dopo le presentazioni conversarono per un po' in un cattivo inglese, mentre i conducenti dei due camion si chiedevano qualche piccolo favore. Aprirono e richiusero diverse volte i cofani dei rispettivi veicoli e finirono, visibilmente, col mettersi d'accordo. Dieci minuti dopo, salutate le loro nuove conoscenze, i tre si rimettevano in viaggio. Era adesso la prima volta che li incontravano dopo quel giorno. «Eccoli», disse il generale entrando con il prete nella sala del ristorante. Si salutarono con un cenno del capo. Gli altri due avevano finito di pranzare e chiedevano il conto. I tre pranzarono a loro volta, quasi in silenzio. L'esperto e il prete si scambiarono qualche rara parola, mentre il generale, accigliato, sembrava di malumore. Subito dopo pranzo l'esperto salì nella sua camera. Il generale e il prete si alzarono e andarono a ritrovare nella tranquilla hall dell'albergo l'altro generale e il sindaco che eran seduti lì a fumare. «Ci sediamo qui tutte le sere», disse il sindaco. «E' ormai una settimana che siamo in questa città e trascorriamo così tutti i dopocena. Non c'è dove andare. Ci hanno detto che in estate il luogo è piacevole e che non mancano i divertimenti, ma in questa stagione non ci sono turisti, e poi questo vento freddo che soffia dal fiume, giorno e notte.» «In questa città avremmo potuto venirci prima», disse il generale monco d'un braccio, «ma il campionato di calcio non è ancora finito e ci hanno negato il permesso di effettuare scavi nello stadio prima della fine del campionato.» «Difficile immaginare un impedimento più curioso, no?» disse il civile. «In fondo era giusto», riprese il 87 primo. «Lo so che forse avremmo potuto cominciare con lo scavare sui bordi senza toccare il terreno di gioco ma, ad ogni modo, non ci avrebbe fatto molto piacere udire lo scroscio degli applausi degli spettatori per un gol o altro mentre noi cercavamo delle ossa.» «Neanche gli spettatori, suppongo, avrebbero gradito troppo lo spettacolo di quelle tombe aperte», disse il generale. «Può darsi benissimo», disse il monco, «ma non ci metterei la mano sul fuoco.» Il generale fermò lo sguardo su quella mano, la sola, che reggeva la pipa; poi sulla manica vuota della giubba, la cui estremità era infilata nella tasca destra. «Il braccio dev'essere stato amputato all'altezza del gomito», pensò. Da un po' di tempo era ossessionato da questa idea. «Non capisco come abbiano potuto costruire uno stadio sull'area del cimitero», disse il prete. «E' contrario alle norme di diritto internazionale. Dovreste protestare.» «L'abbiamo già fatto», replicò il generale di divisione, «ma è risultato che i cadaveri dei nostri soldati erano stati seppelliti non già dagli abitanti del paese ma dai


nostri stessi uomini e, per giunta, che il lavoro era stato eseguito di notte. Nessuno ne aveva mai saputo nulla.» «Non credo troppo a questa spiegazione», disse l'uomo in abiti civili. «Non convince neppure me, ma non ci metterei la mano sul fuoco», disse il generale di divisione. Il generale tornò a fissare l'arto amputato. «A noi», disse, «non è mai capitato un caso del genere.» «Adesso dove state scavando?» domandò il civile. Il generale gli disse il nome della località. «Avremo da lavorare per parecchi giorni. Dovremo fare ricerche in due cimiteri, uno grande e l'altro più piccolo», disse il prete. «Suppongo che siate provvisti di elenchi precisi.» «Sì, infatti.» «I nostri, invece, sono stati compilati in base a testimonianze verbali.» Il civile rincarò la dose: «Si può 89 dire che stiamo cercando al buio». «Sarà difficile.» «Sì, molto difficile», disse il generale di divisione. «Probabilmente ritroveremo solo alcune centinaia di spoglie e per la maggior parte non riusciremo a identificarle.» «Certo, quando si manca di elenchi precisi l'identificazione non è facile.» «Voialtri disponete certamente di indicazioni sulla statura e sulla dentatura di ciascuno dei vostri morti, vero?» «Sì», rispose il prete. «E poi i vostri uomini portavano tutti una medaglietta al collo, se non sbaglio.» «Oh, sì, e questo oggettino ci è di grande utilità, poiché non si decompone.» «I nostri elenchi, invece, non comportano neppure la statura di quelli che cerchiamo, e questo, naturalmente, non ci facilita il lavoro.» «Meno male che c'è la fibbia metallica del cinturone. Questo ci aiuta molto», disse il civile. Due giovanotti entrarono nella hall e andarono a sedersi accanto all'ampia porta a vetri che dava sul giardino dell'albergo, presumibilmente dalla parte del fiume. «Quale marca di disinfettante adoperate per le ceneri?» domandò il civile. «Universal 62.» «E' un prodotto efficace.» «Non c'è niente di più efficace della terra.» «Esatto. Ma in certi casi neppure la terra è in grado di assolvere una simile funzione.» «Vi è capitato di trovare dei corpi intatti?» «E come!» «Anche a noi.» «E' molto pericoloso.» «Sì, il pericolo d'infezione è costante. Qualche volta i microbi resistono per molti anni alla distruzione per ridiventare improvvisamente virulenti nel momento in cui si dissotterrano i resti.» «Avete mai dovuto deplorare incidenti?» «Finora no.» «Neanche noi.» «Ad ogni modo, non bisogna trascurare nessuna precauzione.» «A quanto ho potuto vedere, gli 91 sterratori sono abilissimi.» «E' anche la mia impressione.» «Un caffè?» domandò il generale di divisione. «No, grazie», rispose il prete. «Vado a dormire.» «Anch'io», disse il civile. «Ho anche una lettera da scrivere.» Augurarono la buonanotte ai due generali e presero a salire le scale ricoperte da un tappeto di velluto rosso. La hall era tranquilla. Solo i due giovani conversavano nell'angolo opposto, se ne udivano ogni tanto le parole. Il generale lanciò un'occhiata alla grande porta a vetri dietro la quale si stendeva la notte buia. «Siamo già stanchi e chi sa quali altre fatiche ci aspettano.» «Il terreno è aspro.» «Sì, molto aspro. Approfitto del nostro lavoro per studiare alcuni elementi di tattica della guerra moderna in montagna. Ma urto contro alcune difficoltà di cui non riesco ad avere ragione. Con un terreno simile!» L'altro non manifestò alcun interesse a quel riguardo e il generale ne fu un po' meravigliato. «E' strano», disse il generale di divisione, «in quello stadio in cui


stiamo facendo le nostre ricerche vedo quasi ogni giorno una ragazza che viene ad aspettare il fidanzato che si allena. Quando piove indossa un impermeabile azzurro, e se ne sta lì silenziosa, in piedi in un angolo fra i pilastri della tribuna, a guardare i giocatori che corrono sul prato. Lo stadio vuoto ha un aspetto triste, lugubre, con le sue gradinate di cemento che luccicano sotto la pioggia e le fosse che hanno completamente lacerato i bordi del campo. Di bello non c'è che lei, col suo impermeabile azzurro. Finché è lì, rimango a guardarla mentre i nostri sterratori lavorano più lontano, ed è l'unica distrazione che abbia trovato in questa città.» «E non s'è spaventata a vedere come vengono dissotterrati i resti?» «Neanche un poco», rispose l'altro. «Ha soltanto girato la testa verso il campo di gioco per seguire con gli occhi il fidanzato che correva dietro la palla.» Rimasero per un pezzo a fumare senza scambiarsi una parola, sprofondati nelle poltrone. Infine il generale disse quasi ri 93 dendo: «Siamo i più abili becchini del mondo. Quei morti li ritroveremo dovunque siano sepolti. Non possono sfuggirci.» L'altro, osservandolo, disse: «Sa, da diverse notti il mio sonno è turbato da un incubo, sempre lo stesso». «Anch'io faccio dei brutti sogni.» «Mi par d'essere in quello stadio in cui stiamo appunto effettuando i nostri scavi», riprese il generale di divisione. «Solo che mi sembra più grande, e le gradinate sono piene mentre noi scaviamo sul campo. Nella folla c'è quella ragazza con l'impermeabile azzurro. Ogni volta che si apre una tomba tutti gli spettatori applaudono fragorosamente, lo stadio intero si alza in piedi e comincia a scandire il nome del soldato. Allora tendo l'orecchio, nella speranza di riuscire a identificare il morto, ma gli urli della folla mi giungono come soffocati e il baccano non mi permette più di udire il nome. E questo, pensi un po', mi succede quasi tutte le notti!» «Si spiega: è ossessionato dall'identificazione dei morti.» «Sì, dev'essere questo. E' una preoccupazione molto grave.» Il generale si ricordò di un sogno analogo che faceva spesso. Era vecchio ed era diventato custode di un cimitero militare del suo paese, appunto quello in cui erano stati sepolti i resti ch'egli stesso aveva raccolto in Albania. Era un cimitero grande, immenso, e lungo i viali che si aprivano fra le tombe andavano e venivano migliaia di persone con un dispaccio in mano, in cerca dei loro cari. E siccome, evidentemente, non li trovavano, cominciavano tutte a scuoter la testa con aria minacciosa, e lui si sentiva terrorizzato. Ma in quel momento il prete faceva suonare la campana e tutti si disperdevano. A questo punto si svegliava. Fu sul punto di raccontare il suo sogno, ma si trattenne temendo che l'altro lo credesse inventato. «Il compito che ci attende non è affatto facile», disse. «Sì», fece l'altro. «E' una specie di duplicato della guerra, quello che stiamo facendo.» «Fors'anche peggiore dell'originale.» Rimasero per un momento in silen 95 zio. «Siete mai stati oggetto di provocazioni?» domandò il generale. «No, tranne una volta.» «E cos'è successo?» «Alcuni monelli hanno lanciato dei sassi contro di noi.» «Dei sassi?» «Sì.» «E avete tollerato un simile oltraggio?» «Chi le ha detto che lo abbiamo tollerato?» «Mi sorprende», disse il generale. «E' un gesto barbaro.» «E' stata una faccenda complicata», disse il generale di divisione. «Avevamo aperto per errore alcune tombe di albanesi che credevamo fossero dei nostri.»


«Ah, davvero?» «Sì, una storia incresciosa. Non voglio più pensarci. Beviamo un altro caffè.» «Non chiuderemo occhio tutta la notte.» «Meglio così! A questo modo eviteremo di fare quei sogni. Perché in fondo, come tutto quello che si ripete, alla lunga diventano noiosi.» «Verissimo.» Ordinarono due caffè. Cos'altro potrei scrivere? Tutto il resto è solo una cronaca monotona. Pioggia, fango ed elenchi, verbali, cifre e supposizioni d'ogni sorta, tutta una tecnologia lugubre. E in questi ultimi tempi, poi, mi succede una cosa strana. Appena vedo qualcuno, comincio automaticamente a togliergli i capelli, poi le guance, poi gli occhi, come cose inutili, come cose che m'impediscano di penetrare la sua essenza, e la sua testa me l'immagino solo come un cranio e dei denti (unici particolari stabili). Mi capite? Ho l'impressione d'essermi introdotto nel regno del calcio. Capitolo Vii «Accadeva all'inizio della guerra», cominciò a dire, in un cattivo inglese, il barista. Aveva lavorato parecchi anni in un bar a New York e la sua curiosa parlata faceva pensare al chiasso e, insieme, al torpore d'un bar notturno. Il generale aveva voluto farsi raccontare la storia della prostituta da un abitante di quell'an 97 tica città dalle case di pietra. Nessuno, gli avevano detto, ne conosceva i particolari meglio di quel barista, che però balbettava un pochino e parlava male l'inglese. «Che importa che balbetti e massacri un po' l'inglese?» si era detto il generale. «Questa storia non si svolge tutta nel segno del massacro?» Quella stessa mattina avevano letto il nome della prostituta al cimitero militare, che era situato in periferia. Di tutte le spoglie ritrovate sino allora era la sola donna e il generale, quando gliene parlarono, provò la curiosità di conoscerne la storia. Forse sarebbe passato indifferente accanto a quella tomba se in testa non vi avesse scorto una lastra di marmo recante l'iscrizione d'uso: : Morta per la patria. Già da lontano il generale aveva distinto la lastra bianca. Colpiva lo sguardo fra le croci di legno contorte, annerite, fradicie, e gli elmetti arrugginiti appesi in testa alle tombe. «Una lastra di marmo!» aveva esclamato il generale. «Un ufficiale superiore? Forse, addirittura, il colonnello Z'?» Si erano subito avvicinati alla tomba per leggervi la scritta. Questa recava il nome, il cognome e il luogo di nascita di una donna: la stessa provincia del generale, ma lui non lo disse a nessuno. «E' accaduto proprio all'inizio», disse il barista col tono di chi si rivolga a un folto uditorio. Siccome quella storia l'aveva raccontata spesso, si era composto uno stile narrativo personale, intercalando frequenti parentesi per esprimere le sue osservazioni sull'avvenimento. Un po' di retorica che non raggiungeva la pomposità. «Fui uno dei primi ad apprendere la notizia. Non è che m'interessassi a certe storie ma per il mio stesso lavoro al caffè ero sempre il primo a essere informato di ciò che riguardava la nostra città. E anche quel giorno accadde la stessa cosa. Il caffè era pieno di gente quando si diffuse la voce senza che nessuno sapesse chi l'aveva lanciata. Alcuni dicevano che la si doveva a un militare che prima di partire per il fronte greco aveva dormito una notte all'albergo della città, dopo una formidabile sbornia. Altri sostenevano che era stata messa in 99 giro da un certo Lame Spiri, il quale pensava solo a quelle cose. Ma questo non aveva nessuna


importanza. Eravamo così sorpresi e turbati che c'importava poco di sapere se la notizia proveniva da quel militare oppure da quel buono a nulla di Lame Spiri. «Occorre dire che a quel tempo non era facile meravigliarci. Eravamo in guerra e tutti i giorni sentivamo raccontare storie incredibili, inaudite. E pensavamo che niente avrebbe più potuto stupirci, dal giorno in cui avevamo visto i cannoni e i pezzi della DCA con i loro lunghi tubi passare per la prima volta nelle nostre strade con un fracasso così spaventoso che sembrava che l'intera città stesse per crollare. E ancora meno da quando sopra le nostre teste si era svolto un combattimento aereo, per non parlare di tante e tante cose accadute in seguito. «Poi, per un po' di tempo, non si parlò d'altro che del pilota inglese che era stato abbattuto all'uscita dalla città. Ho visto la sua mano coi miei stessi occhi: era tutto quel che restava del suo corpo. L'ho vista, quella mano, quando l'hanno mostrata alla popolazione della città, sulla piazza del municipio, assieme a un brandello di camicia bruciata. Aveva l'aspetto d'un pezzo di legno greggio ingiallito, vi si distingueva all'anulare un anello che non le avevano tolto. «A questo modo, appunto, sentivamo raccontare una gran quantità di episodi del genere, sicché anche gli avvenimenti più imprevisti non ci facevano più molta impressione; e, nondimeno, alla notizia che stavano per aprire una casa di tolleranza, tutti rimasero molto scossi. Si sarebbero aspettati tutto tranne questo. La notizia era così sorprendente che, sulle prime, i più non vi credettero. La nostra città è molto antica, ha conosciuto usanze e tempi assai diversi, ma non si sarebbe mai aspettata una cosa simile. E come avrebbe potuto subire una simile vergogna, questa città che fino allora aveva vissuto onorevolmente? Che fare, dunque? Questa questione era causa di grande sgomento. Un che d'ignoto, di nuovo, di spaventoso serpeggiava nella nostra vita come se l'occupazione, le caserme rigurgitanti di truppe straniere, i bombardamenti e la fame non pesassero già abbastanza 101 su di noi. Allora non capivamo che si trattava d'uno dei tanti aspetti della guerra, come i bombardamenti, le caserme e la fame, né più né meno. «L'indomani del giorno in cui si diffuse la notizia una delegazione di vecchi si recò in municipio e la notte stessa un altro gruppo si riunì al caffè per preparare una petizione da mandare al luogotenente-generale dell'imperatore fascista a Tirana. Per ore e ore, seduto intorno a un tavolo ecco, quello lì, scrissero pagine su pagine, mentre altri stavano in piedi intorno a loro, bevevano un caffè, fumavano, entravano, uscivano per i fatti loro, poi ritornavano per chiedere a che punto fosse la lettera. Molte donne preoccupate mandavano i bambini a vedere se i mariti non stessero bevendo un po' troppo, e me li ricordo quei mocciosi che guardavano, intontiti, con gli occhi grevi di sonno, dietro le ampie vetrate, per poi andarsene tremanti di freddo nella notte umida. «Non mi era mai successo di chiudere così tardi come quella notte. Infine la lettera fu terminata e qualcuno la lesse ad alta voce. Non ricordo molto bene tutto quello che c'era scritto: so soltanto che per molteplici ragioni, enumerate l'una dopo l'altra, gli onesti cittadini pregavano il luogotenente-generale del Duce di annullare la decisione di aprire una casa di tolleranza, e ciò in nome dell'onore e della prosperità della nostra vecchia città dalle tradizioni così nobili e la cui antichità si


perdeva nella notte dei tempi. «Ci furono, è vero, quelli che d'una simile petizione non volevano sentir parlare e che erano, in genere, contrari a ogni sorta di lettera o richiesta rivolta all'occupante. Ma non li ascoltammo. Speravamo fermamente che qualche cosa sarebbe stata fatta per noi. Eravamo solo all'inizio della guerra ed erano molte le cose che non capivamo bene. «Occorre dire che della nostra richiesta non si tenne conto. Dopo qualche giorno arrivò un telegramma: «Casa tolleranza sarà aperta per ragioni ordine strategico stop». Il vecchio impiegato delle poste, che fu il primo a leggere il dispaccio, non afferrò subito il senso di quella espressione. Certuni dicevano che era uno di quei linguaggi cifrati molto in uso a quel 103 tempo e che sembravano sempre così curiosi. Qualcuno sostenne addirittura che si trattava dell'apertura di un secondo fronte, giacché di solito i termini militari non erano molto chiari. Ma niente di tutto ciò era vero e quelli che ascoltavano la radio tutte le sere sapevano benissimo che cosa significasse l'espressione «ordine strategico». Poi tutto si chiarì: era proprio una casa di tolleranza quella che si sarebbe aperta, e non un secondo fronte. «Dopo qualche giorno conoscemmo i particolari. La casa sarebbe stata aperta dalle truppe d'occupazione e quelle sarebbero venute dall'estero. «Nella nostra città, in quei giorni, non v'era altro argomento di conversazione. Tutti erano curiosi di sapere come sarebbe stata quella casa sconosciuta e, soprattutto, come sarebbero state quelle. Coloro, assai rari, che erano tornati in patria dopo un periodo di emigrazione appagavano la curiosità degli altri narrando a tavolate molto attente alcune storie al riguardo. Si capiva che a episodi reali aggiungevano episodi assai meno reali: una gara a chi si rivelasse meglio informato degli altri e raccontasse le cose più stupefacenti. A sentirli parlare dei bordelli del Giappone o del Portogallo avresti detto che quei paesi erano per loro familiari quanto le loro tasche e che conoscevano di nome tutte le prostitute di questo mondo. «Quelli che li ascoltavano, e soprattutto quelli che avevano figli maschi già grandi, erano ansiosi e scuotevano il capo con aria costernata. E le donne, a casa, si rodevano maggiormente, non si sa se più per i mariti o più per i figli. Gli anziani consideravano l'avvenimento il più funesto dei presagi e aspettavano angosciati, tormentati da neri presentimenti, un castigo ancora più severo da parte del Signore. Vi furono, sì, quelli che si rallegrarono, perché su questa terra ce n'è d'ogni sorta, ma nessuno osò manifestare apertamente la propria gioia. Fra costoro c'erano mariti che non andavano d'accordo con le mogli ma c'erano anche quelli che per natura erano assai inclini agli spassi, e soprattutto giovani ancora scapoli che stavano tutto il giorno a leggere romanzi d'amore e che la sera non sapevano come passare il tempo. Alcuni cer 105cavano di consolare se stessi e di rassicurare anche gli altri con questo argomento: che d'ora innanzi i soldati stranieri non avrebbero più infastidito le nostre ragazze, poiché avrebbero avuto le loro. Ma non era facile tranquillizzare gli animi. «I nostri guai cominciarono ancora prima dell'apertura del bordello. Due persone furono arrestate per aver detto che quella misura era stata adottata per introdurre il modo di vita straniero e corrompere le usanze albanesi e che si inseriva nel vasto piano di snazionalizzazione e di fascistizzazione del paese. Da allora


si parlò solo a voce bassa, e quando si menzionava la futura casa di tolleranza soltanto i vecchi davano senza timore libero sfogo alle loro maledizioni. «Infine quelle arrivarono. Le portò un veicolo militare di color verde. Mi ricordo della scena come se fosse oggi. Era calata la sera e il mio caffè era pieno di gente. Lì per lì non capii perché i clienti si alzavano dai tavoli per avvicinarsi alle ampie vetrate e guardare fuori, verso la piazza del municipio. Poi alcuni si precipitarono in strada, mentre altri domandavano che cosa succedeva. Molti tavoli si vuotarono. Era la prima volta che tanta gente andava via senza pagare la consumazione. Uscii anch'io, mosso da una curiosità che non potevo dominare. Dall'altro caffè di fronte, e dal circolo dei cacciatori, alcuni curiosi si erano raccolti nella piazza e osservavano la scena, ritti sul marciapiede. Il camion si era fermato proprio davanti al monumento ai morti della città, di fronte al municipio, e quelle, appena scese, si guardavano intorno stupite. Erano sei e sembravano stanche, intorpidite dal lungo viaggio. Tutt'intorno i curiosi sbarravano gli occhi come alla vista di bestie rare, mentre quelle, chiacchierando tra loro, li guardavano con aria tranquilla e un sorriso indifferente. Forse si meravigliavano di trovarsi così, inopinatamente, in quella città strana, tutta di pietra, perché al crepuscolo la nostra città assume un aspetto un tantino fantastico, coi contrafforti della sua cittadella e i minareti che si ergono silenziosi con le loro cupole rivestite di lamiera luccicante sotto i raggi del sole al tramonto. «Nel frattempo la piazza si era 107 riempita di gente e soprattutto di bambini che lanciavano loro in quella lingua straniera alcune parole apprese dai soldati. I grandi mandavano via i bimbi e le osservavano in silenzio. Ci era difficile, in quei momenti, renderci veramente conto di ciò che avevamo nel cuore. Quella sera comprendemmo bene una sola cosa: che tutto ciò che ci avevano raccontato sui bordelli di Tokyo o di Honolulu era assai lontano da ciò che si offriva ai nostri occhi, che si trattava di qualcosa di assai diverso da tutti i racconti che avevamo udito, di qualcosa di assai più profondo, di più triste, di più penoso. «Accompagnato da alcuni stranieri e da un impiegato del municipio, e scortato dai bambini, il gruppetto si diresse, come un gregge docile, verso l'albergo. Lì, infatti, dovevano trascorrere la notte quelle strane ospiti della nostra città. «L'indomani vennero trasferite in una casa a due piani, circondata da un giardinetto, nel cuore della città. E alla porta fu appeso un cartello recante l'orario stabilito per i civili e per i militari. Ma quel cartello lo vedemmo solo più tardi, perché i primi giorni la strada venne disertata, come se vi avesse infierito la peste. Nessuno passava più di là. Anche dopo, quando ricominciammo a frequentarla, quella strada ci sembrava la più brutta, la più deforme, la più sordida di tutte le strade della città. Ci faceva l'effetto di qualcosa di estraneo, di sozzo, di infamante. D'una donna perduta, insomma! Poi ci misero un miliziano per spiare quelli che cambiavano strada, sicché a poco a poco, dopo qualche giorno, ricominciammo a imboccarla: dapprima solo i bambini, poi gli altri, perché dovevamo pur attendere alle nostre occupazioni e non avevamo il tempo di fare dei lunghi giri viziosi attraverso le stradine adiacenti. Solo alcuni vecchi giurarono a se stessi di non passare mai più di là, qualunque cosa avvenisse.


«Erano davvero giornate buie e piene di preoccupazione, per tutti. La nostra città non aveva mai conosciuto donne di malaffare, e rari vi erano sempre stati gli scandali di famiglia provocati da gelosia o da tradimento. Ed ecco che ora, inaspettatamente, quella macchia nera si era insediata lì, nel cuore della città. L'emozione 109 dei cittadini all'annuncio della notizia era poca cosa in confronto al loro sbigottimento adesso che la casa era effettivamente aperta. Gli uomini rincasavano di buon'ora e il caffè la sera si vuotava molto presto. Se i mariti o i figli tardavano, le madri impazzivano per l'ansia. Quelle erano come una specie di tumore nel bel mezzo della città. La gente non controllava più i nervi, e molti uomini e giovanotti non riuscivano a nascondere un certo turbamento nello sguardo. «I primi tempi nessuno, s'intende, frequentò quel sito. Quelle ne saranno state certamente sorprese e avranno pensato che il nostro era un popolo molto strano se aveva una così scarsa inclinazione per le donne. Forse capivano d'esser delle straniere in questo paese e d'esser viste con lo stesso occhio con cui erano viste le truppe d'occupazione, a noi tutti nemiche. «Il primo a visitare la casa di tolleranza fu quel buono a nulla di Lame Spiri. Il pomeriggio stesso in cui vi si recò per la prima volta la notizia si diffuse in un baleno, tanto che quando ne uscì le finestre delle case vicine erano piene di gente che lo guardava con gli occhi fuori dell'orbita, come alla vista di Cristo risorto. Lame Spiri procedeva fiero per la strada, senza manifestare il minimo imbarazzo. Fece persino un cenno con la mano a una di loro che affacciata al balcone lo seguiva con gli occhi mentre si allontanava. Fu appunto in quel momento che una vecchia, da una finestra, gli rovesciò addosso un secchio d'acqua, che tuttavia non lo raggiunse. Le vecchie si pizzicavano le guance, le maledicevano con quel gesto del braccio, la mano alzata e le dita divaricate, in direzione della persona maledetta, che è caratteristico delle nostre donne. Ma quelle, evidentemente, non ne coglievano il senso e si mettevano a ridere. Così andarono le cose i primi tempi. Poi la gente si abituò alla nuova situazione. Ci furono anche di quelli che in qualche sera buia cominciarono a recarsi in quella casa che ci aveva causato tanti tormenti. Esse si introducevano, diciamo così, nella nostra esistenza. «Spesso la sera apparivano sul balcone. Fumavano e guardavano con aria assente i monti circostanti, pensando molto probabilmente al loro remoto pae 111se. Rimanevano a lungo nella penombra finché il muezzin, dall'alto del minareto, non avesse cantato con voce monotona l. ezan e gli abitanti non fossero tornati tutti alle loro case. «Dopo un certo tempo la nostra animosità verso di loro si smorzò. C'erano persino quelli che ne avevano pietà. Dichiaravano, per difenderle, che in fondo erano mobilitate, come tutti gli altri soldati, né più né meno, e che erano mantenute a spese dell'esercito. Ogni tanto, per colpa loro, si verificava qualche avvenimento increscioso. Fu così arrestato, fra gli altri, un liceale per aver parlato di «militarizzazione delle puttane». Ma che ci potevano fare quelle poverine? «Ci si abituò così, a poco a poco, alla loro presenza. I cittadini non si sentivano più mortificati quando le incontravano per caso in un negozio o la domenica in chiesa, eccezion fatta per alcune vecchie che pregavano giorno e notte perché una bomba «dell'inglese», come dicevano loro, si abbattesse su quella casa


maledetta. «Credo che certi giorni lo desiderassero anche loro. «Il fronte italo-greco non era lontano e la notte udivamo il rombo del cannone. La nostra città serviva di sosta alle truppe fresche che si recavano al fronte a dare il cambio alle unità provate; così come alle truppe che ne tornavano. «Spesso alla porta della casa chiusa veniva appeso un cartello che diceva: : Domani non si ricevono civili, e tutti allora capivano che un movimento di truppe si preparava per l'indomani, quantunque quell'avviso fosse del tutto inutile, perché nessun civile frequentava quel sito durante la giornata, e ancora meno quando c'erano dei militari: tranne, beninteso, Lame Spiri, che vi aveva libero accesso in ogni ora del giorno. «In quei giorni imboccavamo a volte quella strada per vedere i soldati tornati dal fronte, sporchi e irsuti, che facevano la coda. Non si allontanavano dalla fila neppure quando cominciava a piovere, ed era certo più facile sloggiarli dalle loro trincee che da quella lunga fila triste e tortuosa che si allungava interminabilmente. Per ingannare l'attesa sotto la pioggia si abbandonavano a scherzi triviali, si grattavano i pidocchi, si scambiavano frasi volgari e litigavano cir 113ca il numero dei minuti che avrebbero trascorso lì dentro. Per loro non doveva essere molto allegro, ma bisognava che si piegassero, perché, in fin dei conti, erano mobilitate. «Verso la fine del pomeriggio la coda si accorciava. Infine l'ultimo soldato se ne andava e la strada ritornava tranquilla. Di solito l'indomani di quelle giornate sfibranti esse apparivano estenuate, avevano il colorito giallo e l'aria più sconvolta che mai. Sembrava che quei soldati tornati dal fronte scaricassero su quelle sventurate tutta la loro prostrazione, la pioggia, il fango e gli smacchi delle trincee, per poi andarsene alleviati e soddisfatti, come sbarazzati d'un pesante fardello, mentre loro rimanevano qui, nella nostra città, non lontano dal fronte, ad aspettare altri soldati per assorbire fino all'ultima goccia il fiele della ritirata. «Forse le cose sarebbero andate avanti così per molto tempo, e non sarebbe accaduto nulla di straordinario, perché la vita deve pur seguire il suo corso. Forse quelle sarebbero rimaste per tutta la durata della guerra nella nostra città a vedere le loro tristi giornate terminare al suono della voce strascicata degli hodja e a ricevere lunghe file di soldati che il destino avrebbe poi disperso chi sa dove. Sì, le cose avrebbero potuto svolgersi così se un bel giorno il figlio di Ramiz Kurti non avesse rotto con la fidanzata. «La nostra città non è grande e fatti del genere vi fanno sempre molto scalpore. Perché bisogna dire che, in tutto il paese, sono poche le città, pochi i villaggi in cui si contano meno divorzi che nella nostra città. La separazione del figlio di Ramiz dalla fidanzata costituì un grande scandalo. Per diverse notti di seguito il parentado di Ramiz Kurti al completo si riunì in casa del vecchio per deliberare su quella faccenda e costringere con ogni sorta di minacce il ragazzo a riallacciare i rapporti con la fidanzata. Il giovane si ostinava. Per nessuna ragione al mondo intendeva cedere alle istanze della famiglia. Ma il peggio è che si rifiutava di rivelare il motivo della sua improvvisa freddezza, e invano i suoi parenti tentarono di scoprirlo. Trascorreva tutta la giornata in uno stato di prostrazione, silenzioso, pensieroso, dimagrendo e 115 impallidendo a vista d'occhio, come sotto l'effetto di un maleficio. «Nel frattempo la


famiglia della ragazza chiedeva spiegazioni. I suoi parenti, numerosi quanto quelli del giovane, si riunirono a loro volta per discutere la faccenda. Due volte inviarono messaggeri a Ramiz Kurti per chiedergli la ragione della rottura. Ma il motivo non risultò e quelli ripartirono offesi, facendo capire che non avrebbero tollerato che il loro onore venisse messo sotto i piedi. Ciò significava che si sarebbe arrivati al punto di cedere la parola alle armi. E vi fu infatti un colpo d'arma da fuoco, ma assai diverso da quello che era lecito paventare. «Appunto in quei giorni, mentre i rappresentanti delle due famiglie tenevano le loro ultime riunioni e da una parte e dall'altra si capiva che l'antica amicizia, saldata dal fidanzamento dei due bambini quando erano ancora nella culla, stava per mutarsi in inimicizia, si apprese il vero motivo della rottura. Era semplice ma vergognoso: il figlio di Ramiz Kurti si era invaghito d'una di quelle della casa di tolleranza. «Più tardi ci siamo spesso arrovellati il cervello per indovinare la vera natura dei suoi rapporti con quella straniera. L'amava davvero? Oppure era lei che si era innamorata di lui? Solo Dio sa che cosa c'era tra loro. La verità non si conobbe mai. «Il giorno stesso in cui si diffuse quella voce Ramiz Kurti, poco prima di sera, pallido in volto, a testa nuda, con in mano il bastone, scese dal quartiere alto e si diresse verso la casa chiusa. Camminava con lo sguardo fisso come il ghiaccio e non doveva essere completamente in sé. Ve l'immaginate la loro sorpresa alla vista di quel vecchio viso pallido che spingeva con la punta del bastone il cancello del giardinetto per entrare? Erano sedute nella veranda e quando il vecchio salì i gradini esterni una di esse scoppiò in una risata, ma, chi sa perché, le divertite osservazioni delle altre si gelarono sulle loro labbra, e su di esse cadde un silenzio mortale. Il vecchio indicò con la punta del bastone quella che suo figlio frequentava (l'aveva evidentemente riconosciuta dai capelli), e la ragazza, docile, si diresse verso la propria camera, credendo d'avere a che fare con 117 un cliente come tutti gli altri. Il vecchio la seguì. Poi lei, mentre cominciava a spogliarsi, aveva alzato la testa e guardato il viso anormale del vecchio, che somigliava a una maschera. Allora aveva urlato di spavento. Forse il vecchio non avrebbe tirato fuori la pistola se lei non avesse gridato. Quell'urlo, infatti, parve trarlo dal suo stato di incoscienza. Fece fuoco tre volte, poi gettò l'arma e si allontanò come un ubriaco, fra le urla delle prostitute. «Tre giorni dopo Ramiz Kurti fu impiccato. Il figlio scomparve. «Era ottobre e un vento freddo soffiava giorno e notte dalle gole delle montagne circostanti. Per la vittima, nonostante tutto, vennero organizzati funerali con fiori e corone, musica e crepitio di fucilate. I fascisti riuscirono a raccogliere nelle strade e nei caffè una gran quantità di gente che costrinsero a seguire il corteo. Camminavamo in silenzio e il vento ci sferzava il viso. L'avevano messa su un veicolo militare, in una bella bara rossa. La banda militare aveva attaccato una marcia funebre, e le compagne della vittima piangevano. «Gli abitanti della nostra città non avevano mai seguito il carro funebre di una straniera e ancora meno quello di una donna di quella condizione. Ci sentivamo come storditi e avvertivamo dentro come una sensazione di vuoto. Guardavo le nuvole alte nel cielo e, camminando, pensavo alla sua sorte. Chi sa quale fatalità aveva spinto quella sventurata a


venire da tanto lontano al seguito di quei soldati con l'elmetto e, dopo esser passata da una località all'altra delle retrovie, a scendere nella nostra città, dov'era destinata a finire i suoi giorni e a trascinare anche altri, con sé, nella sua rovina. «La seppellirono nel cimitero militare, «il cimitero dei fratelli», come veniva chiamato, e sulla sua tomba posero quella lastra di marmo che avete visto stamattina, con su incisa la formula d'uso: : Morta per la patria, la stessa che si può leggere alla testa di tutte le tombe di soldati. «Dopo pochi giorni arrivò un ordine dalla capitale e la casa di tolleranza venne chiusa. Mi ricordo come se fosse oggi di quel freddo mattino in cui vennero, con le valigie in mano, nella piazza del municipio ad aspettare il 119 veicolo che doveva portarle via. I passanti si fermavano sul marciapiede per guardarle. Se ne stavano strette l'una all'altra, col bavero del cappotto alzato per il freddo, alla deriva, più smarrite che mai. «Salirono nel camion e quando questo si mosse alcuni fecero loro un timido cenno con la mano. Risposero al saluto ma il loro gesto non aveva niente a che fare con quelli che sono propri alle donne di quella condizione: era qualcosa di assai diverso, da cui trapelavano l'amarezza e l'abbattimento. Restavamo lì a guardarle e tuttavia non avvertivamo alcun sollievo. Avevamo sempre pensato che la loro partenza l'avremmo festeggiata con qualche banchetto. Invece, ecco, le cose andavano diversamente. E quale vantaggio avremmo ricavato dalla loro partenza? Loro, è vero, andavano via, ma tutto il resto rimaneva. «Chi sa dove furono spedite quelle poverine, certo in un'altra piccola città vicina al fronte, una di quelle piccole città in cui le truppe che si recavano in prima linea e quelle che ne tornavano sostavano per una notte. E di nuovo la loro esistenza sarebbe stata piena di lunghe file di soldati stremati e infangati che avrebbero scaricato su di loro tutta l'amarezza e l'umidità del fronte.» Capitolo Viii Il generale, ritto sulla soglia della tenda, osservava l'orizzonte grigio. Le coltri di nebbia scendevano e salivano alternativamente sui versanti scoscesi, avviluppando a volte certi spazi e liberandone altri. A tratti le nuvole si abbassavano tanto da sfiorare la punta della tenda. Il generale, col bavero del pastrano alzato, ascoltava alle sue spalle il fruscio della tela che sembrava rabbrividire nel vento. A pochi passi di lì era parcheggiata l'auto, e un po' più lontano, dietro la tenda degli operai, il camion. Il cimitero non aveva confini ben delineati. I ruscelli che serpeggiavano tutt'in giro avevano eroso la terra, ciascuno dalla sua parte, per trasportarla altrove, più giù, nella valle. Si udiva il martellare cadenzato dei picconi sul suolo duro. Ogni tanto un gruppo si formava in un sito e il generale ne deduceva che un'altra 121 spoglia era stata riportata alla luce. Il più giovane degli operai avvicinava le bombole di disinfettante. Adesso, il generale lo indovinava, stavano disinfettando i resti ritrovati e l'esperto si chinava per misurare la lunghezza dello scheletro, mentre il prete contrassegnava il nome con una croce e, se la statura non corrispondeva a quella indicata sull'elenco, vi


aggiungeva un punto interrogativo. Il generale immaginava nei minimi particolari ciò che avveniva laggiù, in quel gruppetto: dal volto immobile del prete ai gesti dell'esperto che arrotolava e srotolava il metro. Quando il gruppo tardava a disperdersi il generale si diceva: «Lo misurano una seconda volta. Probabilmente avremo un altro punto interrogativo sull'elenco». Poi il giovane operaio, quello col maglione, si affrettava verso la propria tenda e ne ritornava con un sacco di nylon, un grazioso sacco azzurro sbarrato da due righe bianche e bordato di nero, marca Olympia e confezionato su ordinazione. L'esperto afferrava la medaglietta con la pinza che teneva con le lunghe dita sottili e la gettava in una scatola metallica. --------- Un giorno ci sottoposero a un'ispezione minuziosa per controllare se avevamo tutti la medaglietta. Qualcuno aveva riferito che il mio compagno aveva gettato la sua. «Che ne hai fatto della tua medaglietta?» gli domandò il tenente facendogli sbottonare la giubba. «Non lo so, devo averla persa.» «Persa? Lo so com'è vero che ti vedo che l'hai buttata via. Briccone! Morirai come un cane e nessuno potrà riconoscere la tua carcassa. E come al solito se la prenderanno con noi! Via, march, agli arresti!» Due giorni dopo veniva consegnata al soldato un'altra medaglietta. --------- Quando, invece, il gruppo si disperdeva, significava che le ceneri erano state introdotte nel sacco di nylon e che su questo era stata incollata l'etichetta recante il numero del soldato e quello dell'elenco. Poi il medesimo operaio riportava il sacco nella tenda, e ricominciava il rumore sordo e cadenzato dei picconi che affondavano nel suolo umido. «Chi sa chi è quello che hanno ritrovato adesso», si chiedeva il genera 123le guardando gli uomini che tornavano a riunirsi in mezzo al cimitero. E ogni volta che veniva disseppellito un morto rivedeva con gli occhi della mente il lontano salotto di casa sua in quelle giornate di maltempo, quando era appena ritornato dal mare. Tutti quelli che andavano a trovarlo gli parlavano dei loro parenti. Alcuni si dilungavano, altri erano meno loquaci, altri ancora avevano portato un mucchio di foto, fasci di lettere, altri infine non avevano nulla, tranne un breve dispaccio del ministero della Guerra. Il generale si avvolse freddolosamente nel pastrano e gettò lo sguardo verso nord-est. «Il monumento si trova lì», pensò. «All'incrocio delle strade, dove il ruscello d'un vecchio mulino abbandonato fa udire il suo sciabordio. Se il cielo è sereno lo si deve poter scorgere di qui. Oggi è immerso nella nebbia.» Quando le coltri di nebbia scivolavano si aspettava, da un istante all'altro, di veder emergere il monumento che si ergeva, alto, molto alto, rivestito di lastre di pietra bianche, poi, dietro i pilastri in rovina di una vecchia casa, macerie, cumuli di pietre calcinate e, più lontano, all'uscita del villaggio, il mulino bruciato e abbandonato, con l'acqua del ruscello, la sola cosa che non si era potuta né bruciare né distruggere. Sul davanti della stele, in maiuscole mal tracciate, erano incise le parole: : Qui passò l'infame Battaglione azzurro, che ha bruciato e massacrato questo villaggio, ha ucciso le nostre mogli e i nostri figli e impiccato gli uomini a questi pali. Alla memoria dei suoi morti il popolo ha eretto questo monumento. Il villaggio si era trapiantato più giù, nella valle, e soltanto i pali del telefono, spalmati in basso di bitume, con a volte una trave di


sostegno obliqua, quei medesimi pali ai quali, come si raccontava, il colonnello Z. aveva impiccato con le proprie mani alcuni uomini, solo quelli erano sempre lì, più o meno alti secondo il rilievo del suolo, coi fili sempre tesi nello spazio. Ma anche quei pali erano avvolti nella coltre di nebbia, sicché il generale, dal punto in cui si trovava, non vedeva nulla. Sembrava che laggiù, sul monumento, sui pali, sul vec 125 chio mulino e sui pilastri semidistrutti fosse stato gettato un immenso lenzuolo bianco, come prima di una solenne inaugurazione. «Prenderà freddo», disse il prete entrando nella tenda. «Il tempo è umidissimo e c'è molto vento.» Il generale lo raggiunse. Era l'ora di colazione. «Be', com'è andata?» «Bene», rispose il prete. «Se domani quelli della cooperativa del villaggio vengono ad aiutarci sull'altra riva del torrente, fra quattro giorni potremo levar le tende.» «Penso che gli uomini verranno, le donne e i vecchi forse no, perché per loro è un'empietà aprire delle tombe.» «Forse verranno anche le donne e i vecchi. Non è da escludere che questo lavoro procuri loro un'intima soddisfazione.» «Mi meraviglierebbe», disse il generale. «Com'è possibile provare soddisfazione ad aprire delle tombe?» «Per loro è come una specie di vendetta tardiva.» Il generale alzò le spalle. «E inoltre è un lavoro rimunerativo», proseguì il prete. «Li paghiamo bene e i contadini hanno interesse a lavorare per noi. Con la paga di pochi giorni di lavoro possono comprarsi una radiolina. Gli piace molto.» «Me ne sono accorto», disse il generale. «Aprono sempre le radio a tutto volume. Ma non avremmo fatto male, noi, a portare una transistor.» «Non ci abbiamo pensato.» «Comincio ad averne abbastanza di questa tenda», disse il generale. «E poi il tempo diventa di giorno in giorno sempre più freddo. Spero che sia l'ultima volta che piantiamo la tenda in questa zona.» «Credo che abbiamo ancora da fare alcune ricerche da qualche parte delle montagne alte, in prossimità d'una strada strategica abbandonata.» «Ah!» «Sì, si tratta di uomini che assicuravano il controllo della strada, o di un ponte, non ricordo bene.» «Allora devono esser molti.» «Sì, ce n'è una quantità, ma avrei intenzione di rimandare questo lavoro all'anno prossimo, non dev'essere allegro arrampicarsi lassù con questo tempo.» Udirono il rombo di un motore. Il prete uscì a vedere cos'era. 127 «Cos'è?» domandò il generale quando il prete ritornò. «Niente», disse il prete. «Hanno portato le nuove bombole di disinfettante.» Il generale tirò fuori i termos. Fecero una colazione leggera, a base di viveri asciutti, in silenzio. Poi il generale si sdraiò sul letto da campo. Il prete prese un libro e si mise a leggere. «Chi sa cos'ha fatto con la vedova del colonnello», si chiese il generale osservando il profilo del prete e quella sua chioma nera e serica dove non luccicava ancora nessun capello grigio. «Com'era carina!» rievocò tra sé, con le mani sotto la nuca e gli occhi fissi sulla tela che fremeva dolcemente sopra di lui. Era ricominciato a piovere. «Il cielo era azzurro, completamente azzurro», pensò guardando la tela color malva, obliqua, sopra il suo capo. «E quella donna, sotto quel cielo, era così carina da turbarmi.» Gli sembrava che quella visione risalisse assai più addietro nel tempo, e non soltanto all'agosto scorso, quando, in uno di quei tardi pomeriggi fiammeggianti, il sole diventava rosso come un grande occhio stanco e qua e là, all'orizzonte, fremevano, lievi e ancora incerte, le


prime macchie della sera. La passeggiata del lungomare si riempiva allora di gente, e loro con tutta la comitiva si sedevano sulla terrazza del grande albergo per contemplare il tramonto, le barche e i gabbiani sul mare. Andavano lì tutti i giorni ad ammirare il crepuscolo, e soltanto quando il sole si inabissava nel mare e le grosse insegne degli alberghi e quelle, più piccole, verticali, dei locali notturni si accendevano lungo la costa, soltanto allora si alzavano per andare a far quattro passi coi bambini sulla spiaggia. Quel pomeriggio la terrazza era piena di gente e i raggi del sole accendevano sui bicchieri riflessi porporini. Di che parlavano? Non ricordava bene. Era una di quelle conversazioni banali che si estinguono con il giorno e non lasciano altra traccia che le bottiglie vuote sui tavolini, quelle bottiglie di succo di frutta, con le etichette variopinte. A un certo momento ebbe la sensazione che lo si fissasse con insistenza 129 da un tavolo vicino. Si girò lentamente e per la prima volta il suo sguardo incrociò lo sguardo di quella donna, poi quello di una donna anziana, poi gli occhi di un uomo e infine quelli di un altro uomo. Parlavano, visibilmente, di lui. Dopo essersi scambiati tra loro alcuni cenni col capo lo fissarono di nuovo con la stessa insistenza, mentre la giovane accennava un sorriso. Dopo un istante uno degli uomini si alzò di scatto e si diresse verso di lui, un po' imbarazzato. «Generale!» A questo modo aveva fatto conoscenza con la famiglia del colonnello Z'. Erano venuti tutti su quella spiaggia unicamente per incontrarlo: quella bella donna la vedova, ancora giovane, del colonnello, la vecchia signora, madre del colonnello, e due cugini germani. «Abbiamo saputo che le è stata affidata questa santa e sublime missione», disse la vecchia signora, «e siamo lieti di conoscerla.» «E' per questo, d'altronde, che siamo venuti qui.» «Non abbiamo mai smesso le ricerche sino alla fine della guerra», proseguì la vecchia signora. «Tre volte abbiamo spedito delle persone sulle sue tracce e tutt'e tre le volte sono tornate a mani vuote. L'ultima volta ci hanno beffato: hanno intascato il denaro e sono scomparse. Quando abbiamo saputo che lei si sarebbe recato laggiù abbiamo sentito rinascere la speranza. Sì, figliolo mio, adesso abbiamo riposto in lei tutte le nostre speranze, le nostre grandi speranze.» «Farò del mio meglio, signora. Non risparmierò nessuno sforzo.» «Era così giovane e dotato di tutte le virtù», proseguì la vecchia, e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Tutti pensavano che aveva la stoffa di un genio militare. Ce lo diceva anche il ministro della Guerra, quando è venuto a farci le condoglianze. E' una grande perdita, una perdita atroce per tutti. Ma era mio figlio, e naturalmente sono io la più colpita da questa perdita. Anche tu, Betty, s'intende, ti chiedo scusa, cara. Ricordi l'ultima volta che tornò dall'Albania per quella licenza di quindici giorni? Solo quindici giorni, e dovemmo celebrare in tutta fretta il vostro matrimonio, perché il tempo stringeva. Aveva delle incombenze così importanti 131 che non poteva assentarsi più a lungo da quel maledetto paese. Ti ricordi, Betty?» «Sì, mamma, come potrei dimenticare?» «Ti ricordi che piangevi a calde lacrime in cima alle scale mentre lui s'infilava l'uniforme e io cercavo di rassicurarti e di tranquillizzare me stessa, quando d'un tratto ci chiamarono al telefono? Era il ministero della Guerra, l'aereo sarebbe


decollato di lì a mezz'ora. Il nostro povero caro scese i gradini a quattro a quattro, ci abbracciò tutt'e due e andò via. Oh, mi scusi, generale, mi perdoni questo sfogo, sono molto sensibile, lo sono sempre stata.» Nei giorni successivi si conobbero ancora meglio e la famiglia del colonnello si unì alla loro comitiva. Giocavano a tennis, facevano il bagno, facevano passeggiate in barca, e la sera andavano insieme nei locali notturni. Alla moglie del generale quella nuova amicizia garbava poco, ma, secondo il suo solito, non lasciava trapelar nulla. A vedere il marito passeggiare così spesso con Betty in riva al mare provava un senso di contrarietà, e tutto, del resto, le dispiaceva nel comportamento di lui con quella donna. Ma, senti, di che cosa parlate così a lungo? Del colonnello, solo del colonnello? Sì, del colonnello, perché? Be', che la sua vecchia madre non faccia che parlare di lui posso capirlo, ma lei... Non è carino da parte tua, quelle donne sono in angustie, mi hanno pregato di aiutarle, devo mostrarmi servizievole. Ah, servizievole... Non capisco la tua ironia. Del rest l'ironia è fuori posto in casi come questo, nei quali la morte è sempre presente, costantemente. Bene, bene. L'esagerato amore che ostenta per un marito morto vent'anni fa, e col quale ha vissuto solo quindici giorni, ha una sola spiegazione. Quale, secondo te? Oh, è semplice: cerca di darla a bere alla suocera, che ormai è rimbambita. La vecchia è convinta che la nuora non faccia che pensare al suo caro scomparso, e questo, certo, dev'esserle di gran conforto. E allora? Come, e allora? Non fingere di non capire, la vecchia è ricchissima e un bel giorno lascerà un testamento. Non voglio sentir parlare di questa roba. Devo riportare le ceneri del colonnello, è la mia missio 133 ne. Missione maledetta! Poi Betty era improvvisamente scomparsa per due giorni e quando era tornata il generale le aveva letto nello sguardo una certa freddezza e, insieme, un che di stanco. «Dov'è stata?» le chiese quando la incontrò davanti all'albergo. Lei era in costume da bagno e portava degli occhiali da sole a forma di maschera. Il generale non poté fare a meno di notare che, sotto l'abbronzatura, era arrossita nel pronunciare il nome del prete. Gli disse che la suocera l'aveva insistentemente pregata di recarsi dal prete per raccomandargli, da parte sua, di interessarsi alla ricerca del figlio; che era finalmente riuscita a mettersi in contatto con lui; che la suocera si era rassicurata e... Ma lui non l'ascoltava. Ne contemplava, inebriato, il corpo svestito, e appunto allora si era chiesto per la prima volta quale potesse essere la natura dei suoi rapporti col prete. Poi i giorni trascorsero, saturi di sole. La vecchia madre del colonnello continuava a sproloquiare sulle virtù del figlio che, diceva, era stato il beniamino del ministero della Guerra, e sull'antichità della sua famiglia. Betty, invece, si eclissava di tanto in tanto dalla spiaggia e quando riappariva, sempre con la stessa aria stanca e distante, il generale tornava a porsi quella domanda. Il loro gruppo trascorreva i pomeriggi sulla grande terrazza dell'albergo. Una vedette del cinema, la loro conoscenza più recente, gli diceva: «Generale, lei è l'uomo più strano ch'io abbia visto su questa spiaggia. La circonda un velo di mistero, e quando penso che dopo queste splendide giornate andrà a raccogliere dei morti laggiù, in Albania, fremo d'orrore. Lei mi ricorda l'eroe d'una ballata di quel poeta tedesco di cui mi sfugge il nome e che abbiamo


studiato al liceo. Sì, precisamente, quell'eroe che si alza dalla sua tomba per andare a cavalcare al chiaro di luna. A volte mi sembra che lei stia per venire a bussare di notte alla finestra della mia camera. Oh, che orrore!» Lui si metteva a ridere, con la mente altrove, mentre i suoi amici contemplavano estatici il tramonto. La madre del colonnello non faceva che 135 parlare del figlio, ripetendo continuamente: «Com'era sensibile a tutto ciò che è bello sulla terra!» E si asciugava gli occhi col fazzoletto. Betty era sempre seducente ed enigmatica, e il cielo sempre azzurro; solo che di tanto in tanto l'orizzonte si macchiava, qua e là, di nuvole nere, gravide di pioggia, che navigavano verso est, verso l'Albania... Il generale si alzò. Sotto la tenda non c'era nessuno. Non si udiva più il rumore delle gocce sulla tela. Evidentemente erano tornati al lavoro. Uscì, senza allontanarsi dalla tenda. La nebbia, sempre fitta, sommergeva i contorni del suolo, e il generale portò lo sguardo verso nord-est, dove dovevano ergersi il monumento e i pali del telefono coi fili sempre tesi nello spazio. Capitolo Ix Il prete accese il lume a petrolio e lo pose sul tavolino. La sua ombra e quella del suo compagno oscillavano, spezzate in due, sulle facce oblique della tenda. «Brr, che freddo!» fece il generale. «Questa maledetta umidità penetra fino alle ossa.» Il prete cominciò ad aprire un barattolo di conserve alimentari. «Resisteremo fino a domani.» «Vorrei che fosse già domani, per potermela svignare di qui. Ne ho abbastanza di vivere come un selvaggio, e poi si ha anche bisogno di fare un bagno.» «Se almeno non facesse tanto freddo.» «E' un lavoro che si sarebbe dovuto intraprendere in estate», disse il generale. «Ma allora non era possibile, perché appena stipulato il contratto si dovettero iniziare i preparativi.» «Già, e appena finiti i preparativi sono cominciate le piogge.» «Certo il tempo è poco propizio a un lavoro del genere, ma evidentemente non si poteva cominciare prima. I governi hanno le loro ragioni...» «Dica piuttosto che quando il diavolo ci mette la coda...» Il generale aveva spiegato sul tavolo il piano dettagliato del cimitero e vi tracciava alcuni segni con la matita. «E gli altri due dove saranno?» 137 «Chi?» «L'altro generale e il sindaco.» «Mah!» fece il prete. «Forse stanno ancora scavando in quello stadio in cui li abbiamo lasciati.» «Il loro compito non sarà agevole. E poi mi sembra che siano organizzati molto male.» «Mentre da noi tutto funziona a meraviglia. Siamo i becchini più moderni del mondo.» Il prete non rispose. «Sì, ma siamo anche molto sporchi», aggiunse il generale. Fuori, nell'oscurità della notte, risuonò un canto. Dapprima molto basso, appoggiandosi a voci sorde e gravi, crebbe, andò via via acquistando vigore e si infranse contro la tenda come vi si infrangevano, in quelle notti d'autunno, la pioggia e il vento. Sembrava che la tela, piegando sotto un peso, fosse percorsa da un brivido. «Sono gli operai che cantano», disse il generale alzando gli occhi dalla carta. Tesero per un istante l'orecchio. «E' un'abitudine molto diffusa fra gli albanesi di certe regioni», disse il prete. «Appena si trovano in tre o quattro si mettono a cantare in coro. E' un'antica usanza.» «Forse cantano perché è sabato sera.» «Può darsi. E poi oggi hanno preso la paga, e avranno certamente comprato una


bottiglia di raki da qualche contadino di passaggio.» «Anch'io ho notato che ogni tanto gli piace bere un bicchierino», disse il generale. «Evidentemente il lavoro che fanno li deprime, anche loro. Così a lungo lontani da casa!» «Di solito, quando bevono, cominciano a raccontarsi delle storie. Il più anziano narra episodi di guerra.» «E' stato partigiano?» «Credo di sì.» «Allora questo lavoro deve fargli rivivere gli anni di guerra.» «Certo», disse il prete. «E poi cantare, per questi uomini, in momenti come questi, è come un bisogno dell'anima. Non v'è, credo, soddisfazione più grande, per un ex combattente, che disseppellire i suoi ex nemici. E' come un prolungamento della guerra.» La linea melodica del canto si trascinava languida e il coro d'accompagnamento l'avvolgeva da ogni parte co 139 me un ampio mantello caldo e soffice che volesse proteggerla dalle tenebre e dall'umidità della notte. Poi il coro si attenuò e dal suo seno si levò una voce isolata. «E' lui», disse il generale. «Lo sente?» «Sì.» «Ha una bella voce. Ma che dice?» «E' un vecchio canto di guerra», rispose il prete. «E' un canto grave.» «Infatti.» «Riesce a distinguerne le parole?» «Certo. Si tratta di un soldato albanese caduto in Africa. Quando il loro paese era sotto la dominazione turca gli albanesi dovevano fare il servizio militare nelle regioni più remote dell'impero ottomano.» «Ah, sì, me ne ha già parlato.» «Se vuole posso tentare di tradurglielo.» «Volentieri.» Il prete rimase per un momento ad ascoltare con attenzione. «E' difficile renderlo fedelmente ma il senso è più o meno questo: «Sono caduto ferito a morte, compagni miei, caduto di là dal ponte della Mecca».» «Sicché è un canto che ha per sfondo il deserto», disse come in sogno il generale, e nella sua memoria si srotolò all'infinito, come un tappeto abbagliante, il deserto. E su questo tappeto tentò di camminare come aveva fatto un quarto di secolo prima, nella sua uniforme di tenente. Il prete continuò a tradurre: ««Andate da mia madre da parte mia e ditele di vendere il nostro bue dal pelo nero»». Fuori, il canto si stirava, si stirava come se stesse per spezzarsi, poi riprendeva, si avvolgeva nello spesso coro dell'accompagnamento e infine veniva a urtare contro le facce oblique della tenda. ««Se mia madre vi interroga su di me...»» «E allora», disse il generale, «che diranno alla madre?» Il prete ascoltò ancora un momento. «Ecco pressappoco il senso», proseguì il prete. ««Se mia madre vi chiede mie notizie ditele che suo figlio ha preso tre mogli e che un gran numero di invitati ha partecipato alle sue nozze.» In altre parole, che è stato colpito da tre proiettili e che i corvi si sono avventati sul suo cadave 141 re.» «Ma è orribile!» disse il generale. «Non l'avevo avvertita?» Fuori, il canto, come una molla che si tiri, si tese al massimo, sino a spezzarsi. «Fra un istante ricominceranno», disse il prete. «Quando cominciano a cantare non la smettono tanto facilmente.» Infatti la melopea riprese nella tenda vicina. Dapprima si udì salire soltanto la voce acuta, straziante, del vecchio operaio, poi le si accompagnò un'altra, infine il coro ricoprì il canto col suo mantello, e quello si alzò, armonioso e altero, nella notte. Ascoltarono a lungo senza parlare. «E qual è», domandò infine il generale, «l'argomento di questo canto?» «L'ultima guerra», disse il prete. «La guerra in genere?» «Mi sembra che si tratti di un comunista caduto dopo essere stato accerchiato dalle


nostre truppe. Questo canto è dedicato a lui.» «Non si tratta, per caso, di quel ragazzo che si è gettato contro un carro armato e di cui abbiamo visto il busto in due o tre posti?» «Non credo. La canzone lo direbbe.» «Non si ricorda di quello che dicono si sia avventato come una tigre contro un carro armato per tentare di aprirne la torretta?» «No», disse il prete. «Ne abbiamo visti tanti, di busti così.» «Io, invece, me lo ricordo bene», disse il generale. «Mi hanno raccontato che mentre tentava di aprire la torretta del primo carro armato è stato colpito a morte da un altro che seguiva.» «Ah, sì, mi sembra di ricordare vagamente.» Nell'altra tenda avevano ricominciato a cantare. «C'è qualcosa di lacerante in questi canti che languono, languono», disse il generale. «Sì, qualcosa di lacerante, proprio così. E' la voce primitiva delle generazioni passate.» «Mi fanno fremere, mi spaventano.» «Il loro folclore epico è tutto così», disse il prete. «Quello che i popoli esprimono coi loro canti lo sa solo il diavolo», disse il generale. «Possiamo scavare e introdurci nel loro suolo, ma in quan 143 to a penetrare la loro anima, no, questo mai.» Il prete non replicò e nella tenda cadde un lungo silenzio. Fuori, il canto continuava a spiegarsi come le melodie precedenti, e il generale ebbe la sensazione che quei suoni lo circondassero da ogni parte. «Continueranno ancora per molto tempo?» domandò. «Chi sa! Forse sino a domattina.» «Ascolti bene», disse il generale, «e se nei loro canti alludono a noi ne prenda nota.» «Certo», disse il prete, e diede un'occhiata all'orologio. «E' tardi.» «Non ho sonno. Beviamo. Forse ci prenderà la voglia di cantare, anche a noi.» «Non posso bere», disse il prete. Il generale scosse il capo, come a dolersene. «Non c'è occasione migliore per imparare a farlo. L'inverno, una tenda in montagna, la solitudine...» Fuori, il canto ora si alzava ora ridiscendeva per tornare a salire. Il generale trasse dalla borsa una fiaschetta. «Mi dispiace», disse. «Berrò da solo»; e mentre riempiva il bicchiere la sua ombra ingrandita si mosse sulla faccia interna della tenda. Il prete si era messo a letto. Il generale bevve due bicchieri uno dopo l'altro, poi accese il fornellino a petrolio e vi mise sopra una caffettiera. Da molto tempo si era abituato a farsi il caffè quando era solo. La bevanda che preparò gli parve amara. Rimase per qualche istante con le mani incrociate, la mente altrove, poi uscì dalla tenda e si piantò lì, ritto, dinanzi all'ingresso. Continuava a cadere una pioggia sottile e la notte era così silenziosa e buia che gli parve di non trovarsi in nessun posto. Il canto che veniva dalla tenda vicina era cessato da alcuni minuti. «Forse si concedono un po' di riposo», pensò. «Ricominceranno certamente.» Dopo un momento, infatti, il canto tornò ad alzarsi nella notte, come una freccia. La voce del vecchio sterratore, staccandosi da quelle dei compagni, salì sempre più in alto, infine si fermò, rimase per un istante sospesa, poi d'improvviso si spezzò per ricascare in mezzo alle altre, come una scintilla che ricaschi sulla brace del focolare. 145 Un lampo brillò in lontananza, illuminando per una frazione di secondo la tenda bianca laggiù e, accanto, sul terreno in pendio, il camion inclinato, che dava l'impressione di dover precipitare da un momento all'altro. Poi tutto ripiombò nella notte. Il generale ascoltava quel canto sforzandosi di indovinarne il senso. Era, come gli altri, un canto triste e grave.


«Forse rievoca i compagni caduti», pensò. Uno dei visitatori che erano andati da lui prima che partisse gli aveva detto che spesso gli albanesi dedicano dei canti ai compagni morti in guerra. «Chi sa cosa rimugina il vecchio operaio. Apre tombe di qua e di là e vi raccoglie ricordi di guerra. Deve detestarmi. Glielo leggo negli occhi. Siamo nemici mortali, ma io per lui provo soltanto disprezzo. In fin dei conti non è che uno sterratore. Un manovale che riapre tombe sei giorni della settimana e canta il settimo giorno. E se a me capitasse di cantare un canto di questo genere, chi sa che orrore ne verrebbe fuori!» Gli sterratori cantarono a lungo. I canti si seguivano come gli anelli di una catena e il generale rimase lì, ad ascoltare. Rientrò nella tenda solo quando sentì il freddo penetrargli nelle ossa. Capitolo X Il generale dormì d'un sonno agitato le poche ore che lo separavano dal mattino. Fu svegliato dalle voci degli operai intenti a strappare dal suolo gelato i pioli della loro tenda. Che gettarono, tutta bagnata, nel camion, sulle grandi casse, accanto alle pale e alle vanghe. I due autisti avevano messo in moto i motori dei rispettivi veicoli per farli riscaldare. Il prete si era alzato per primo e preparava il caffè. Ascoltava il gradevole ronzio del fornellino la cui fiamma intermittente gli illuminava a tratti il viso. Dall'ingresso della tenda entrava la pallida luce dell'alba. Il generale ebbe nostalgia della propria casa. Salutò il prete. «Buongiorno», rispose questi. «Ha dormito bene?» «No, non bene. Ha fatto molto freddo, soprattutto dopo mezzanotte.» «Anch'io ho battuto i denti. Prende un caffè?» «Volentieri, grazie.» Il prete versò il caffè nelle tazzine: il generale si alzò e si vestì. Dopo un quarto d'ora erano usciti dalla tenda e gli operai cominciarono a smontarla. Non pioveva più ma il terreno era inzuppato e le fosse aperte del grande cimitero erano piene d'acqua per metà. L'operaio più giovane, quello dal maglione col collo alto, gettava nel retro del camion le bombole di disinfettante vuote. «Sembra che non debba più piovere», disse il prete quando furono saliti in macchina. A est, dietro le alte nuvole, il sole saliva all'orizzonte in una macchia ora pallida ora splendente. Il generale cominciò a sonnecchiare. Procedevano da più di due ore quando l'autista frenò bruscamente. Il generale asciugò il vapore umido del finestrino e vide, in mezzo alla strada, un piccolo contadino, chiuso nel suo stretto abito nero, col braccio teso nella loro direzione. Il camion si fermò facendo stridere i pneumatici, pochi passi dietro la vettura. 5 L'autista sporse la testa. «Non abbiamo posto, piccolo!» gli gridò. Ma il ragazzo gli disse rapidamente qualche parola indicandogli con la mano il ciglio della strada. «Chi è quell'uomo?» domandò il prete. Il generale abbassò il finestrino per veder meglio. Sul ciglio della strada un vecchio contadino, con un mantello nero sulle spalle, era seduto su una grossa pietra. Con un gran fazzoletto aperto sulle ginocchia, faceva colazione con pane di mais, formaggio e cipolle. Mentre il ragazzo chiacchierava con l'autista il vecchio osservava con occhio curioso le due macchine. Davanti a lui, sulla banchina pedonale, si allungava una bara. A pochi passi un asino, tutt'infangato, se ne stava immobile sull'orlo della carreggiata. «Che succede?» domandò il


generale. «Che ne so! Adesso ce lo diranno», rispose il prete. L'esperto, sceso dal camion, parlava con i due contadini. Il vecchio rimosse le briciole dal fazzoletto e si alzò pesantemente. L'esperto si avvicinò alla portiera. «Be'?» domandò il generale. «Sono i resti di un soldato.» «Di un soldato nostro?» «Sì», rispose l'esperto indicando la bara. «Lavorava da questo contadino quando fu ucciso.» Il generale aprì la portiera e scese. Il prete lo seguì. «Non ho capito bene», disse quest'ultimo, che si era avvicinato al contadino. «Era al servizio di questo contadino che lo faceva lavorare al suo mulino», disse l'esperto. «E' stato ucciso appunto lì.» «Ah», disse il prete, «dev'essere un disertore, o uno dei tanti casi del genere che si sono verificati dopo la nostra capitolazione.» L'esperto, dopo avere interrogato il contadino, tornò per dire: «Si tratta di un disertore». Il generale, che non aveva udito le ultime parole che i due si erano scambiati, si avvicinò al gruppo con passo lento e l'aria grave: l'atteggiamento che badava ad assumere ogni volta che si trovava in presenza di contadini albanesi. «Allora, che succede?» domandò il 7 generale. Ora che le giornate fredde e deprimenti e quella tenda piantata sui monti appartenevano al passato, e aveva indossato l'uniforme nuova, si sentiva ripreso dalla consapevolezza della propria importanza. Il contadino aveva un viso magro e occhi grigi, stanchi. Tirò fuori tranquillamente la borsa del tabacco, caricò la pipa e l'accese con l'accendino. Il generale fermò lo sguardo sulle dita del vecchio, arrossate e secche come corteccia, e sulle sue grandi mani ancora vigorose. Il ragazzino rimaneva lì, in piedi, con gli occhi sbarrati di meraviglia dinanzi al generale. «Sono tre ore che aspettiamo qui», disse il contadino. «Ci siamo messi in viaggio prima dell'alba. Ieri mi hanno detto che le vostre auto sarebbero passate sulla strada e allora ho deciso di venire ad aspettarvi con mio nipote. Abbiamo fermato molte macchine prima della vostra, ma gli autisti ci hanno detto che non trasportavano morti. Uno o due mi hanno addirittura preso per pazzo.» «E' stato lei a seppellirlo?» domandò il generale. «Sì», rispose il contadino. «E chi altro avrebbe potuto farlo? Viveva da noi.» «Ah, viveva da voi, dunque! Ma vorrei sapere, se è possibile, che tipo d'accordo avevate fatto con lui. Che cosa poteva avere da spartire con voi il soldato di un grande esercito regolare? Come poteva rimanere di sua spontanea volontà in casa vostra e trovarcisi bene? Siete contadini, vero?» L'esperto traduceva, rendendole più semplici, le parole del generale. Il vecchio si staccò la pipa dalle labbra e guardò il generale diritto negli occhi. «Era il mio servo di fattoria. Potranno dirglielo tutti.» Il generale si accigliò e arrossì sotto l'offesa. Solo adesso capiva quello che era successo allora. Lanciò al mugnaio uno sguardo obliquo, come a dirgli: «Parli così perché hai il coltello dalla parte del manico, contadino!» e accese nervosamente una sigaretta, non senza aver rotto due o tre fiammiferi. «E' uno di quei disertori che hanno lavorato come servi di fattoria degli 9 albanesi», gli spiegò il prete. A udire la parola «disertore» il generale fece una smorfia. Era molto irritato. «Come si chiamava?» domandò l'esperto al vecchio. «Non lo so», rispose questi. «Lo chiamavamo «Soldato» e basta, e questo nome gli è rimasto fino all'ultimo.» «Quando lo hai disseppellito?» domandò l'esperto. «L'altro ieri. Ho sentito dire che


eravate venuti a raccoglierli e ho deciso di disseppellirlo per consegnarvelo. Ho pensato che era meglio che riposasse al suo paese.» «Non gli hai trovato addosso una medaglietta tonda?» domandò l'esperto. «Una medaglia?» fece il mugnaio, tutto meravigliato. «Non era di quelli che si guadagnano medaglie. Per il lavoro era insuperabile, ma la guerra no, non era il suo forte!» «Ma no, vecchio padre, non una medaglia», lo interruppe sorridendo l'esperto, «una medaglietta! Una cosa che somiglia a una moneta con sopra l'immagine della Vergine Maria.» Il contadino alzò le spalle. «No, non ho trovato niente. Ho raccolto le sue ossa una per una ma non ho trovato niente del genere.» «Ha agito bene», disse il prete. «Ha fatto il suo dovere come un buon cristiano.» «E chi altro avrebbe potuto occuparsene?» disse il contadino. «Toccava a me.» «La ringraziamo», disse il prete, «in nome della madre di quel soldato.» Il vecchio si avvicinò al prete, che gli parve un uomo affabile e benevolo, e cominciò a parlargli indicandogli di tanto in tanto con la mano la bara rozzamente lavorata in legno di quercia verde. «L'ho fabbricata ieri», disse, «e stamattina mi sono messo in viaggio col piccolo. Abbiamo stentato molto a fare il tragitto dal mulino alla strada maestra. Il fango arriva al ginocchio. L'asino è caduto due volte. Guardi un po' com'è conciato! E non è stato facile rimetterlo in piedi.» Il prete lo ascoltava attentamente. «E il soldato, è stato lei a ucciderlo?» domandò d'un tratto, con voce tranquilla, fissandolo. Il contadino fece un gesto di stupore e si tolse la pipa dalle labbra. 11 Poi si mise a ridere. «Ma ha la testa a posto, lei? E perché avrei dovuto ucciderlo?» Il prete sorrise a sua volta, come a dire: «Sono cose che capitano». Il mugnaio gli spiegò brevemente come il soldato fosse stato ucciso dalle unità punitive del Battaglione azzurro nel settembre del 1943. Poi, tornando evidentemente alla domanda del prete, si fece visibilmente pensieroso. «Perché dicono queste cose, ragazzo mio?» disse all'esperto a mezza voce. «Sono stranieri, vecchio padre, hanno usanze diverse dalle nostre.» «Ci si dà della pena, si fa tutta questa strada...» «Ma non te la prendere, vecchio padre», gli disse uno degli operai, che era sceso dal camion per caricarvi la bara. «Adesso ti salutiamo, dobbiamo ripartire.» Mentre il vecchio parlava con l'esperto e gli operai dei servizi municipali sollevavano la bara per caricarla sul camion, il generale, che si accingeva a risalire in macchina, fece improvvisamente dietrofront. «Chiede un'indennità?» domandò all'esperto. Questi arrossì. «No!» «Ne ha tutto il diritto. Siamo pronti a versargli quello che chiede.» «Ma non ha chiesto nulla!» Il generale, credendo d'aver trovato un mezzo per vendicarsi, anche se minimamente, dell'affronto che aveva subito da parte del contadino, insisté. «Gli dica, comunque, che intendiamo rimunerarlo.» L'esperto esitò. «Desideriamo compensarla per quello che ha fatto», disse in tono mellifluo il prete al mugnaio. «Qual è la somma che le farebbe piacere?» Il mugnaio si accigliò e alzò la testa. «Non voglio niente», disse seccamente. «Ma si è data molta pena, ha trascorso molte ore a fare questo lavoro, ha impiegato del materiale...» «Niente», ripeté il contadino. «Paghiamo bene», intervenne il generale. «Grazie a Dio non mi trovo in bisogno», disse il mugnaio. «Ma per tanto tempo ha dato da man 13 giare a quel soldato. Forse potremmo fare un calcolo.» Il vecchio scosse la pipa. «Anch'io


gli sono debitore», disse, «non gli ho pagato l'ultimo salario. Forse vorreste che lo dessi a voi!» Il mugnaio voltò le spalle e si diresse verso il posto in cui aveva lasciato l'asino. Mentre la macchina ripartiva il ragazzo mormorò qualche parola all'orecchio del vecchio e questi si mise allora ad agitare la mano in direzione della vettura. «Aspettate, demoni, avevo dimenticato! Ho ancora una cosa sua da consegnarvi!» E ficcò la mano sotto il mantello. «Chiede del denaro», disse il generale vedendo il vecchio che faceva segno. «Me l'immaginavo!» «Cos'è?» domandò l'esperto, che era sceso dalla macchina. «Un quaderno», disse il vecchio. «Qualche volta ci scriveva dentro. Prendi!» L'esperto tese la mano e prese il quaderno. Era un normale quaderno di scuola, pieno d'una scrittura fitta. «Probabilmente le sue ultime volontà», disse il vecchio, «se no non mi sarei dato la pena di darvelo. Chi sa cosa ci ha scarabocchiato dentro quel poveretto. Forse ha lasciato a qualcuno le sue capre e le sue pecore. Non ho voluto chiederglielo. Ma se aveva del bestiame, i lupi glielo avranno divorato.» «Grazie», fece l'esperto. «Qui dentro scopriremo certamente il suo nome.» «Lo chiamavamo tutti «Soldato»», disse il vecchio. «Nessuno ha pensato a chiedergli come si chiamava. Buon viaggio e buona salute!» «Un altro diario», disse il generale sfogliando il quaderno che l'esperto gli aveva consegnato. «Con questo, quanti ne abbiamo trovati?» «E' il sesto», rispose il prete. I veicoli ripartirono l'uno dopo l'altro e il generale, che si era voltato, vide il vecchio contadino restare per un istante immobile guardando nella loro direzione, poi fare dietrofront, spingere l'asino dinanzi a lui e rimettersi in viaggio, con a fianco il nipote. 15 Capitolo Xi Il generale si rincantucciò in fondo alla macchina e non avendo niente di meglio da fare aprì il quaderno. Mancava la prima pagina (la prima pagina mancava sempre nella maggior parte dei diari che avevano trovato). Ma, avendo cominciato a leggere, capì che dovevano mancarvi solo alcune frasi. Evidentemente lo sconosciuto doveva avere riempito delle proprie caratteristiche una buona parte della prima pagina, poi, pentitosi, doveva averla strappata. L'importante è che nessuno scopra questo diario. Qui il rischio non è grande: anzitutto perché nessuno nella famiglia del mugnaio sa leggere e poi perché non conoscono questa lingua. Ieri sera, quando il mugnaio mi ha visto col quaderno sulle ginocchia, mi ha domandato: «Cosa ci stai scrivendo, Soldato?» Qui tutti mi chiamano «Soldato». Nessuno si è mai sognato di chiedermi il mio nome. La moglie del mugnaio mi chiama così, e anche la loro unica figlia, Cristina. Credo anzi che sia stata lei a chiamarmi per prima con questo nome. Accadde il giorno in cui il nostro battaglione fu messo in fuga dai partigiani. Dopo aver gettato il fucile in un burrone me la diedi a gambe attraverso la foresta. Procedevo sempre lungo il canale perché sapevo che i canali conducono sempre in un luogo abitato. Non mi sbagliavo. Era appunto la gora di questo mulino. Mentre mi avvicinavo alla porta una giovane albanese che cercava di calmare un grosso cane gridò con aria di sorpresa: «Papà, è arrivato un soldato!» E così quel


giorno ebbe inizio la mia vita di servo di fattoria. Qualche volta non riesco a spiegarmi come un soldato come me, della Divisione di Ferro, possa essersi ridotto a fare il domestico di un mugnaio albanese e a mettersi sul capo una di quelle berrette bianche che portano i contadini di qui. «Se puoi aiutarmi nel mio lavoro», mi disse il mugnaio, «avrai da me vitto e alloggio, e inoltre la mia protezione. Sto diventando vecchio e non sono più capace di fare gran che con le mani. Il mio unico figlio maschio si è dato alla macchia. Solo che ti avverto: niente scappatelle, se no te 17 ne pentirai.» Alludeva certamente alla figlia e io, in tutt'onestà, gli promisi che, se acconsentiva, ero pronto a servire in casa sua sino alla fine della guerra. Ma lui, mettendomi improvvisamente addosso lo sguardo severo e penetrante, mi disse: «Ascolta, disgraziato, non sei per caso una spia?» «Una spia io?» feci stupefatto. «Se vengo a sapere qualche cosa sei fottuto, ti impicco a una trave del granaio.» Fu quello il nostro contratto. Oggi è trascorso più d'un mese da allora e io sbrigo un mucchio di lavori: vado a far legna nella foresta, netto il ruscello del mulino, affilo le macine, rimetto a posto le tegole del tetto, pulisco e ungo gli ingranaggi, riempio e vuoto i sacchi. I compagni del battaglione e tutti i miei parenti suppongono certamente ch'io sia morto. Se mi vedessero in questo stato, me, un ex soldato «di ferro», imbrattato, tutto bianco di farina, con questa berretta in testa, rimarrebbero di stucco e poi finirebbero con lo scoppiare a ridere. 25 febbraio Fa molto freddo. Il vento ha soffiato per tutta la giornata con tanta violenza che pareva dovesse strappare il mulino dalle fondamenta. Lavoriamo molto poco. L'inverno è così rigido che sono pochissimi i contadini che si azzardano a prendere la strada del mulino per farvi macinare un sacco di mais o di grano. I campi quest'anno sono deserti. Molti villaggi circostanti sono stati distrutti o abbandonati. I pochi contadini che vengono raccontano cose orribili. Qualche volta indugio ad ascoltare il muggito del vento che soffoca il brontolio della gora, e allora ho l'impressione che il vento urli sul mondo intero. Marzo 1943 Il mugnaio mi tratta abbastanza bene. Devo dire però che io, dal canto mio, gli faccio volentieri tutti i lavori che gli occorrono. Ieri ho riparato un'ala del tetto danneggiata dal vento. Il mugnaio è rimasto molto soddisfatto. Mi ha detto: «Tu, Soldato, sei molto bravo». Poi, dopo avermi squadrato per un istante dalla testa ai piedi, ha ag 19 giunto in tono beffardo: «Non c'è che la guerra, credo, che non sia fatta per te». Sono arrossito sino alle orecchie. Era la prima volta che si alludeva alla mia diserzione. «Non è vero», ho risposto risentito. «Se non voglio combattere è perché questa guerra non la sento, tutto qui!» Allora mi ha dato una pacca sulla spalla. «Non volevo offenderti», mi ha detto sorridendo. «L'ho detto così. In fondo hai fatto benissimo a piantarli lì, i fascisti.» Quelle parole mi hanno ossessionato per tutta la giornata. Perché il mugnaio mi ha detto quello? Dal momento che aiuta i partigiani e detesta i fascisti. Ho notato, d'altra parte, che gli albanesi nutrono un profondo rispetto per il coraggio, anche per quello del nemico. Disprezzano i codardi e io, evidentemente, gli ho dato l'impressione d'essere un codardo. Codardo un pezzo di ragazzo come me, alto un metro e ottantadue? Mi dispiacerebbe davvero che mi credessero un vile! Ne avrei vergogna soprattutto di fronte a Cristina. E' così giovane e graziosa.


Non ha ancora diciassette anni e ogni volta che la vedo sento il cuore che mi si svuota come un pneumatico di bicicletta che si sgonfi improvvisamente. Così! Pomeriggio Oggi è accaduta una cosa straordinaria. Ero andato a tagliar legna nella foresta quando, ritornando, ho visto un uomo seduto sulla soglia, davanti al mulino. Ho rallentato il passo e ho ascoltato. L'uomo fischiettava un motivetto nostro. Mi sono avvicinato e ho riconosciuto nei suoi stracci i resti di un'uniforme. Ho gridato: «Ehi, salve, amico!» Ha smesso di fischiettare e si è alzato di scatto. Non ci eravamo mai visti prima ma ci siamo gettati l'uno fra le braccia dell'altro, come due vecchie conoscenze, e ci siamo seduti insieme sulla soglia. Gli ho domandato: «Di quale reggimento sei?» «Del reggimento La Gloria.» «Io della Divisione di Ferro.» «Sì, prima!» ha detto. «In quanto a quello che siamo adesso, è un altro discorso.» 21 Ci siamo messi a ridere. «Come te la cavi?» ho domandato. «E' molto che te la sei filata?» «Quattro mesi. E tu?» «Un po' più di due.» «Lavori qui?» «Sì.» «Un bel posto! Sembra d'essere in Svizzera.» «Con chi sei venuto?» E' scoppiato in una bella risata. «Col mio «padrone». Abbiamo portato due sacchi di mais da macinare.» «Cosa c'è di nuovo?» ho domandato. «Sono completamente isolato e non so niente di quello che succede nel mondo. A che punto è la guerra? Quando finirà?» «Piuttosto presto, a quanto si dice. Certo che i nostri non ne hanno più per molto tempo.» «E noi? Che sarà di noi?» «Finita la guerra, torneremo a casa.» «Non dovremo render conto d'essercela svignata così?» «Sei matto? Che ti salta in mente? E a chi dovremmo render conto, me lo sai dire? Saranno quelli che ci hanno mandati qui a dover render conto a noi!» Queste parole mi hanno un po' confortato, e ci siamo accesi una sigaretta. «Nella regione ci sono molti soldati come noi», ha proseguito lui. «Un mucchio! I contadini albanesi hanno molto bisogno d'aiuto perché i loro figli si sono dati, per la maggior parte, alla macchia. E loro sono tutti contenti d'assumere qualcuno dei nostri. Ho visto dei compagni fare ogni sorta di lavori, dall'aratura e dalla custodia del bestiame fino alla custodia dei bambini. Sì, fanno anche le bambinaie!» «Che roba, però!» ho detto ridendo. «Perché? Non ti sei mai detto che è già un miracolo che ci si offra la possibilità di sopravvivere? A quest'ora, se no, staremmo marcendo in fondo a qualche fossato, e non si saprebbe neppure dove sono sparpagliati i nostri resti!» «Giustissimo.» «E per le donne come fai?» ha domandato lui. «Niente.» «Su questo punto, certo, bisogna stringere la cinghia. Non se ne trovano da nessuna parte. Uno dei nostri 23 che girava un po' troppo intorno a una bambina del villaggio s'è fatto sbatter fuori, e con le ossa rotte.» Non ho replicato. «Ma tu, vecchio mio, credo che te la passi bene», mi ha detto, e ho visto ridergli gli occhi grigi e maliziosi. «Ho intravisto poco fa la figlia del tuo padrone. Formidabile!» «Sei pazzo? Non oso neppure pensarci. L'hai detto tu stesso quello che si rischia.» «Sì, sì, l'ho detto, ma ho l'impressione che qui sia diverso. E' un bel posto, tranquillo. Ti ripeto, sembra d'essere in Svizzera.» Dall'interno del mulino ci giungeva il brusio monotono delle mole che frantumavano il grano. Ha tirato fuori la borsa del tabacco e si è arrotolato una sigaretta, come fanno i contadini di qui. Poi ne ha arrotolato un'altra per me, perché io non ho ancora imparato a farlo. «Senti», mi ha detto con gli occhi socchiusi, pensieroso. «Non hai sentito dir niente del


Battaglione azzurro?» Ho avuto un sussulto. «No», ho risposto a mezza voce. «Perché?» «Dicono che opera da qualche parte dell'Albania centrale.» «Molto lontano di qui?» «Sì, piuttosto lontano», ha risposto. «Ma chi sa come diavolo possono mettersi le cose.» E si è grattato la testa. «Credi che possa arrivare fino in questi paraggi?» «Non si sa mai. C'è da aspettarsi di tutto.» Per qualche istante ha fumato in silenzio. «Forse non passerà di qui», ho proseguito. «O forse i partigiani lo metteranno fuori combattimento.» «Può darsi. Ma certo è che nonostante i suoi frequenti scontri con loro e nonostante le pesanti perdite che ha subito, ha ricevuto ogni volta nuovi rinforzi.» «Quanti sono?» «Novecento, e tutti fascisti arrabbiati. Dovunque arrivino, nient'altro che massacri e terrore. Quanto a noi disertori...» «Cosa?» ho domandato, e ho sentito rallentarsi i battiti del mio cuore. «Fucilati sul posto, certo.» «Madonna mia!» ho sussurrato. 25 Siamo rimasti ancora un momento lì, sulla soglia, a parlare del più e del meno. Il mio mugnaio e il contadino erano impegnati in una lunga conversazione all'interno. Poi, quando il mais è stato macinato, i due visitatori si sono gettati ciascuno un sacco sulle spalle e si sono avviati, il contadino avanti, il soldato dietro. Abbiamo augurato loro buon viaggio. Aprile Abbiamo molto da fare. Da tutti i dintorni vengono contadini a farsi macinare il grano, chi a piedi, chi a cavallo, chi sull'asino. Ogni volta che sento risuonare le campanelle delle loro bestie mi rallegro di veder gente, perché la solitudine mi pesa. Il mugnaio è un uomo buono e giusto, ma ha il torto d'essere un po. troppo avaro di parole. Ho notato che, in genere, gli albanesi non sono molto loquaci, soprattutto gli uomini. Lui non fa che pipare, tutto il giorno, e chi sa che cosa rimugina dietro i fiocchi del fumo. Parlo di più con sua moglie, «zia Frosa», come la chiamo io. M'interroga su una quantità di cose, sui miei genitori, sui miei parenti, sulla mia casa. Quando le confido che non vedo l'ora di riabbracciare i miei, mi guarda scuotendo la testa con aria di commiserazione. «Povero ragazzo», dice a mezza voce, e se ne va a impastare il pane o a lavare i piatti. «E adesso che sei assente», mi ha chiesto un giorno, «chi le custodisce le vostre bestie?» Mi sono messo a ridere. «Ma non ne abbiamo.» «Neppure vacche?» «No, neppure vacche. Abitiamo in città.» «E poi, anche se ne aveste, adesso che non ci sei tu, i lupi ve le avrebbero divorate. Ah, ragazzo mio, oggi anche gli uomini si dilaniano tra loro come belve, figuriamoci i lupi.» Non ho trovato niente da dire. Un altro giorno mi ha interrogato sulla mia medaglietta. «Cos'è che porti al collo, ragazzo? Sembra un soldone turco.» Ho riso. «E' una specie di segno che noi soldati portiamo perché ci si possa riconoscere se veniamo uccisi in guerra. Qua, proprio sotto l'immagine della Vergine, c'è un numero. Lo vede?» Zia Frosa ha inforcato gli occhia 27 li, degli occhiali buffissimi, con una lente incrinata. «E chi vi ha dato questa roba?» «I nostri comandanti.» «Che il fulmine li colga!» ha detto lei, e si è allontanata borbottando. Ecco di che parlo con zia Frosa. In quanto a Cristina, la vedo raramente, e le parlo ancora più raramente. Certo è soprattutto con lei che mi piacerebbe conversare, tanto più che adesso me la cavo abbastanza bene in albanese. Ma al mulino non la si vede mai. E' occupata tutto il giorno nelle faccende di casa e passa il resto del tempo a sferruzzare. Anche quando viene a dirci che il pranzo è pronto


rimane appena un istante sulla soglia. Coi suoi occhi dolci e scuri mi lancia uno sguardo furtivo, poi subito gira la testa dall'altra parte, e per un altro momento, prima che scompaia, ne scorgo i capelli castani. Qualche volta, senza neanche scendere al pianterreno, ci chiama dalla finestra: «Papà, la colazione è pronta!» Quando per caso mi trovo in cortile mi grida: «Soldato, avverti papà che il pranzo è servito!» Quando tutti ci siamo seduti intorno al grande tavolo basso lei non alza mai gli occhi. E neanche io, del resto, oso alzare il naso dal piatto. Poi penso a lei tutta la sera. A volte esco davanti alla porta e rimango lì a giocare con Djouvi, il grosso cane. Qualche volta lascio smarrire il mio sguardo nella notte, mentre ascolto lo sciabordio del ruscello. Vengo allora ripreso dalle mie fantasticherie. Aprile Oggi Cristina mi ha sorriso. La notte scorsa alcuni ladri hanno tentato un colpo al mulino. Hanno ferito Djouvi. Gravemente. Il mugnaio e i suoi sono molto afflitti. Maggio, verso le tre E' passato un contadino con un orologio turco appeso al collo. Da molto tempo non vedevo un orologio. Vado sognando una quantità di cose, ma è soprattutto Cristina a occupare i miei pensieri. Tante e tante idee folli mi attraversano la mente. Lo so che sono follie, ma mi piace lo stesso rimuginarle tra me. Ieri, verso la metà della giornata, ero disteso accanto al ruscello e non 29 sapendo che fare lanciavo sassi nell'acqua. Tutt'intorno stormivano i platani e io mi lasciavo cullare. D'un tratto sento un gran fracasso, passi, voci, fischi, zoccoli di cavalli. Salto in piedi e cosa vedo? Una lunga colonna dei nostri aveva quasi raggiunto il mulino. Volevo fuggire ma, non so perché, le gambe non rispondevano alla mia volontà. Rimasi lì, come inchiodato sul posto. Vennero verso di me e mi circondarono da ogni parte. «E' questo il mulino?» domandò uno di loro facendomi un segno furtivo. «Sì», risposi, spaventato. «Su, avanti, e riducetemi questa roba in cenere!» gridò lanciandosi per primo. Gli altri uomini lo seguirono. Mi unii a loro. Non so come, le gambe mi si erano sciolte d'improvviso e mi sentivo agile e svelto come se il mio corpo fosse stato liberato da un incantesimo. Ero invaso da quella febbre e da quella ferocia che mi prendevano l'anno scorso quando bruciammo sei villaggi l'uno dopo l'altro durante la campagna d'inverno. Ci avventammo tutti urlando come ossessi. Due uomini appiccarono il fuoco al mulino. Altri avevano afferrato il mugnaio e lo trascinavano fuori. Lo piazzarono davanti alla soglia e lo fucilarono. Pensai a Cristina. Salii a quattro a quattro i gradini. Alcuni soldati portavano giù zia Frosa legata mani e piedi. Quando mi vide mi sputò in faccia e mi gridò: «Schifoso! Spia!» Ma non m'importava nulla. Pensavo solo a Cristina. Corsi nella sua camera e mi gettai sul suo letto. Tremava tutta. «No, Soldato, no!» Ma il sangue mi era andato alla testa. Dovevo sbrigarmi, il tempo stringeva. Scostai la trapunta, lacerai rabbiosamente la camicia leggera e mi buttai su di lei. «Soldato! Soldato!» Mi svegliai di soprassalto. Era la voce di Cristina che mi chiamava. Accanto a me, come prima, l'acqua tranquilla sciabordava e tutt'in giro si sentiva l'aroma del fieno. Mi ero addormentato per alcuni istanti. «Soldato! Soldato!» Con passo pesante mi diressi verso 31 la casa. Cristina era apparsa alla finestra centrale. «Mia madre ti vuole», mi ha detto. Mi stropicciavo ancora gli occhi. Se avesse saputo il sogno che avevo fatto! 24 giugno #'dc Gli abitanti di Gjirokastër evacuano la città e si


spargono nei dintorni. Arrivano spossati col fagotto in spalla. Le donne portano in braccio i figlioletti, i vecchi si trascinano a fatica. E' il panico. Dicono che fra poco la città verrà bruciata. Altri sostengono che verrà fatta saltare con le mine. Insomma tutti si aspettano cose orrende. I fuggiaschi si rifugiano nelle campagne. Alcuni raggiungono le regioni liberate, altri rimangono nelle zone che non sono sottoposte a nessun controllo, come il villaggio vicino al nostro mulino. La città di Gjirokastër è bombardata ogni giorno. Qualche volta mi arrampico sul grande platano che si erge al di là del ruscello e guardo la città. Sembra che si sia issata sulla montagna abbrancandovisi con le unghie e con i denti e che non voglia staccarsene a nessun prezzo. Vi ho servito col mio reggimento per più di un anno e ne conosco tutte le strade e stradine, tutti i bettolieri e venditori di qoftè. Conoscevo anche due prostitute del quartiere di Varosh. Di solito la città viene bombardata la mattina alle nove e mezzo e il pomeriggio alle quattro. Quando non ho niente da fare mi arrampico in cima all'albero mezz'ora prima che si avvicinino gli aeroplani, e li aspetto scrutando l'orizzonte intorno a me. Sulla mia destra vedo Grihoti, il villaggio in cui è acquartierata la nostra divisione, con le sue grandi caserme nuove, l'alta collina che domina il villaggio e, in cima, la teqe isolata, circondata da cipressi; giù, verso il letto sassoso del fiume, scorgo la chiesa e il cimitero cristiani, il ponte dove ho montato la guardia non so più quante notti, l'aeroporto militare, poi, tra i corsi d'acqua e la collina della Santa Trinità, i quartieri disposti a gradinate sul fianco della montagna, i torrenti che vi hanno scavato il loro letto e i ponti che collegano fra loro le varie zone della città. Gli aerei sono puntuali. Poiché 33 vengono da nord spuntano di solito dalla gola di Tépélène. La DCA di Grihoti è la prima ad aprire il fuoco. Il rumore delle detonazioni non giunge sino a noi: vediamo solo i fiocchi di fumo bianco delle granate che scoppiano. Poi entra in azione la DCA della collina della teqe, senza peraltro disturbar troppo, neanche lei, il volo degli aerei. I quali proseguono tranquillamente verso la città, e in quel momento immagino l'urlo delle sirene a Gjirokastër e il precipitarsi della gente nelle cantine. Sorprende che lo spavento e l'orrore che si abbattono su questa città sian provocati solo da quelle tre cosine luccicanti che volano scintillando al sole come monete d'argento lanciate in alto nel cielo. Le ultime a sparare sono le batterie della DCA collocate sulle alte torri della cittadella. Di qui si segue benissimo la manovra degli apparecchi che dapprima perdono quota, poi scendono in picchiata sull'aeroporto militare e infine ripartono, tranquilli e luccicanti, come se non avessero niente da spartire con le colonne di fumo nero che subito dopo si levano sopra la città. Tutto questo si vede solo di giorno, giacché di notte la città si dilegua nel black-out. Che dapprima inghiottisce le stradine, le case basse, il ponte a cavallo sul fiume e poi, successivamente, a gradi, cominciando dal basso, i vari quartieri, i ponti sui torrenti e infine la cittadella, i campanili e i minareti coronati dai loro nidi di cicogne. Ieri sera, mentre guardavo la città immergersi nel buio e sparire come se non avesse mai visto la luce, pensavo alla sfortuna che avevamo avuto di vivere in un'epoca così sinistra, un'epoca in cui ci si obbligava a vivere nelle tenebre, un'epoca in cui eravamo costretti a nasconderci a noi stessi. E mi


ricordai d'una notte come quella, quasi tre mesi fa, quando la nostra compagnia, in marcia verso sud, passò per la prima volta per Gjirokastër. Accadeva in una notte calda, la pioggia era nell'aria e noi, appena arrivati alle caserme di Grihoti, benché stremati, inzaccherati e d'umor nero, chiedemmo d'esser condotti alla casa di tolleranza. Il comando ci accordò il permesso. Subito, come per 35 incanto, ritrovammo la nostra vitalità e, in quello stato, con una barba di parecchi giorni, coperti di fango, senza esserci neppure tolti l'arma di spalla, fummo di nuovo incolonnati e uscimmo dal portone della caserma. La casa chiusa si trovava nel cuore della città e dovemmo ancora fare più d'un chilometro per arrivarci. Ma ora non avevamo più le gambe pesanti. Procedevamo sulla carreggiata oscura, scambiandoci celie triviali o sfottendoci: non ci occorreva altro per esser contenti. Era proibito cantare di notte, se no chi sa che baccano avremmo fatto. E' davvero un bel momento nella vita d'un soldato quello in cui marcia in gruppo, in una notte d'estate, su una strada senza pericoli, con l'arma in posizione di sicurezza. Me ne ricordo come se fosse ieri. Uno di noi fischiettava una vecchia melodia e io, avanzando, guardavo sulla mia sinistra la lugubre sagoma del monte della Lunxheria, che sembrava così vicino da poterlo toccare allungando il braccio, mentre sulla mia destra si ergeva, nero, il Mali Gjerë, (1) al quale doveva addossarsi la città. Al passaggio del ponte che attraver (1) Montagna dell'Albania meridionale. sa il fiume fummo controllati dalle sentinelle del nostro posto di blocco, poi, per tagliar dritto, lasciammo la carreggiata e prendemmo una scorciatoia. Arrivati al quartiere basso di Varosh, cominciammo a salire le strade ripide. La città sembrava morta. Le persiane erano per la maggior parte chiuse; le pochissime finestre aperte ritagliavano sui muri rettangoli oscuri. Le nostre scarpacce risuonavano rumorosamente sul selciato e, dietro le persiane e le porte massicce, gli abitanti dovevano certamente tremare all'idea che stesse, forse, per verificarsi un nuovo massacro. Se avessero saputo dove andavamo! Raggiungemmo finalmente la «casa». La notte era molto buia e l'aria pesante ci prendeva alla gola. Ci fermammo davanti alla porta. L'ufficiale che ci comandava spinse il battente ed entrò. La casa era silenziosa e buia. Dentro, evidentemente, non c'erano clienti. «Forse dormono», disse uno di noi, 37 inquieto. Eravamo tutti preoccupati, perché il nostro ufficiale non ritornava. «Anche se fanno la nanna», disse uno, «devono alzarsi, e alla svelta.» «Giusto», aggiunse un altro. «Portiamo l'uniforme e ci devono rispettare. Tanto più che siamo di passaggio.» «Oggi siamo qui e non siamo sicuri se ci saremo domani», fece una vocina rauca. Ma in quel momento si aprì la porta, ne uscì l'ufficiale e ci precipitammo intorno a lui. «E allora?» disse qualcuno nel buio. «Ascoltate», disse l'ufficiale. «Adesso entrerete subito. Solo, niente baccano, se no ripartiamo come siamo venuti. In riga!» Ci mettemmo in riga alla meno peggio e non so che specie di colonna riuscimmo a formare. Non vedevamo l'ora di entrare. «Attenti!» disse l'ufficiale. «Dentro c'è buio pesto, le finestre sono aperte perché si soffoca, e non bisogna far luce. Nessuno si azzardi ad accendere l'accendino o a sfregare un fiammifero, se ne pentirebbe. Qui a due passi c'è un posto di controllo con un nido di mitragliatrici.» «Abbiamo capito», dissero due o tre voci. «Non abbiamo bisogno di luce. Ci


arrangeremo senza.» «Giusto. Quello che ci occorre non è la luce, è...» «Chiudi il becco, sporcaccione!» brontolò l'ufficiale. «Avanti i primi cinque o sei!» Vi fu uno spingi spingi e sprofondarono nel buio del cortile. «Non mescolate i fucili!» gridò l'ufficiale. Poi si girò verso di noi: «Mi seguano altri sei!» disse. Ero uno di quelli. Entrammo e qualcuno richiuse la porta alle nostre spalle. Attraversammo, come ubriachi, il cortile lastricato, imboccammo le scale e raggiungemmo il ballatoio da cui partiva un lungo corridoio. C'era buio e si soffocava, benché le porte e le finestre delle camere fossero tutte aperte. «Silenzio!» fece una voce di donna. La padrona, certamente. Ansanti, stretti gli uni agli altri come i chicchi d'un grappolo, non sapevamo dove ficcarci e, nelle tenebre, 39 udii il nostro ufficiale mormorare qualche cosa alla padrona. Questa lo condusse via, certo verso la camera più bella. Poi udimmo di nuovo alcuni passi e io, poiché i miei compagni erano entrati non so dove, come inghiottiti dall'oscurità, rimasi solo nel corridoio. Avanzai a tastoni nel buio, udii un rantolo, poi un altro, il sangue mi andò alla testa, mi cacciai nella prima porta aperta e percepii il rumore di un respiro ansante. Uscii subito e mi trovai davanti a un'altra porta. Nelle tenebre distinguevo vagamente una forma bianca in un angolo della camera. Entrai, feci due passi e mi fermai. «Vieni», mi disse una voce dolce. Avanzai un poco, timidamente, allungai le braccia e la toccai. Era interamente nuda. Le mie mani scivolarono sul suo corpo madido di sudore. Sentii gli occhi velarmisi e non riuscivo a trovare il letto. «Metti via il fucile», mi disse dolcemente. Mi sbarazzai del fucile e lo appoggiai al muro. Lei allora si sdraiò. Non ne distinguevo il viso ma a giudicare dalla voce e dal seno doveva essere giovanissima. «Scusami», le dissi dopo qualche minuto, mentre mi riposavo un pochino tra le sue braccia, «scusami se sono così sporco.» «Oh, non fa niente, figurati», disse lei con un tono disincantato da cui si capiva che da molto tempo era abituata al sudore dei soldati. «Dove andate?» mi domandò. «Verso sud, al fronte.» Lei tacque. Furono quelle le sole parole che ci scambiammo. Tentai invano di distinguere i suoi lineamenti ma questi si ingarbugliavano, sfumavano come quelle immagini di film che si confondono quando qualche cosa non va nella macchina da proiezione. Mi alzai lentamente, presi il fucile, me lo misi a tracolla e mi girai ancora una volta verso quella forma biancastra sdraiata nell'angolo. «Buonanotte», le dissi. «Buonanotte», mi rispose una voce indifferente. Uscii. Ritrovai a tastoni le scale e scesi. Quelli che avevano finito aspettavano fuori, fumando in silenzio, seduti col fucile tra le gambe sulle panchine di pietra che fiancheggiavano la porta. 41 Dopo un'ora eravamo in marcia sulla strada maestra ma adesso non parlavamo più, non scherzavamo più, ascoltavamo soltanto il rumore irregolare dei nostri passi che risuonavano sulla carreggiata, di nuovo abbattuti, spossati, infangati da far paura. «Maledetta oscurità!» fece qualcuno, come in sogno, ma nessuno gli rispose, e continuammo in silenzio a marciare verso Grihoti. Parecchio tempo dopo ci capitò di ripassare da Gjirokastër e naturalmente chiedemmo di poterci recare in quella «casa». Ci dissero che era stata chiusa. Non ricordo bene perché, ma sembra che ci fosse stata una lite. Una delle pensionanti era stata uccisa e avevano dovuto evacuare le altre. Ripensai allora a quella ragazza con la quale avevo trascorso un momento al buio, in una notte


soffocante, e pensai che forse si trattava di lei. Ma poteva anche darsi che fosse un'altra. Ce n'erano, credo, cinque o sei. Al massimo sette. Luglio, mezzogiorno Gli occhi di Cristina geroglifici. Come quelli di tutte le ragazze albanesi. Amore? Da parte mia sì. Da parte sua niente. Djouvi non migliora. Luglio La notte scorsa alcune truppe sono passate sulla strada di Gjirokastër. Si dirigevano verso sud. Si scorgevano di qui i fasci dei fari. Evidentemente un reggimento che cambiava destinazione. 21 luglio 1943 Il villaggio vicino è pieno zeppo di ballistes. I contadini che vengono a far macinare il grano raccontano che da una settimana i ballistes si sono insediati nel villaggio come a casa loro. Tutto il giorno non fanno che rimpinzarsi e la sera la passano a cantare vecchie canzoni. Forse ci saranno dei massacri. Per ogni eventualità il mugnaio mi ha detto che se scorgevo i loro berretti bianchi con una grande aquila cucita sul davanti dovevo subito nascondermi. E ha fatto la stessa raccomandazione a Cristina. Qualche volta immagino: «E se venissero i ballistes e Cristina e io ci nascondessimo da qualche parte, nello stesso posto? Lei forse avrebbe paura, io allora le stringerei le mani tra le mie per tranquillizzarla, la 43 sentirei accanto a me, e saremmo tutti e due soli, vicini vicini...» Ma non accade niente di tutto questo. Nei film si vedono spesso delle cose così, ma evidentemente i film e la vita sono due cose diverse. Eppure ho una gran voglia di andare al cinema. Domenica Cristina si sposa fra una settimana. L'ho saputo per caso. Non sapevo che era fidanzata da molto tempo, e ieri, mentre zia Frosa stava attingendo acqua dal ruscello, le ho detto, tanto per scambiare due parole: «Da un po' di tempo lei sta tutto il giorno inchiodata davanti al telaio, perché?» «Ma il giorno si avvicina, ragazzo mio, il giorno si avvicina.» «Il giorno di cosa?» «Come di cosa? Ma la settimana prossima sposiamo nostra figlia, non lo sai?» «No», le ho risposto. «Non lo sapevo.» Ma la mia voce si è fatta così fioca che zia Frosa ha alzato gli occhi su di me e mi ha fissato per un istante. Ho fatto dapprima uno sforzo per dominare il mio turbamento, poi mi sono detto: «Che il diavolo se la porti, perché dovrei nascondere la mia pena?» Non so se lei si sia accorta o no dello choc che mi aveva provocato, ma mi ha fissato ancora una volta e mi ha detto: «Eh sì, ragazzo! Il tempo passa e le figliole raggiungono l'età da marito. Anche te, quando sarai tornato a casa, appena finita la guerra, tua madre ti sposerà con una bella ragazza, bella come un cuore». A queste parole, sono stato sul punto di prendermi la testa tra le mani, perché ho avuto la sensazione che volesse consolarmi, e il mio dolore, invece, si è fatto più acuto. Sono andato a sedermi in riva al ruscello e ho detto parlando da solo: «Cristina, stai per sposarti!» Nient'altro. Agosto Monotonia. Cristina si è sposata. Domenica scorsa i parenti dello sposo sono venuti a prenderla. Sei uomini a cavallo, armati sino ai denti. Le strade sono molto pericolose. Non c'è stato banchetto. Gli uomini si sono seduti 45 intorno al tavolo basso e hanno appena bevuto un po' di raki, perché dovevano fare molta strada. Ero invitato anch'io ma gli invitati non mi hanno rivolto la parola, come se non fossi stato lì. Due giorni fa ho voluto fare un regalino a Cristina. Ma cosa potevo darle? Non ho niente! Allora ho pensato di regalarle la mia medaglietta. Lei due o tre volte ci aveva gettato gli occhi, incuriosita. «Ecco, prendi questa, per mio


ricordo.» L'ha presa e l'ha guardata con gioia. «E' la Santa Vergine!» «Sì.» «Chi te l'ha data? Tua madre?» «No, i miei superiori.» «E perché?» «Perché mi si riconosca quando sarò morto.» Si è messa a ridere. «E come lo sai che sarai ucciso?» «Be', se mai lo fossi!» «Cristina!» chiamava zia Frosa dal cortile. Cristina mi ha ringraziato ed è scappata. Così le ho dato il solo oggetto che possedevo. E a cosa mi sarebbe servito? Ad ogni modo, sono perduto. Vivo ma perduto, e a che serve essere ritrovati quando si è morti? Verso mezzogiorno i parenti dello sposo si sono alzati, si sono messi le armi a tracolla e hanno inforcato i cavalli. Quello di Cristina era bianco. Lei piangeva. Anche zia Frosa. Il mugnaio si dominava. Poi hanno abbracciato la figlia. Anch'io volevo salutarla ma non avevo il coraggio di avvicinarmi ai cavalli, forse per l'atteggiamento distante di coloro che li montavano. Djouvi, il grosso cane, si aggirava lentamente fra le gambe dei cavalli, col collo fasciato. Lo invidiavo. Cristina si è chinata verso di lui e lo ha baciato. Nessuno ha pensato a me. Si misero in viaggio. I cavalli scomparvero per primi alla nostra vista, poi i mantelli neri, poi le lunghe canne dei fucili. Agosto 1943 Da qualche notte c'è un continuo andirivieni di truppe sulla strada di Gjirokastër. E' lecito supporre che fra poco succeda qualcosa d'importante. I contadini che vengono al mulino 47 raccontano che le campagne si riempiono di profughi delle città; ci sono fuggiaschi dappertutto e sembra che si portino dietro un puzzo di ceneri. Si predicono cose orribili. Si dice anche che il Battaglione azzurro è arrivato nella regione. Alcuni affermano che infierisce al di là della Lunxheria, altri che opera ancora più vicino. Le notti sono ridiventate lugubri. Dormo male e spesso mi alzo per spiare. La voglia di rivedere Cristina mi ossessiona. Settembre Tira un vento autunnale. Sono spesso in preda a una profonda tristezza e ho una gran paura di non poter mai più uscire di qui. Qualche volta mi siedo sull'argine del canale. E' il luogo che preferisco. Guardo l'acqua che scorre tranquilla, portando via ora una foglia, ora una festuca, ora solo qualche riflesso. In questi giorni rivedo alcune operazioni condotte dalla nostra divisione nelle campagne albanesi. Ricordo i canali che trovavamo sulla nostra strada. Non so perché quei canali tranquilli dei villaggi albanesi, scavati dai contadini stessi, a forza di braccia, mi turbavano tanto. Niente come quei canali richiamava alla mia memoria in modo così chiaro e condensato i giorni del tempo di pace. Procedevo sulle loro sponde, il fucile in spalla, con una sensazione di disagio. Agitavano nel mio profondo qualcosa di confuso. Sentivo che ridestavano in me un istinto atavico, che mi spingevano a fare qualche cosa. Mi chiamavano. Sentivo scrosciare in me il loro eterno mormorio, ed è certo lungo un canale che nasce, dapprima molto vagamente, poi in modo sempre più netto, l'idea della diserzione. Pomeriggio Djouvi è morto. Un vero lutto per tutti. Il mugnaio ha gli occhi rossi. Deve aver pianto di nascosto. 5 settembre Calma. Le foglie hanno cominciato a ingiallire. Stamattina sopra le nostre teste, a una grande altezza, centinaia di aerei sono volati verso nord-est. Chi sa da quale regione del mondo vengono e in quale altra vanno a bom 49 bardare. I cieli sono aperti da ogni parte. Capitolo Xii Qui finivano le note. Vi si leggeva ancora la data del 7 settembre 1943


ma era stata cancellata con un trattino. Evidentemente aveva rinunciato a continuare il diario. Forse non aveva niente di speciale da scrivere, oppure si era stufato. Il generale gettò con disgusto il quaderno sul sedile. «C'è qualcosa d'interessante?» domandò il prete. «Le note di un sentimentale piagnucoloso.» Il prete prese il quaderno e lo aprì alla prima pagina. «Il suo nome non appare mai», disse il generale. «C'è solo la sua statura: un metro e ottantadue.» «Ma guarda, proprio la statura del colonnello Z'!» disse il prete. Per un istante si fissarono, poi distolsero gli sguardi. «Il suo reggimento e il suo battaglione figurano da qualche parte?» «No, solo la divisione, la Divisione di Ferro. Non ci sono altre indicazioni. Ha scritto il nome del cane ma non il suo.» «Strano.» «E anche qualche riga sul Battaglione azzurro, ma niente sul colonnello Z'.» «Le note sono datate 1943», disse il prete sfogliando il quaderno. «In che mese fa parola del Battaglione azzurro?» «All'inizio e alla fine del diario, vale a dire in febbraio e in settembre.» (1) «In settembre il colonnello era già morto.» «Sì, a quanto pare.» Il prete si mise a leggere. Il generale, che si ricordava del racconto del vecchio contadino, andava immaginando come avrebbe potuto concludersi quel diario. Il Battaglione azzurro era passato da quelle parti, i suoi uomini, furibondi per essere stati sconfitti, erano scesi un pomeriggio al mulino, e qualcuno doveva avergli detto che vi si nascondeva un disertore. Avevano cercato il soldato e lo avevano scovato, nascosto fra i sacchi, tutto bianco, da capo a piedi, di farina, come avvolto anzitempo in 51 (1) Ma il generale si sbaglia: del Battaglione azzurro si parla in marzo e in agosto. ( N. d. T.) un sudario. Lo avevano portato via spingendolo davanti a loro con le canne dei mitra, sicché lui, sempre a ritroso, aveva raggiunto il canale del mulino. E vi sarebbe cascato dentro se, quando era a due passi dalla riva, quelli non avessero sparato. Era crollato a terra e solo la sua testa era piombata nell'acqua. Poi un piccolo vortice si era formato intorno a una grossa pietra e la leggera corrente ne aveva sparso i capelli a valle, come strane alghe nere. «Ecco tutto», pensò il generale tirando una boccata dalla sigaretta. «E quale altra fine avrebbe potuto fare un disertore?» «Allora?» domandò quando, un'ora dopo, il prete ebbe richiuso il quaderno. Il prete alzò le spalle. «Un diario come tanti altri», disse. «Giusto», disse il generale. «Non contiene niente di speciale. Gliel'avevo detto. Un piagnucoloso!» «Due degli altri diari erano più interessanti», disse il prete. «Con dei soldati così, che gettano le armi nei ruscelli per poi innamorarsi della prima ragazza che gli capita, non potevamo mai, si capisce, vincere la guerra», disse il generale con collera. «Bel soldato!» aggiunse dopo un breve silenzio. «Questi diari di soldati hanno alcuni elementi in comune», disse il prete. «S'intende, dal momento che quelli che li hanno scritti erano degli uomini in divisa. E tuttavia differiscono per la sostanza. Si ricorda del primo che abbiamo trovato? Che spirito guerriero! Sentivi in ogni frase la mano e la mente del combattente.» Il prete approvò con un cenno del capo. «Sì, qua e là ci trovavi qualche sconcezza, ma nell'insieme prevaleva lo spirito bellico.» «Quando dico che hanno qualcosa in comune mi riferisco alla


forma», disse il prete. «I diari che troviamo differiscono, naturalmente, tra loro. Di analogo hanno solo la fine, vale a dire ciò che nessuno di quelli che li tenevano ha potuto scrivere.» 53 «Proprio così. In comune hanno solo la morte.» «Quantunque quel disgraziato, invece di cadere con onore in combattimento, si sia ridotto a farsi fucilare come disertore, cadendo con la testa immersa in un ruscello», disse il prete. «Ha letto quello che scrive a proposito di quei canali?» domandò il generale. «Sì, ho letto.» «Sperava di trovarvi la salvezza mentre proprio lì la morte lo aspettava al varco.» Il generale accese una sigaretta. «Forse», disse, «quel ragazzo sulla strada era il figlio di Cristina.» Il prete non rispose. L'autista suonava il clacson a distesa: un lungo gregge di pecore attraversava la strada e due pastori, armati dei loro lunghi bastoni, tentavano di dividerlo in due per far passare le auto. «Sono scesi a svernare», disse il prete. Il generale guardava quei montanari d'alta statura nei loro grossi mantelli neri di pelle di montone, col cappuccio calato sulla testa. «Si ricorda di quei due tenenti che si ridussero a custodire le pecore in un villaggio albanese? A quale corpo appartenevano? Agli alpini, mi sembra.» «Non ricordo più», disse il prete. «Curioso fenomeno quello che si è verificato nel nostro esercito d'Albania», proseguì il generale. «Sì, veramente curioso! O, per essere più precisi, vergognoso.» «Allude a quei militari che per campare lavoravano come uomini di fatica presso i contadini albanesi?» «Sì. Questa pratica, soprattutto dopo la nostra capitolazione, assunse proporzioni massicce. Ho avuto modo di leggere a questo proposito un rapporto del quartier generale. Una cosa incredibile.» «E' vero», disse il prete. «Sono accadute cose ridicole.» «Ma sono capitati anche a noi casi del genere. Quante volte abbiamo dovuto arrossire nell'apprendere che i nostri soldati erano giunti al punto di fare il bucato o di sorvegliare le galline dei contadini albanesi! Non più tardi di due ore fa quel pastore, o mugnaio che fosse, non ricordo più, mi 55 ha fatto rimescolare il sangue.» Di nuovo il prete assentì con la testa. «Lei ha detto che sono accadute cose ridicole, ma quegli episodi, più che ridicoli, sono deprimenti.» «In guerra è difficile tracciare una linea di demarcazione tra il tragico e il grottesco, tra l'eroico e il deprimente.» «Alcuni si sforzano di spiegare quelle cose. Cercano di giustificare il comportamento delle nostre divisioni che erano rimaste bloccate qui dopo la capitolazione. «Non c'erano navi», dicono, «i mari erano chiusi. Che potevano fare quei disgraziati? In fin dei conti, dovevano pur vivere.» Sì, vivere, d'accordo, ma senza trascinare nel fango la dignità della nazione alla quale appartenevano!» esclamò il generale, pieno di corruccio. «L'ufficiale di un grande esercito, anche se questo esercito è stato vinto, che accetta di badare alle galline! E' inaudito!» «I primi tempi molti vendettero le loro armi», disse il prete. «Le vendevano o a volte le barattavano con un sacchetto di mais o di fagioli.» «Era qui a quell'epoca?» «No. Ma me l'hanno raccontato. Sembra che le pistole venissero cedute per un pezzo di pane e un po' di vino, perché gli albanesi le apprezzavano meno dei fucili. I fucili si vendevano a un prezzo più caro, che qualche volta poteva arrivare fino a un sacco di pane. In quanto ai mitra, alle mitragliatrici e alle bombe a mano, venivano dati quasi per niente: un uovo, due cipolle, o


tutt'al più una libbra di latticello.» «Che bassezza!» disse il generale. Il prete si accingeva a proseguire ma il generale lo interruppe nuovamente: «E' per questo che gli albanesi si burlano volentieri di noi. Ha visto come mi ha offeso quel pastore o mugnaio che fosse?» «Vanno matti per le armi. Non possono concepire che uno venda il proprio fucile per un pezzo di pane.» «E le armi pesanti?» «Praticamente non avevano nessun prezzo sul mercato, perché cadevano tutte in mano ai partigiani. Un mortaio lo si poteva barattare con un pollo.» «Che vergogna!» disse il generale. 57 «In altre parole, subito dopo la nostra capitolazione si aprì in Albania una vera e propria fiera di armi.» «Proprio così, una fiera. Gli albanesi hanno sempre avuto, in ogni tempo, una passione avida per le armi, e questa avidità si accrebbe, naturalmente, durante la guerra. Credo che i loro antenati sognassero da secoli una fiera come quella!» «Pare che più di diecimila fucili siano stati venduti o barattati con dei viveri.» «Fors'anche di più», disse il prete. «E' stato davvero uno degli aspetti più curiosi di quella guerra.» «Pensi che quell'anno il numero di incidenti che si ebbe a deplorare in Albania toccò un tetto record. I bambini avevano per balocchi delle vere armi e a volte, in seguito a una zuffa, si facevano saltare le cervella con una bomba a mano. Qualche volta durante la giornata le donne di un quartiere litigavano da una casa all'altra, come son solite fare, e poi, calata la sera, dalle finestre o dagli abbaini gli uomini facevano crepitare le mitragliatrici, ed era un macello.» «Non sta esagerando?» «Macché! Qui tutti erano in preda a una grave psicosi. Gli albanesi erano come ubriachi, davano libero sfogo a tutti i loro antichi istinti ed erano più pericolosi che mai.» «Forse perché erano nel vivo della battaglia, e inoltre feriti», disse il generale. «E' quello che fanno i leoni quando vengono raggiunti da un primo proiettile.» Il prete si accingeva a rispondere ma il generale proseguì: «E poi a quell'epoca gli albanesi prevedevano, evidentemente, nuovi pericoli. I loro vicini potevano aggredirli da un momento all'altro». «Gli albanesi esagerano sempre i pericoli che li minacciano», disse il prete. «Eppure c'è una cosa che non mi spiego: perché non si sono accaniti contro di noi dopo la capitolazione. Hanno fatto, anzi, il contrario: hanno protetto le nostre povere truppe contro i nostri ex alleati che passavano per le armi i nostri uomini appena riuscivano a metter le mani su di loro. Si ricorda?» «Sì, mi ricordo», disse il prete. «Esiste anche un documento al ri 59 guardo», riprese il generale. «Mi riferisco all'appello che i partigiani lanciarono al popolo albanese al momento della nostra capitolazione. Lo invitavano a non lasciar morire di fame i nostri soldati che a decine di migliaia vagavano come mendicanti cenciosi per le strade d'Albania. Ho letto coi miei occhi quell'appello e mi è sempre parso un enigma. Che cosa ha potuto indurli a comportarsi così, loro che si detestavano tanto? Oppure era soltanto demagogia?» «Sì, certamente», disse il prete. «Eravamo nemici giurati», disse il generale. «Finché eravamo in guerra si scagliavano come furie su di noi, e poi ecco che d'un tratto lanciano quell'appello.» «Sì, sì», disse il prete, pensieroso. «Pietoso epilogo, quello del nostro esercito in Albania», proseguì il generale. «Tutti quegli uomini in divisa, con le loro armi, i loro galloni e le loro medaglie, si trovarono mutati in domestici, uomini di fatica,


servi di fattoria. Mi sento arrossire quando penso ai lavori che furono ridotti a fare. Ci hanno persino parlato, si ricorda?, di un colonnello che lavava la biancheria e faceva calze a maglia in una famiglia albanese.» «Sì», disse il prete. «Mi ricordo. A volte mi sono chiesto se il colonnello Z. non sia entrato anche lui al servizio d'una famiglia di contadini e se oggi non sia ancora occupato a custodire un gregge di capre.» «Mi domando che cos'avrebbe fatto Betty se lo avesse visto in quello stato», disse il generale ridendo. Per tutta risposta, il prete si limitò a sorridere. Parlarono ancora un po', ma la maggior parte del tragitto trascorse in silenzio. Le strade erano cosparse di foglie secche ingiallite o fradicie. Le prime svolazzavano qua e là, sotto la spinta del vento; le altre si muovevano un po', a fatica, poi rimanevano inerti, appiccicate al suolo, come appesantite dal carico d'acqua e di fango, e così avvizzite, sparpagliate sulla carreggiata, sembravano aspettare la morte. Le auto passavano loro sopra a tutta velocità. Le macchine si avvicinavano alla periferia della capitale. Apparivano 61 qua e là, ai due lati della strada, costruzioni moderne di fattorie, un piccolo aeroporto con una pista sulla quale erano parcheggiati alcuni elicotteri, le installazioni di una stazione radio. D'un tratto le auto lasciarono la strada maestra e, voltando a destra, imboccarono l'una dopo l'altra una strada secondaria fangosa. Il paesaggio mutò improvvisamente. Era una pianura incolta, inzuppata d'acqua, cosparsa di rari arbusti. Su quello spazio spoglio metteva una macchia una lunga baracca rivestita di lastre di cemento-armato. Le macchine si fermarono. Davanti alla porta un cane dal pelo lungo cominciò ad abbaiare. Gli operai dei servizi municipali scaricarono le grandi casse dal camion. L'esperto entrò nella baracca assieme al magazziniere. Il generale e il prete scesero dall'auto e li seguirono. Nella baracca faceva freddo. La fioca luce che entrava dalle finestre cadeva sui sacchi di nylon allineati sui lunghi ripiani di assi. Gli operai trasportarono le casse nella baracca. Il magazziniere cominciò a tirarne fuori i sacchi di nylon e a numerarli. Poi li metteva sui ripiani mormorando i numeri. «No, questo no», disse quando gli operai gli portarono la lunga bara che gli aveva consegnato il contadino sulla strada. L'esperto tentò di persuaderlo. «No», si ostinava il magazziniere. «E' contrario alle clausole del contratto.» Gli operai riportarono la bara nella parte posteriore del camion. Quando tutto fu terminato il magazziniere trasse da un cassetto un grosso quaderno dalla copertina sporca, lo aprì e lo sfogliò maldestramente dopo essersi soffiato sulle dita. «Qui, in questo punto qui», gli disse l'esperto. Ci scrisse qualcosa, poi firmò. La consegna era terminata. Capitolo Xiii Pochi giorni dopo si trovavano di nuovo nel salone del Dajti, seduti a un tavolino, l'uno di fronte all'altro. Dalla taverna del sottosuolo salivano sempre le note dell'orchestrina, e il generale sentiva diffusa intorno a loro la presenza della vita 63 straniera. Aveva i lineamenti tirati e lo sguardo più smarrito del solito. «La notte scorsa ho dormito malissimo», disse. «Ho fatto un sogno strano.» «E cioè?» «Vedevo quella prostituta di cui quel bettoliere ci ha raccontato la storia, si ricorda?» «Sì», disse il prete. «Ho sognato appunto lei. Era


morta, distesa in una bara. Mentre, fuori, tantissimi soldati, anche loro distesi in bare, aspettavano il loro turno, davanti alla porta della casa.» «Che sogno spaventoso!» «Eppure tutto questo mi sembra perfettamente naturale. Mentre passavo di lì ho domandato a qualcuno: «Questi soldati che aspettano ritornano dal fronte o ci vanno?» Mi ha risposto che alcuni ne ritornavano e altri ci andavano. Allora mi sono rivolto a loro: «Quelli che partono per il fronte non devono aspettare, vadano prima a combattere, e solo dopo avranno il diritto di distrarsi. In quanto agli altri che ne ritornano, rimangano in riga».» «Un incubo», fece il prete. «Un'altra notte ho visto in sogno il colonnello Z. che mi diceva con un sorriso ironico: «Lei crede che io misuri un metro e ottantadue? Ebbene, si sbaglia, signore. Non è questa la mia statura». «E quanto misura, allora?» gli ho domandato. Lui ha sorriso di nuovo, poi, imbronciato, mi ha detto: «Non glielo dirò!»» Il generale trasse di tasca il pacchetto di sigarette e aggiunse: «Quasi tutte le notti ho di questi incubi». «E' un segno di strapazzo.» «Infatti. L'ultimo viaggio è stato sfibrante. Molto più degli altri.» «Non c'è niente da fare», disse il prete. «E siamo solo al principio dei nostri affanni. Dobbiamo fare ancora molti viaggi.» «Siamo diventati come dei pellegrini del Medioevo. Camminiamo, camminiamo sempre e non intravediamo mai la fine della strada.» «Le loro famiglie li aspettano. Hanno riposto in noi tutte le loro speranze.» «Credono che i morti li disseppelliamo premendo un bottone», disse il generale, irritato. «Non immaginano neppure lontanamente che cosa signifi 65 chi.» «Non è colpa loro», disse il prete. Il generale tamburellava con le dita sul tavolo. «Credo che lei abbia letto alcune antiche cronache», disse. «Ci ha trovato qualche caso analogo?» «No», disse il prete, senza lasciare intendere se negava d'aver letto delle cronache o d'essersi mai imbattuto in casi analoghi. «Sicché le cronache sono mute al riguardo.» «E se andassimo a fare un giretto?» propose il prete. «Stasera il tempo è bello.» Scesero gli scalini dell'ingresso e si diressero verso l'edificio dell'Università. Il viale era animato da un insolito movimento di macchine. All'uscita del ponte, all'angolo del viale con corso Marcel-Cachin, i fasci dei fari biforcavano: alcuni giravano a destra, verso il quartiere dove si trovava la maggior parte delle ambasciate, altri risalivano dritto verso la piazza Scanderbeg. Procedettero sino all'edificio della Presidenza del Consiglio, poi tornarono sui loro passi. Sui due lati del viale alcuni giardinieri sradicavano le mimose e, al posto loro, nelle grandi buche aperte, piantavano dei pini. «Sono i preparativi della festa», disse il prete. «Perciò lavorano anche di notte.» «E questi pini da dove li fanno venire?» «Dalle montagne, suppongo.» Davanti agli scalini dell'ingresso dell'albergo incontrarono il compagno dell'altro generale, il sindaco. «Ma guarda, come sta?» «Bene, grazie, e voi?» «Non c'è male. Che ne ha fatto del suo generale?» domandò il prete. «Attualmente si trova nell'Albania centrale. Proseguiamo le ricerche nelle pianure di quella regione. E voi?» «Ci prendiamo qualche giorno di riposo.» «Fate bene. In quanto a me, domani prendo l'aereo. L'altro ieri ho ricevuto un telegramma. Mia moglie è malata. Credo di poter essere di ritorno fra una settimana. Non posso assentarmi più a lungo. Il nostro lavoro va di male in peggio.» Salirono, così parlando, gli scali 67 ni


dell'ingresso. Il sindaco li salutò e si diresse verso l'ascensore. Loro tornarono a sedersi nel salone. Il generale ordinò del cognac e accese una sigaretta. Gli portarono una bottiglia. Riempì il bicchiere e bevve. Cominciarono a danzargli davanti agli occhi i contorni ossessionanti del suolo e, sopra, le sepolture. --------- Non capisco perché le ceneri dei nostri compagni dovrebbero essere restituite alle famiglie. Non credo che sia stato questo il loro ultimo desiderio, come sostengono alcuni. Per noi veterani queste manifestazioni di sentimentalismo sono assolutamente puerili. Un soldato, vivo o morto che sia, si sente a suo agio soltanto fra i suoi compagni. Lasciateli dunque insieme. Non separateli. Possano le loro tombe mantenere vivo in noi il nostro spirito guerriero d'un tempo. Non ascoltate i pusillanimi sempre pronti a inorridire alla vista d'una goccia di sangue versato. Date retta a noi, siamo degli ex combattenti. --------- Il generale sentiva che l'alcool gli dava alla testa. «Adesso ho ai miei ordini un'intera armata morta», pensava. «Solo che per uniforme hanno tutti un sacco di nylon. Un sacco azzurro sbarrato da due righe bianche e bordato di nero, fabbricazione speciale della ditta Olympia. Al principio c'erano solo alcuni plotoni di bare, poi, a poco a poco, si sono formati compagnie e battaglioni e ora stiamo completando reggimenti e divisioni. Un intero esercito avvolto nel nylon.» «E ora che ne faccio?» disse fra i denti. «Mi sembra che lei non si senta bene», gli fece osservare il prete. «Forse ha la febbre.» «No, non è niente», rispose il generale, che, forse per l'eccessiva stanchezza, sentiva che l'alcool gli faceva effetto più rapidamente del solito. «Non è niente», ripeté. «Ho solo voglia di bere, ma lei, prete, colonnello, quel che è, vuole impedirmelo. Cosa vuole da me, si può sapere?» Divenne improvvisamente aggressivo. Qualche volta, quando beveva, lo coglievano quelle crisi. «Non tollero controlli. Cosa vuole da me? Parli!» disse, quasi gridando. L'uomo mingherlino che, come al so 69 lito, stava scrivendo a un tavolo vicino alla radio girò la testa. «Ma non voglio proprio niente, signore. Non le impedisco niente e non le chiedo niente. Non ci penso neppure», disse, asciutto, il prete. Il generale sollevò di nuovo il bicchiere. Adesso il prete non lo avrebbe più scocciato. In fondo, il capo era lui. Cominciò a pensare al suo esercito. Al suo esercito azzurro, con due righe bianche e l'orlo nero. «Cosa farò dei miei soldati?» pensò. «Sono molti, moltissimi, e nei loro cappotti di nylon devono aver freddo. Quegli idioti dei loro generali li hanno abbandonati e me li hanno lasciati sulle braccia. E dire che con loro avrei potuto vincere tante battaglie.» Tentò di ricordarsi le battaglie che aveva studiato alla Scuola di guerra, per scegliervi quelle che avrebbe potuto vincere con le forze che adesso aveva ai suoi ordini. Cominciò a disegnare piani sul pacchetto di sigarette, tracciandovi le posizioni delle truppe, le linee d'attacco, i punti dell'assalto decisivo. Il prete, silenzioso, lo guardava scarabocchiare e beveva la sua cioccolata. Il generale cominciò dai tempi antichi. Prima accerchiò Cesare, poi tagliò la strada all'esercito di Carlomagno, infine si portò improvvisamente davanti a Napoleone e lo costrinse a ritornare sui propri passi. Ma non era soddisfatto: se vinceva tutte le battaglie dei tempi antichi le vinceva grazie alla superiorità delle armi moderne di cui disponeva e


non al suo talento di generale. Allora immaginò le battaglie delle ultime guerre. Sbarcò su molte coste e assediò parecchie capitali. I suoi soldati balzavano dalle spiagge della Normandia al #:«o parallelo in Corea. Li cacciò nella terribile giungla del Vietnam e li trasse fuori sani e salvi. Se vinceva era perché guidava abilmente le sue truppe e non le abbandonava mai al loro destino. Sapeva comandare, lui. Stava appunto compiendo uno studio sulla guerra in terreno montuoso. E poi aveva dei soldati valorosi, molto valorosi. «Se sono coraggiosi», pensò, «è perché non hanno niente da perdere.» E ricominciò a bere. Il pacchetto di sigarette nereggiava di scarabocchi, ma gli venne in mente una nuova battaglia. Sulle prime fu costretto a ri 71 piegare ma infine, chiamati i suoi rinforzi di morti non ancora iscritti negli elenchi (ed erano i più feroci in battaglia), conseguì la vittoria. «Ce l'ho fatta», mormorò soddisfatto. «Chi oserebbe affrontare la Grande Armata di nylon?» Capitolo Xiv Il generale si svegliò tutto indolenzito. Si alzò e aprì le persiane. Era una mattina fredda. Le nuvole erano alte, immobili nel cielo grigio. Si appoggiò al vetro e fu colto da un lieve capogiro. «Non va», si disse. Guardò fuori. L'autunno volgeva al termine. Gli alberi del parco, di fronte all'albergo, erano tutti spogli. Da molto tempo, certamente, nessuno si era più seduto sulle panchine verdi. Tranne le foglie secche. Che però non tardavano a marcire. Il generale conosceva bene le uniformi dei vari eserciti della NATO ma solo adesso notava che i loro colori imitavano le varie tinte delle foglie autunnali. In mezzo al parco, accanto alla pista da ballo circolare, le sedie bagnate erano disposte a cataste, e la pista, ora sgombra e deserta, appariva grande e triste. Il palco dell'orchestrina e il suolo erano cosparsi di foglie secche che gli spazzini riunivano in grossi mucchi. «Non sto un gran che», si disse il generale scendendo le scale per andare a fare la prima colazione. «Mi sembra sofferente», gli disse il prete quando furono seduti a tavola. «Forse avrebbe bisogno di un po. di riposo.» «Non so nemmeno io quello che ho», disse il generale, «ma certo è che non mi sento molto bene. Credo di ricordarmi d'averla offesa, ieri sera. Le faccio le mie scuse. Avevo bevuto un pochino troppo.» «Ma si figuri», disse il prete amabilmente. «Che razza di tempo fa in questo paese!» «Domani forse farei meglio a partire solo. Le ricerche sul litorale saranno, suppongo, molto meno difficili che nelle zone di montagna», disse il prete. «Lo credo anch'io.» «Si riposi un poco. Farebbe bene ad andare una sera a teatro o all'Ope 73ra.» «Dormo male. Dovrei prendere un sonnifero.» Uscirono sul vialone e cominciarono a passeggiare su e giù davanti all'albergo, sul largo marciapiede fiancheggiato da alti pini. Giovanotti e ragazze passavano frettolosi a gruppetti; probabilmente studenti diretti a scuola. «Ma cos'è questo odioso lavoro che ci hanno affidato?» disse il generale come se riprendesse una conversazione interrotta. «Mi sarebbe più facile estrarre dalle piramidi i faraoni che ci sono ancora sepolti che scavare a due metri di profondità per dissotterrare quei soldati.» «Questo pensiero non la lascia mai. Perciò, forse, non si sente bene.» «La guerra, qui, non è stata come tutte le


guerre», proseguì il generale. «Non si è combattuta su dei fronti. Si è infiltrata dappertutto, come un verme, in ogni cellula di questo paese, e appunto per questo è stata diversa da quelle che si sono svolte altrove.» «Dipende dal fatto che gli albanesi sono inclini per natura alla guerra», disse il prete. «Vi si gettano in piena coscienza. La guerra costituisce, per così dire, una funzione organica di questa nazione, le ha intossicato il sangue, come l'alcool ad altre. Ecco perché la guerra qui è stata veramente orribile. Tra i popoli ci sono sempre state guerre e ce ne saranno sempre, ma ci sono popoli che, per ragioni varie e nel caso degli albanesi il ruolo primordiale è stato indubbiamente giocato dalle circostanze in cui si è svolto il processo di formazione della loro psicologia nel corso dei secoli, ci sono popoli, dicevo, che si gettano nella guerra con uno zelo sfrenato, e sono questi i popoli più pericolosi.» «Di questo mi ha già parlato», disse il generale. «E' vero, mi ricordo.» «Presumibilmente è uno dei suoi argomenti preferiti. Sta facendo anche lei uno studio, come me?» «No», rispose il prete. «Trovo soltanto che è un interessante argomento di conversazione. Ma forse, a ritornarci sempre sopra, sto diventando noioso.» «Ma no, si figuri. L'ascolto con piacere. Parlavamo dunque dello spiri 75to bellicoso degli albanesi.» «Sì», disse il prete. «E' particolarmente interessante. Durante tutta la loro storia gli albanesi hanno percorso il loro paese con armi di ferro in spalla. I loro montanari che conducevano una vita patriarcale, per quanto vivessero, fino a poco tempo fa, come nell'età della pietra, erano tuttavia provvisti delle armi più moderne. Pensi un po' che contrasto! Gliel'ho già detto: senza guerra e senza armi questo popolo intristirebbe, le sue radici si disseccherebbero, e finirebbe con lo scomparire.» «E, invece, con le armi e con la guerra si rigenererà?» «E' quello che credono, mentre proprio in ragione delle armi scompariranno ancora più rapidamente.» «Secondo lei, la guerra è per loro una specie di ginnastica che fanno per sgranchirsi le membra e mantenersi in vita?» «Per un certo tempo sì», disse il prete. «In altre parole, con o senza armi questo popolo è destinato a scomparire?» «Con ogni evidenza sì. Il loro governo ha eretto a principio della sua politica la loro antica inclinazione alla guerra, e per i loro vicini è una fortuna che gli albanesi non siano più di due milioni.» Il generale non disse nulla e accese una sigaretta. «Ricorda i canti degli sterratori durante le notti che abbiamo trascorso sotto la tenda?» disse il prete. «Ricorda la tristezza e l'abbattimento che provavamo nell'ascoltarli?» «Sì, mi ricordo», disse il generale. «Certe cose non si dimenticano facilmente.» «I temi dominanti dei loro canti sono la distruzione e la morte. E' una particolarità della loro arte. La si ritrova nei loro canti, nel loro abbigliamento, in tutta la loro esistenza. E', in genere, una caratteristica comune a tutti i popoli balcanici, ma negli albanesi è più pronunciata che negli altri. Anche la loro bandiera nazionale simboleggia il sangue e il lutto.» «Parla di queste cose con molta passione», osservò il generale. «Per parecchio tempo mi sono occupato di queste questioni», rispose il prete. «Oscar Wilde diceva che le 77 persone delle classi inferiori provano il bisogno di commettere dei delitti perché questi danno loro le emozioni che noi ricaviamo dall'arte. Questo epigramma può benissimo applicarsi agli albanesi, con


una sola differenza: che alla parola «delitto» occorre sostituire le parole «guerra» o «distruzione». Perché bisogna riconoscere, con assoluta obiettività, che gli albanesi non sono dei criminali comuni. I delitti che commettono sono sempre conformi a norme dettate da antiche usanze. La loro faida somiglia a un lavoro teatrale composto secondo tutte le regole della tragedia, con un prologo, una tensione drammatica in continua ascesa e un epilogo che comporta inevitabilmente la morte. Questa faida potrebbe benissimo raffigurarsi come un toro furioso che, lanciato sui monti, devasta tutto ciò che trova sul suo percorso. E, tuttavia, gli hanno appeso al collo una gran quantità di fronzoli e di ornamenti che rispondono alla loro concezione della bellezza, di modo che quando la bestia lasciata libera semina la morte dappertutto essi possano nel medesimo tempo assaporare soddisfazioni estetiche.» Il generale ascoltava attentamente. «La vita degli albanesi», proseguì il prete, «è come un grande spettacolo regolato in base alle antiche usanze. L'albanese vive e muore come se interpretasse una parte, con questa sola eccezione: che lo scenario è costituito dagli altipiani o dai monti sui quali trascorre la vita nella massima indigenza. Se muore, è perché devono essere rispettate alcune usanze, e non per ragioni obiettive. La vita che cresce in mezzo a tanti stenti e privazioni su queste rocce, questa vita, che non è riuscita a eliminare né il freddo né la fame né la slavina, repentinamente termina per una parola imprudente, una celia troppo ardita, uno sguardo di desiderio lanciato su una donna. Il più delle volte la faida si scatena senza la benché minima passione, unicamente per obbedire alle usanze. E il vendicatore, anche quando uccide la sua vittima, non fa altro che applicare un paragrafo del diritto consuetudinario. Gli articoli di questo diritto si attorcigliano loro intorno alle gambe per tutta l'esistenza, finché un bel giorno li fanno inciampare. Allora cadono per non rialzarsi più. Vediamo così che, attraverso i seco 79 li, gli albanesi non han fatto che recitare un cruento lavoro teatrale.» Udirono dei passi alle loro spalle. Era l'esperto. «Vi ho cercati in albergo», disse. «Cosa c'è?» «Domani dobbiamo rivedere alcuni verbali con i rappresentanti della direzione dei servizi municipali. Ci aspettano alle dieci.» «Bene», disse il generale. Il prete guardava attentamente l'esperto, cercando di indovinare se aveva udito le loro ultime parole. «Parlavamo delle vostre usanze», disse in tono tranquillo. «Sono molto interessanti.» L'esperto sorrise tra sé. «Mi parlava della faida», disse il generale. «Psicologicamente è molto interessante.» «Non ci vedo niente d'interessante», replicò l'esperto. «Alcuni stranieri suppongono che la faida e altre nostre usanze perniciose si spieghino con la psicologia degli albanesi, ma è assurdo. Queste usanze ce le hanno imposte la religione e i nostri ex oppressori.» «Ah!» fece il prete. «Sì. Certi stranieri si applicano con molto zelo a studiare la questione della faida albanese, ma lo fanno con uno scopo ben determinato.» «Perché questa questione presenta un interesse scientifico», interloquì il prete. «Non sono del suo parere. Il loro vero proposito è di preparare l'opinione pubblica all'annientamento del popolo albanese e di diffondere questa idea.» «Non credo, non credo», disse il prete con un sorriso forzato. L'esperto fece qualche passo con loro, poi, dopo averli salutati, si allontanò. Il generale riprese la conversazione col prete.


«La questione delle usanze», disse, «lei la spiega basandosi unicamente su elementi psicologici, ma credo, comunque, che non se ne possano escludere certi motivi obiettivi, d'ordine storico e militare. Sa a che cosa mi fa pensare questo popolo? A una di quelle belve che, all'avvicinarsi del pericolo, prima di balzare, restano immobili in uno stato di estrema tensione, con i muscoli contratti e tutti i sensi in allarme. Questo paese, mi sem 81 bra, è stato esposto a molti pericoli, sicché questo stato di allarme è diventato per lui una seconda natura.» «Appunto quello che loro chiamano vigilanza», disse il prete. Continuò a parlare ma il generale non lo ascoltava più. «Ho l'impressione che parliamo molto di loro», disse infine, «ma i loro affari c'importano poco. Si sterminino pure, e il più presto possibile.» Il prete allargò le mani aperte. «Faremmo meglio a esaminare un po. il nostro lavoro», proseguì il generale. «Questo nostro miserabile lavoro che non riusciamo a portare a buon fine. C'è anzi come una specie di malasorte, un che di sinistro, che si accanisce contro il nostro lavoro.» «No», disse il prete, «non ci vedo niente di tutto questo. La nostra missione è sublime.» «Ho l'impressione che ci aggiriamo in questo paese come un tumore mobile. Ci ficchiamo fra le gambe degli abitanti e li intralciamo nelle loro faccende.» «Allude forse a quel caso in cui, per colpa nostra, i lavori dell'acquedotto vennero ritardati di qualche giorno?» «No», disse il generale. «Non mi riferisco soltanto a questo. Nel nostro lavoro c'è qualcosa di bizzarro e di malefico.» «Non c'è assolutamente niente», disse il prete. «Ha mai pensato che forse quei poverini che stiamo cercando con tanto zelo preferirebbero essere lasciati in pace?» «E' assurdo», disse il prete. «La nostra missione è così nobile, così umana. Chi non sarebbe orgoglioso d'esserne stato incaricato?» «Eppure c'è in essa qualcosa che non funziona, qualcosa di sia pur leggermente ironico.» «No», disse il prete. «Essa non comporta niente di simile. Forse lei, nella sua qualità di militare, ha altri motivi per reagire a questo modo.» «E quali motivi avrei?» «Meglio, forse, non parlarne. Può darsi che non voglia confessarli neppure a se stesso.» Il generale ebbe un sorriso forzato. «Ancora delle ragioni psicologiche» disse. «Lei, a quanto pare, si occupa di psicoanalisi. Ne ho sentito parla 83 re molto, ma a dire il vero non ci capisco gran che. Sa, noi militari non amiamo molto questo genere di sottigliezze.» «Sì, capisco», fece il prete, come a dire: «Ciascuno ha i propri gusti». «Ad ogni modo, come spiega il disagio che provo? Mi piacerebbe sentire le sue argomentazioni, è un piacere ascoltarla. E poi le prometto di non adontarmi, qualunque cosa lei dica.» «Be', dal momento che insiste, le esporrò il mio parere», disse il prete con la massima calma. «Se lei prova questo senso di oppressione è perché, nel più profondo di sé, si rammarica di non essere stato lei alla testa delle nostre divisioni in Albania. E pensa che, forse, sotto la sua guida tutto sarebbe andato diversamente: che invece di portare le nostre truppe alla disfatta e alla distruzione le avrebbe tratte con onore da quel cimento. Appunto per questo dispiega così spesso le sue carte e rimane per ore e ore a studiarle, o scarabocchia schemi di tattica sui pacchetti di sigarette. In realtà lei deplora ogni insuccesso, rivive ogni sconfitta e si vede retrospettivamente al posto degli sventurati ufficiali che comandavano le nostre truppe; e accarezza, allora, il più insensato dei sogni: mutare le nostre


sconfitte in altrettante vittorie...» «Basta», disse il generale. «Sono forse uno psicopatico perché lei si metta a frugare così nel mio intimo?» Il prete sorrise. Il generale si accigliò. «No, non ho alcuna ragione segreta», proseguì lentamente. «Ma non sono nemmeno una ragazza così ignara da figurarmi che la ricerca delle ceneri di militari caduti in guerra possa somigliare in qualche modo a una passeggiata sentimentale. Me l'immaginavo che sarebbe stato un lavoro arduo e sinistro.» Diceva il vero. Fin dal primo momento aveva capito che il compito che lo attendeva era un compito fuori del comune. Sapeva che nel suo lavoro sarebbe stato aiutato dall'amore e dall'odio insieme. Mentre tornava a casa dal ministero della Guerra il giorno in cui era stato incaricato di quella missione aveva udito risuonargli nel cuore le note di una musica. Di una musica funebre, solenne. Poi aveva cominciato ad aprire e sfogliare i fascicoli. Da quei lunghi, 85 interminabili elenchi emanava un soffio di odio e di vendetta. Si era avvicinato al mappamondo e vi aveva scoperto l'Albania. Aveva provato una soddisfazione sadica vedendo che quel paese era così piccolo, non più grande di un puntino. Poi si era sentito invadere dall'odio: quel puntino aveva fatto mordere la polvere a tanti bei ragazzi valorosi. Avrebbe voluto partire al più presto per quella regione arretrata e selvaggia (come la descrivevano i libri di geografia). Sarebbe andato in giro fra quella gente che immaginava come una tribù di barbari e i suoi occhi sprezzanti le avrebbero detto: «Ecco la vostra opera, selvaggi!» Si figurava la solenne cerimonia del trasferimento delle ceneri, lo sguardo vago e istupidito degli albanesi, lo sguardo d'un rozzo colpevole che dopo aver infranto un bel vaso prezioso rimanga lì a contemplarlo, addolorato, con la coda dell'occhio. «E tuttavia», continuò il generale con voce stanca, seguendo il suo pensiero, «mi sentivo orgoglioso. Pensavo che avremmo fatto passare le bare dei nostri soldati in mezzo a costoro, dimostrando loro che persino la nostra morte è più bella della loro vita. Ma quando siamo arrivati qui le cose hanno preso un'altra piega. Lo sa meglio di me. Dapprima è sfumato il nostro orgoglio, poi poco dopo non è rimasto più nulla di solenne in tutto questo, infine sono svanite le mie ultime illusioni, e adesso andiamo in giro nell'indifferenza generale, sotto sguardi enigmatici e beffardi, miseri buffoni di guerra, più temibili di tutti coloro che hanno combattuto e sono stati vinti in questo paese.» Fecero un tratto di strada in silenzio. Le ultime foglie continuavano a cadere sul marciapiede. Incrociavano passanti. Il generale avvertì un senso di disagio e di solitudine. Gli ripugnava parlare di quelle cose. Avrebbe fatto meglio a rievocare le cupe giornate trascorse sulle strade e sotto la tenda, fradici di pioggia, rabbrividendo al vento; gli sguardi dei contadini chiusi nei loro spessi abiti di lana nera; la notte in cui il prete, in preda a chi sa quale incubo, si era messo a urlare di spavento; quel campo di battaglia ora scomparso nel lago artificiale di una centrale idroelettrica; il cimitero sommerso dalle acque e i riflessi rossi, d'un 87 rosso vivo, di quelle acque al crepuscolo; e infine quel cranio con tutti i denti d'oro che scintillavano al sole quando gli operai lo avevano dissotterrato; e il sorriso sarcastico che sembrava rivolgere a tutto ciò che lo circondava. Con passo svogliato avevano raggiunto il piazzale che si apriva davanti all'edificio dell'Università. Voltarono a destra, lungo il teatro


dell'Opera, e cominciarono a percorrere il viale fiancheggiato da tigli che saliva serpeggiando verso la collina di San Procopio. Di qua e di là dalla strada i fossati erano pieni di foglie secche e le statue del grande parco parevano rabbrividire sotto gli alberi spogli. Arrivati in cima, scoprirono, ai piedi dell'altro versante, il lago artificiale circondato da collinette che si stendeva in lunghezza con le sue numerose anse dai contorni vari. Sul dorso tondeggiante della collina si ergeva una chiesa e, accanto, un caffè all'aperto. Tutt'intorno alla pista da ballo alti cipressi fremevano sotto il vento. In un angolo, una catasta di casse sulle quali si leggevano, tracciate in vernice nera, le parole Birra Kor&a. «Questo lago non deve datare da molto tempo», disse il prete. «E prima non c'era neppure questo caffè.» «E' un bel posto.» «Ah sì, non c'è che dire. Di qui si può vedere quasi tutta Tirana.» Voltarono le spalle al lago e presero a contemplare la città. L'impermeabile del generale schioccava al vento. Fermarono lo sguardo sul grande vialone che divideva in due la città. Un pioppo si dondolava nascondendo alla loro vista con uno dei suoi rami ora l'edificio della Presidenza del Consiglio ora quello del Comitato Centrale. Quando il vento soffiava più forte il ramo andava a ricoprire l'alta torre dell'orologio che sembrava appiccicata al minareto della piazza Scanderbeg, scivolava poi sull'edificio del Comitato Esecutivo e infine sfiorava la Banca di Stato. «In quel libro che ho letto sull'Albania c'è scritto che il tronco superiore del grande vialone rappresenta un fascio littorio», disse il generale protendendo il braccio. «Esatto», disse il prete. 89 «Eppure sto cercando invano, da qualche minuto, di scoprire questa somiglianza.» «Guardi più attentamente», disse il prete, allungando a sua volta il braccio. «Il viale ricorda il manico del fascio, il grande edificio del Rettorato ne rappresenta la testa che oltrepassa la scure propriamente detta, il teatro dell'Opera ne raffigura il dorso, mentre lo stadio» e il prete portò il braccio verso destra «ne imita il taglio a forma d'arco.» «Strano», disse il generale, «non riesco ancora a vedere la somiglianza.» «Forse perché bisognerebbe osservarlo da un luogo più alto», disse il prete. «E poi, e questo è l'essenziale, dopo la guerra gli albanesi hanno cercato di sopprimere questa somiglianza.» «Distruggendo una parte del complesso?» «No, al contrario», rispose il prete. «Hanno costruito nuovi edifici nel complesso stesso, ottenendo così il risultato che si proponevano.» «Suppongo che sia stato quell'imponente quartiere costruito sulla sinistra a confondere la rappresentazione del fascio», disse il generale. «E' infatti un quartiere recente», disse il prete, «e credo che gli abbiano dato il nome di Primo Maggio.» «Insomma, qui, nel cuore della capitale, c'era una specie di gigantesco sigillo.» «E' stato dopo la guerra che i comunisti, nel sorvolare per la prima volta la città, si sono accorti di quell'effetto e hanno subito dato l'ordine di confondere la raffigurazione del fascio.» Procedevano sul viale asfaltato che costeggiava la chiesa. Su una delle panchine infisse sul margine della strada un giovanotto e una ragazza erano seduti a fianco a fianco. Lei, con lo sguardo vago, aveva appoggiato la testa sulla spalla del compagno, il quale le accarezzava le ginocchia. «Scendiamo», disse il generale. «Tira un vento freddo.»


Capitolo Xv I veicoli lasciarono la carreggiata e, dopo aver girato a destra attraverso i campi, procedevano lungo i vigneti della fattoria. Il generale, con 91 una carta spiegata sulle ginocchia, lanciava ogni tanto uno sguardo fuori. Sapeva che in quello stesso momento, nella cabina del camion che li seguiva, l'esperto aveva sulle ginocchia la medesima carta e che, come lui, guardava ogni tanto attraverso il vetro per riconoscere il luogo preciso in cui avrebbero dovuto fermarsi. --------- Sulla destra si erge un filare di alti pioppi e se si guarda nella loro direzione si scorgono, al di là, le costruzioni della fattoria di un bey e, ancora più lontano, un mulino. Il luogo si trova esattamente ai piedi degli alberi. Per poter ritrovare più facilmente le tombe che scavavamo le abbiamo disposte a forma di V, con la punta rivolta verso il mare. Cinque da un lato, cinque dall'altro, con alla testa il sottotenente. --------- «Gli dica di dirigersi verso i pioppi», disse il generale. Il prete tradusse queste parole all'autista. Quando scesero dalla macchina il vento faceva rabbrividire gli alti alberi. Il prete, precedendo il gruppo, si portò per primo verso la zona delle tombe. Procedeva da poco quando, improvvisamente, lo si udì mandare un grido di sorpresa. «Che succede?» domandò il generale raggiungendolo. «Guardi», disse il prete, «guardi da quella parte.» Il generale girò gli occhi verso il luogo che l'altro gli indicava. «Che significa questo?» disse con collera. Ai piedi dei pioppi si sgranavano due file di tombe aperte, riunite in cima a forma di V. Le fosse dovevano essere state scavate da un paio di settimane, perché le ultime piogge le avevano quasi interamente riempite d'acqua. «Non ci capisco niente», disse il prete. «Sono venuti ad aprire queste tombe prima di noi», disse con voce fremente il generale. «Ecco l'esperto», fece il prete. «Vedremo cosa ci dirà.» «Che succede?» domandò l'esperto avvicinandosi. Senza una parola, il generale gli indicò le fosse. Per un istante l'esperto le guardò, poi alzò le spalle. 93 «Strano!» disse a voce bassa. «Hanno aperto queste tombe senza la nostra autorizzazione, a nostra insaputa», disse il prete. «Cos'ha da dirci?» L'esperto alzò di nuovo le spalle. «Ma, insomma, quando cesseranno queste provocazioni?» esclamò il generale. «Porterò immediatamente la cosa in alto loco.» «Per il momento non posso dirvi niente», disse l'esperto, «ma spero di poter chiarire fra poco questa faccenda. Vi prego d'avere un po' di pazienza.» «Oh, si figuri!» fece il generale, furibondo. Gli operai e i due autisti, avvicinatisi a loro volta, guardavano il suolo sbalorditi. «Non c'era mai accaduta una cosa del genere», disse il più anziano. L'esperto contò le fosse per la seconda volta, arrotolando la carta fra le mani. «Ascolta», disse rivolto all'autista del camion, «prendi il camion, va. fino alla fattoria e trova qualcuno da portarci qui, uno qualunque. Digli che siamo della Presidenza del Consiglio e che è per un affare importante.» «D'accordo», disse l'autista. «Sentiremo un po' cosa ci diranno quelli della fattoria», disse l'esperto. «Non me lo sarei mai aspettato», disse il generale con cipiglio. «E' una grave provocazione. Le leggi internazionali devono essere rispettate da tutti.» «Per il momento non posso dirvi niente», ripeté l'esperto. «Tutto quello che posso assicurarvi è che se qualcuno ha osato commettere quest'azione con


intento oltraggioso sarà punito secondo le nostre leggi.» «Quale che sia stato l'intento», disse il prete, «si tratta pur sempre d'una grave profanazione.» «Non permetterò che la cosa finisca qui», insisté il generale. «Me l'immaginavo che sarei stato oggetto di provocazioni, ma non credevo che le cose potessero arrivare a questo punto.» «Lei non è stato oggetto di nessuna provocazione», disse l'esperto. «Ah no? E questo che cos'è?» E con mano tremante il generale gli indicò di nuovo le fosse. «Lo sapremo ben presto.» 95 Nel frattempo gli operai, ritti davanti alle fosse, si stupivano di quella strana disposizione. «E' la prima volta che c'imbattiamo in un cimitero così, a forma di V.» «Strano!» «Le cicogne volano in questa formazione», disse il vecchio sterratore. «Non le avete mai viste in autunno?» Si udì in lontananza il motore del camion che ritornava. Nella cabina c'era qualcuno accanto all'autista. «Spero che ora tutto si chiarirà», disse l'esperto. L'autista scese e andò ad aprire lo sportello dalla parte dello sconosciuto. Questi, messo piede a terra, li squadrò tutti, attentamente, uno per uno. «Lavori in quella fattoria?» gli domandò l'esperto. «Sì.» «Da molto tempo?» «Sì, abbastanza.» «Sai qualcosa su queste tombe di soldati?» L'uomo gettò uno sguardo sulle fosse. «Quello che qui sappiamo tutti», disse. «E cioè?» «Be', che sono tombe di soldati stranieri e che stanno qui da più di vent'anni.» «E allora come si spiega che...» «Sono venuti ad aprirle dieci giorni fa.» «E' proprio questo che vogliamo sapere», disse l'esperto. «Chi le ha aperte, dieci giorni fa?» L'uomo percorse di nuovo con lo sguardo gli operai, il generale, il prete, poi l'automobile e il camion. «Li avete visti coi vostri occhi, quelli che le hanno aperte?» domandò l'esperto. L'altro sembrava esitare a rispondere. Poi, d'un tratto, esplose: «Mi prendi in giro?» «Come? Che vuoi dire?» «Lo sai meglio di me.» L'esperto fece un gesto di stupore. Tutti, lì intorno, tacevano, stupefatti. Si udiva solo lo stormire dei pioppi. «Per favore, puoi soltanto dirci chi ha aperto queste tombe dieci giorni fa?» L'uomo della fattoria fissò l'esperto con occhi furiosi. «Ma siete stati voi ad aprirle», 97 disse in tono reciso. «Voi tutti», proseguì, e additò gli operai municipali, il generale, il prete e gli autisti. Tutti si guardarono, di stucco. «L'hai scelto apposta, questo qui?» domandò qualcuno a bassa voce all'autista del camion. «Ascolta», disse l'esperto all'uomo della fattoria, «non è bello da parte tua...» «Basta, smettila con le tue chiacchiere!» l'interruppe l'altro, con gli occhi scintillanti di rabbia. «Se credi di potermi abbindolare ti sbagli! Pensi di poterti burlare della gente solo perché hai un po' d'istruzione?» Gli scoccò uno sguardo pieno di disprezzo e, girategli le spalle, si avviò verso la fattoria. Il vecchio sterratore gli gridò: «Aspetta un po', compagno!» «Ehi, tu, fermati!» aggiunse l'autista del camion. «Dovreste vergognarvi», brontolò l'uomo voltandosi. «Prendete tutti per cretini, eh? Credete, per caso, che non vi abbiamo visti quando siete venuti dieci giorni fa e vi siete messi a scavare dalla mattina alla sera?» «Ci mancava solo questo», fece il prete a mezza voce. «Chi? Noi?» «Sì, voi, e chi altro? Eravate qui con questa stessa macchina verde e questo camion col copertone.» «Ah, ma aspetta un po'», disse d'un tratto l'esperto. «Eravate proprio qui quando hanno avuto luogo gli scavi?» «No, ma vi abbiamo visti da lontano.» L'esperto scosse il capo. «Adesso credo di capire», disse.


«Sì, certo, devono essere stati gli altri. Che pasticcio!» «Ma, insomma, cos'è successo?» «Quel generale senza un braccio e il suo compagno devono esser passati di qui prima di noi.» «E sarebbero stati loro a fare questo?» «Per conto mio, ne sono certo. Non si spiega altrimenti.» L'uomo della fattoria, gesticolando, parlava con gli operai e con gli autisti. «Com'è possibile?» disse il generale. «Non hanno né carte né indicazioni precise. Può darsi che abbiano scam 99 biato queste tombe per quelle dei loro!» «Comunque, avrebbero potuto interrogare gli abitanti del luogo. E poi ci sono le medagliette», disse il prete. «E' proprio quello che mi meraviglia», disse l'esperto mordendosi il labbro inferiore. «E' una grave profanazione», disse il generale. «Non è la prima volta che capita», disse l'esperto. «A Tirana mi hanno detto che in un posto del Sud avevano aperto per errore due tombe di ballistes, mentre in un altro posto si sono messi a scavare in un vecchio cimitero musulmano.» «E hanno portato via i resti?» «Sì, evidentemente.» «Incredibile!» disse il generale. «Ma hanno la testa perfettamente a posto, quelli lì? Che gli prende di agire a questo modo?» «Forse avevano un motivo», disse l'esperto con aria pensosa. «Ho un dubbio.» «E cioè?» L'esperto esitava a rispondere. «Suppone si sia trattato di una frode?» domandò il prete. L'esperto sorrise. «Non posso dire altro, vogliate scusarmi.» «Può darsi che abbiano fatto un tale pasticcio nel loro lavoro che, non trovando più niente, si mettano a scavare le prime tombe che incontrano sulla loro strada.» «Del resto ce l'hanno dichiarato: procedono al buio.» «Se sono capaci di fare questo, non possono più essere considerati rappresentanti governativi incaricati di una missione, ma semplici avventurieri», disse il generale con collera. «E la cosa più grave è che i resti che raccolgono li spediscono immediatamente», disse l'esperto. «Intende dire che non potremo riprender loro questi undici?» «Sarà difficile, se le ceneri sono state già spedite.» «In altre parole, i resti dei nostri soldati verranno distribuiti a famiglie straniere invece d'esser consegnati alle loro legittime famiglie!» esclamò il generale. «C'è da impazzire!» «E' lecito supporre che abbiano preso degli impegni», disse il prete. 101 «Dev'essere per questo che si affrettano a spedire le ceneri che raccolgono.» «E quando non scoprono i loro, fanno man bassa su tutto quello che trovano. Bella porcheria!» Il generale era furibondo. «Andiamo via», disse bruscamente. «Qui non abbiamo più niente da fare.» Risalirono in macchina e si avviarono verso il mare, in direzione della punta del piccolo cimitero a forma di V. Capitolo Xvi La costa era triste e deserta. Fortini in cemento armato spuntavano dalla sabbia umida e, più indietro, quasi ai piedi delle scogliere rocciose, se ne scorgevano altri, più imponenti. Gli operai dei servizi municipali erano intenti a strappare i pioli delle tende e quando la prima fu smontata tracce strane rimasero sulla sabbia indurita dalle acque: quasi che una bestia dagli artigli enormi avesse calpestato il suolo in quel posto. Dal mare soffiava un vento freddo. Il generale girò lo sguardo verso nord, là dove, dietro le casematte, apparivano le prime ville della spiaggia, le stazioncine ferroviarie estive, la fila delle case di riposo e dei grandi alberghi, per lo più chiusi in quella stagione. Il prete e lui erano andati lì a raccogliere i resti dei


soldati della loro nazione caduti il primo giorno di guerra. Per tutta la settimana non avevano fatto che correre lungo la costa, fermandosi nei diversi punti di sbarco, perché ognuno di quei punti aveva il proprio cimitero. Rammentava benissimo quel primo giorno di guerra, nella primavera del 1939. (1) Si trovava in Africa. Quella sera la radio aveva trasmesso la notizia: le truppe fasciste, diceva, erano sbarcate in Albania e il popolo albanese aveva accolto pacificamente, e persino con fiori, le gloriose divisioni che gli portavano la civiltà e il benessere. Poi erano arrivati i primi giornali, seguiti da riviste piene zeppe di foto e di corrispondenze sullo sbarco. Vi si descrivevano la splendida primavera di quell'anno, il mare radioso e il cielo radioso d'Albania, l'orizzonte purissimo, l'amore presso le alba 103 (1) Le truppe italiane di Mussolini invasero l'Albania il 7 aprile 1939. nesi, i costumi e le aggraziate danze popolari del paese. Non c'era giorno che i giornali e le riviste non parlassero di quel paese, e di notte i soldati sognavano d'esser trasferiti in Albania, su quella bella costa così tranquilla, all'ombra degli ulivi eterni. Il generale si ricordò che anche lui, a quell'epoca, aveva desiderato d'esser mandato in Albania, ma si era ammalato e, una volta tornato dall'Africa, aveva dovuto rimanere in patria. «Eppure», pensò, «anche a me il destino aveva riservato la mia parte di guerra, ma per un secondo tempo. Devo farla adesso, su questo terreno così aspro, in un'epoca in cui il mondo intero è in pace.» Gli operai smontarono anche l'altra tenda, poi le gettarono tutt'e due nel camion, accanto ai picconi, alle pale e alle bombole di disinfettante. Il più giovane degli operai, dopo essersi soffiato due o tre volte nelle mani, tirò su la sponda e si arrampicò a sua volta sul camion. Si sedettero tutti e cinque, come al solito, sulle grandi casse. Il più vecchio disse ad alta voce: «Siamo pronti» e tirò fuori la borsa del tabacco. Partirono. Passarono dinanzi alle ville della spiaggia, che ora apparivano tristi e fredde con le loro tapparelle abbassate, e lungo gli edifici moderni degli alberghi e dei ristoranti estivi, chiusi da molto tempo. Le terrazze degli stabilimenti balneari si protendevano sul mare, con le sedie e i tavolini ammucchiati in alte pile in un angolo, vestigia abbandonate dell'estate. «Qui nella bella stagione dev'essere molto piacevole», disse il generale. «Ho anch'io questa impressione. Quantunque non creda che debba essere troppo allegro, soprattutto per le donne, fare il bagno e andare a spasso in prossimità di questi fortini.» Il generale guardava attentamente. «Credo che, nonostante l'ammodernamento dei mezzi di difesa, gran parte di questi fortini conservino tuttora la loro importanza militare.» «Gli albanesi si compiacciono di ri 105petere che il loro paese è una cittadella sulle rive dell'Adriatico», disse il prete. Il generale si girò verso la costa. «Lei mi ha detto che il mare ha portato agli albanesi soltanto disgrazie e che perciò non lo amano.» «Esatto», disse il prete. «Gli albanesi sono come quegli animali che temono l'acqua. A loro piace aggrapparsi alle rocce e alle montagne. Solo lì si sentono al sicuro.» La strada si allontanava sempre più dalla linea disegnata dalla costa e adesso le stazioncine estive e le bianche ville rade non erano più a portata della loro vista. «Adesso, dei soldati caduti su questa costa il primo giorno di guerra, ci resta da cercarne uno solo, l'ultimo.»


«E' strano: perché questo qui è solo, lontano dagli altri?» «Chi sa cosa dev'essere successo», disse il generale traendo una carta dalla borsa. «Ecco dove dovrebbe trovarsi», e fece un punto con la matita rossa sulla carta. «Credo che ci arriveremo fra un'ora.» «Forse prima. Dopodiché avremo finito.» «Tranne alcuni scavi isolati, in questa regione ci rimane da effettuare solo un altro viaggio», disse il prete. «Sì, in una zona di mezza montagna. Un altro viaggio difficile.» «Pazienza», disse il prete. «L'importante è che questo lavoro finisca al più presto.» «Non vede l'ora di tornare a casa, vero?» «Certo. Lei no?» «Si figuri, non penso che a questo», disse il generale. «Mordo il freno. Ma è ancora troppo presto per parlarne. Non abbiamo assolto neanche la quarta parte del nostro compito.» «Giusto.» Il generale sospirò. «E' ancora troppo presto», ripeté. «Ancora troppo presto.» Il prete assentì col capo. «Non ce la fai più», pensò il generale. «Sei aspettato.» «Non li vediamo da parecchio tempo», proseguì ad alta voce. «Chi?» «Il generale e il suo sindaco.» «Chi sa dove stanno effettuando le 107 loro ricerche.» «Certo in qualche altro stadio, a meno che non sia su un viale. Ho l'impressione che il loro lavoro non vada molto avanti.» «Se continuano così, credo che non riusciranno a lasciare questo paese prima di due anni.» «Affari loro», disse il generale. «A noi interessa che non ci freghino più nessuno dei nostri.» Rimasero silenziosi per tutto il resto del tragitto. Il monastero nel quale andavano a cercare la tomba del soldato isolato si ergeva su una collinetta che dominava il punto in cui la strada si biforcava per continuare da una parte verso nord e dall'altra, sulla sinistra, lungo la costa. Scesero dalla macchina e cominciarono a salire il colle. Il generale guidava il gruppetto, seguito dal prete e dall'esperto; gli operai dei servizi municipali, con gli arnesi in spalla, chiudevano la marcia. I due autisti si erano seduti ciascuno su una pietra sul ciglio della strada e avevano acceso una sigaretta. Dinanzi all'edificio del monastero si ergevano alcune tombe imponenti, antiche sepolture sormontate da grosse croci e recanti scritte in latino. Il vecchio portale era chiuso. Su una lastra sovrastante l'ingresso erano incise le parole Societas Jesus. L'esperto albanese dovette bussare parecchie volte prima che dall'interno giungesse il rumore di alcuni passi. Un monaco dai capelli bianchi, in tonaca nera e un cappuccio triangolare sul capo, apparve sulla soglia. «Buongiorno, padre», disse l'esperto. «Buongiorno», rispose il monaco. «Qui si trova la tomba di un soldato straniero caduto nel 1939. Siamo venuti a esumarne i resti.» Il vecchio monaco squadrò, l'uno dopo l'altro, il generale, il prete e gli operai con i picconi in spalla. «Abbiamo un ordine scritto del governo e l'autorizzazione dell'arcivescovo», disse l'esperto traendo dal portafoglio alcuni documenti. Il monaco abbassò gli occhi grigi dalle palpebre inferiori gonfie di piccole borse e cominciò a leggere le carte muovendo le labbra come se masticasse qualcosa. «Benissimo», disse. «Seguitemi. 109 Vi ci conduco subito.» Gli tennero dietro, fiancheggiarono all'interno il muro di cinta e raggiunsero la parte posteriore del monastero, dove si ergeva la chiesa. «Eccola, è quella tomba là», disse il monaco. Era una sepoltura molto modesta. Alla sua testa una croce di pietra e un elmetto. La vernice dell'elmetto era corrosa da molto tempo, i lati affondavano nel suolo, e certo in


primavera, quando spuntava l'erba nuova, l'intero elmetto doveva essere nascosto nel verde. Uno degli operai lo strappò dal suolo con la pala. Altri due operai cominciarono a togliere la croce mentre gli ultimi due si accingevano a scavare. «Perché questa tomba è isolata, lontana dalle altre?» domandò il generale. «Il fatto è che questo soldato è stato ucciso in circostanze singolari da un certo Nik Martini», disse il vecchio monaco con voce profonda, soffocata. A udire il nome di Nik Martini, il generale lanciò al prete uno sguardo interrogativo. «Un montanaro sconosciuto», spiegò il prete. «L'ho visto coi miei occhi quando è stato colpito. Nik sparava da quella collina lassù.» Si girarono e fermarono lo sguardo su un'altura che, come un torrione, si ergeva, scoscesa, al di là della strada. «In questi paraggi c'è stato qualche combattimento?» domandò il generale. «No», rispose il monaco. «Questa zona, di qui al mare, è disabitata e nessuno immaginava che delle truppe potessero sbarcare così vicino a noi.» «A quale distanza ci troviamo dalla costa?» «Dieci chilometri», disse il vecchio. «Lo sbarco dovette aver luogo in un silenzio assoluto. Nessuno avrebbe potuto supporre che delle truppe sbarcassero in questo luogo sperduto. Nik Martini fu il solo a saperlo, Dio solo sa come.» «Ma chi era quest'uomo?» «Un montanaro», rispose il monaco, che parlava in tono monocorde, come se ripetesse automaticamente parole imparate a memoria. «Quel giorno lo vidi 111 venire da lontano sulla carreggiata. Procedeva col fucile in spalla, e siccome ci conoscevamo gli andai incontro. «Dove vai, Nik?» gridai. «Vado a combattere», mi rispose. «Da solo?» «Sì, da solo.» Tentai d'impedirglielo e, sceso sulla strada, mi piantai davanti a lui e gli dissi segnandomi: «Pace alle creature del Signore!» Mi lanciò uno sguardo feroce e fece un gesto come per metter mano al fucile. «Togliti dalla mia strada, padre!» mi disse in un brontolio. Poi alzò gli occhi sul campanile e, senza una parola, si diresse verso il monastero. Lo seguii. Salimmo tutti e due in cima al campanile, di dove si vedeva la costa: brulicava di truppe. «Sono sbarcati», gli dissi. «Torna a casa, Nik!» «No, non tornerò a casa», mi rispose e cominciò ad ansimare come una belva. Ridiscese. Lo vidi raggiungere rapidamente la strada e cominciare a salire su quell'altura.» «E poi si è battuto da solo?» domandò il generale. «Sì, da solo. Ha sparato per più di un'ora. Ma i colpi erano rari, i suoi proiettili fischiavano nell'aria a lunghi intervalli. La strada brulicava di truppe, e lui sparava, sparava sempre. Non ci fu modo di smuoverlo di lì, finché non fu colpito da una granata di mortaio.» «E fu ucciso allora?» «No. E' quello che pensammo in un primo momento, quando il suo fucile tacque. Ma più tardi sapemmo che era riapparso dieci chilometri più lontano, su un'altra altura, e che aveva combattuto per un'altra ora.» «Non stento a crederlo», disse il generale. «Una simile posizione è virtualmente imprendibile. Vi si può resistere per tutt'una giornata, se non si è sloggiati dall'artiglieria.» «Tentarono infatti di scalarla», disse il monaco, «e appunto durante uno di quei tentativi fu ucciso questo soldato. Dalle finestre del monastero seguivamo con gli occhi i loro vani sforzi di scalata. Poi dopo aver portato qui il compagno ucciso, avvolto nel cappotto, e averlo seppellito, decisero di bombardare la posizione a colpi di mortaio.» «E quel montanaro se la cavò?» domandò il generale. «Nik Martini?» Il vecchio monaco alzò gli occhi dallo


sguardo appannato verso le colline. «No», rispose. «Mo 113rì. Quel giorno combatté in quattro luoghi diversi, fino all'estremo limite delle sue forze. Dicono che, esaurite le cartucce e vedendo che alcuni camion di soldati si dirigevano verso Tirana, lanciò un urlo come son soliti fare i nostri montanari nell'apprendere la morte di un congiunto. Circondato da ogni parte, fu fatto a pezzi a colpi di pugnale.» Per alcuni secondi regnò il silenzio. «Nik Martini non ha tomba», disse il vecchio monaco, che forse credeva che i visitatori cercassero anche la sepoltura del montanaro. «Né traccia né croce. Solo un canto ne ricorda la memoria. Lo si canta spesso, soprattutto in quei villaggi laggiù», e, protendendo la mano tremante, indicò un punto verso nord-est. «L'anno scorso una missione dell'Istituto del Folclore è passata da queste parti e, se non mi sbaglio, ha raccolto fra gli altri canti anche questo.» Il monaco continuava a parlare ma già da un po. non lo ascoltavano più. «E' sorprendente», disse il generale mezz'ora dopo, mentre viaggiavano verso Tirana, «che un uomo solo possa pensare di combattere contro un esercito.» «Ritengono un onore combattere isolati», replicò il prete. «E' una loro antica tradizione.» Il generale accese una sigaretta e sospirò: «E' passato un altro giorno di guerra!» Il prete non disse nulla. Guardava i campi che si stendevano di qua e di là dalla strada. Già spazzati dai venti invernali. Dopo alcuni chilometri riapparve loro l'Adriatico, questa volta sulla destra, imponente nella sua immensità. Alcune collinette dalla cima tondeggiante dominavano a strapiombo la riva: portavano sui versanti le tombe sparse degli albanesi caduti il primo giorno di guerra. Frammentariamente e da fonti diverse il generale aveva appreso ciò che era accaduto in quei giorni sulle coste dei due mari che bagnano l'Albania. Gli avevano raccontato come la notizia si fosse diffusa in tutte le regioni e come da ogni angolo del paese uomini in gruppi di cinque, dieci, venti, col fucile in spalla, si fossero messi in cammino per andare a com 115 battere. Venivano da lontano, senza che nessuno li avesse organizzati, valicavano monti e valli, con un che di antico, di molto antico nell'incedere, qualcosa che gli era stato trasmesso come un istinto, di generazione in generazione, dal tempo delle leggende di Gjergj Elez Alija, quando il male, simile a un mostro, emergeva sempre dal mare, e bisognava sterminarlo sulla riva stessa per impedirgli di addentrarsi nelle terre. Era un vecchio senso d'allerta quello che si ridestava in loro, un timore antico dinanzi alle acque azzurre e, in genere, per tutti i paesi di pianura, di dove era sempre spuntato il male, sicché quegli uomini che scendevano dai monti per unirsi ai resti dell'esercito del re ancora in lotta, appena annusavano l'aria del mare, per poi scoprirlo, quel mare, immenso davanti a loro, avvertivano come un pericolo e credevano di udire nel brontolio delle onde i suoni di una musica guerriera. Così, quel giorno, a decine i guerriglieri erano scesi dalle montagne. Contavano tra le loro file uomini con gli occhiali e il cappello a cencio, uniti ai montanari d'alta statura dei bayrak, a quei montanari che conducevano ancora una vita patriarcale e molti dei quali, forse, non si curavano neppure di sapere quale fosse il paese che li aggrediva, quale fosse il nemico contro il quale andavano a combattere, poiché ciò non aveva per loro alcuna importanza. L'essenziale era che il pericolo


veniva dal mare e che nel mare bisognava ricacciarlo. Molti non lo avevano mai visto in vita loro, e quando gli era apparso l'Adriatico dovevano avere esclamato: «Com'è bello!» Forse non credevano più che il male potesse venire di là. Avevano poi guardato con indifferenza il brulichio degli incrociatori al largo, coi loro giganteschi cannoni puntati sulla costa, gli aerei che volavano a bassa quota, le scialuppe di sbarco, e senza più indugiare avevano dato battaglia, come prescriveva l'usanza, ed erano caduti, chi prima chi dopo. Poi, verso il declinare del giorno, erano arrivati i ritardatari, quelli delle zone più remote delle montagne. E così com'erano, spossati dalla lunga marcia, si erano lanciati a loro volta nella battaglia, al tramonto, nell'ora in cui gli invasori mettevano in azione potenti pompe per lavare le 117 strade di Durrës dal sangue che le faceva fiammeggiare sotto gli ultimi raggi del sole. Fino a sera i montanari avevano continuato ad affluire. Alcuni erano venuti soli, e le loro sagome sormontate dal fucile si stagliavano in cima alle colline. Quando venivano scoperti dai riflettori nei punti in cui erano appostati, si abbattevano falciati dalle mitragliatrici, e rimanevano così, bocconi, fino al mattino, coi capelli umidi di rugiada. L'indomani li seppellirono nei luoghi in cui erano caduti, e quella primavera le loro tombe apparvero dappertutto, come innumerevoli pecore sparse, sulle alture che si ergevano di fronte al mare. Non si seppero mai i loro nomi, né la regione dalla quale erano venuti. Li riconobbero solo i montanari, dagli abiti. Certuni erano venuti dai lontani bayrak delle Alpi del Nord, da quei paesi in cui, in caso di lutto, l'intera famiglia si veste di nero, e si tappezza di drappo nero perfino la kulla di pietra, fredda e triste, del caduto, per poi dedicargli un canto. E quei canti, stavolta, dovevano certamente evocare il mare, lontano e perfido.


119 Parte seconda Tornò la primavera, poi passò. L'erba crebbe sulla terra straniera. Ricoprì le alture, spuntò sui versanti delle valli e invase ostinatamente le esigue strisce di terra ai margini delle strade. Per tutta la primavera il generale, il prete e il gruppo di sterratori dei servizi municipali corsero per monti e valli, di regione in regione. Arrivò l'estate ma poiché il lavoro non procedeva troppo bene si concessero solo quindici giorni di riposo. Indirizzarono allora una richiesta al governo albanese per poter prolungare le ricerche. Ottenuta l'autorizzazione, firmarono i nuovi allegati al contratto e, giacché l'estate non era finita, proseguirono le ricerche nelle Alpi del Nord. Poi, appena l'aria rinfrescò un poco, scesero nelle pianure e ripresero gli scavi in certe zone che avevano già visitato. L'ottobre li sorprese di nuovo sulle strade d'Albania. Il tempo si guastò improvvisamente e, ancora una volta, l'orizzonte si riempì di tuoni. Quel triste pellegrinaggio si prolungava al di là delle loro previsioni. Alla conferenza stampa che il generale aveva tenuto nel suo paese, in estate, prima della seconda partenza per l'Albania, i giornalisti gli avevano posto una quantità di domande imbarazzanti sul tempo che gli sarebbe ancora occorso per condurre a termine la sua missione. Aveva risposto laconicamente, a volte con evidente nervosismo, a volte in tono sdegnoso, come a dire: «Provate un po' a farlo voi, signorini miei, il lavoro che faccio io!» Il generale aveva sempre più l'impressione che la sua vita si riducesse a una interminabile successione di incroci di strade inzuppate e straniere. Nel percorrere quei sentieri gli tornavano sempre più spesso alla memoria frammenti di lunghi colloqui e di fastidiose raccomandazioni. Tutte quelle reminiscenze gli aggredivano la mente e vi assumevano un che di inflesso e di monotono. Gli facevano l'effetto di una scrittura inclinata le cui lettere, come spinte da un lato, siano sul punto di rovinare faccia a terra. 121 Capitolo Xvii Di solito passavamo la giornata a fumare, appoggiati al parapetto del ponte o seduti nella piccola baracca che recava, sopra la porta, le parole, scritte di traverso dal gestore, «Caffè Aranciate». Eravamo in sei a montare la guardia sul ponte. Ci passava una strada strategica costruita dagli austriaci durante la prima guerra mondiale e da lungo tempo lasciata in stato di abbandono. Eravamo arrivati in quel sito pochi giorni dopo il rifacimento della strada e del ponte. I soldati che li avevano riassestati avevano costruito contemporaneamente una casamatta e una piccola caserma. Avevamo piazzato una mitragliatrice


pesante nel fortino e ci eravamo tenuti una mitragliatrice leggera nella caserma, per ogni eventualità. Il paese circostante era triste e deserto. Nient'altro che terre incolte, cosparse di sassi, e qua e là un albero. Era un villaggio piccolissimo, dieci case al massimo, strane case di pietra sui muri delle quali si aprivano, a guisa di finestre, alcune piccole feritoie, simili a quelle del nostro fortino. I primi tempi morivamo di noia. I veicoli militari passavano di rado e gli abitanti del villaggio ostentavano un atteggiamento ostile nei nostri confronti. Dalla mattina alla sera non facevamo che andare su e giù lungo il parapetto a gettare sassi nel torrente. La notte montavamo la guardia. Ma un bel giorno vedemmo arrivare dal sentiero della montagna un uomo che conduceva tre muli carichi di assi, di casse e di rotoli di cartone incatramato. Era un mercante che veniva dalla città vicina. In due giorni mise su una baracca vicinissimo al ponte e vi dipinse in nero, sopra l'ingresso, le parole «Caffè Aranciate». Da quel giorno diventammo clienti assidui. Benché sopra la porta avesse scritto le parole «caffè» e «aranciate», in realtà vendeva raki e un vino scadente. Ogni tanto alcuni militari, che passavano in camion, si fermavano davanti alla baracca per bere qualcosa; pareva che il caffeuccio avesse un po' animato quel triste luogo. A volte ci veniva a bere qualche abitante del villaggio. Ma non era il raki del bettoliere ad attirarli, e ancor meno 123 il suo vinaccio. Avevano un altro scopo: venivano a barattare le loro uova con delle cartucce. Il traffico, s'intende, era rigorosamente vietato, ma lo facevamo lo stesso. La notte, quando montavamo la guardia, sparavamo in aria con un crepitio di fucilate e l'indomani dichiaravamo d'aver consumato il doppio delle cartucce effettivamente bruciate. E le munizioni in tal modo risparmiate venivano scambiate con un certo numero di uova. Ma quelle salve notturne furono di malaugurio. Come se fossimo stati noi, noi stessi, ad attirare il male. Di lì a un po' di tempo i partigiani cominciarono effettivamente a bersagliarci. Se non ci fosse stato il fortino saremmo stati presto liquidati. Il primo dei nostri fu ucciso sul ponte mentre montava la guardia, una notte. I partigiani, a quanto pare, avevano tentato di far saltare il ponte, ma la nostra sentinella gliel'aveva impedito dando l'allarme. Al mattino lo trovammo morto davanti al parapetto. Giaceva in una posa strana, con la bocca aperta. Avete visto il film : Morte di un ciclista. Ebbene, io, quando l'ho visto, sono stato sul punto di mandare un urlo in piena sala: quel corpo sullo schermo somigliava troppo a quella visione che mi s'era scolpita nella mente. Erano trascorsi appena quindici giorni e fu la volta del secondo. Le circostanze erano, diciamo così, identiche. Sospettavamo, è vero, gli abitanti del villaggio di sparare su di noi, ma non ne avevamo le prove. Ora non barattavamo più le nostre cartucce. Ma era troppo tardi. Quando cadde il terzo dei nostri uomini decidemmo di non montare più la guardia sul ponte. Contemporaneamente ai rinforzi venuti a colmare le nostre perdite ci mandarono un riflettore che piazzammo nel fortino, sicché adesso il ponte era illuminato a intervalli. Con le sue centinaia di travi di ferro nere incrociate, che gli conferivano l'aspetto di uno spaventoso millepiedi, appariva sinistro e temibile. A volte, in piena notte, lo guardavo stagliarsi nella luce cruda e biancastra e avevo il presentimento che ci avrebbe inghiottiti tutti, l'uno dopo l'altro. I


partigiani si accanivano. Il quarto dei nostri uomini fu ucciso la stessa notte in cui fui ferito. 125 Non ricordo altro, perché fui colpito all'inizio dell'attacco. Quando rinvenni mi accorsi che mi avevano issato su una mula che avanzava lentamente sul ponte. Le tavole scricchiolavano stranamente sotto i suoi ferri. Era mattina, una grigia mattina d'inverno. Posavo lo sguardo intorpidito sugli innumerevoli bulloni che mi sfilavano sotto gli occhi e sentivo il cuore stringermisi sotto qualcosa di pesante e di freddo, che mi aveva segnato per sempre. Quando la mula uscì dal ponte e si inoltrò con passo lento nella strada girai a fatica la testa e guardai per l'ultima volta la casamatta, le tristi case dei contadini sparse sull'altopiano, le tombe dei nostri compagni ai piedi del ponte (l'ultima tomba non era stata ancora scavata) e lì accanto la baracca di legno con la sua sordida scritta: «Caffè Aranciate». --------- Il generale fumava, seduto su un blocco di calcestruzzo. Giù, ai piedi del ponte, gli operai frugavano negli spazi lasciati dai grossi blocchi infranti, sparpagliati da ogni parte, fra i rottami contorti di ferro arrugginito. Il nuovo ponte era stato costruito poche centinaia di metri più giù, nel luogo in cui sboccava la nuova strada, a breve distanza da un oleificio. L'antica strada di montagna era adesso cosparsa di arbusti e di cespugli. «La deflagrazione dev'essere stata terribile», pensò il generale. Il ponte era tagliato in due e i grossi blocchi di calcestruzzo erano volati in pezzi fino alla casamatta e anche più lontano, fin sulla strada abbandonata. Accanto al ponte si ergeva ancora la vecchia baracca di legno e sopra la porta si potevano leggere ancora le parole «Caffè Aranciate». Quando erano arrivati, una settimana prima, la baracca, come il ponte, la casamatta e una parte della carreggiata, era semidistrutta. Il cartone incatramato che le faceva da tetto era lacerato qua e là, numerose assi erano state divelte e quelle che reggevano ancora erano per lo più marcite. Ma dopo due giorni era arrivato un esercente ambulante della NTLUS (1) portando sigarette, cognac e un fornellino per prepararvi il caffè. Fu una bazza per tutti, perché oltre ai cin 127 (1) Iniziali albanesi dell'impresa locale che controlla i ristoranti, i bar, gli spacci, le pasticcerie ecc'. que operai stabili ne erano stati assunti, provvisoriamente, altri sette, e tutti quegli uomini, senza contare gli autisti, l'esperto, il prete e il generale, dovevano trascorrere lì due lunghe e stancanti settimane. Dopo avervi inchiodato alcune assi in due o tre punti e fissato con grossi sassi il cartone incatramato perché il vento non lo sollevasse, l'esercente si insediò nella vecchia baracca. Il caffeuccio portò un po' d'animazione. Al mattino gli operai vi bevevano il caffè o un bicchierino di cognac prima di mettersi al lavoro. In giornata gli abitanti del villaggio andavano a gironzolare da quelle parti, contemplando per ore intere gli sterratori che scavavano. E in quel medesimo istante il generale ne osservava due, che pareva spiegassero qualche cosa al vecchio operaio indicandogli con la mano un punto ai piedi del ponte. «Chi sa chi di loro ha sparato sulle sentinelle», si chiedeva il generale ogni volta che quelli del villaggio andavano a unirsi agli operai o a comprare le sigarette alla baracca. Era lì da una settimana e alcuni adesso li conosceva di vista. Gli scavi continuavano di qua dal ponte, al livello della strada, e anche alla base delle spalle del ponte. Soltanto le sentinelle erano state seppellite ai piedi


del ponte, le tombe degli altri si trovavano per la maggior parte sull'orlo pedonale della strada, allineate l'una dopo l'altra su un terreno cosparso di rottami di ferro, avanzi di veicoli incendiati. Il luogo pareva prestarsi alle imboscate contro le colonne motorizzate. E tutto ciò era accaduto prima che i partigiani facessero saltare il ponte. Il prete e l'esperto venivano su per la scarpata. L'esperto si diresse verso la baracca, mentre il prete raggiunse il generale. «E allora?» gli domandò il generale. «Tutto bene.» «Corrisponde alle indicazioni?» «Perfettamente.» «Dopodomani dovremo iniziare le ricerche dall'altro lato del ponte.» Le gole dei monti circostanti erano 129 immerse nella nebbia. «Tempo schifoso», disse il generale. Il prete scosse il capo. «Gli albanesi hanno un proverbio», disse. ««Il maltempo si dimentica in una casa amica.»» «Noi, allora, non abbiamo nessuna probabilità di dimenticarlo, perché in questo paese nessuno ci aprirà la porta.» Il prete cominciò a tossire. «Da due giorni ho mal di gola.» «Si capisce, con questa umidità.» «Dovrei prendere una pastiglia.» «Se abbiamo lo stesso inverno dell'anno scorso siamo ben conciati.» «Farà lo stesso tempo», disse il prete. «Siamo qui da poco più d'un anno e mi sembra d'aver passato con lei tutta la vita.» «Il più, adesso, è fatto.» «Sì, ma via via che si prolunga, questo lavoro diventa sempre più opprimente.» «Se esiste una «guerra lampo», non esistono evidentemente «ricerche lampo».» «Più la guerra è fulminea, più la ricerca di quelli che vi hanno perso la vita è lunga. Ci siamo inchiodati a questo ponte e non riusciamo a staccarcene. Non posso più sopportare questo paesaggio.» «Non riesco a spiegarmi perché i partigiani si sono tanto accaniti su questo ponte per farlo saltare ad ogni costo», disse il prete. «Era in realtà un'ottima trappola, perché, una volta distrutto il ponte, le colonne motorizzate dovettero cambiare strada, e i nostri uomini non furono più una preda tanto facile.» «Sì, ma se non l'avessero distrutto oggi forse le tombe sarebbero due volte di più e noi saremmo costretti a rimanere qui un mese, invece di quindici giorni. Meno male che non ci hanno rinunciato. Non posso sopportare questo paesaggio con questa gente che si aggira tutt'intorno e ci guarda mentre esumiamo i morti.» «Sì, non fanno che aggirarsi», disse il prete. «Evidentemente lo spettacolo di questo lavoro deve procurar loro una certa soddisfazione.» «Le sentinelle del ponte le hanno conosciute. Hanno vissuto a lungo a gomito a gomito, hanno dato loro uova in cambio di proiettili e qualcuno di 131 essi ha certamente sparato contro di loro.» «Girano e rigirano sui luoghi dei nostri lavori come se volessero gloriarsi con i nostri operai e con gli autisti d'esser stati loro a uccidere le sentinelle», disse il prete. «Ha notato, fra gli altri, un vecchio dal portamento grave, i baffi lunghi e una grossa pistola, che viene tutte le mattine a gironzolare fra gli operai?» Il generale si accigliò. «Quello che ha due o tre medaglie appuntate sul petto e che cammina a testa alta?» «Precisamente.» «Sì, l'ho notato, infatti. L'esperto mi ha detto che suo figlio è stato ucciso dai nostri.» «Ah sì?» «Ha l'aria d'esser molto vecchio. Alla notizia del nostro arrivo, a quanto pare, si è subito appuntato le sue medaglie, si è infilato la pistola alla cintura ed è venuto a passeggiare da queste parti. E adesso ripete ogni giorno la stessa manovra.» «Neppure gli operai albanesi sfuggono ai suoi sguardi sprezzanti. Ieri non si è neanche degnato di rispondere all'esperto che


gli chiedeva un'informazione.» «E' un vecchio fanatico. L'esperto e gli operai devono apparirgli come nostri alleati.» Il prete tossicchiò. «Quello che so», disse il generale in tono confidenziale, «è che bisogna preveder tutto. Diffido di questo genere di psicopatici. Non si sa mai, possono avere una crisi, metter mano alla pistola e spararci addosso in pieno giorno!» «Possibilissimo», disse il prete. «Da un tipo mezzo matto come quello c'è da aspettarsi di tutto. Bisogna esser prudenti.» Di nuovo si udì il tuono rombare nelle gole delle montagne circostanti. «Trovo più o meno comprensibile l'interesse di questa gente per i nostri scavi», disse. «Un soldato che ha montato la guardia su questo ponte mi ha raccontato, prima della nostra partenza, un episodio del tempo di guerra. Quando ero seduto lì, poco fa, mi sono ricordato delle sue parole, forse per la decima volta.» «A costoro ricordiamo gli anni di guerra.» «E' naturale. Durante la guerra la 133 sorte di questo casale è stata legata a quella del ponte. La prossimità di quest'opera gli è stata fatale. Dopo la distruzione del ponte le nostre unità hanno infierito, hanno fatto un massacro. Senza questo ponte la vita, in questo villaggio isolato dal resto del mondo, avrebbe continuato a scorrere tranquilla, i risucchi della guerra non l'avrebbero toccata. Già, ma c'era il ponte, e fu la causa di tutto. Ed ecco che adesso, inaspettatamente, arriviamo noi e ci mettiamo a cercare i resti dei nostri soldati.» Era l'ora di colazione e gli sterratori sospesero il lavoro. L'esperto si intrattenne per qualche istante col vecchio operaio prima di raggiungere il generale per dirgli: «Due delle tombe sono sepolte sotto i grossi blocchi di calcestruzzo». «Come si farà, allora?» «Dovremo far saltare i blocchi con la dinamite.» «Bene, ma ne abbiamo?» «No, dovremo procurarcela domani nella località più vicina.» Andarono a colazione. Dopo colazione il generale andò a lavorare per un po' di tempo ai suoi elenchi. Adesso erano pieni d'ogni sorta di annotazioni in margine. Non identificato. Quota 1184. Vedi verbale di esumazione. Non identificato. Manca la testa, vedi verbale di esumazione. Il braccio destro è più corto. Quota 1099. Numero 19301. Figura ucciso due volte. Dentatura non corrisponde. Non identificato. Nel pomeriggio cominciò a piovere. Gli operai riuniti nella baracca fredda e piena di fumo guardavano cadere la pioggia sottile. In serata il vecchio operaio si ammalò. Aveva cominciato a sentirsi male fin dal pomeriggio, ma non ci aveva dato importanza. Verso sera era diventato pallido e disse che voleva andare a stendersi. Tutti credettero che avesse preso freddo, nient'altro. Lo condussero in una casa e lo misero lì perché si scaldasse davanti a un gran fuoco. Ma venuta la notte il suo stato si aggravò. Il giorno non era ancora spuntato quando qualcuno grattò alla tela della tenda che ospitava il generale e il prete. Il generale fu il primo a svegliarsi. «C'è qualcuno fuori», disse al prete. Questi si alzò e scostò la tela. Era l'esperto. «Vogliate scusarmi se vi disturbo a quest'ora.» «Non fa niente. Ma che succede?» «Volevo chiedervi se posso servirmi della macchina. Non credo che oggi abbiate l'intenzione di scendere in città.» «No. Perché ne ha bisogno?» «Il caposquadra è in gravi condizioni. Bisogna trasportarlo d'urgenza alla città più vicina.» Il prete tradusse al generale le parole dell'esperto. «La prendano», disse il generale. «Grazie.» L'esperto stava per allontanarsi ma il prete lo trattenne: «Che cos'ha, di preciso? Già ieri pomeriggio aveva


l'aria di non star bene». «Non saprei», disse l'esperto. «Ha preso freddo, forse?» «Temo che sia un'infezione. Si è fatto un graffio alla mano destra.» «Un'infezione?» fece il generale sollevando la testa, sorpreso. L'esperto uscì. «Cosa può essere?» domandò il generale. «Penso anch'io a un'infezione», disse il prete. «Ieri sera aveva un colorito terreo.» «Come ha potuto prenderla?» «Forse un bottone di cappotto arrugginito, o un osso spezzato. Ieri hanno aperto una quantità di tombe.» «Sì, ma conosce bene il lavoro. E' 5 sempre lui a indicare agli altri come bisogna fare.» «Non se ne sarà accorto», disse il prete. «Forse aveva del fango sulle mani e non ha notato il graffio.» «Avrebbero fatto bene a trasportarlo in città fin da ieri sera.» «La strada è brutta e abbandonata da molto tempo. Il viaggio non è facile, neppure di giorno.» «Sì, però...» «Arriveranno in tempo anche oggi. Non credo sia una cosa pericolosa. Contro le infezioni, adesso, ci sono dei rimedi potenti.» Il generale si cacciò di nuovo sotto la spessa coperta di lana. «Che tempo fa?» domandò. «Coperto», rispose il prete. Quando uscirono dalla tenda, alcuni operai erano già al lavoro. Facevano dei buchi nei blocchi dilaniati per ficcarvi le cartucce di dinamite. Gli altri bevevano un caffè in piedi dinanzi alla baracca. Era domenica, ma lì dei giorni festivi non ci si accorgeva. «L'assenza dell'esperto intralcerà i lavori. Gli operai non sanno bene dove devono scavare.» «Forse sarà di ritorno stasera, domattina al più tardi.» «Meglio che gli sterratori non facciano niente fino al suo ritorno», disse il prete. «Ho paura che ci succeda un altro incidente.» «Crede che ci siano altri scheletri infetti?» «Perché no? Può darsi che diversi soldati di quella colonna fossero stati colpiti da un'infezione.» «Forse bisognerà gettare della calce nelle fosse aperte», disse il generale. Giunsero alla baracca e ordinarono due caffè. «Il microbo rimane vent'anni sepolto sotto terra e poi ritrova improvvisamente la sua virulenza. E' strano», disse il generale. «Eppure è così», disse il prete. «Al primo contatto con l'aria e col sole riprende vita.» «Come una belva che si sveglia dal sonno invernale.» Il prete sorbiva lentamente il caffè. «Credo che nel pomeriggio pioverà.» E fu davvero una giornata lugubre. Vagarono per tutta la mattina non sapendo che fare. Nel pomeriggio rico 7 minciò a piovere. «Se gli succede qualche cosa dovremo assicurare un'indennità alla famiglia», disse il generale. «Una pensione vitalizia?» «Sì. Lo prevede il contratto. Se ricordo bene, al paragrafo 11 della clausola 4.» L'esperto ritornò l'indomani mattina. L'autista del camion fu il primo a scorgere la macchina che si inerpicava a fatica per la strada di montagna. «Eccoli!» gridò. «Ritornano!» Il generale, il prete e gli operai, che si erano ficcati tutti nella baracca per ripararsi dalla pioggia, uscirono subito. Lontano, sulla strada, cercando di evitare i grossi sassi che ricoprivano il terreno, l'automobile verde saliva lentamente. «Dev'essere guarito», disse qualcuno. Quando la macchina fu più vicina notarono che era tutta infangata e quando si fermò l'autista del camion gridò: «Ma ha un parafango sfondato!» L'esperto scese per primo. Pallido, i tratti tirati, l'occhio stanco e smarrito. Tirò fuori una gamba, poi l'altra, e lanciò intorno a sé uno sguardo indifferente, assente. «Allora, cos'è successo?» domandò qualcuno rompendo il silenzio. L'esperto si girò verso di lui come se quella domanda lo stupisse. «E' morto», disse con voce fioca. «Morto?» «Sì, morto. Cosa,


non ci credete?» brontolò l'autista scendendo dopo l'esperto. Aveva gli occhi rossi per la notte d'insonnia, le mani e il viso imbrattati di fango. «Quando?» fece una voce. «Verso mezzanotte.» «Era un'infezione terribile», disse l'esperto, come parlando da solo. Il gruppetto si diresse in silenzio verso la baracca. «Non avete avuto guasti al motore o altro?» domandò l'autista del camion. «No», rispose il compagno. «Ho solo urtato due o tre volte contro i grossi sassi seminati sulla strada. Non abbiamo chiuso occhio tutta la notte.» Entrarono nella baracca. «Fa' un caffè, non vedi che sono 9 sfiniti?» gridò qualcuno al bettoliere. «Prendete anche un cognac. Vi tirerà su.» «Sì, vada per il cognac!» «Allora, amico, racconta un po' com'è successo.» L'autista vuotò il bicchiere d'un fiato. «Riempimelo ancora!» disse al gestore. «Che notte! Durante tutto il tragitto non ha aperto bocca. Ora batteva i denti ora scottava. Poi ha cominciato a girargli la testa. Gli abbiamo detto di stendersi e lui si è sdraiato alla meno peggio sul sedile posteriore. Ma non migliorava. Io, si capisce, avevo premuto a fondo sull'acceleratore. Dio solo sa come abbiamo fatto a non finire in un burrone! Gli domandavamo in continuazione: «Come ti senti?» ma lui niente, non apriva bocca. Si limitava a guardarci come a dire: «Male, fratello, male!» Finalmente siamo arrivati in città e lo abbiamo fatto subito ricoverare. Ogni mezz'ora andavamo a chiedere notizie. Gli infermieri ci facevano tutti un viso poco rassicurante. Uno di loro disse: «Avreste dovuto portarlo prima». Allora abbiamo capito che andava male. Abbiamo chiesto di vederlo, ma ce l'hanno rifiutato. Era venuta sera. Correvamo da un caffè a un altro. Eravamo troppo agitati per andare a riposarci in albergo. Verso le undici siamo ritornati all'ospedale per chiedere ancora notizie. Figuratevi la sorpresa quando ci siamo sentiti dire che potevamo entrare immediatamente. Abbiamo chiesto come stava. «Male», ha risposto l'infermiere, «non passerà la notte.» Per questo ci avevano fatto entrare subito. Non ne aveva più per molto. Aveva la faccia livida, a momenti tremava con tutto il corpo, a momenti si irrigidiva che sembrava di pietra. Ha alzato gli occhi verso di noi scuotendo la testa. Poi ha cominciato a fissare a lungo il graffio che aveva sulla mano, come a dire: «Sei stato tu a fottermi, schifoso!» Verso mezzanotte è stato colto da una crisi violenta e dopo un po' si è spento, dopo aver sofferto le pene dell'inferno. Ecco com'è andata. Riempimi ancora il bicchiere, per amor del cielo! Che razza di storia! Ah!» Nella baracca cadde il silenzio. Sul tetto malandato un pezzo di carto 11ne incatramato schioccava al vento. «Non posso crederci», disse qualcuno. «Pensare che soltanto fino a poche ore fa era qui con noi e che non lo rivedremo più.» «Sì, quel povero Reiz ci ha lasciati. Se n'è andato senza che neppure ce ne rendessimo conto.» «Era buono», disse un altro, «gentile con tutti e nient'affatto superbo.» «E coraggioso.» «Ah, questo poi non si discute!» «Chi andrà a dare la notizia alla moglie?» «Non sarà una cosa facile!» «Non le garbava, poverina, il lavoro del marito. Come se avesse un brutto presentimento. In ogni lettera gli scriveva: «Quando avrai finito con le tue tombe?» E lui rispondeva: «Ancora un po' e avrò finito».» «Povera donna», disse l'autista. «Una volta, a Tirana, quando le ho portato una lettera del marito, si è lamentata. Si faceva cattivo sangue. Lo aveva aspettato per tanti anni durante la guerra e adesso le pareva che fosse di nuovo partito per la guerra.» «Proprio


quello che lui ci diceva sempre: «Ho avuto a che fare coi fascisti quando erano vivi e adesso che sono morti devo ancora occuparmi di loro».» «Eh sì! Ha combattuto per tanti anni contro di loro e li ha vinti, ma in definitiva sono stati loro ad aver la meglio su di lui. Che disdetta!» «Sembra una vendetta postuma.» «Sì, hanno aspettato vent'anni per vendicarsi. Ma lui combatteva lealmente, come si combatte in guerra, mentre loro l'hanno ammazzato con uno sporco bottone, a tradimento.» «Il nemico, anche quando è morto, non cambia.» «Guardali lì, se ne stanno come due corvi, in silenzio», disse l'autista con voce roca, lanciando uno sguardo d'odio al prete e al generale che, avvolti negli ampi impermeabili, se ne stavano ritti accanto alle rovine del ponte. «Allora, adesso siete soddisfatti?» «Zitto!» disse qualcuno. «Non far sciocchezze, Lilo!» «Dovremo provvedere a farlo seppellire nel cimitero dei martiri.» «Certo. Dobbiamo telegrafare oggi stesso al Comitato del Partito di Tirana.» 13 Nella baracca si fece di nuovo un pesante silenzio e si udiva il vento abbattere e poi sollevare e ancora abbattere e poi sollevare l'estremità lacerata di cartone incatramato sul tetto. «Ce l'hanno ammazzato», fece qualcuno in un singhiozzo. «Ce l'hanno tolto!» «Non avete trovato niente?» domandò il prete. «No», rispose l'esperto stancamente, camminando con precauzione sulle grosse zolle di terra argillosa. «Strano», disse il prete. «Adesso scaveremo in altri due posti, da ogni lato del punto indicato sulla vostra carta. Comunque deve trovarsi nei paraggi.» Il generale si avvicinò. Aveva gli stivali infangati e li staccava a fatica dal suolo. «Allora?» domandò all'esperto. «Ancora niente.» «Bisognerà rinunciarci», disse il generale. «Che grado aveva?» «Tenente.» «Forse, dopo essere stato ferito, si è trascinato piuttosto lontano di qui.» «Può darsi», disse l'esperto. Rade gocce di pioggia cadevano sul fango rosso accumulato ai due lati della fossa. Sembrava che dei paramenti rossi sospesi all'orizzonte tingessero il suolo di riflessi rossastri e irritanti. D'un tratto si udì uno sterratore gridare da lontano: «Ecco, lo abbiamo trovato!» L'esperto avanzò lentamente, per non scivolare, e si portò verso la fossa appena scavata. Il prete lo seguì. Girarono a lungo intorno alla tomba aperta e infine il prete ritornò, e in viso gli si leggeva il disappunto. «Fatica sprecata», disse stancamente. «Non era uno dei nostri.» «E chi era?» domandò il generale. «Secondo l'esperto, un pilota inglese.» L'esperto si diresse verso di loro. «Ci siamo dati tanta pena per niente», disse. «E adesso che facciamo?» domandò uno degli operai, che si era avvicinato. «Ce ne andiamo. Qui non abbiamo più niente da fare.» 15 «E l'inglese?» domandò l'operaio. «Seppellitelo di nuovo», disse il prete. «Per lui non possiamo far niente». L'esperto si girò verso la fossa. «Sotterratelo», ordinò agli sterratori. Due di essi gettarono di nuovo le ossa nella fossa e cominciarono a colmarla, mentre il gruppetto si allontanava. Quando, dopo un momento, il generale si girò, i due uomini stavano ancora lavorando e da lontano se ne scorgevano le pale che salivano e scendevano regolarmente. Un po' più tardi, quando il generale girò ancora gli occhi verso di loro, dovevano aver finito, perché li vide ridiscendere il colle con gli arnesi in spalla, e sul suolo non si distingueva neppure più la tomba


di recente riempita. «Una giornata perduta», disse il generale. «Interamente perduta.» C'erano una volta un generale e un prete partiti alla ventura. Se n'erano andati a raccogliere i resti dei loro soldati caduti in una grande guerra. Cammina, cammina, varcarono molte montagne e pianure, cercando e raccogliendo quelle ceneri. Il paese era rozzo e cattivo. Ma loro non si scoraggiarono e continuarono ad avanzare. Raccolsero quante più ossa poterono e tornarono indietro e le contarono. Si accorsero che ne mancavano ancora molte. Allora si infilarono gli stivali, indossarono gli impermeabili e si rimisero in viaggio. Cammina, cammina, varcarono di nuovo molte montagne e pianure. Spossati, sfiniti, si sentivano rotti di fatica. Né il vento né la pioggia dicevano loro dove si trovavano i soldati che cercavano. Ne raccolsero più che poterono e tornarono di nuovo indietro per contarli. Molti di quelli che cercavano non erano stati ritrovati. Sfibrati, stremati, ripartirono per un nuovo e lungo viaggio. Camminarono, camminarono, senza fine. Era inverno e nevicava. «E l'orso?» «Allora apparve loro un orso.» Di solito la favola che il generale si ripeteva quasi ogni giorno e che intendeva raccontare, appena tornato, a una delle nipotine terminava invariabilmente con la domanda: «E l'orso?» perché a un certo momento la bimba faceva quasi sempre questa domanda quan 17 do le si narrava una favola. Capitolo Xix Infine il decimo giorno cominciarono di nuovo a scendere. La strada, adesso, sprofondava sempre di più, lasciando sopra di sé le cime dei monti. Terminavano così l'ultimo viaggio, il più duro. Avevano condotto le ricerche in zone assai remote e per dieci giorni sui monti era nevicato ininterrottamente. Il generale guardava attraverso il finestrino lo srotolarsi dell'interminabile tedio di quella strada. A tratti, fra i versanti spogli e scoscesi delle montagne, piccoli villaggi si mostravano d'improvviso alla loro vista per poi subito tornare a nascondersi. Da ogni parte si ergevano montagne, alte e fredde, fondali d'uno scenario da tragedia. Ogni tanto sulle gole e sui nudi versanti apparivano schiere di giovani, ragazzi e ragazze, intenti a dissodare terre nuove e a sistemare campi a terrazze. Le terrazze si allungavano circolarmente intorno ai fianchi dei monti come trincee senza fine. La neve ora cessava ora riappariva agli occhi dei viaggiatori in chiazze sparse: era una neve asciutta, indifferente. La notte dormivano in un villaggio e il giorno riprendevano il lavoro. Lì appunto gli alpini erano caduti in massa nel corso di una vasta operazione d'inverno. Vi si trovavano anche molti cimiteri di abitanti del luogo. Quel terreno era stato uno dei più difficili. I cimiteri erano sempre coperti di neve e loro avevano durato fatica a orientarsi con il solo aiuto delle carte topografiche. Pareva che la neve si rifiutasse di lasciarsi portar via quelli che nascondeva nel suo seno. Li aveva avvolti in uno strato delicato, bianco e tranquillo, ma quando entravano in azione le pale e i picconi tutto diventava brutto: il bel tappeto era mutilato, straziato, cosparso di ferite spalancate, e così restava finché una nuova nevicata non ne fasciasse le piaghe. La strada serpeggiava, girava in cerchio, si arrotolava su se stessa, sempre nel medesimo punto, come una corda che si aggrovigli e di cui non si


ritrovino più le estremità. L'auto viaggiava in testa, seguita dal camion 19 col telone bianco di neve, e al generale sembrava di percorrere la stessa strada del giorno prima e che non esistesse altro che quella stretta carreggiata di montagna che li faceva implacabilmente girare in cerchio senza farli sboccare da nessuna parte. E ora che la sua missione volgeva al termine ebbe d'un tratto la sensazione di non poter uscire mai più da quei monti. Alle curve vedeva rispuntare gli stessi fortini le cui feritoie, ora orizzontali ora verticali, sembravano bocche aperte esprimenti a volte la sorpresa a volte una sarcastica ironia. Il generale osservava quella mimica di pietra e aveva di nuovo l'impressione che a quella rigida ironia non sarebbe mai più sfuggito. Il camion, con le sue grandi casse nelle quali erano ammucchiate centinaia di sacchi di nylon pieni di ossa, seguiva sempre, docilmente, la vettura. E su quelle casse, avvolti nei cappotti di pelle, sedevano, fumando, gli sterratori. Dopo la morte del vecchio operaio non cantavano più. Il generale rivedeva con la mente le centinaia e centinaia di camion militari che gli erano sfilati sotto gli occhi durante la sua carriera. Rammentava quei soldati seduti ordinatamente in riga sulla sponda posteriore dei veicoli, col mento appoggiato alla canna del fucile, sballottati, sballottati senza tregua. E adesso erano lì, dietro di lui, radunati a centinaia in un unico camion, sempre sballottati, come allora. Solo che non se ne distinguevano più né i menti né le mani. I pensieri del generale giravano intorno allo stesso punto, al pari della strada che, come una collana, si arrotolava interminabilmente intorno alle montagne. Dal giorno in cui avevano scorto quella statua il prete era ripiombato nel suo mutismo ed era ridiventato cupo. Il generale gli aveva visto allora lo stesso viso stravolto di quella mattina in cui, in preda a un incubo, aveva mandato un urlo di spavento. Era la seconda volta. Quella statua l'avevano intravista tre giorni prima, a un crocevia. Era apparsa loro improvvisamente, come una persona che sul ciglio della carreggiata aspetti che una macchina la conduca via. Il generale si era girato verso il prete per indicargliela e aveva 21 visto che sbarrava gli occhi. Non gli era mai parso così scosso. Aveva lo sguardo fisso, inchiodato sulla statua, ed era diventato estremamente pallido. «Cos'ha?» gli aveva domandato il generale. Il prete non aveva risposto. La macchina aveva voltato, rapidamente, e la statua imbiancata dalla neve gli era apparsa vicinissima, dietro i cristalli, aveva rapidamente fiancheggiato la vettura ed era infine scomparsa dietro di loro, all'incrocio. Un po' più tardi il generale aveva domandato al prete se quella statua avesse evocato in lui qualche ricordo, ma quegli, senz'altre spiegazioni, aveva attribuito il suo turbamento a un semplice capogiro. Dopodiché erano rimasti un pezzo senza parlare. Il giorno prima avevano fatto aprire l'ultima tomba. I picconi affondavano a fatica nel suolo indurito dal gelo come per non cedere, almeno, l'ultimo soldato. Gli operai si sfregavano continuamente le mani e battevano le suole sulla neve ghiacciata. Il generale, con le mani incrociate sulla pancia, osservava gli sterratori intenti a scavare e andava dicendosi che quegli uomini avevano dissotterrato tutto il suo esercito. Poi, dopo l'ultimo colpo di piccone, e come un'ultima detonazione, l'esperto aveva fatto rimbombare queste parole: «Giusto un


metro e sessanta!» Spesso, nell'osservare gli operai, il generale aveva immaginato come doveva essersi effettuato in origine quel lavoro che ora essi compivano alla rovescia. Quando, con le palpebre pesanti, gli occhi a volte gli si socchiudevano, di solito al crepuscolo, nell'ora cioè in cui riusciva solo a distinguere le sagome degli sterratori, gli era sembrato che non fossero loro a scavare lì ma i soldati della sua nazione, quei soldati sconosciuti che vent'anni prima avevano già fatto quel lavoro in senso inverso, per seppellire i compagni. Allora chiudeva gli occhi e si raffigurava come si erano svolte, come si erano dovute svolgere le cose, spesso in piena notte, avendo per unici arnesi le baionette o i pugnali. Ma era il decimo giorno del loro viaggio, ormai ridiscendevano, e doveva scacciare quei pensieri. L'accer 23 chiamento delle montagne stava per aver fine. La neve asciutta cedeva il posto alla neve umida, e più giù, nella valle, come una vecchia conoscenza, li aspettava la pioggia. Di lì a poco, pochissimo, sarebbe tornato a casa. Altri si sarebbero occupati delle ceneri e di completare il lavoro. La sua missione aveva fine con quel viaggio. Ora alcuni rappresentanti dei servizi municipali e dei contabili dei due paesi si sarebbero seduti intorno a un tavolo per fare un bilancio del lavoro compiuto. Poi avrebbero messo mano a un mucchio di altri conti complicati, avrebbero cominciato a regolare una quantità enorme di fatture e di quietanze e infine avrebbero redatto il verbale definitivo. Sarebbe seguito un piccolo banchetto, dove sarebbero stati pronunciati brevi discorsi ufficiali, e dopo il banchetto sarebbe stata celebrata una solenne messa funebre per le anime dei soldati caduti in guerra. Le agenzie di stampa avrebbero annunciato che la missione era stata condotta a buon fine e lui avrebbe preso ancora la parola in conferenze stampa, dinanzi a centinaia di giornalisti irritanti. Ignoti falegnami, nel frattempo, avrebbero terminato di fabbricare migliaia di piccole bare delle dimensioni stipulate nel contratto. Clausola 14. Bare in doppio compensato. Verniciate in bianco. Numeri neri. Nella baracca in quel terreno incolto alla periferia di Tirana, Caronte nel suo ampio pastrano logoro avrebbe aperto per l'ultima volta il suo grosso quaderno, soffiandosi sulle dita. Il grosso cane si sarebbe messo davanti alla porta, minaccioso, mentre gli addetti ai servizi municipali avrebbero con ogni precauzione deposto un sacco di nylon in ogni bara. Compagnie, battaglioni, reggimenti, divisioni si sarebbero confusi nella moltitudine di bare. E, smarrita nella massa dei soldati, una donna, la sola, benché anche lei fosse stata trattata come un «soldato», visto che, in fin dei conti, soltanto gli anatomisti riescono a distinguere uno scheletro di donna dallo scheletro di un uomo. Carico di bare, il convoglio di camion si sarebbe diretto a Durazzo. Dove il tutto sarebbe stato imbarcato su una grossa nave che sarebbe salpata pesantemente per rimpatriare quell'e 25 sercito, ridotto adesso ad alcune tonnellate di fosforo e di calcio. Poi le bare sarebbero state sbarcate sull'altra riva e ciascuna di esse sarebbe stata spedita a un determinato indirizzo. Numerose famiglie avrebbero forse atteso sul molo l'arrivo delle ceneri dei loro cari. E di lì, dal molo, l'esercito si sarebbe disperso, completamente. I sacchi marca Olympia, caricati in vagoni postali, camion, autobus, grosse limousine o piccole utilitarie, moto o biciclette, o semplicemente portati a


spalla, sarebbero partiti in direzioni diverse per non riunirsi mai più. In quanto a quelli che non era stato possibile ritrovare, sarebbero rimasti in Albania. In seguito, forse, un'altra spedizione sarebbe venuta a cercarli e nuovi scavi sarebbero stati intrapresi. Ce n'erano ancora circa duecento, con alla testa il colonnello Z'. La nuova spedizione avrebbe percorso quei medesimi itinerari deprimenti e interminabili, finché non avesse raccolto uno per uno tutti i resti di quei poveretti. Chi sa cosa ne avrebbe pensato l'ufficiale che l'avrebbe comandata. (Non sarebbe stato certo un generale, dato che non si poteva mandare un generale per soli duecento uomini.) La strada continuava a scendere, arrotolandosi, sinuosa, intorno alle montagne come vi si era arrotolata salendo. Gli anelli che disegnava si facevano sempre più ampi e il generale ebbe la sensazione che tutto, finalmente, si dipanasse, che la calma si insediasse di nuovo nel suo animo. Ogni tanto si girava indietro. Le montagne si allontanavano sempre di più. Il loro rilievo si attenuava, diventava meno minaccioso. Il generale le guardava come a dir loro: «Ora la vostra pressione è finita. Vi sono sfuggito, sfuggito». Poi, sonnecchiando, fu improvvisamente colto da una vaga paura. Ma lassù non sarebbe più tornato. Mai più. Incontrarono un villaggio e la notte, contemporaneamente. Per la prima volta dopo dieci giorni il volto del generale si illuminò. Era finita. Quella notte avrebbero dormito lì e l'indomani sarebbero partiti per Tirana. E dopo pochi giorni sarebbero tornati a casa. Il generale aveva ritrovato il buonumore. Una tiepida on 27 data di benessere, quantunque ancora esitante, cominciava a invaderlo. Nel villaggio le luci non erano ancora accese. L'auto, scortata da una folla di monelli, percorreva la strada maestra tutta fango. Davanti al circolo della cooperativa l'autista, dopo avere rallentato, sporse la testa per domandare dove fosse la sede del consiglio della cooperativa. I bimbi gli fornirono, con alte grida, l'informazione e alcuni di loro, senza più indugiare, cominciarono a correre davanti alla macchina per farle da guida; gli altri seguirono dietro, sicché la macchina procedeva adesso in mezzo a loro, nel baccano delle loro voci chiare e stridule. La sensazione d'euforia si andava sempre più accentuando. Davanti all'auto, attraverso il parabrezza, il generale li vedeva sgambettare; poi, voltandosi, si accorse che altri bimbi correvano dietro la macchina e sorrise. Era soprattutto lui che pareva interessarli, mentre il prete li lasciava indifferenti. Non poté impedirsi di sentirsi lusingato, quantunque quell'interesse, lo sapeva, fosse dovuto unicamente alla sua uniforme. Il gusto delle magnificenze che palpitava ancora in fondo a lui tentava timidamente di rialzare la testa. Dopo aver attraversato il villaggio il chiassoso corteo si fermò davanti all'edificio occupato dal consiglio della cooperativa. L'autista e l'esperto salirono lesti le scale. Dopo un minuto il camion si fermò dietro la macchina e gli operai saltarono a terra l'uno dopo l'altro. Ma il camion non attirava molto l'attenzione dei ragazzi. I quali appiccicavano il viso ai cristalli per cercare di vedere all'interno della vettura i due uomini immobili sui sedili scuri. Uno di essi fumava una sigaretta. Da fuori i monelli non potevano distinguere altro, ma giravano intorno alla macchina e ogni tanto appiattivano contro i cristalli i visini curiosi e stupefatti. «Probabilmente il colonnello Z. è scomparso proprio in


questo villaggio», disse il prete. «Può darsi», fece il generale, con indifferenza. «A questo riguardo dobbiamo accertare qualcosa», disse il prete. «Dobbiamo tentare, almeno.» Il generale aspirò due o tre bocca 29 te, una dopo l'altra. «A dire il vero, non ci tengo molto a ritrovarlo», disse lentamente. «Stasera non desidero ritrovare morti. Personalmente mi rallegro che questo calvario sia finalmente terminato e lei vuole imbarcarmi per una nuova avventura.» «Ma è nostro dovere», ribatté il prete. «Lo so, lo so, ma per il momento non ho voglia di pensarci. Questa, per noi, è una grande sera. Mi meraviglia che lei non lo senta. E' una sera di festa. Desidero star tranquillo. Un buon bagno caldo! Ecco la prima cosa che mi occorre per la serata. La metà del mio regno per un bagno!» aggiunse ridendo il generale. Era di buonumore, di ottimo umore. Quel lungo e penoso pellegrinaggio, che egli evocava come una visione spaventosa, era finalmente terminato. Ma non era un pellegrinaggio: era una marcia nelle tenebre della morte. Come dice il vecchio canto dei soldati svizzeri, «la nostra vita è un viaggio nell'inverno, un viaggio nella notte!» Il generale si stropicciò le mani. Adesso era salvo. Poteva guardare da lontano, con indifferenza, quegli odiosi monti scoscesi. «Simile a un uccello tragico e solitario...» Non ricordava bene la frase che, nell'augurargli buon viaggio, gli aveva rivolta una signora dell'alta società. L'esperto uscì dall'edificio dell'amministrazione. «Dormirete in quella casa lì», e indicò una casetta con un balcone. Dieci minuti dopo il generale usciva sul balconcino e si appoggiava alla balaustra di legno. Il prete era dentro, intento ad aprire la valigia. Era una casa a un piano, circondata da un giardinetto, e dal balcone si scorgeva una parte del villaggio. Il generale udì il tintinnio di un secchio e voci femminili provenienti da un pozzo vicino, i muggiti solitari delle mucche, i suoni di una radio appena accesa, e sempre le grida dei bimbi che giocavano e correvano sulla piazza. Adesso le luci del villaggio si erano accese e si udiva il ronzio monotono della centrale elettrica. Quella notte sarebbe trascorsa come tutte le altre, senza lasciare in loro nessun ricordo particolare, se anche quella sera il generale si fosse limi 31 tato ad assaporare l'odore caratteristico di quei villaggi albanesi, quell'aroma sottile, quasi impercettibile, ma che ormai gli era diventato familiare, tanto da poterlo distinguere fra tanti altri. Il prete era uscito per raccogliere informazioni sul colonnello Z. e il generale, sempre appoggiato alla balaustra del balconcino, guardava le donne, una alla volta, che traevano acqua dal pozzo. Ora tutto si svolgeva normalmente, benché in lontananza, provenienti dal centro del villaggio, si udissero un rullo di tamburo e un canto di violino che gettarono sulla notte un nuovo mistero pieno di fascino. Il generale riconobbe il rullo di tamburo caratteristico delle feste nuziali del paese. Se non fosse stata la fine d'autunno, quel rullo gli sarebbe sembrato un irritante contrasto. Ma in quel libro sull'Albania aveva letto che i contadini celebrano di solito i matrimoni in autunno, una volta terminata la mietitura. Era il secondo anno che il prete e lui andavano da un villaggio all'altro proprio in quel periodo dell'anno. Ma adesso si era all'inizio dell'inverno e ormai si celebravano solo gli ultimi matrimoni, quelli che per un motivo o un altro erano stati rimandati, mentre all'inizio del viaggio


ne incontravano quasi tutti i giorni. Spesso di notte era accaduto al generale di udire, attraverso il rumore della pioggia, il rullo di un tamburo e il canto di un violino ora gaio ora pensoso. Nell'ascoltarli, con la testa sotto le coperte, riandava con la mente a quel camion sempre parcheggiato fuori, sotto la pioggia che cadeva tutta la notte sul telone nero. Pensava sino a che punto si possa essere stranieri in un paese che non è il nostro. «Più stranieri degli alberi piantati sui bordi della strada», pensava, «e non sono che alberi; e certamente più stranieri delle pecore, dei cani da pastore o dei vitelli che all'approssimarsi della sera fanno risuonare le loro campanelle.» Anche quella sera tutto si sarebbe svolto come tante altre sere se il generale, dopo avere rimuginato tutte quelle idee, non avesse ascoltato il prete che gli parlava del colonnello Z., che gli diceva d'essere andato al circolo e di essersi seduto a un tavolo con alcuni contadini e quello che 33 gli avevano raccontato sulla scomparsa del colonnello e tutti i sospetti che i loro discorsi avevano destato in lui. Ma il generale non prestava troppa attenzione alle parole del prete. Era di buonumore. «Basta», disse al prete per la terza volta. «Basta con tutto questo. Ora ci occorre un po' di riposo e di distrazione. Non trova?» Il prete non rispose. «E' una bella serata. Un po' di musica, un bicchierino di cognac...» «E dove andare?» disse il prete. «Qui non c'è neanche un caffè, tranne il circolo della cooperativa. E lei sa come sono questi posti...» Ma il generale, senza lasciarlo finire, gli fece una proposta che lo lasciò di sasso. Il prete, del resto, non l'accettò. Era la prima volta che manifestava la sua opposizione in un modo così formale. Ma il generale gli ricordò brutalmente che il capo della missione era lui e che, se vi fosse stato costretto, gli avrebbe ordinato di seguirlo. «Siamo fieri della nostra missione, no? Me l'ha ripetuto tante volte. E questa gloriosa missione l'abbiamo assolta, finalmente. Stasera voglio distrarmi, ascoltare un po' di musica, vedere una commedia o che so io! Lei mi ha detto, se non sbaglio, che le feste nuziali in questo paese sono un vero spettacolo. O forse mi parlava delle cerimonie funebri? Non importa. Quel che conta è che ho voglia di distrarmi. Se ci fosse una cerimonia funebre ci andremmo, no? E poi non mi sentirò certo imbarazzato con questi contadini! Lei stesso mi ha detto che gli albanesi sono di un'ospitalità che rasenta la mania, sicché non rischiamo d'essere accolti male.» Il prete gli aveva inchiodato addosso i suoi occhi gelidi. Il generale parlava senza interrompersi per evitare il silenzio. Ma infine il silenzio si fece. «No», disse allora a bassa voce il prete protendendo il braccio nella direzione in cui, secondo lui, doveva aver luogo la festa nuziale. «Non dobbiamo andarci. Siamo in lutto. Non dobbiamo abbandonarli.» Non ci abbandonare. Era un antico appello. Per un anno e mezzo il generale lo aveva udito, ora più debole ora più forte. Lo volevano accanto a loro. E lui per amor loro aveva rinun 35ciato alla vita. Ogni volta che aveva tentato di lasciarli, foss'anche per poche ore, aveva udito un bisbiglio sordo. Era il loro generale; ma stasera si ribellava. Il braccio del prete era sempre proteso. «Non abbandono niente», disse il generale con voce roca. «Voglio soltanto svagarmi un poco.» E senza attendere risposta si infilò l'impermeabile e uscì. Il prete lo seguì. Capitolo Xx


La festa nuziale aveva luogo in una casa situata nel cuore del villaggio. Già da lontano il generale e il prete scorgevano le forti luci sotto le quali la pioggia pareva cadere ancora più fitta. Nonostante il maltempo la porta della casa era spalancata e sotto l'ampio portico c'era gente in piedi. Chi andava, chi veniva e la stradina che conduceva alla casa era animatissima, piena di bisbigli e di mille rumori diversi. I due uomini avanzavano, entrambi in silenzio, avvolti negli ampi impermeabili neri, e la stradina risuonava sotto i loro passi: lunghi e pesanti quelli del generale, che camminava distrattamente nelle pozzanghere; leggeri e più lesti quelli del prete. Si fermarono un istante davanti alla porta spalancata, sotto il portico, dove alcuni giovani vestiti a festa fumavano e conversavano a voce bassa; poi entrarono nel vestibolo. Il generale entrò per primo e il suo impermeabile luccicò, per un secondo, sotto le lampade dell'ingresso riflettendogli sulle spalle un'immagine confusa che ricordava una composizione astratta. Il prete lo seguiva. Il corridoio era gremito di donne e di bambini che facevano un gran baccano. Il tamburo taceva e si udivano voci di uomini provenienti dalla stanza principale. Un piccolo assembramento si formò nel corridoio, un messaggero venne inviato nella stanza e un vecchio, visibilmente sorpreso, ne uscì e si diresse verso di loro. Li salutò portandosi la mano sul cuore e li aiutò a togliersi gli impermeabili, che appese accanto ai grossi mantelli dei contadini. Era il padrone di casa. Li condusse nella stanza grande e al loro ingresso tutte le persone presenti co 37 minciarono ad agitarsi sul posto, a scambiarsi bisbigli, ad allungare la testa, come un boschetto dalle mille tinte che si animi d'un tratto sotto un forte vento. Il generale non si aspettava certo di sentirsi tanto turbato dalla scena che si offriva ai suoi occhi. In un primo momento si smarrì a tal punto che appena entrato non scorse, con sua somma meraviglia, che una tavolozza di macchie di colori vivaci e mobili, come se un forte schiaffo gli avesse fatto vedere mille scintille. Qualcuno lo condusse a un tavolo, un altro lo aiutò a togliersi il cappotto. Non riusciva a far altro che salutare e sorridere, istupidito, a quelle macchie che gli si muovevano intorno biascicando qualche parola. Solo quando il tamburo ricominciò a rullare e il violino a emettere le prime note acute e gli invitati si alzarono per ballare, solo allora si riprese un poco. Attraverso il tintinnio cristallino dei bicchieri udì accanto a sé una voce dirgli nella sua lingua: «Vuole alzare il bicchiere?» Fece quanto gli si diceva. La medesima voce gli parlava ancora, come per spiegargli qualcosa, ma non era ancora in grado di capire alcunché e si meravigliava di sentirsi così disorientato. Ora la festa gli faceva l'effetto di un grande organismo, vigoroso e amorfo, che respirasse, si agitasse, mormorasse, ballasse e riempisse l'atmosfera del suo alito caldo, ubriacante e torbido. Trascorse un certo tempo prima che il generale rientrasse completamente in sé. Si sentiva addosso gli occhi dei bimbi, scintillanti di gioia silenziosa. Unendo le teste si mostravano col dito un punto nella sua direzione con l'aria di contare i bottoni della sua uniforme o i suoi galloni, perché poi cominciavano a discutere tra loro scuotendo le testine, visibilmente in disaccordo. La prima persona di cui il generale, forse per inclinazione professionale,


notò la presenza fu un soldato che, senza berretto, si dava da fare presso gli invitati. Gli dissero che era il fratello della sposa e che le nozze erano state rinviate appunto in attesa che egli ottenesse una licenza. Il giovane, dopo aver guidato più volte le danze, adesso parlava e rideva con le ragazze. Era giovanissimo, ave 39va i capelli biondi e due occhietti gioiosi che muoveva in tutte le direzioni. Poi, a poco a poco, il generale notò tutto ciò che lo circondava. Guardò successivamente i vecchi dai lunghi baffi che, seduti alla turca sui minder, discutevano gravemente, fumando i lunghi chibouk; la sposa in abito bianco, così aggraziata nella sua emozione; lo sposo tutto sudato che si spostava un po' dappertutto per fare gli onori di casa; i grappoli di fanciulle intente solo a ridere e a bisbigliare negli angoli, come se non sapessero far altro, e il cui stesso atteggiamento era una promessa di gioie segrete che non doveva esser mai pienamente mantenuta; il viso disincantato dei giovanotti che fumavano sigarette; i brunissimi orchestrali madidi di sudore; tutte quelle donne che andavano e venivano da una stanza all'altra, indaffaratissime; e infine le più vecchie, vestite di nero, con i volti segnati dagli anni e lo sguardo carico di emozione e di tenerezza, allineate come una fila di pallide icone. Ora seguiva gli agili movimenti delle gambe e lo schiocco ritmato dei tacchi sul pavimento in obbedienza al vibrante comando del tamburo; il fruscio delle fustanelle dalle mille pieghe, bianche come la neve delle Alpi che essi avevano percorso; i brindisi dalle lunghe frasi confuse che, tradotte, quasi perdevano il loro significato; i canti rozzi degli uomini che rievocavano i brevi crepuscoli delle montagne, e i canti strascicati, patetici, delle donne, che sembravano appoggiarsi alle robuste spalle di quelli degli uomini, per procedere, eternamente sottomessi, al loro fianco. Il generale si guardava intorno senza riuscire a pensare a nulla. Non faceva che bere e sorridere in continuazione, senza sapere neppure lui a chi rivolgesse quei sorrisi. --------- Non so a quale esercito tu appartenga, perché non ho mai saputo riconoscere le uniformi, e adesso sono troppo vecchia per impararlo, ma tu sei straniero e fai parte d'uno di quegli eserciti che hanno ucciso i miei familiari. Hai come mestiere l'invasione e sei di quelli che hanno spezzato la mia vita, che hanno fatto di me questa povera vecchia che sono e che viene a queste nozze estranee a sedersi in un 41 angolo per biascicarti queste parole. Nessuno sente quello che ti dico perché qui tutti sono allegri e io non desidero turbare la festa. E appunto perché non voglio turbare la gioia di nessuno rimango in quest'angolo a maledirti fra i denti, a voce bassa, molto bassa, perché nessuno mi senta. Vorrei proprio sapere chi ti ha spinto a venire a queste nozze e come le gambe abbiano potuto portarti fin qui. Sei seduto lì, a quel tavolo, e ridi come un cretino. Ma alzati, gettati il cappotto sulle spalle e ritorna sotto la pioggia là da dove sei venuto. Non capisci che qui sei di troppo, maledetto?--------- Le donne continuavano a cantare. Il generale sentì un soffio caldo e una dolce emozione invadergli il petto. Aveva la sensazione di ristorarsi in un bagno di suoni e di luci. E quei suoni e quelle onde di luce che si riversavano su di lui come da una fontana tiepida gli purificavano il corpo da tutto il fango dei cimiteri, quel fango che mandava un lezzo di muffa e di morte. Passato lo stordimento, il generale si sentì di


buonumore. Voleva parlare, stordirsi di parole. Cercò con gli occhi il prete. Questi era seduto un po' più lontano, di fronte a lui. Pareva sui carboni ardenti. Il generale si chinò verso di lui. «Come vede, tutto va benissimo.» Il prete non rispose. Il generale si irrigidì. Sentiva gli sguardi di coloro che lo circondavano cadergli addosso come frecce silenziose. Gli cadevano sulle tasche, sulle spalle e di rado, assai di rado, sugli occhi: frecce cupe e pesanti degli uomini, frecce vivaci, scintillanti e incerte delle fanciulle. «Simile a un uccello ferito, ma sempre fiero, volerai...» «E' interessante, no?» disse di nuovo al prete. Questi, sempre senza rispondere, si limitò a guardarlo come a dirgli: «Può darsi», e distolse lo sguardo. «Questa gente ci manifesta rispetto», disse il generale. «Siamo noi a incuterglielo, anche se siamo stati nemici.» «La morte viene rispettata dappertutto.» «La guerra è finita da molto tempo. Il passato è dimenticato. Sono sicu 43 ro che nessuno, qui, pensa a vecchie inimicizie.» Il prete taceva. Il generale decise di non rivolgergli più la parola e tuttavia un lembo della nera tonaca del compagno cominciò a ballargli davanti agli occhi. «Il prete, è chiaro, si sente di troppo», pensò. «Ma non sono di troppo anch'io? E' difficile dirlo. Adesso è fatta. Siamo venuti. Di troppo o no, ci è difficile andarcene. Sarebbe più facile ritirarsi sotto il fuoco delle mitragliatrici che alzarsi di qui, buttarsi il cappotto sulle spalle e andarsene sotto la pioggia.»--------- Sai bene che qui sei di troppo. Senti che a questa festa nuziale c'è qualcuno che ti maledice, e che la maledizione d'una madre non viene mai pronunciata invano. Nonostante il rispetto che ti si dimostra, ti rendi perfettamente conto che qui non avresti mai dovuto metterci piede. Tenti inutilmente di nascondertelo. Ti trema la mano quando alzi il bicchiere e le ombre che ti attraversano gli occhi dicono la tua paura!--------- Il tamburo riprese a rullare. Il clarinetto attaccò il suo lamento, i violini lo seguirono. Nuovi invitati ritardatari arrivarono, coi mantelli grondanti d'acqua. Il fiume in piena li aveva fermati durante il tragitto e avevano dovuto aspettare lunghe ore prima di poterlo varcare. Abbracciarono l'una dopo l'altra tutte le persone presenti e presero posto intorno al grande tavolo. «Sembra che per questa gente una festa nuziale rappresenti qualcosa di sacro», pensò il generale, «altrimenti non si darebbero la pena di viaggiare tutta la notte con un tempo come questo per partecipare alla gioia degli altri. Deve piovere a catinelle. Con una notte simile non si potrebbe nemmeno scavare una trincea, si riempirebbe d'acqua.»--------- Mi hanno detto che sei venuto a raccogliere i morti del tuo paese. Forse ne hai raccolti molti e ne ritroverai moltissimi altri, forse li raccoglierai tutti, ma sappi che ce n'è uno che non ritroverai mai, così come io non ritroverò mai, nei tempi eterni, né mia figlia né mio marito. Come vorrei parlarti di quello che non ritro 45 verai mai! Se non lo faccio è perché non voglio risvegliare in tutti questi invitati i tristi ricordi della guerra. Come pioveva quella notte! Più forte di stasera. L'acqua veniva giù da ogni parte. Impossibile scavare fosse, perché si riempivano d'acqua, di un'acqua nera come la pece. Eppure io ne ho scavata una, con le mie mani. Ma non te ne dirò nulla, per non turbare la gioia degli altri, e neppure la tua, maledetto!--------- Il generale accese una sigaretta, che, strano, gli parve piccola, insignificante, rispetto alle grosse pipe di legno,


lunghe e nere, che i vecchi reggevano nelle mani arrossate e dalle quali ogni tanto, parlando, tiravano una boccata, come a scandire il ritmo della conversazione. Il padrone di casa, quel vecchio che all'inizio della serata lo aveva accolto nel corridoio, andò a sedersi accanto a lui, con la pipa in pugno e una medaglia dal nastro giallo che gli penzolava sulla spessa giubba di lana nera, come agli altri vecchi. Quelle medaglie le conosceva bene, per averle viste spesso sul petto dei contadini, e gli sembrava che ognuna di esse recasse sul retro il pallido volto di un soldato morto del suo esercito. Sorrise al viso solcato di rughe del vecchio, che gli fece pensare a un tronco disseccato, screpolato, ma ancora vigoroso. Un uomo seduto al suo fianco, quello che lo aveva invitato ad alzare il bicchiere, gli tradusse le prime parole del vecchio. Il padrone di casa si scusò col suo ospite di non essere andato a tenergli compagnia poiché gli invitati continuavano ad arrivare e doveva pur riceverli tutti. Il generale si profuse in formule di cortesia scuotendo la testa con deferenza. Il vecchio tacque, trasse una lenta boccata dalla pipa, poi, con voce tranquilla, gli domandò: «Di dove sei?» Il generale gli rispose. Il vecchio scosse la testa con aria pensosa, sicché il generale capì che non aveva mai sentito parlare di quella città, che pure era una grande città, molto nota. «Hai moglie, figli?» gli domandò il vecchio. «Sì, sono sposato e ho due figli.» «Che abbiano lunga vita!» «La ringrazio.» 47 Il vecchio tirò un'altra boccata e alcune rughe profonde gli si scavarono sulla fronte. Sembrava voler parlare, e il generale ebbe l'impressione che stesse per dirgli proprio quello che lui temeva di apprendere quella sera. «So perché sei venuto nel nostro paese», proseguì il vecchio con voce perfettamente calma, e il generale sentì come un pugnale trafiggergli il cuore. Fin dall'inizio della serata aveva temuto quel colloquio, che avrebbe potuto mutarsi in provocazione, e si era applicato a dimenticare il motivo della propria presenza, illudendosi che il suo oblio comportasse quello degli altri. Quella sera avrebbe voluto essere un semplice turista interessato alle avvincenti usanze di un popolo dal lungo passato, per parlarne poi con gli amici, una volta tornato in patria. E invece, ecco, quel maledetto argomento non si era potuto evitare e il generale si pentì d'esser andato a quella festa. «Sì», disse il vecchio. «Fai bene a raccogliere i resti dei tuoi soldati caduti. Tutte le creature del Signore devono riposare sul suolo che le ha viste nascere.» Il generale assentì con la testa. Di lì a un momento il padrone di casa si alzò gravemente e si scusò: doveva far gli onori di casa ad alcuni ospiti che stavano arrivando. Il generale ricominciò a bere, rinfrancato. Gli era tornato il buonumore. Il pericolo di provocazione sembrava passato. Poteva seguire senza preoccupazione lo svolgersi della festa e bere a suo talento. «Vede?» ripeté al prete. (Già articolava meno facilmente le parole.) «Ci rispettano. Gliel'avevo detto. Il passato è dimenticato. Come ha detto?» «Ho detto che in queste occasioni non è facile discernere il limite tra il rispetto delle consuetudini e il rispetto puro e semplice», rispose il prete. «I generali incutono sempre rispetto.» Il generale bevve un altro bicchiere. «Sa, mi viene un'idea», disse, quasi con malizia, avvicinando il viso a quello del prete. «Voglio alzarmi e ballare con loro.» «Dice sul serio?» 49 «Sì, perché no?» Il prete scosse il capo,


nervosamente. Il generale si irritò. «Ha già fatto abbastanza la bambinaia. Mi lasci in pace, diamine! Non voglio essere controllato da nessuno.» «Parli più piano», disse il prete. «Ci ascoltano.» «Ma, insomma, quando sarà abolita questa detestabile pratica che consiste nel mettere i generali sotto controllo?» Il prete si batté una mano sulla fronte come a dire: «Ci mancava solo questo». «Adesso mi alzo, punto e basta.» «Ma non conosce questo ballo, si renderà ridicolo.» «Nient'affatto. Sono dei passi semplicissimi. E poi, dopotutto, agli occhi di chi mi renderei ridicolo? Di questi contadini?» Il prete si portò di nuovo la mano alla fronte. --------- Mi hanno detto che questa sera al circolo ti sei informato sul suo conto. Da molto tempo, mi sembra, lo cerchi invano. Ma perché lo cerchi tanto, quel sinistro colonnello? Era un tuo amico? Sì, certo, visto che ti interessi tanto a lui. Avete passato la sera a interrogare tutti quelli del villaggio. Ma anche se sanno che è sepolto da queste parti, nessuno riuscirà mai a indovinare il luogo preciso. Partirai senza portarlo con te, il tuo amico, il tuo miserabile amico che ha funestato la mia esistenza. Sbrigati ad andar via, sei maledetto come lui. Sì, certo, adesso ti fai docile come un agnello e col sorriso sulle labbra guardi quelli che ballano, ma io so quello che stai almanaccando! Pensi che un bel giorno ti avventerai su questo paese per bruciare le nostre case e massacrarci, come hanno fatto i tuoi compagni. Non saresti dovuto venire a questa festa. Nel momento in cui ti sei messo in cammino avresti dovuto sentirti tremare le gambe. Non fosse che per riguardo a me, povera vecchia istupidita, dal destino così nero. Ma che succede? Vuoi entrare nel ballo? Hai la sfacciataggine di alzarti? Ti vedo persino sorridere! Ma sì, ti alzi! E loro ti accolgono! Ma, aspettate, che state facendo? E' troppo, è una profanazione!--------- 51 Di nuovo esplose il rullo del tamburo, come il rombo di un cannone. Il clarinetto riprese il suo lamento, i violini lo accompagnarono con le loro esili voci, simili a voci femminili. Nel centro della stanza si delineò l'embrione di una farandola, con due, poi tre, poi un numero sempre crescente di ballerini. Il generale osservò la danza in cerchio. Poi osservò il prete. Poi ancora la danza. Poi il prete. La danza. Il prete. La danza... Si era alzato. Ciò che doveva accadere era accaduto. Eccolo lì, in piedi, a dondolarsi come un ubriaco, pronto a entrare nel cerchio dei ballerini che gli appariva come un cerchio di fuoco. Protese due o tre volte le braccia, ma le ritrasse subito, come se si fosse bruciato le mani. La danza gli turbinava davanti agli occhi come una trottola. Il vecchio che la conduceva piegava le ginocchia, quasi si accovacciava, poi si raddrizzava, faceva schioccare le suole sul pavimento, come a dire: «E' così e sarà sempre così!», faceva volteggiare il fazzoletto bianco, lasciava la mano del compagno per eseguire una piroetta, piegava di nuovo le ginocchia e pareva dovesse abbattersi, con le gambe come falciate, poi si rialzava e ricascava ancora, come colpito dal fulmine, per rianimarsi istantaneamente al brontolio del tuono. Il tamburo continuava a tuonare sempre più rabbiosamente, i gridi del clarinetto si riversavano in ripetuti flutti simili a singhiozzi uscenti dalla gola d'un qualche titano, mentre le corde dei violini vibravano, smarrite. Il tamburo rullava con ritmo sempre più celere e adesso, attraverso il lamento del clarinetto, pareva che macigni rocciosi rotolassero dalle


cime delle montagne. Il generale, sempre in piedi, fu colto da vertigini di fronte a quel frenetico e abbagliante scatenarsi di forze. Non si rese conto di quanto durò. Per alcuni secondi vide, come attraverso un velo, i volti sudati degli orchestrali, il padiglione del clarinetto oscillare dal basso in alto come un cannone della DCA puntato su un bersaglio mobile, gli occhi chiusi dei ballerini in estasi. Poi il tamburo tacque, le corde si rilassarono e fu come un incantesimo: la festa prometteva d'essere riuscita a meraviglia e di protrarsi fino a tardissima notte; ma proprio 53 nel momento in cui i ballerini tornavano ai loro posti un gemito squarciò il baccano. Il generale sentì come una fitta al petto. Il chiasso non era cessato e nondimeno tutti, stranamente, percepirono quel grido: nessuno avrebbe mai creduto che la vecch ia Nice potesse mandare un gemito come quello. La donna singhiozzava, emettendo di tanto in tanto alcune piccole grida acute. Si fece d'improvviso un silenzio così profondo da permettere di udire i singulti convulsi della vecchia che punteggiavano i gemiti. Il generale vide alcune persone accorrere verso di lei e circondarla di premure, poi si chiamò qualcuno, e la poverina, che chi sa perché piangeva a calde lacrime, si calmò un poco. Se si fosse effettivamente acquietata, come credettero il generale e tutti coloro che non si trovavano vicino a lei, tutto sarebbe andato liscio e forse il generale sarebbe rimasto lì ancora a lungo, sino a tarda notte, ma la vecchia Nice ricominciò a piangere. Nulla, visibilmente, riusciva a calmarla. Al contrario, riprese a gemere. Voci si levarono intorno a lei, ben presto dominate da gemiti che trafiggevano come lame la letizia generale. Altri premurosi la circondarono e il generale ebbe l'impressione che quanto più ci si fosse occupati di lei tanto più laceranti si sarebbero fatti i suoi lamenti. Gli orchestrali ricominciarono a suonare, ma dopo un altro grido, ancora più stridulo, della vecchia Nice gli strumenti tacquero, come intimiditi. Il generale vide il gruppo che le stava intorno spostarsi come per effetto di un vigoroso spintone e la vecchia Nice, sfuggita a quanti la trattenevano, proiettarsi in avanti. Per la prima volta il generale osservò quel viso emaciato, livido, quegli occhi sporgenti gonfi di lacrime, quel piccolissimo corpo esile. «Che le succede? Che cosa vuole? Perché piange?» domandò, tornando improvvisamente lucido. Nessuno gli rispose. Alcuni corsero dietro la vecchia, due donne la presero per le braccia e cercarono di ricondurla indietro, con le buone, ma lei cominciò a urlare e andò a piantarsi davanti al generale. Questi ne vide il viso stravolto dall'odio, ma di quello stravolgimento non comprese la ragione. Lei, è vero, gli gridò alcune parole, 55 lo bersagliò di gesti, gli sbraitò sul viso: lui le rimaneva davanti impalato, pallido come la cera. Fu però questione di secondi, perché riuscirono ad allontanarla, traendola per le spalle; ma lei, svincolatasi, raggiunse lesta la porta e uscì. Il generale rimase lì, in piedi, e nessuno gli tradusse le parole della vecchia Nice, ma gli astanti non sapevano che il prete conosceva l'albanese. Si circondò la sposa, che era scoppiata in lacrime, e la padrona di casa che, col viso esangue, si segnava. «L'avevo avvertita», disse il prete. «Non saremmo dovuti venire.» «Ma che cos'è successo?» domandò il generale. «Glielo spiegherò dopo. Questo non è il momento.» «Ha ragione», disse il generale. «Mi sono spinto troppo in là.» Il gruppo di gente che


all'inizio della serata gli aveva fatto l'effetto di un rumoroso boschetto multicolore si era adesso mutato ai suoi occhi in una cupa foresta invernale. Le teste, le braccia, le mani, le lunghe dita si agitavano, si curvavano ora da una parte ora dall'altra come rami spogliati dalla tempesta, poi, su tutto questo, con un secco gracidio, planava l'inquietudine. «Che ragione hanno di venire ai nostri matrimoni?» disse uno dei giovani. «Zitto, non son cose da dirsi.» «E perché?» fece un altro. «Hanno persino l'audacia di entrare nel ballo.» «Comunque, non si poteva scacciarli. E' un'usanza dei nostri padri.» «Bella usanza! E per la povera Nice cos'ha da dire questa usanza?» «Zitto, non vorrei che udissero.» «Non temere», interloquì un altro, «c'è troppo baccano, non potrebbero udire, anche se conoscessero l'albanese.» Infatti il generale e il prete non udirono nulla. Osservavano l'uno dopo l'altro i volti che li circondavano. Il generale distolse presto lo sguardo dagli uomini per posarlo sulle donne, che, avvolte in ampi scialli neri, facevano pensare al coro di una tragedia antica. Lo colse un senso di paura. Perché era andato lì? Perché mai quel capriccio insensato? Fino a quel momento 57 le cose erano andate bene, sempre. Dovunque si fosse recato, le leggi lo avevano accompagnato e protetto. Adesso, invece, si era esposto a un grosso rischio. Come gli era saltato in mente di intervenire, da solo con il prete, a quella festa? Lì si trovava fuori dei regolamenti e delle leggi. Poteva capitar loro qualsiasi cosa, e nessuno ne sarebbe stato responsabile. «Andiamo via», disse a un tratto. «Andiamo via subito.» «Sì, sì», fece il prete. «Andiamo via. Siamo stati gravemente offesi. Quella donna ha pronunciato contro di noi parole estremamente oltraggiose.» «Allora, prima di andarcene, dovremmo rispondere. Ma cos'ha detto, insomma, quella vecchia?» Il prete si accingeva a parlare quando il padrone di casa si diresse verso di loro. «Sedetevi», disse il vecchio indicando il tavolo; poi fece un cenno alle donne che attendevano a servire gli invitati, e queste portarono del raki e dei mezé. (1) Il generale e il prete si guardarono, poi si girarono verso di lui. «Sono cose che succedono», disse il (1) Specie di antipasti. padrone di casa. «Ma vi prego di rimanere. Sedetevi.» Imbarazzati di restar lì in piedi, sotto gli sguardi di tutti, si sedettero. Ebbero così l'impressione d'esser notati meno. Un certo ordine, adesso, si era ristabilito nella grande stanza e la gente si era di nuovo sistemata intorno ai tavoli. Il generale vide sedersi accanto a lui l'uomo che aveva tentato di tradurgli i brindisi che venivano pronunciati nella serata. Questi gli spiegò che Nice era una vecchia rimbambita, rimasta vedova durante l'ultima guerra, poiché suo marito era stato impiccato nel corso di alcune operazioni punitive condotte dal battaglione comandato dal colonnello Z'. Gli disse anche che questi si era fatto portare nella tenda la figlia di quella disgraziata. Era una ragazza di appena quattordici anni e, di ritorno dalla tenda, allo spuntar del giorno, prima d'arrivare a casa si era gettata in un pozzo. La notte successiva il colonnello era scomparso. Ignorando la morte della ragazza si era, così dicevano, recato da lei con 59 l'intento di rivederla. Aveva lasciato un soldato di guardia davanti alla casa e si era intrattenuto a lungo, assai più del necessario, ma la sentinella aveva ricevuto l'ordine di non muoversi fino all'alba. L'indomani mattina nella casa non si trovò nessuno, e


nessuno seppe mai che cosa fosse avvenuto del colonnello. Alcuni affermavano che era stato richiamato d'urgenza a Tirana, altri spiegavano diversamente quell'assenza; in quanto agli ufficiali del suo battaglione, tacevano. Due giorni dopo l'unità lasciava la regione. Tutto questo fu detto a frammenti, con frasi monche, confuse, che gli colpivano la testa come un martello. Nel frattempo la musica era ricominciata, ma sulle prime nessuno si alzava per ballare. Poi le donne presero l'iniziativa e ognuno aveva l'impressione che l'episodio della vecchia Nice fosse stato dimenticato da tutti da tutti gli altri, s'intende. Il generale restava lì, seduto al tavolo, in uno stato di istupidimento che gli impediva di concentrare la mente su una cosa qualsiasi. Il suo sguardo incrociò di nuovo quello del prete. «Desidero sapere che cos'ha detto quella vecchia.» Il prete gli puntò addosso il suo sguardo grigio e il generale si sentì a disagio. «Crede che lei sia un amico del colonnello Z., sicché basta la sua vista a metterla fuori di sé.» «Io, amico del colonnello Z'?» «Sì, sono le sue parole.» «E che cosa glielo fa credere?» «Non lo so.» «Forse perché tutta la sera abbiamo fatto cercare il colonnello Z'», disse il generale, pensoso, come se parlasse a se stesso. «Può darsi», rispose il prete seccamente. Il generale si accigliò ancora di più. Non vedeva, non udiva più niente di ciò che accadeva intorno a lui. «Adesso mi alzo», disse a un tratto. «Mi alzo e dichiaro pubblicamente qui che non sono amico del colonnello Z. e che in quanto militare aborro la sua memoria.» «E perché vuol fare questo? Per dare una soddisfazione a questi contadini?» «No. Lo farò per il buon nome e per l'onore del nostro esercito.» 61 «E crede che il buon nome del nostro esercito potrebbe essere insozzato dagli insulti di una vecchia albanese?» «Voglio spiegare a questa gente che non tutti i nostri ufficiali si chiudevano nella tenda con delle ragazzine di quattordici anni, trascurando le operazioni, per finire poi ammazzati dalle mani d'una donna.» Il prete aggrottò le sopracciglia. «Non siamo venuti qui per pronunciare simili giudizi», disse lentamente. «Tocca a chi sta lassù giudicare.» «Sembra proprio che credano fossi un suo amico», proseguì il generale. «Non vede come mi osservano? Si guardi un po' intorno. Guardi i loro occhi.» «Ha paura?» domandò il prete. Il generale gli lanciò uno sguardo furioso. Fu sul punto di rispondergli brutalmente, ma sentì cadergli addosso il rullo del tamburo e le parole gli si fermarono sulle labbra. In realtà aveva paura. Quella sera, coi suoi colpi di testa, aveva osato troppo. Ora bisognava che si ritirasse prudentemente. Doveva fare, seduta stante, la distinzione tra sé e il colonnello Z'. Doveva sbarazzarsi del colonnello come avrebbe fatto d'un pezzo di fango rimastogli appiccicato a uno stivale. La situazione, è vero, sembrava ridiventar normale, ma era solo un'apparenza. Sentiva che all'interno di quell'organismo amorfo qualcosa ribolliva. Lo si vedeva dagli sguardi, lo si sentiva dai bisbigli. E poi dietro la porta, accanto agli ampi mantelli e ai pastrani, si allineavano, appesi ai chiodi infissi nel muro, i fucili degli invitati. Il prete gli aveva detto che alle feste nuziali albanesi gli omicidi erano frequenti. Doveva agire adesso, prima che fosse troppo tardi. Se andavano via bruscamente poteva darsi benissimo che un invitato ubriaco sparasse loro alle spalle. I cani inseguono con maggior furia una preda che scappa. Dovevano assicurarsi una ritirata prudente. Il generale volse di nuovo


uno sguardo smarrito su tutta quella gente che si agitava, ballava, rideva intorno a lui, poi fermò gli occhi su quella fila di vecchie che dall'inizio della serata non si erano mai mosse dai loro posti, con i volti silenziosi, leggermente chini, coro eterno in uno 63 scenario eterno: allora, stanco, abbattuto, abbassò il capo e tacque. Di nuovo il tamburo rullò, sordo, e il clarinetto trafisse la festa col suo grido rauco e lacerante. Gli uomini, seduti ai tavoli, avevano intonato un canto, e il generale rivedeva i crepuscoli rotolare dalle cime dei monti; ora ascoltava le voci penetranti delle donne che cantavano a testa bassa: era un canto oppresso, interrotto nel suo soffio dalle voci virili, simile all'ansimare di una donna sotto l'amplesso dell'uomo che ama. «Credo che ora dovremmo proprio andarcene», disse il generale. Il prete assentì col capo. «E' il momento propizio.» «Alziamoci con discrezione.» «Giusto.» «L'importante è di non farci notare troppo.» «Si alzi prima lei. La seguo.» Si avvicinava la mezzanotte. La festa era al suo massimo fervore e nessuno, o quasi nessuno, pensava più alla vecchia Nice, quando la si vide improvvisamente riapparire, proprio nel momento in cui i due stranieri si accingevano ad alzarsi. Forse il generale fu il primo ad accorgersi di quel ritorno. Sentì quella presenza come un vecchio cacciatore fiuta l'avvicinarsi della tigre nella giungla. Vedendo alcuni agitarsi e mettersi a bisbigliare accanto alla porta udì subito gridare nel suo profondo: «Eccola!» e si sentì impallidire. Questa volta la vecchia non piangeva, non se ne udiva più la voce, ma tutti sentivano che era lì, sulla soglia. L'orchestra continuava a suonare ma nessuno ascoltava più la musica. Davanti alla porta si era formato un assembramento. Nessuno riusciva a capire perché la vecchia Nice fosse ritornata. Fosse per il suo aspetto, fosse per le sue suppliche, certo è che si scostarono per lasciarla passare, e lei entrò nella stanza fra le esclamazioni generali. Era inzuppata di pioggia, sporca di fango, pallida, mortalmente pallida, e portava un sacco sulle spalle. Il generale si alzò automaticamente e le si diresse incontro. Capiva che cercava lui. Le mosse incontro come quelle bestie che, fiutando da lontano la presenza del nemico ma ammaliate dalla sua voce, corrono verso di lui invece di fuggirlo. La gente si fece intorno a loro. 65 Tutti erano interdetti. La vecchia Nice si piantò davanti al generale, lo fissò con uno sguardo malfermo, come se guardasse non già lui ma la sua ombra, e con voce rotta, frammezzata da un accesso di tosse, gli disse alcune parole, di cui egli capì solo vdekje. (2) «Traducetemi quello che dice!» gridò il generale, come se invocasse aiuto. Ma nessuno accondiscese al suo desiderio. Lanciò allora uno sguardo intorno a sé e incrociò quello del prete. Questi si avvicinò. «Afferma di aver ucciso uno dei nostri ufficiali superiori e vuol sapere se è lei il generale venuto a raccogliere i resti dei morti dell'ultima guerra», disse il prete. «Sì, signora, sono io», disse il generale con voce chiara. Dovette ricorrere a tutte le sue forze per tenere la testa alta di fronte a quella donna che lo spaventava. La vecchia Nice aggiunse allora alcune parole che il prete non riuscì a tradurre, perché coperte da un rumoroso mormorio, e prima che qualcuno tentasse un gesto per impedirglielo gettò (2) Morte. sul pavimento, ai piedi del generale, fra le urla di terrore delle donne, il sacco che portava sulle spalle. Il prete, adesso, non aveva più nulla da tradurre, ogni traduzione era


superflua, poiché tutto si era chiarito, e nulla ormai poteva essere più eloquente, e più orribile insieme, di quel sacco cosparso di grossi pezzi di fango ancora umido che si era abbattuto con un rumore sordo sul pavimento. Le donne, spaventate, si scostarono bruscamente coprendosi il viso con le mani, mentre le più vecchie si segnavano mandando sospiri d'orrore. «Lo aveva seppellito davanti alla soglia della propria casa!» gridò qualcuno. «Povera Nice!» D'un tratto la vecchia girò le spalle agli astanti e se ne andò com'era venuta, fradicia di pioggia, tutta infangata, e a nessuno venne in mente di trattenerla, perché ciò che doveva accadere era accaduto. Il generale non staccava gli occhi dal pavimento. Si sentiva stordito dal chiasso, dalle grida, dall'orrore della scena. Tutt'a un tratto, senza 67 che potesse capire perché, si fece un profondo silenzio. Forse non vi fu alcun silenzio, ma il generale ne ebbe l'impressione. Ai suoi piedi, e al cospetto di tutti gli invitati, si disegnava quella macchia scura e muta, quel vecchio sacco tutto rappezzato. «Qualcuno deve pur occuparsene!» pensò. Allora, nel silenzio, si chinò lentamente e, con le mani tremanti, afferrò il sacco per il collo, lo sollevò così com'era, coperto di fango, e lo lasciò ricadere. Poi si mise il cappotto e, ripigliato il sacco, se lo issò in spalla con un gesto lento, e uscì curvo, mortificato sotto quel fardello, come se portasse sulle spalle tutta la vergogna, tutto il peso della terra. Capitolo Xxi Il generale camminava avanti, guazzando nelle pozzanghere. Il prete lo seguiva. Risalirono la stradina, sboccarono nella piazza del villaggio, girarono intorno alla chiesa e, nel buio, si smarrirono, improvvisamente. Ritornarono sui loro passi, senza dirsi una parola, sempre con il generale avanti. Passarono davanti al pozzo del villaggio, poi davanti al circolo e lungo la chiesa, ma senza riuscire a trovare la casa nella quale alloggiavano. Due volte si ritrovarono nello stesso punto e se ne accorsero dal campanile del villaggio, che si ergeva cupo sopra le loro teste. Il vento soffiava così forte che pareva, assieme alla pioggia, esser sul punto di mettere in azione le campane. La mano che reggeva il sacco era tutta intorpidita. --------- «Come mi sembri leggera, Betty!» mi diceva una sera nel parco. Camminavamo allacciati, due notti prima del matrimonio. Era una notte d'autunno, tiepida e conturbante. Il pomeriggio era piovuto e i viali del parco erano cosparsi di piccole pozzanghere. Mi portava fra le braccia come una bambina, ripetendomi continuamente: «Ma sei davvero così leggera, Betty, oppure è la mia felicità a darmi questa impressione?» I suoi stivali militari si posavano pesantemente, senz'alcuna precauzione, nelle pozzanghere, facendo volare in mille goccioline l'immagine della luna che vi si rifletteva. «Vorrei tenerti tutta la vita così, 69 fra le mie braccia, Betty. Sì, così.» Procedeva baciandomi fra i capelli e continuando a dirmi: «Come sei leggera, Betty!»--------- «Adesso tocca a te esser leggero. Non c'è al mondo nessuno che sia più leggero di te. Due o tre chili al massimo. Eppure mi spezzi la schiena!» Vagarono ancora a lungo, fecero più volte il giro del villaggio, smarriti, come due ubriachi, cercando di allontanarsi il più possibile dalla chiesa, che riappariva di continuo, nerissima, sopra di loro. E si fermarono solo quando furono sul punto di urtare contro il cofano della loro


macchina, che nelle tenebre si distingueva a stento. Si ricordarono che l'auto era parcheggiata proprio davanti alla casa in cui li avevano alloggiati, e il generale spinse per primo la porta del cortile ed entrò. I battenti schioccarono nel richiudersi dietro di lui. Fece qualche passo, aprì la porta interna e, appena nel vestibolo, mollò il sacco sul pavimento. Alla luce scialba dell'accendino salì rumorosamente le scale, entrò in camera, lasciò cadere a terra l'impermeabile bagnato e si gettò vestito sul letto. Dopo un istante udì la porta aprirsi, poi richiudersi, e il prete gettarsi sull'altro letto. Tentò, ma invano, di dormire. Cercò allora di mettere un po' d'ordine nelle sue idee, ma senza maggior successo. «Devo dormire», pensò. «Dormire. Dormire. Starmene tranquillo come quel camion fuori. Dormire, ad ogni costo.» Chiuse gli occhi strettamente, ma non gli servì a nulla. Quanto più serrava le palpebre tanto più l'oscurità si svigoriva, perché a squarciare la notte sopraggiungevano qua e là macchie e nastri di luce, inframmezzati ora da un lembo di cielo ora dalla distesa azzurra d'una spiaggia lontana. «Mi occorre il buio», pensò. «Per dormire ho bisogno di un'oscurità completa, senza macchie.» Ma i nastri azzurri, bianchi e malvacei e le macchie gialle e rosse non si dileguavano. Rimanevano lì, dinanzi a lui, a pochi centimetri di distanza, in qualsiasi direzione girasse la testa, nel cuore delle tenebre. Si alzò, prese una pastiglia di luminal e tornò a letto. Ma sonnecchia 71 va appena quando si svegliò di soprassalto. Laggiù, al di là della piazza, il tamburo aveva ripreso a rullare. «Quella maledetta festa continua ancora?» si disse. «Ma cosa stanno facendo?» Ficcò la testa sotto le coperte, per non udire. Inutile, tutto inutile. Gli sembrava di vedere una creatura piccolissima, minutissima, simile a un personaggio da fiaba, che accovacciata nel suo cervello suonasse un minuscolo tamburo, di quelli che portano i soldatini di piombo. Aveva un bel tapparsi le orecchie: lo gnomo era sempre lì, seduto alla turca, a picchiare, picchiare costantemente, con ritmo regolare, sul suo tamburo, bum, bum, tarabum, bum, bum. Gli pareva che quel tamburo scandisse la marcia di una colonna di soldati. «E' il mio grande esercito in marcia!» pensò. Si drizzò lesto e disse tra sé: «Basta!» Posò di nuovo la testa sul guanciale ma dopo un minuto tornò ad alzarsi e chiamò il prete: «Padre! Ehi, padre, colonnello, si alzi!» Il prete si svegliò di soprassalto. «Che succede?» «Dobbiamo andar via subito, si alzi!» «Andar via? E dove?» «A Tirana.» «Ma è ancora notte!» «Che importa, partiamo lo stesso.» L'impiantito scricchiolò sotto gli stivali del generale. «Non sente? Non sente il tamburo? Lì tutto continua e ho dei brutti presentimenti.» «Ha paura?» domandò il prete. «Sì», disse il generale. «Ho l'impressione che da un momento all'altro vengano a radunarsi davanti a questa casa e a battere il tamburo come usa fare presso certi popoli per scacciare gli spiriti maligni.» Il generale cominciò a fare la valigia. «Andiamo», disse il prete. Il generale stava chiudendo la valigia. «Un ballo», mormorava. «Volevo fare un ballo con loro e quasi ne veniva fuori una disgrazia. Che paese, santo cielo!» «Non avremmo dovuto andare.» «Un ballo, ma che per poco non si è 73 mutato in danza macabra.» Il prete mugugnò alcune parole incomprensibili e uscirono dalla camera. Gli stivali del generale scricchiolavano con un rumore irregolare sugli scalini di legno. Raggiunse direttamente il cortile e si diresse verso la porta. Poiché il


prete si era un po. indugiato, il generale si voltò e lo vide venire avanti con un fardello sulle spalle. «Il sacco!» pensò. Sboccarono nella strada. Non pioveva più e l'oscurità era meno fitta. «Che ore sono?» domandò il prete. Il generale fece scattare l'accendino. «Le quattro e mezzo.» «Fra poco spunta l'alba.» Da qualche parte i primi galli si misero a cantare. Un vento gelido soffiava dalle montagne circostanti. Un po' più lontano si disegnava l'ombra nera del camion. Si fermarono accanto all'auto e guardarono verso est. Pareva che a oriente qualcuno disponesse col pennello alcuni strati sovrapposti di vernice bianca che assorbivano l'oscurità della notte per sostituirvi via via una tinta grigia, umida e fredda. «Dormono lì», disse il prete indicando con la testa la casa di fronte. «Svegli l'autista, gli dica che non mi sento bene e che dobbiamo partire subito per Tirana.» Il prete spinse la porta del cortile attiguo, che nell'aprirsi fece risuonare un campanello: un cane cominciò ad abbaiare in un cortile vicino, poi un altro gli fece eco e di lì a pochi istanti tutti i cani del villaggio li imitavano. Ma neppure tutto quell'abbaiare impediva al generale di percepire il rullo del tamburo e un rumore lontano. La porta del cortile cigolò di nuovo sui cardini; ne uscì il prete, sempre col sacco sulle spalle. «Non te ne separi, eh!» pensò il generale. «Si sta vestendo», disse il prete. «Viene subito.» «I cani!» disse il generale. «Sì, è così in tutti i villaggi. Quando un cane si mette ad abbaiare, tutti gli altri gli rispondono.» «Abbaino pure», disse il generale. «Poco male. Se potessero immaginare quello che c'è nel nostro camion si metterebbero a ululare a morte e allo 75 ra sì che sarebbe orribile!» «Che maledetto vento!» disse il prete per tutta risposta. I cani tacquero l'uno dopo l'altro. Si udì in lontananza il muggito di una vacca che pareva insonnolita. Di nuovo cigolò la porta del cortile e l'autista apparve nella semioscurità. Si salutarono. Tossendo per avere improvvisamente respirato l'aria fredda della notte, l'autista aprì le portiere e il generale salì in macchina. L'autista sistemò bene il sacco accanto a sé spingendolo col piede, il prete prese posto dietro. I fasci dei fari scivolavano sulle siepi che fiancheggiavano di qua e di là il sentiero, poi si spiegarono davanti a loro sulla strada maestra. Il generale si era subito imbacuccato nel cappotto e, rannicchiatosi in un angolo, aveva chiuso gli occhi. Adesso non udiva più nulla, tranne il ronzio dolce del motore, e aveva un solo desiderio: dormire. Ma non poteva impedirsi di riandare con la mente, e fin nei minimi particolari, a quanto era accaduto alla festa. «Devo dormire», si disse. «Non voglio più rammentare nulla. Non voglio più metter piede laggiù.» Poi, con la memoria, si ritrovava alla festa. Si toglieva l'impermeabile. Si sedeva al tavolo. Il prete sonnecchiava, con la testa china sul petto. D'improvviso destata dai fari, la strada maestra usciva per un istante, insonnolita e pallida, dal caos della notte, per rituffarvisi subito. Sui due lati apparivano, a lunghi intervalli, le pietre miliari, bianchissime. D'un biancore cattivo, che dava i brividi. Al generale fecero l'effetto di pietre tombali. L'autista frenò bruscamente e il prete, colto alla sprovvista, batté la testa contro il sedile anteriore. «Che succede?» domandò, tutto stordito. Il generale, ancora immerso nel suo torpore, guardò fuori. La macchina si era fermata all'ingresso di un ponte. Si udiva il brontolio dell'acqua sotto. «Perché si è fermato?»


domandò il prete. L'autista disse qualcosa a proposito del motore e scese facendo sbattere la portiera. 77 I fari proiettavano i loro fasci paralleli fra le spallette del ponte. L'autista aprì il cofano e si chinò sul motore, poi tornò per prendere un arnese. Scostò il sacco, che lo intralciava, lo tirò fuori e sollevò il sedile. Il generale aprì la portiera dalla sua parte e scese anche lui. Cominciò a girare a grandi passi intorno alla vettura. Il prete non si era mosso. L'autista imprecò fra i denti e tornò per prendere qualcosa. Il generale inciampò per la seconda volta nel sacco. «Questo sacco», pensò d'improvviso. «E' questo sacco che già è stato sul punto di perderci. Fino allora tutto era andato bene, poi, ecco, è venuto fuori questo sacco sinistro e tutto ha cominciato ad andare di traverso.» «E' questo sacco che ci porta scalogna», disse alzando la voce. «Come ha detto?» fece il prete. «Ho detto che questo sacco ci porta sfortuna», ripeté il generale. E così dicendo lo spinse violentemente col piede. Il sacco rotolò verso il basso e andò a schiacciarsi con un gran tonfo nell'acqua che scorreva in fondo. «Cos'ha fatto?» gridò il prete scendendo precipitosamente dalla macchina. «Quel sacco era di malaugurio», disse il generale respirando a fatica. «Finalmente lo avevamo trovato! Lo cercavamo da quasi due anni!» «Sì, ma abbiamo rischiato di pagarlo con le nostre teste», disse il generale stancamente. «Ma si rende conto di quello che ha fatto?» disse vivacemente il prete, e accese la lampadina tascabile. Si avvicinarono tutti e due al ciglio della strada e guardarono verso il fondo, da cui veniva lo sciabordio. Le lampadine gettarono solo un fioco chiarore sull'argine scosceso. «Non si vede niente», disse il generale. Si avvicinò all'autista. Tutti e tre per qualche minuto frugarono con gli occhi il letto del fiume. «L'acqua lo avrà portato via», disse il generale. La sua voce tradiva la stanchezza e il pentimento. Il prete gli lanciò uno sguardo furioso e ritornò per primo verso la macchina. 79 «Che freddo!» disse il generale all'autista. «E questo vento che taglia la faccia!» Raggiunse la vettura dietro al prete. L'auto ripartì. «Adesso deve turbinare nella corrente oscura come in un incubo», pensò il generale. Chiuse gli occhi per non vedere le pietre miliari e cercò di dormire. Capitolo Xxii Trascorsero due giorni. Era l'ultima giornata del loro soggiorno in Albania. Il generale si alzò tardi. Aprì le persiane. Era un mattino cupo. «Fra poco saranno le dieci», pensò. «Devo andare a fare il biglietto all'agenzia delle linee aeree. La messa deve aver luogo alle dieci e un quarto e il banchetto alle quattro e mezzo, se non sbaglio. Mi aspetta una giornata piena.» Sul comodino si ergeva un grosso mucchio di lettere, telegrammi, riviste e giornali ricevuti da casa. Soprattutto molte lettere. Centinaia, di tutte le regioni del suo paese. Contenevano storie d'ogni sorta, episodi di guerra e a volte anche lo schizzo di una collina, di una casa, o la pianta completa di un villaggio disegnata da un ex combattente. Il generale gettò nel cestino le buste e le lettere e uscì. Scese lentamente le scale, percorse il soffice tappeto della hall e, arrivato al bureau, pregò il portiere di chiamargli il maître, che giunse dopo un istante. «L'hanno avvertita che nel pomeriggio avremo un piccolo banchetto?» «Sì, signore. Tutto sarà pronto alle quattro e mezzo nel salone numero 3.»


Il generale domandò se avevano visto il prete. Gli risposero che era uscito. Nella hall e davanti al bureau regnava una grande animazione. Due telefoni squillavano in continuazione e davanti agli ascensori diverse persone attendevano con le valigie ai piedi. Alcuni negri sedevano nelle ampie poltrone; un gruppo di cinesi accompagnato da due ragazze passò nella sala del ristorante; di fronte al centralino due giovani bionde, presumibilmente austriache, aspettavano la comunicazio 81ne con Vienna. Il generale entrò nel salone in cui era solito prendere il caffè, ma non trovò neanche un tavolo libero. Era la prima volta, da quando soggiornava in quell'albergo, che vedeva tanta affluenza di stranieri. Ritornò sui suoi passi con l'intenzione di uscire e nella hall incontrò altri africani che entravano dalla porta principale con le valigie in mano. Fuori, sotto gli alti pini, sostavano numerose macchine. «Cos'è questa animazione?» si chiese mentre scendeva i gradini. Voltò a destra e cominciò a risalire il viale in direzione dei ministeri. Giunto in piazza Scanderbeg, scorse intorno al piccolo parco le bandiere nazionali, che schioccavano al vento. Sugli alti pali, sulle facciate dei ministeri e sulle colonne del Palazzo della Cultura si fissavano lampade e si issavano striscioni con slogan. «Ma sì, dopodomani è la loro festa nazionale, me l'ero quasi dimenticato!» I marciapiedi rigurgitavano di passanti. La folla, come al solito, si radunava davanti ai manifesti dei cinema, allineati di fronte alla grande torre dell'orologio. Vi lanciò appena uno sguardo e dopo due passi, con la mente altrove, aveva già dimenticato i titoli dei film. Guardò l'orologio. Le undici. «Il biglietto lo farò dopo la messa», si disse, e voltò a sinistra. Davanti alla banca, proprio dietro al caffè Studenti, una folla di viaggiatori si accalcava alle fermate degli autobus. Era il capolinea dei mezzi che servivano il complesso dei tessili, gli studi cinematografici, il sobborgo di Laprakë e la periferia della capitale. Lì c'era sempre molta gente, ma quel giorno ce n'era ancora più del solito, e non si poteva fare un passo senza urtare contro qualcuno. La chiesa nella quale doveva celebrarsi il De profundis si trovava una fermata più avanti e il generale decise di fare a piedi il resto del tragitto. Procedeva sul marciapiede centrale ripensando alle ceneri del colonnello. «Ho agito precipitosamente, senza riflettere.» Non ricordava bene i particolari dell'accaduto. Ricordava solo che 83 quella notte era d'umor nero, e come stordito; che si sentiva l'animo oppresso da un gran peso. E adesso, retrospettivamente, il suo gesto gli appariva del tutto insensato. Comunque, doveva pur esserci un rimedio. Ne avrebbe parlato col prete. Di soldati che misuravano un metro e ottantadue, la statura del colonnello, ce n'erano moltissimi. In quanto ai denti, si poteva facilmente porre riparo. E chi avrebbe mai supposto che i resti del colonnello non fossero davvero i suoi? Poi tentò di ricordarsi i soldati della stessa statura del colonnello, ma non vi riuscì. Ogni volta che durante gli scavi aveva udito l'esperto dire a voce alta: «Un metro e ottantadue», non aveva potuto fare a meno di pensare: «Come il colonnello Z'»; ma ora non gliene veniva in mente neanche uno. Si rammentò solo di quell'aviatore inglese che avevano scoperto per caso sotto una carreggiata in una strada di villaggio e che avevano riseppellito dove lo avevano trovato. Gli tornò poi alla memoria il


soldato del diario. Misurava appunto un metro e ottantadue. Pensò a che cosa sarebbe accaduto se si fossero sostituite le sue ceneri a quelle del colonnello. Immaginò l'accoglienza che la famiglia e tutto il parentado del colonnello avrebbero fatto ai resti di quel soldato, il grandioso rito funebre, le esequie solenni, Betty in gramaglie che piangeva e sorreggeva la vecchia madre del morto, la quale non faceva che parlare del figlio. Poi le ceneri del soldato sarebbero state trasportate nel magnifico sepolcro del suo assassino, le campane avrebbero cominciato a suonare, un generale avrebbe pronunciato un discorso, e tutto sarebbe stato un oltraggio alla natura, tutto sarebbe stato solo lordura, inganno e profanazione. E se davvero esistevano i fantasmi e gli spiriti, la notte stessa quel soldato si sarebbe levato dalla tomba. «No!» si disse il generale. «E' meglio trovarne un altro. Ce ne devono essere, non si discute.» Affrettò il passo. Mancavano solo due minuti alla messa. Scorgeva già la chiesa, una bella costruzione moderna che dava quasi direttamente sulla strada. Davanti al piccolo sagrato erano parcheggiate sontuose vetture di marche diver 85 se. «Membri del corpo diplomatico», pensò il generale, e salì rapidamente gli scalini di marmo. Quando entrò nella chiesa la messa era appena cominciata. Immerse il dito nell'acquasantiera che si trovava alla sua destra, si segnò e andò a mettersi da una parte, di fianco. Fissò il prete e lo ascoltò parlare, ma senza riuscire ad afferrarne una sola parola. Vedeva solo gli addobbi neri che pendevano da ogni parte, come sempre in simili circostanze, e, davanti al coro, la bara vuota, avvolta anch'essa in un velo nero. Gli addobbi e gli abiti neri del pubblico assorbivano il debole chiarore dei ceri, e siccome le finestre si aprivano molto in alto e la luce entrava fioca dalle vetrate multicolori, la chiesa sembrava ancora più oscura e fredda di quanto fosse in realtà. Il prete pregava per le anime dei soldati morti. L'insonnia gli aveva fatto più pallido il viso, gli occhi apparivano stanchi e tormentati. I diplomatici ascoltavano attenti, col viso immobile e grave; un leggero profumo, misto all'odore dei ceri, fluttuava nella chiesa. Una donna, davanti al generale, cominciò a piangere in silenzio. «E' la moglie d'un funzionario della nostra legazione», si disse il generale, che l'aveva riconosciuta. La voce del prete giungeva ai quattro angoli della chiesa, squillante, solenne: «: Requiem aeternam dona eis!» La donna raddoppiò i singhiozzi e trasse il fazzoletto dalla borsa. «: Et lux perpetua luceat eis!» proseguì il prete alzando gli occhi verso il Crocifisso. Poi la sua voce risuonò, ancora più profonda, ancora più solenne, in tutti gli angoli della chiesa: « Requiescant in pace!» « Amen!» disse il diacono. Per alcuni secondi il generale credette di percepire il leggero stormire dei ceri. «Riposino in pace!» ripeté, e lo invase un'improvvisa emozione. E quando il prete, davanti agli astanti inginocchiati, alzò prima l'ostia, poi il calice, e cominciò quindi a mangiare il pane e a bere il vino per la salvezza delle anime dei soldati caduti a migliaia, il generale credette a un tratto di vederli, quei sol 87dati, con in mano le gavette d'alluminio far la coda per il rancio serale davanti alla grande marmitta di fagioli, nell'ora in cui gli ultimi raggi del sole facevano scintillare le gavette e l'acciaio degli elmetti di riflessi rossi, eterni. «E li illumini la luce eterna!» ripeté muovendo appena


le labbra dopo essersi inginocchiato, lanciando sul lastricato di marmo uno sguardo triste, smarrito. Al suono della campanella tutti si alzarono. Ancora una volta risuonò la voce del prete: « Ite, missa est!» « Deo gratias!» aggiunse il diacono. La gente si diresse verso l'uscita. Dall'interno si udì il ronzio dei motori messi in moto e quando il generale varcò la porta le vetture dei diplomatici si avviavano l'una dopo l'altra. Andò ad aspettare l'autobus alla fermata che si trovava proprio di fronte alla chiesa. Salì e rimase in piedi in fondo al veicolo, accanto all'ampio cristallo posteriore. «Biglietti, cittadini», diceva la bigliettaia. Comprese la parola «biglietto» e si ricordò che doveva pagare il suo. Mise la mano in tasca e tirò fuori un biglietto da dieci lek. «Non ha moneta?» Più che capire la domanda la intuì e fece di no con la testa. «Trenta centesimi», disse la bigliettaia facendogli segno con le dita. «Non ha trenta centesimi di moneta?» Il generale scosse di nuovo la testa in cenno di diniego. «E' uno straniero, compagna», disse alla bigliettaia un ragazzo alto, con voce pacata. «L'avevo immaginato», disse questa, e cominciò a contare il denaro per dargli il resto. «Dev'essere un albanese tornato dall'America», uscì a dire alla bigliettaia un vecchio seduto. «No, nonno, è uno straniero, ne sono certo», insisté il ragazzo che parlava con voce pacata. «Da' retta a me», insisté il vecchio. «Li riconosco a prima vista, io. E' uno di quelli.» Il generale capì che parlavano di lui e credette che lo prendessero per 89 americano. «Ma sì, mi prendano per quel che vogliono», si disse. L'autobus si fermò davanti alla Banca di Stato e siccome i viaggiatori scendevano il generale incontrò di nuovo lo sguardo del vecchio. « All right!» gli fece questi sorridendo tutto soddisfatto, prima d'allontanarsi. Il generale si aprì un varco fra i contadini che aspettavano l'autobus per Kamzë e Yzberish e sboccò sul grande viale. All'agenzia delle linee aeree non dovette aspettare: fece presto ad acquistare il biglietto, se lo mise in tasca e uscì. In via Dibër c'era folla sui marciapiedi, soprattutto davanti ai negozi di primizie, ai ristoranti mattutini e ai Grandi Magazzini popolari. Passando davanti a uno di questi gli venne in mente di comprare un souvenir. Si fermò a guardare le vetrine, poi entrò. Sulle mensole erano esposti numerosi ninnoli e lui li guardò successivamente, uno per uno, senza fretta. Aveva sempre avuto un debole per quegli oggettini folcloristici. «Chi sa cosa sceglievano i nostri soldati prima di lasciare l'Albania», si chiese. «All'estero comprano sempre tutti, più o meno, la stessa cosa. Anche i loro telegrammi sono identici. E persino, con qualche piccola differenza, le loro lettere.» D'improvviso, nel suo cranio, lo gnomo ricominciò a suonare il tamburo: dapprima con ritmo lento, poi sempre più presto, sempre più presto, sempre più presto. Solo che adesso non era più seduto alla turca: stava in piedi, bianco, nero e luccicante, nella sua giubba rossa orlata di nero, con un berretto in capo. E, contemporaneamente, stava lì, nella vetrina, tutto di porcellana, luccicante, e il generale non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Lo indicò col dito. «Il montanaro col tamburo?» domandò la commessa. Il generale fece un cenno affermativo con la testa. La ragazza prese l'oggetto dalla vetrina, lo avvolse nella carta e glielo porse. «Diciotto lek e venti, prego.» Pagò, uscì e si diresse verso la via delle Barricate. 91 Capitolo Xxiii


Bum, bum, tarabum... «Salve!» Il generale si voltò, sorpreso. «Salve!» rispose. Il generale di divisione era lì, davanti all'albergo, sul marciapiede. Aveva sempre la manica destra del cappotto infilata nell'ampia tasca e con l'unica mano reggeva la pipa. «Come sta?» Il generale di divisione tirò una boccata, poi, togliendosi la pipa dalle labbra, seguì con gli occhi il fumo che aveva aspirato. «Anzitutto, e benché sia trascorso molto tempo, desideravo farle le scuse per quell'incidente dell'anno scorso: ci hanno trasmesso la vostra lagnanza. Ma la prego di credere che io non c'entro affatto e che l'accaduto mi ha veramente addolorato.» Il generale lo guardò con aria assente. «E chi è il colpevole?» domandò. «Il mio aiutante. E' lui la causa di tutto questo pasticcio. Ma se andassimo a sederci in qualche posto? Le racconterò per filo e per segno tutta questa storia.» «Mi dispiace ma ora non ho tempo. Possiamo parlare un momentino in piedi.» «Allora meglio rimandare a stasera. Ma anzitutto mi dica: com'è andato il vostro lavoro?» «Male», rispose il generale. «Le strade erano molto difficili.» «Sì, lo so.» «E, per colmo di sventura, uno dei nostri operai è morto.» «Morto? E di cosa? Avete avuto un incidente stradale?» «No. Un'infezione.» «Di che origine?» «Non è molto chiaro. Forse un osso spezzato, forse una scheggia di metallo.» Il generale di divisione fece un gesto di sorpresa. «Intendete certamente versare un'indennità alla famiglia, vero?» Il generale fece un cenno affermativo col capo, poi, dopo un breve silenzio, disse: «Non ho mai visto tante montagne!» «Gliene restano ancora da vedere!» «No, abbiamo finito: era il nostro ultimo viaggio.» «Avete finito? Beati voi! Io, in 93 vece, ne vedrò ancora.» «Dappertutto montagne e ragazzi e ragazze che vi sistemano campi a terrazze. Li ha visti?» «Certo. Non fanno altro che scavare, scavare.» «Dissodano terre nuove per coltivarvi cereali.» «In un posto ho visto che avevano seminato di qua e di là dal tracciato della linea ferroviaria.» «Seminano dappertutto. E' chiaro che non bastano loro le terre attualmente in coltura.» «Sono sottoposti a un blocco. L'Unione Sovietica non manda più grano.» «Saranno contenti che portiamo via i nostri soldati.» «Si capisce. I terreni dei cimiteri sgombrati vengono seminati immediatamente. Questo si chiama spogliare il suolo del suo elemento eroico.» Il generale si mise a ridere. «E il vostro lavoro come va?» «Malissimo», rispose l'altro. «Da quasi diciotto mesi percorriamo l'Albania in lungo e in largo ma finora senza grandi risultati.» «Degli intoppi, vero?» «Un mucchio», disse il generale di divisione sospirando. «E come se non bastasse, ci è capitata una brutta storia.» «Cosa?» «Una sporca faccenda. Non vede che sono solo? Ma volevo appunto chiederle: dov'è il suo collega, il reverendo padre?» «Su, in camera sua, credo.» L'altro si mise a ridere. «Ho fatto un cattivo pensiero», disse. «Perché il mio sindaco invece deve avere delle noie.» «Che gli è successo?» «E' stato richiamato d'urgenza», disse il generale di divisione. «Da alcune settimane abbiamo sospeso le ricerche per causa sua.» Aspettò che l'altro manifestasse un qualche interesse, ma poiché gli parve che il generale pensasse ad altro ripeté: «Una brutta storia». «Ha sottratto dei fondi destinati alle ricerche?» domandò infine il generale. «Peggio», rispose l'altro. «Quello che è successo è ancora più grave.» Sperò di veder spuntare nel


suo interlocutore una certa curiosità, poi, 95 constatata la vanità di questa speranza, proseguì: «Sì, ancora più grave. Come lei sa, non disponiamo di elenchi precisi. Perciò, a quanto pare, diverse famiglie, e soprattutto famiglie di ufficiali, hanno promesso forti ricompense a quelli che sono incaricati della ricerca delle ceneri. Naturalmente non a me», aggiunse ridendo. «Nessuno avrebbe il coraggio di fare a me una simile proposta. Ma i miei subalterni hanno ricevuto certamente delle offerte.» «Può darsi», disse il generale. «Ma il male non è qui. Perché, in fin dei conti, si ha pur il diritto di ricompensare chi ci fa un favore. Il male è altrove, e forse non sarebbe mai accaduto se invece di spedire i resti dei soldati in contingenti successivi, via via che li ritrovavamo, li avessimo riuniti per poi spedirli in una sola volta, come avete fatto voi.» «Abbiamo infatti raggruppato un intero esercito», disse il generale. «Se non avessimo spedito i nostri in gruppi successivi l'altarino non sarebbe stato scoperto così presto, perché a nessuno sarebbe venuto in mente di verificare se la statura di uno scheletro ricostituito a partire dalle ossa corrispondeva effettivamente alla statura del soldato ucciso.» «E chi se n'è accorto?» L'argomento cominciava a destare nel generale un certo interesse. «A quanto pare, è stata una famiglia a scoprire la sostituzione, e lei sa benissimo che in questi casi basta cominciare: tutto precipita e i sospetti si seguono a non finire.» «In altre parole, i suoi subalterni hanno commesso degli errori nell'identificazione degli scheletri.» «Direi piuttosto che hanno battezzato le ceneri di soldati ignoti coi nomi di quelli che era stato loro particolarmente raccomandato di cercare. Insomma, se questa storia è vera, siamo in presenza di una grossa truffa. I resti sono stati spediti a famiglie alle quali non appartenevano.» «Ed è stato fatto con piena coscienza e sangue freddo?» «Devo credere di sì, dal momento che non ho più notizie del mio sindaco.» «Immaginava il motivo del suo richiamo?» «No, ha ricevuto un telegramma che 97 gli annunciava che la moglie si era di nuovo ammalata. Poi ho ricevuto a mia volta una lettera di un mio amico del ministero.» «Brutta storia», fece il generale. «Si sostiene inoltre che in numerosi crani mancano moltissimi denti d'oro che avrebbero dovuto esserci», aggiunse il generale di divisione. «Ma per ogni tomba aperta non redigevate dei verbali?» «No», rispose l'altro. «E neppure per i denti d'oro o gli anelli di valore che ci capitava di trovare.» «E' veramente increscioso.» «Comincio ad averne abbastanza. Sono completamente solo. Beato lei che parte domani!» Il generale accese una sigaretta. «E' soprattutto quando si fa sera che le ore mi sembrano interminabili. E' ancora più deprimente che correre per monti e per valli e dormire sotto la tenda.» «Che vuol farci!» «Pensare che da un anno e mezzo non facciamo che correre da una montagna a un'altra, da una valle a un'altra, come se fossimo dei geologi; ed ecco che adesso, alla fine, ci capita questa grana.» «Ha detto bene: come dei geologi.» «E pensi un po' che razza di minerale cerchiamo», disse il generale di divisione. «Un elemento creato dalla morte.» Il generale sorrise. «La prego di scusarmi», disse guardando l'orologio. «Ho una giornata molto piena.» «Ho l'impressione che per tutti sia una giornata animatissima.» «Come ogni vigilia di festa.» «E' la loro festa più importante, a quanto pare.» «Sì. La festa della


liberazione: così la chiamano.» «Non voglio trattenerla, generale. Spero che ci vedremo in serata.» «Rimango da queste parti. Tornerò in albergo appena avrò finito.» «Allora a presto.» «A presto.» Il generale gettò la sigaretta e si avviò a prendere l'ascensore ma all'ultimo momento tornò indietro e si diresse verso il collega. «Non si potrebbe fare qualcosa per quegli undici?» gli domandò. Il generale di divisione alzò le spalle. 99 «Sarebbe difficile, molto difficile», disse. «E perché? Avrete certamente gli indirizzi delle famiglie alle quali li avete spediti.» «Facile a dirsi, ma rifletta un po. meglio, pensi al dramma di quelle famiglie se chiedessimo loro di restituire quelle ceneri!» «E' un motivo sufficiente?» «C'è di più», disse il generale di divisione. «Questo non è niente rispetto alle altre complicazioni, quelle d'ordine giuridico. Comunque, ne riparleremo più a lungo stasera.» «D'accordo», fece il generale, e andò a infilarsi nell'ascensore. Capitolo Xxiv Erano le cinque e un quarto quando il ricevimento ebbe termine. Il generale aspettò che gli invitati fossero andati via e, una volta solo con il prete, bevve l'uno dopo l'altro due bicchierini di cognac, poi uscì dalla sala senza salutarlo. «Ed è terminata anche questa formalità», si disse, con sollievo, quando si trovò in strada. «Come atmosfera, era piuttosto tiepidina, ma ad ogni modo è finita!» In nome del suo popolo e di migliaia di madri aveva ringraziato le autorità albanesi di tutte le agevolazioni che avevano loro concesso durante l'intero corso delle ricerche. Il deputato albanese, quello che al loro arrivo li aveva accolti all'aeroporto, gli aveva risposto che non avevano fatto altro che assolvere un dovere umanitario verso un popolo con il quale desideravano vivere in pace. Poi avevano brindato, e sotto il leggero tintinnio cristallino dei bicchieri si sarebbe creduto di udire il rombo lontano del cannone. «Questo suono attutito non lo può sopprimere nessuno», si era detto il generale. «Qui tutti lo sentono, anche se non vogliono ammetterlo.» Procedeva lentamente attraverso la folla che gremiva le strade e da ogni parte gli risuonava all'orecchio quella parlata straniera frammista al brusio della città. In piazza Scanderbeg si svolgeva uno spettacolo musicale all'aperto. Davanti al Palazzo della Cultura era stato eretto un palco, sopra il quale le lampadine multicolori collocate per l'occasione sulle colonne di marmo 101 ammiccavano in continuazione. Si aprì un varco nel dilagante fiume umano e si drizzò sulla punta dei piedi per veder meglio. Dietro di lui, dal balcone dell'edificio del Comitato esecutivo, due riflettori riversavano la luce sulle spalle della folla e si udiva, proveniente da un po' più lontano, il ronzio di un motore. Evidentemente si girava un film. Con la mente altrove, il generale guardava i ballerini che volteggiavano sul palco. «Il rombo veniva di lì», si ripeté, «di sotto ai trasparenti bicchieri di cristallo, e non soltanto il rombo dei cannoni ma anche il crepitio delle mitragliatrici, lo strepito delle baionette e il tintinnio delle gavette al tramonto, durante la distribuzione del rancio. In quel tintinnio di bicchieri, c'era tutto questo, tutti ne erano consapevoli, tutti lo percepivano.» Per un istante gli dolsero gli occhi sotto la violenta luce bianchiccia dei riflettori. Migliaia di teste umane proiettavano adesso le loro ombre


sulla piazza in altrettante macchie scure, che producevano uno strano effetto. Fu colto da un brivido e cominciò a giocar di gomiti per uscire dalla calca. I riflettori si spostavano continuamente facendo oscillare un nastro di luce accecante, ora sopra, ora sotto, ora direttamente sulle teste, che in quel momento si giravano, inquiete, facendo spostare le rispettive ombre. Uscito dalla folla, il generale imboccò, lungo il giardino pubblico, il viale che conduceva al suo albergo. Rivedeva, seduti di fronte, i rappresentanti dei due popoli e dei due Stati, separati solo da alcune bottiglie e da alcune coppe di frutta. «E' solo questo a separarci?» si era chiesto il generale quando avevano brindato per la prima volta. «Solo queste bottiglie variopinte e questa bella frutta fresca colta nei frutteti e nei vigneti del litorale?» Gli erano allora tornati alla memoria quei vigneti e quei frutteti che, immersi lungo i sentieri nella penombra della sera, si stagliavano scialbi al chiaro di luna e dai quali proveniva l'abbaiare lontano e solitario di un cane, mentre, ancora più lontano, si scorgeva lo scintillio d'un fuoco di pastori. «C'è un telegramma per lei», gli 103 disse il portiere dell'albergo porgendogli la chiave della camera. «Grazie.» Notò che in quei giorni, quegli ultimi giorni, gli accadeva molto spesso di dire «Grazie». Sul foglio giallo figurava la piccola scritta Urgente. Lo aprì e lesse: «Abbiamo appreso fine sua nobile missione. Preghiamo informarci relativamente colonnello. Famiglia Z'». Sentì il sangue affluirgli alla testa. Le tempie gli battevano da scoppiare. Fece tuttavia uno sforzo per dominarsi, raggiunse lentamente l'ascensore e vi si ficcò. «Come t'è venuto in testa d'imbarcarti in questa avventura?» si disse guardandosi nello specchio. Si vide pallido, sconvolto, con quelle indelebili rughe sulla fronte, tre rughe profonde, quella di mezzo più lunga delle altre due, che facevano pensare alle righe che le dattilografe battono alla fine di un rapporto. Entrò in camera, accese la luce. Il primo oggetto ad attirargli lo sguardo fu il piccolo montanaro di porcellana che suonava il tamburo sulla pila di lettere e telegrammi ammucchiati sul comodino. Si mise a letto e tentò di addormentarsi. Fuori crepitavano i fuochi d'artificio. Le luci multicolori che penetravano nella stanza attraverso le persiane si proiettavano a spicchi sul soffitto e sulle pareti. Si rivedeva in quello stanzone del quartiere, quando, vent'anni prima, sedeva accanto ad altri ufficiali al lungo tavolo del consiglio di leva. Spesso srotolavano fra le mani alcune radiografie di reclute. Le giravano controluce e si facevano passare sulla testa le costole scure; si udiva poi una sola parola, pronunciata in tono stanco e disincantato: «Abile!» Di solito dicevano «Abile» anche quando fra le costole appariva una macchiolina. Solo quando le ombre erano troppo visibili per poter passare inosservate, solo allora mormoravano: «Riformato». E andavano avanti così per tutta la giornata, e ogni giorno le reclute, con la testa rapata, venivano avviate direttamente verso le caserme e di lì al fronte, dove la guerra era cominciata. I riflessi di luce tagliati a strisce dalle stecche delle persiane continuavano a girargli torno torno nella 105 testa. Chiuse gli occhi per non vedere più nulla. Ma aveva appena abbassato le palpebre quando gli riapparvero, ancora più nitidi, lo squallido stanzone del quartiere e, davanti al lungo tavolo, le reclute sbalordite, completamente nude,


simili a ceri bianchi, bianchissimi. Il generale si alzò. Era l'ora di pranzo. Uscì nel corridoio per cercare il prete. Una cameriera che passava gli disse che era uscito. Ritornò in camera e chiamò al telefono il portiere per domandargli se il generale di divisione era in albergo. Uscito di nuovo nel corridoio, lo incontrò che veniva da lui. «Venivo appunto da lei», disse il generale di divisione. «Il portiere mi ha detto che era in camera.» «Venga, entri, prego», disse il generale tornando sui suoi passi. «Stava uscendo?» «Sì, ma non importa.» «E se scendessimo nel salone?» «Come vuole.» Scesero con passo lento, in silenzio, la scala di marmo. La hall era sempre animata come al mattino e i due telefoni continuavano a squillare. «Arrivano nuove delegazioni», disse il generale di divisione. Trovarono a stento un posto dove sedersi, in un angolo. Dalla finestra accanto a loro, che dava sul viale, potevano vedere i passanti e, nel cielo, i fasci di violenta luce dei razzi aprirsi, poi ricascare, come una neve fitta, multicolore, sulla folla e sugli alberi scuri del parco, per morire dopo un istante e rituffare il tutto in una oscurità che allora sembrava ancora più profonda. Uno dei generali ordinò del raki, l'altro del cognac. Dalla taverna sotterranea giungevano le note dell'orchestra e la scaletta di legno che vi conduceva scricchiolava in continuazione sotto i passi dei clienti che salivano o scendevano. Brindarono e cominciarono a bere. Poi rimasero a lungo in silenzio. Il generale riempì di nuovo i bicchieri. Gli sembrava più facile che intavolare la conversazione. Fuori i razzi crepitavano e i loro riflessi raggiungevano ogni tanto la finestra. «Festeggiano la vittoria!» «Già.» Guardavano il cielo che si illumina 107va come se un casco gigantesco e fiammeggiante scendesse, scintillante di mille luci, per repentinamente impallidire, raffreddarsi e spegnersi nel seno della notte. «Bella missione, la nostra!» «Ancora più spaventosa della guerra», disse il generale di divisione. «Ho fatto la guerra ma questo è ancora più orribile!» Il generale guardò la manica vuota ficcata nella tasca della giubba. «Che hai fatto la guerra si vede!» pensò. «In fondo è la guerra stessa», proseguì il monco. «Questi resti costituiscono la sua essenza, ciò che ne rimane, insomma, come il precipitato di una reazione chimica.» Il generale sorrise amaramente. «Poesia», pensò. Riempì i bicchieri. Si udiva sempre la musica che saliva dalla taverna. «Come certamente saprà, qualche volta i polmoni dei pescatori di perle che si immergono a grandi profondità scoppiano. Ebbene, è così che ci sentiamo scoppiare il cuore sotto il lavoro che facciamo.» «E' vero, è lugubre da scoppiare. Siamo stati vinti dall'ombra delle loro armi. Che cosa sarebbe accaduto se avessimo dovuto combattere effettivamente?» «Se avessimo combattuto? Forse sarebbe stato meglio!» «E' anche il mio parere.» «Quantunque la guerra di montagna sia molto dura», riprese a dire il generale. «Soprattutto in montagne come queste. Ho intrapreso uno studio al riguardo, ma a mezza strada ci ho rinunciato. Qui la guerra sarebbe ancora più aspra di quella che fanno gli americani nella giungla del Vietnam.» Il generale di divisione scosse la testa. «Se avessimo effettivamente combattuto?» proseguì il generale. «Ebbene, a distanza di vent'anni alcuni giovani colleghi sarebbero venuti a cercare le nostre ceneri.» («E tu non te la saresti cavata con la sola perdita d'un braccio!» pensò.) «E forse adesso starebbero bevendo a


questo stesso tavolo parlando di noi!» «Può darsi benissimo», assentì l'altro. «Sa», disse il generale, «un giorno ho detto al prete che mi accompagna che le conversazioni che ho con lui mi 109 ricordano i dialoghi di certe commedie moderne. E a questi dialoghi somigliano anche i nostri discorsi, quelli che stiamo facendo lei e io. Perché ci esprimiamo con frasi così poco naturali, caustiche e almeno intenzionalmente a effetto?» «Perché siamo uomini e abbiamo nervi», disse seccamente il generale di divisione. Il generale lo osservò. «Forse ha ragione», disse. «C'è gente che ama solo i cibi molto appetitosi. Non è forse la stessa cosa?» Il generale si mise a ridere. Sempre la musica che saliva dal sottosuolo, mentre la macchina del caffè si lasciava ogni tanto sfuggire un leggero sibilo di vapore, come una piccola locomotiva. «Si ricorda di quello stadio di cui le ho parlato quella sera?» chiese il generale di divisione. «Lo stadio in cui a quell'epoca stavamo effettuando i nostri scavi?» «Quello in cui vi si rifiutò di iniziare i lavori prima della fine del campionato?» «Esatto.» «Sì, mi ricordo vagamente. Avevate cominciato a scavare sui bordi, se non sbaglio, e lei mi ha descritto la pioggia che scorreva sulle gradinate.» «Sì. Le fosse costellavano con le loro macchie nere i contorni dei campi di calcio e di pallacanestro, e le lunghe gradinate grondavano acqua. Ma non mi riferivo a questo.» «E a che cosa, allora?» «Le ho parlato, mi sembra, di quella ragazza che tutti i pomeriggi veniva lì ad aspettare il fidanzato nelle ore di allenamento.» «Sì, mi ha detto qualche cosa di lei, ma non ricordo bene che cosa.» «Ebbene, ci veniva ogni pomeriggio e quando pioveva si calava sulla testa il cappuccio dell'impermeabile e rimaneva lì, in un angolo dello stadio, sotto i pilastri della tribuna, a seguire con gli occhi le evoluzioni del fidanzato.» «Ah, sì, ora ricordo», disse il generale. «Aveva un impermeabile azzurro, vero?» «Precisamente», disse il generale di divisione. «Portava un grazioso impermeabile azzurro, e i suoi occhi erano d'un azzurro ancora più chiaro, quantunque un po' freddi, ma credo di 111 non averne mai visti di più belli. Ci veniva dunque tutti i giorni, mentre noi continuavamo a scavare, tanto che le fosse avevano finito per circondare il campo da tutte le parti.» «E poi cos'è successo?» domandò il generale, con indifferenza. «Niente, niente di speciale. Sul calar della sera i ragazzi smettevano di allenarsi, uno di loro le gettava un braccio sulle spalle e se ne andavano via così, allacciati. E in quel momento, mi creda, sentivo intorno a me un tale vuoto, avevo il cuore così gonfio, che il mondo mi sembrava deserto e senza senso, come quello stadio oscuro e vuoto. E questo alla mia età, pensi un po'!» «Ah, un bell'amante, non c'è che dire!» pensò il generale. «Sono cose che capitano nella vita», proseguì l'altro. «Quando meno te l'aspetti, un sogno assurdo, insensato, comincia a nascere in noi come un fiore che cresce sull'orlo di un precipizio! Che cosa potevo avere da spartire, io, un generale straniero, e per giunta invalido e sul viale del ritorno, io che in questo paese sono venuto solo per raccogliere i resti dei miei compatrioti, con quella ragazza straniera?» «Niente, certamente. Ma in quanto a pensare a lei, questo sì, le era permesso. A tutti capita di inseguire una chimera, soprattutto quando si tratta di donne. Ecco, per esempio, l'estate scorsa, sulla spiaggia...» «Qualche volta», interruppe il monco,


«attribuivo lo stato di prostrazione in cui ero caduto al fatto che la mia mente era troppo occupata da lei, ma non mi spiegavo la mia tristezza. Più che quella ragazza in sé, era qualche altra cosa a turbarmi, un che di indistinto, di astratto, che mi colpiva indirettamente. Mi capisce?» «Credo di sì. Quello che l'ha colpita in lei, se non sbaglio, è stata la giovinezza, la manifestazione stessa della vita. Da troppo tempo corriamo per monti e per valli per fiutare come iene la morte nella sua tana cercando in mille modi di stanarla. Tanto che quasi dimentichiamo tutto ciò che c'è di bello sulla terra.» «Forse ha ragione. Abbiamo sempre bisogno di afferrarci a qualche cosa, come il naufrago a una tavola! E io mi sono aggrappato all'immagine di quella ragazza.» 113 Il monco accennò un sorriso che gli morì sulle labbra. «Una sera sono andato a una delle loro feste nuziali e mi sono alzato per ballare con loro», disse il generale. Ma l'altro non lo lasciò proseguire. «Ebbene, io», riprese a dire, «nonostante i miei capelli bianchi e il mio braccio amputato, sa che cos'ho fatto quando, un mese dopo, siamo ritornati in quella città? Sono andato da solo allo stadio, un pomeriggio, nell'ora in cui di solito si allenavano i giocatori. Ma lo stadio era chiuso, quel giorno non c'era allenamento. Ho chiesto di entrare lo stesso e il custode mi ha aperto il cancello. Lo stadio era più triste e deserto che mai. Le fosse erano state colmate ma se ne distinguevano ancora le tracce, come ferite cicatrizzate sulla superficie del suolo. Ho fatto il giro e sono arrivato ai pilastri della tribuna, dove quella ragazza si metteva ad aspettare il fidanzato. Mi sono sentito allora invadere da una tristezza così profonda che ho pensato, in quell'istante, che tutta la mia vita sarebbe stata schiacciata da quelle lunghe gradinate umide, curve, da quelle gradinate grigie che giravano, giravano torno torno, all'infinito. Mi ascolta?» «Certo che l'ascolto», disse il generale, mentre pensava: «Poesia!» Urtarono i bicchieri e bevvero. Fuori, da molto tempo i razzi non illuminavano più il cielo, e il grande parco di fronte, che ora si distingueva a stento, si ergeva come un muro cupo nella notte. Erano seduti l'uno di fronte all'altro, in silenzio, quando il portiere portò il secondo telegramma. «Cos'è?» domandò il generale di divisione. «Un telegramma come gli altri.» Il generale riempì i bicchieri. «Mandano telegrammi su telegrammi, credono che con un telegramma si possa accomodar qualcosa.» Il generale di divisione gli mise addosso gli occhi stanchi e fu sul punto di interrogarlo, ma ritenne preferibile accendersi una sigaretta. «Sa che cosa mi ha detto una sera a una festa nuziale una vecchia di questo paese? Che ero venuto qui per vedere come sposavano i loro figli e ri 115 tornare poi un giorno ad ammazzarglieli.» «Parole atroci.» «Parole atroci? Trova che sono parole atroci? E che direbbe, allora, se sapesse quello che è accaduto in seguito?» «Beva, collega», gli disse il generale di divisione. «Alla sua salute! Le auguro un buon viaggio di ritorno. Come la invidio!» «Grazie, collega.» Il generale si sentiva cogliere dall'ubriachezza. «Abbiamo avuto un operaio infettato», disse. «Me l'ha già detto.» «E' morto.» «Sì, lo so», fece l'altro. Il salone si andava a poco a poco vuotando e la scaletta della taverna scricchiolava a intervalli più lunghi, ma la musica continuava a salire. «E che ne è del suo reverendo padre?» domandò a un tratto il generale di divisione.


«Non lo so. Deve aggirarsi da queste parti, intento a rispondere a questi telegrammi.» L'altro lo guardò di nuovo, sorpreso, e stava per domandargli perché, ma ci ripensò e disse: «Sa che cosa mi è successo una volta in un villaggio? Il suolo era duro, sabbioso e salato. Si scavava con grande difficoltà. Quando abbiamo aperto le tombe, abbiamo trovato le spoglie intatte. Uno spettacolo impressionante. Abbiamo dovuto ordinare delle bare grandi, come per dei veri morti.» «Molto curioso», disse il generale. «A me non è mai capitato.» «Ma c'è dell'altro. La voce si sparse in tutta la regione e dopo qualche giorno un contadino compose un canto sull'argomento.» «Un canto?» «Sì, un canto. Ne ho anche trascritto le parole. Le ho su, in camera. Il concetto era più o meno questo: che la terra non assorbe i corpi degli invasori, o che si rifiuta di farlo, o qualcosa del genere. Gli albanesi, a quanto pare, credono che sia effettivamente così, non conoscono bene la chimica.» «Ma la guerra sì che la conoscono bene! Una volta abbiamo udito un canto che al primo momento abbiamo preso per una provocazione», disse il genera 117le. «Invece era un vecchio canto, e per giunta un canto d'amore.» «Ah sì?» fece l'altro in tono indifferente. «Le parole dicevano più o meno così: «O tu, leggiadra Hanko che sei bella come il sole, non passeggiare fra le tombe, perché altrimenti risusciti i morti».» «Ma guarda», disse il generale di divisione. Chiacchierarono a lungo del più e del meno, ma la guerra e i cimiteri erano i temi ricorrenti. «Ciascuno dei nostri pensieri reca una piccola targa di latta a immagine di quelle», pensava il generale. «Una piccola targa con la scritta arrugginita, quasi illeggibile. La targa cigola quando tira vento, e tira vento quasi sempre. Come in quella valle nella quale le targhe e le croci erano tutte curve verso ovest. E quando domandammo perché erano tutte inclinate nella stessa direzione, i contadini ci spiegarono che era per effetto del vento, che soffiava sempre nella stessa direzione.» Il salone era quasi interamente vuoto quando arrivò un altro telegramma. Il generale lo prese dalle mani del portiere e lo aprì senza guardarne la provenienza. Lo appallottolò, come il precedente, senza finire di leggerlo, e lo gettò nel portacenere. «Stasera riceve dei telegrammi molto misteriosi.» Il generale non rispose. L'altro mandò un sospiro. «Temo i telegrammi notturni.» Si udiva ancora la musica che saliva dalla taverna ma le persone che imboccavano la scaletta di legno si facevano sempre più rare. «Che ore sono?» domandò il generale di divisione. «Quasi mezzanotte.» «Volevo chiederle», disse il generale chinandosi all'orecchio del compagno, «se ha mai bevuto con un prete.» «Un prete? No, che ricordi. Tuttavia non ci metterei la mano sul fuoco.» Il generale non poté impedirsi di posare di nuovo lo sguardo sulla manica vuota infilata nella profonda tasca della giubba. «Hai una sola mano e la metti un po' troppo spesso a repentaglio», pensò. «No, che ricordi», ripeté il genera 119le di divisione. Il generale scosse a lungo il capo. «E questa è la vita», disse pensoso. «Un giorno viaggi sotto la pioggia e l'indomani bevi un bicchiere con un prete. Vero?» «Sì, certo.» «Ma è davvero del mio avviso?» «Come può dubitarne?» «Mi perdoni. Le chiedo scusa d'avere insistito.» «Prego.» «Uhm!» Con gli occhi fissi sul portacenere, il generale fece un gesto di stupore. Capitolo Xxv


«E' mezzanotte passata», disse il generale. «Credo che vogliano chiudere il salone.» «Ho anch'io questa impressione.» «E se andassimo in camera mia? Potremmo chiacchierare ancora un poco. Ma lei dimentica la bottiglia!» «Ah, è vero, mi scusi.» «Se non ha niente in contrario, ho pensato che potrebbe esserci ancora utile.» «Sì, certo.» «Stiamo assolvendo la nostra missione e nessuno deve impicciarsi degli affari nostri.» Salirono vacillando le scale dell'albergo, ciascuno con una bottiglia in mano. «Non facciamo rumore», disse il generale. «Gli albanesi vanno a dormire presto.» «Mi dia la chiave, ho l'impressione che le tremino le mani.» «L'importante è non fare rumore.» «Io, invece, ho bisogno del rumore», disse il generale di divisione. «Il silenzio mi spaventa. Questa guerra che stiamo conducendo è silenziosa come un film muto. Preferirei udire il rombo del cannone. Ma parlo come il personaggio d'un dramma, vero?» «Zitto! Qualcuno tossisce.» «Mi dia la chiave. Che guerra muta! Sembra davvero una guerra di morti.» «Prego, entri. Si segga. Sono molto lieto d'averla qui.» «Anch'io sono molto lieto d'essere con lei.» Si sedettero al tavolo, l'uno di fronte all'altro, e si guardarono com 121 mossi. Il generale riempì i bicchieri. «Non siamo altro che due uccelli migratori seduti a un tavolo a bere raki e cognac», disse il generale di divisione, turbato. L'altro scosse il capo. Rimasero a lungo senza parlare. «Abbiamo litigato per il sacco», disse infine il generale aggrottando le sopracciglia. Cominciò a guardare fisso il collega come se cercasse di ricordare qualcosa. Poi, in tono confidenziale, sussurrò: «L'ho mollato nel vuoto». «Ma se mi ha detto che era in camera sua!» «Parlavo del sacco», disse il generale. «Ah, ah, capisco. Già, è chiaro.» «Voleva impedirmi di gettare il sacco in acqua», riprese a dire il generale, «e io invece volevo sbarazzarmi a tutti i costi di quelle ossa.» «Giustissimo. In fin dei conti, che importanza può avere un sacco?» disse il generale di divisione e aspirò una boccata dalla sigaretta. «Sì, ma vada a convincerlo.» «Ed è per questo che l'ha spinto nel vuoto?» «No, non lui, il sacco.» «Ah! Le chiedo scusa.» «C'erano una volta un'automobile e un camion che procedevano sotto la pioggia», pensava il generale. Poi proseguì a voce alta: «C'erano una volta un'automobile e un camion che procedevano sotto la pioggia...» «Cosa sta dicendo?» domandò l'altro. «S'interessa a problemi di traffico?» «No, è l'inizio della seconda fiaba che racconterò alla mia nipotina.» «Ah, fa raccolta di fiabe?» «Certo.» «Me l'immaginavo. Per conto mio, il problema delle fiabe mi ha sempre interessato molto.» «E' un problema importantissimo.» «Molto gentile da parte sua volerlo ammettere.» «Abbiamo parlato abbastanza», disse a un tratto il generale di divisione, in tono tagliente. Il generale lo fissò stupito, ma presto la sua mente navigò altrove. «Conosce la canzone «Volava una volta uno stormo d'oche selvatiche»?» gli domandò. «Una notte ho fatto uno 123 strano sogno. Vedevo un cimitero a forma di V volare nel cielo.» «Divertente.» Il generale tornò a fissarlo. «Fra i miei morti ho quattro preti», disse. «E io nessuno, invece», fece l'altro, con aria dolente. «Non hai nemmeno puttane.» «No, nemmeno puttane.» «Non ti preoccupare, hai ancora tempo per trovarne.» «Può darsi», mormorò il generale di divisione. «Sotto terra si trova di tutto. Dov'è la stanza da bagno?» «Lì, dietro quella porta.» Il generale


rimase a lungo solo, seduto al tavolo. Infine l'altro ritornò. «Una volta, in una valle, abbiamo trovato, mescolate ai resti dei nostri soldati, alcune ossa di mulo», disse. Il generale di divisione strascicava le parole con difficoltà, e l'ubriachezza lo aveva reso pallido. «Generali incapaci! Sono venuto a raccogliere gli avanzi delle vostre sconfitte!» disse il generale. «Non bisogna offenderli. Il loro compito non è stato facile.» «Il nostro lo è stato ancora meno», replicò il generale, e aggiunse: «Verbale d'inumazione numero 104, tipo B». Rimasero un momento in silenzio. «Se avesse visto il suo sguardo», riprese a dire il generale. «Di chi?» «Dell'autista albanese.» «E perché la guardava, se non sono indiscreto?» «Chi? L'autista?» «E chi altro?» «Non so. Certo è che ci guardava con un'aria strana mentre litigavamo.» «Le ossa dei muli sono molto diverse da quelle degli uomini. Tutti le riconoscerebbero a prima vista.» «S'intende. Credo che lo scheletro umano si componga di cinquecentosette ossa.» «Non è vero, collega», disse il generale di divisione, che si era incupito. «Non sempre è vero. Io, per esempio, ne ho meno.» «Non è possibile.» «Eppure è così», insisté l'altro con voce roca. «Ho alcune ossa di meno. Sono un invalido.» «Su, su», lo consolò il generale. «Non si tormenti così.» 125 «Sono un invalido», ripeté l'altro. «Vedo che lei non mi crede, ma adesso glielo provo subito.» Fece uno sforzo per togliersi la giubba con l'unica mano ma il generale lo prese per le spalle. «Inutile, collega, inutile! Le credo perfettamente. Le chiedo scusa, mille volte scusa. E' veramente imperdonabile da parte mia.» «Devo dimostrarlo, a lei e a tutti quelli che non ci credono. Glielo dimostro immediatamente.» «Zitto», fece il generale. «Mi sembra che abbiano bussato.» Tacquero. Udirono bussare. «Chi può essere, a quest'ora?» «Io, quando sento bussare alla porta in piena notte, ho paura», disse il generale di divisione. «Così bussarono alla mia porta la notte in cui partii d'urgenza per il fronte. Tac, tac, tac! Poi, quando ritornai, feci fatica ad aprire la porta. Era la prima volta che lo facevo con una sola mano», aggiunse in tono confidenziale. Il generale andò ad aprire vacillando. Era il portiere. «Chiedo scusa di disturbare a quest'ora, ma c'è un altro telegramma per lei.» «Bene. La ringrazio.» Il generale aprì il telegramma mentre ritornava in mezzo alla stanza. «Stasera mi sembra molto misterioso», disse il generale di divisione. «Tutti questi telegrammi notturni non sono buon segno.» «Sono ancora loro», disse il generale. «Sembrano molto allarmati.» E pensò: «In questo momento squillano i telefoni bianchi. Pronto, pronto, pronto! Si chiamano, poi si precipitano in strada come degli ossessi, per correre gli uni dagli altri». Tentava vagamente di immaginarseli, riuniti in casa del colonnello, intenti ad avvertire gli amici al circolo, la vecchia che appariva in cima alle scale con le mani in croce, Betty spaventata che si buttava dal letto, e loro tutti che mormoravano: «Miserabile, non l'ha ancora trovato, miserabile!» «Non sono un miserabile, Betty!» le rispose mentalmente, poi ad alta voce disse: «Passeranno una notte in bianco». «Ma cosa vogliono?» domandò il generale di divisione. 127 «Il sacco.» «Le consiglio di restituirlo e di farla finita con questa storia. Stia attento!» «Col cavolo!» disse tra sé il generale. Appallottolò il telegramma e lo gettò a terra. «Sa», disse, «temo che il prete sia una spia.» «Può darsi benissimo. Ma non ci metterei la mano


sul fuoco.» Rimasero piuttosto a lungo in silenzio. Dietro le persiane si distingueva un chiarore incerto, biancastro. «E' l'alba», disse il generale. Si udiva il leggero rumore della pioggia che batteva sul balcone. «I telegrammi mi fanno paura», disse il generale di divisione con aria smarrita. «Contengono sempre qualcosa di brutto, di segreto, mentre mancano di altre cose. Mi ricordo che una volta, al fronte, un ufficiale di stato maggiore ricevette un telegramma d'un amico che era morto da tempo.» «Ma quello che mi racconta è lugubre, collega!» «Sst!» disse il monco. «Sente?» «Cosa?» «Ascolti. Non sente nulla?» Il generale tese l'orecchio. «E' la pioggia», disse. «No, non è la pioggia.» Si udiva, lontano, molto lontano, un rumore cadenzato e confuso. Poi suoni di voce, brevi, taglienti e, di nuovo, il rumore della pioggia. «Cos'è?» «Andiamo sul balcone», disse il generale, e si alzò. Appena ebbero aperto la portafinestra l'aria fredda e umida della notte tagliò loro la faccia, e il rumore lontano e ritmato divenne ancora più netto. Adesso erano passati tutti e due sul balcone. Cadeva una pioggia sottile e molle. Anche il viale aveva un aspetto livido sotto le fredde luci al neon, e il parco prospiciente l'albergo appariva come una massa nera e inquietante. «Da quella parte», mormorò il generale di divisione, livido in volto. «Guardi!» Il generale girò la testa e trasalì. In fondo al viale, dal lato dell'Università, si disegnavano grossi quadrati scuri che muovevano verso di loro. 129 Il rumore sordo dei passi si udiva ora più nettamente, e gli ordini, brevi, taglienti, risuonavano glaciali nell'oscurità della notte. I due generali stavano lì, appoggiati alla balaustra, con gli occhi puntati in quella direzione. Poiché le macchie si avvicinavano al ponte, distinsero i riflessi freddi degli elmetti e delle baionette umide, le lunghe colonne di soldati, gli ufficiali con la sciabola sguainata e gli spazi vuoti tra le compagnie e i battaglioni. Il suolo tremava sotto i pesanti stivali e i brevi ordini urlati risuonavano come uno strepito di baionette. Le formazioni continuavano ad avvicinarsi: ora tutto il viale brulicava di soldati e le luci dei lampioni allineati sui due lati della carreggiata si riflettevano all'infinito sugli elmetti luccicanti. «Un esercito», disse il generale di divisione. «Che succede?» «E' il loro esercito. Questa dev'essere la prova generale della rivista di domani.» «Per la festa?» «S'intende.» Si udì in lontananza un rombo soffocato di motori. «I carri armati», disse il generale. I carri armati apparvero di là dal ponte, massicci e neri, coi tubi dei cannoni puntati nella notte. Il viale, adesso, non era altro che truppe, metallo, passi ritmati, rombi di motori e ordini secchi, e tutto questo, come un solo corpo, si dirigeva verso piazza Scanderbeg. Quando l'ultima formazione fu scomparsa dietro i ministeri, e il viale, di nuovo vuoto, rimase silenzioso e pallido sotto i fanali come dopo una notte insonne, tornarono dentro. «E' tutt'un esercito.» «Sì, un intero esercito.» «Ho freddo.» «Siamo tutti bagnati.» «Beva, generale, se no prende freddo.» La pioggia li aveva resi più lucidi. «Li ha visti sfilare?» «Ma certo!» «Mi ricordano il mio esercito personale e mi chiedo come sfilerebbero i miei soldati, vestiti dei loro sacchi azzurri bordati di nero.» «Per me sarebbe ancora più diffici 131 le», disse il monco. «Ai miei ordini non ho che una moltitudine disordinata e disparata. Si riconoscono a stento.» «Sta facendo giorno», disse il generale. Un altro silenzio. «Mi sembra d'aver


sentito un rumore.» «Qualcuno cammina nel corridoio.» Per un istante tesero l'orecchio. Il rumore di passi non si udiva più. «Sa perché ho litigato col prete?» «No», rispose il generale di divisione. «Per uno scheletro. Ci manca uno scheletro d'un metro e ottantadue.» «Magnifico!» fece l'altro. E si alzò di scatto con una luce negli occhi. «Un metro e ottantadue? Vuole che gliene venda uno alto così?» «No», rispose il generale. «E perché? Ne ho una quantità. Gliene offro uno, da amico, per soli cento dollari.» «No!» «Ma ne ho un mucchio di quella statura! Ne ho anche d'un metro e novantadue, se vuole. E anche di due metri. E persino di due metri e quindici! I nostri soldati erano più alti dei vostri. Ne vuole?» «No», disse il generale. «Non ne voglio.» Il generale di divisione alzò le spalle. «Affar suo. Volevo aiutarla.» Il generale si alzò e si diresse a fatica verso la valigia. L'aprì e la vuotò sul pavimento. Gli elenchi, le carte topografiche, i verbali e i fogli fitti di note caddero alla rinfusa tra le cartelle e le camicette. Prese un fascio di elenchi e uscì vacillando. «Che gli prende?» si domandò il generale di divisione. Dopo aver fatto qualche passo nel corridoio deserto il generale si fermò davanti a una porta. «E' questa la camera del prete», si disse. «Padre!» chiamò a bassa voce, piegandosi in due per guardare dal buco della serratura. «Padre, mi sente? Sono io! Sono venuto per far la pace. Non valeva la pena di litigare per il colonnello. Perché bisticciare per un sacco? E' una faccenda che possiamo benissimo sistemare, reverendo padre. Ricostituiremo il suo colonnel 133lo. E' d'accordo? E' interesse di tutti e due, padre. Lei vuole poter dire: «Come mi sembri leggera, Betty»? Ebbene lo dica! Affari suoi. Le occorre lo scheletro? Ne ho uno! Ho portato gli elenchi, padre. Mi sente? Eccoli! Di soldati d'un metro e ottantadue ce n'è quanti ne vuole. Si alzi, ne sceglieremo uno. Ce n'è uno della seconda compagnia di mitraglieri, un altro nei carristi e poi ancora un altro. Si alzi, esamineremo attentamente gli elenchi. Solo che a quello lì gli mancano due incisivi. Non importa, potremmo farglieli rimettere dal dentista. Ne ho scoperto altri due o tre. Mi ascolta? E tutti d'un metro e ottantadue. Davvero, padre, non le sto mentendo. Un metro e ottantadue, un metro e ottantadue... A pensarci bene, credo di misurare anch'io un metro e ottantadue.» Il generale mugugnò ancora a lungo davanti alla porta, piegato in due per guardare dal buco della serratura. D'un tratto la porta si aprì e dinanzi a lui apparve una donna corpulenta e furiosa. Che gli fece sprezzante: «Non si vergogna, alla sua età?...» Il generale sbarrò gli occhi. La porta si richiuse sbattendogli in faccia. Rimase lì in piedi, per un pezzo; poi si chinò, raccolse a fatica gli elenchi che nel frattempo gli erano sfuggiti di mano e ritornò in camera sua. All'alba, quando il fattorino portò l'ultimo telegramma, stavano ancora bevendo. Il generale aprì il telegramma ma non riuscì a decifrarne neanche una lettera. Per un momento lo tenne in mano, sbarrando gli occhi, corrugando la fronte, senza capirci nulla. La striscia del telegramma gli appariva come un nastro di nebbia tagliato da una fetta di cielo bianco. Lo gualcì, si avvicinò vacillando alla finestra e l'aprì. «Non identificato!» gridò, e gettò fuori il foglio spiegazzato. Il telegramma cadde volteggiando nella penombra fredda dell'alba. Penultimo capitolo


Al mattino, di buon'ora, una delle cameriere di notte del quarto piano scese dal portiere. «Ho trovato questi fogli», disse, porgendogli alcune cartelle dattiloscritte. «Deve averli smarriti un 135 cliente.» «Dove li hai trovati?» «Nel corridoio. Una parte davanti al 429, gli altri davanti al 403.» Il portiere fece un gesto di stupore. Poi corrugò la fronte in un'espressione di dubbio. «Bene, lasciali qui. Chi li ha perduti verrà a reclamarli.» Erano elenchi di nomi battuti a macchina e di cui alcune decine erano contrassegnate da crocette tracciate con la matita rossa o blu, mentre i margini erano fitti di note scritte con mano nervosa. Ultimo capitolo Una pioggia mista a neve cadeva sulla terra straniera. I pesanti fiocchi gonfi d'acqua si scioglievano non appena si posavano sul calcestruzzo dello spiazzo, dinanzi alle installazioni dell'aeroporto. Sulla terra nuda la neve resisteva un po' più a lungo, senza tuttavia riuscire a formare uno strato bianco, perché la pioggia la distruggeva quasi subito dopo che entrambe avevano toccato il suolo. Il generale, in alta uniforme, guardava i fiocchi che si posavano sul cemento umido e in un istante si saturavano d'acqua, per poi sciogliersi e sparire, mentre altri continuavano senza fine a cadere dal cielo. «Fa freddo», disse il deputato albanese che era venuto a salutarli. «Sì, molto freddo», disse il prete. «Siamo venuti e ripartiamo nella cattiva stagione.» Il generale guardava il grosso aereo che si avvicinava. Una voce femminile proveniente dall'altoparlante pregava i passeggeri in ritardo di affrettarsi, e gli addetti all'aeroporto spingevano la scaletta verso il punto in cui doveva fermarsi l'apparecchio. Il vento soffiava senza requie. Tirana, 1962-1966 Fine.


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