DELITTO DI PRESTIGIO.

Calogero Giuffrida

DELITTO DI PRESTIGIO La storia di Giuseppe Spagnolo Dirigente politico ucciso dalla mafia

Prefazione di Francesco Renda

Istituto Gramsci Siciliano - onlus

2

Calogero Giuffrida

DELITTO DI PRESTIGIO La storia di Giuseppe Spagnolo Dirigente politico ucciso dalla mafia

Prefazione di Francesco Renda

Istituto Gramsci Siciliano - onlus

© Istituto Gramsci Siciliano-onlus Cantieri culturali alla Zisa Via Paolo Gili, 4 - 90138 Palermo www.neomedia.it/personal/igramsic igramsic@neomedia.it

Immagini di copertina: Opera pittorica Gaetano Porcasi Titolo: Omaggio a Giuseppe Spagnolo Dimensioni: 120 x 100 Tecnica: olio su tela Opera pittorica Gaetano Porcasi Titolo: Giuseppe Spagnolo Dimensioni: 120 x 100 Tecnica: olio su tela Studio d’arte Partinico (PA) - Via Merelli, 44 Impaginazione grafica: Michele Lentini

Questa pubblicazione è realizzata in collaborazione con il comune di Cattolica Eraclea

Ai familiari di Giuseppe Spagnolo, di Paolo Bongiorno, di Giuseppe Scalia e ai familiari di tutte le vittime del terrorismo mafioso

5

PREFAZIONE di Francesco Renda Questa dovrebbe essere una prefazione al lavoro di Calogero Giuffrida, ma la biografia di Giuseppe Spagnolo per l’aspetto politico è parte della mia biografia politica. Per tanti anni abbiamo lavorato assieme e potrei aggiungere che assieme siamo diventati comunisti o forse sarebbe più esatto dire che sono diventato comunista per sua sollecitazione. Credo perciò di dovere raccontare come e quando ci siamo conosciuti e come l'amicizia che ci ha uniti abbia avuto sempre come legame infrangibile il senso e il dovere della politica.

La prima volta che ci incontrammo fu nel dicembre 1943. Lui aveva 43 anni, io 21. Rappresentavamo due generazioni diverse, e avevamo vissuto due esperienze diverse. Spagnolo non aveva prestato il servizio militare di leva e, per la sua età, scoppiata la guerra, non era stato richiamato alle armi ed era rimasto a casa. Io per servizio di leva ero stato chiamato alle armi nel novembre 1942, avevo prestato servizio militare prima a Bari alla scuola allievi ufficiali dell’aeronautica, poi ricoverato in ospedale e riconosciuto solo idoneo ai servizi sedentari ero stato dimesso dalla scuola e inviato con la qualifica d’aviere scelto all'aeroporto di Grottaglie. Dopo l’otto settembre, l’aeroporto fu occupato dagli alleati e da Grottaglie fui trasferito a Molfetta. Dalla Puglia, pertanto, avevo vissuto le vicende dello sbarco alleato in Sicilia, poi della guerra combattuta nell'isola per quasi tutto il mese di agosto, infine della Sicilia divenuta territorio nemico occupato e sottoposta al governo militare alleato, generalmente indicato con la sigla Amgot (Allied Military Gouvernment of Occupied Territory). Da quel momento non ebbi più rapporti con la famiglia e nemmeno potei più avere notizie delle cose di Sicilia. Nelle medesime condizioni si trovò la mia famiglia che di me non seppe più niente. Questa situazione durò per tutto il semestre luglio-dicembre. Poi, alla fine dell'anno, ottenni una licenza militare per motivi di famiglia con durata plurimensile, e dopo avere percorso il viaggio da Bari a Cattolica con pesanti disagi, giunto in famiglia inaspettato e all'improvviso fui accolto come un redivivo.

Secondo la tradizione, venne a felicitarsi un’infinità di gente. Venne pure un gruppo di contadini, alcuni dei quali già conoscevo, e scambiati i consueti saluti passarono al motivo della loro visita, ossia a quel che a me I

proponevano che facessi.

Portavoce del gruppo era un contadino che non conoscevo, di condizione burgisi. Introdusse il suo discorso col dire che la guerra sarebbe finita con la vittoria della Russia sovietica e che pertanto il comunismo avrebbe avuto in Italia un grande sviluppo come primaria forza politica nazionale. In previsione che questo avvenisse, credeva necessario che anche Cattolica prendesse parte a tale sviluppo e che perciò anche a Cattolica si costituisse un partito comunista che desse ai contadini la possibilità di far valere i loro interessi materiali e politici.

Per ottenere ciò, i contadini sentivano il bisogno di avere come loro guida una persona capace cui dare fiducia incondizionata. A conclusione del suo discorso aggiunse: "Tu sei figlio di contadini, sei un intellettuale che conosce per esperienza familiare le esigenze contadine, sei quindi uno dei nostri. Ti chiediamo perciò di schierarti con noi e divenire il nostro dirigente".

A parlare in quel modo era Giuseppe Spagnolo. Io lo ascoltai con attenzione, ma la richiesta mi colse di sorpresa e del resto i miei pensieri correvano altrove; perciò dichiarai subito che non potevo accettare. Non sapevo nulla di politica e non volevo occuparmi di politica. Il mio proposito era di continuare gli studi universitari, prendere la laurea e dedicarmi all'insegnamento. Aggiunsi che non sapevo cosa fosse il comunismo, e per la verità non lo sapevano né Spagnolo né gli altri che lo accompagnavano. Quel che sapevano o che dicevano di sapere era che, finita la guerra, i contadini avrebbero dovuto avere la loro parte nella ripresa della vita politica italiana.

Giuseppe Spagnolo, che era il più politicizzato, di questa partecipazione contadina alla ripresa della vita politica nazionale aveva la certezza come di un articolo di fede, e sotto questo profilo mostrava di saperne più di me sia perché, come seppi dopo, era stato al confino e aveva conosciuto vari confinati politici, sia perché teneva presenti gli eventi sociali e politici del dopoguerra 1919-21.

Spagnolo e i suoi compagni di quegli eventi avevano memoria.

Giovani ventenni avevano preso parte alla lotta contadina per la terra, allora diretta da Enrico La Loggia senior, deputato e sottosegretario alle finanze nei due ministeri Facta, ma soprattutto fondatore e presidente della Federazione regionale delle cooperative con sede centrale in Agrigento. Le cooperative e le casse rurali aderenti alla lega erano numerose e sparse in provincia d’Agrigento, di Caltanissetta, Palermo e Trapani. La Cassa rurale di Cattolica era personalmente diretta dal fratello di La Loggia, notaio residente in paese, e centinaia di contadini, tramite la Cassa rurale, erano divenuti proprietari di un lotto di terra da coltivare in proprio.

II

La Loggia, a Cattolica, era quindi un mito, ma non aveva più l’antico consenso politico. I tempi erano cambiati e non era più possibile rifare la politica del periodo liberale prefascista.

In tale stato di cose, l'assenza di Enrico La Loggia creava un vuoto politico che dava spazio al diffondersi di orientamenti radicali di sinistra.

Tanto più che sul momento non c'era alcuna forza politica scesa in campo. A dare segno di vita era solo la presenza non organizzata della sinistra. I contadini miei interlocutori da questa situazione volevano trarre vantaggio a sostegno della loro scelta comunista. A Cattolica non vi era mai stato un comunismo, e del comunismo si sapeva qualcosa dalla vicina Raffadali, proprio uno dei miei interlocutori era di Raffadali ma una sola rondine, come suole dirsi, non faceva primavera.

Il comunismo dai contadini miei conterranei era voluto non per convinzione ideologica, bensì per la ragione che, a loro giudizio, era il solo che avrebbe sostenuto con efficacia la causa contadina.

Allora non sapevo nulla di comunismo; poi, pensandoci meglio, compresi che il comunismo contadino auspicato dai miei conterranei non era il comunismo di Carlo Marx. Molti non sapevano nemmeno chi fosse Carlo Marx o che un Carlo Marx fosse mai esistito. A mia volta, di Carlo Marx sapevo quel che n’avevo letto nel manuale di storia della filosofia. Da una parte e dall’altra non pensavamo che il comunismo marxiano privilegiasse soprattutto gli operai della industria. Quella connotazione genetica del comunismo di Marx era dai contadini ignorata né potevo dire di averne notizia più di loro. In ogni caso il comunismo dei miei interlocutori era la conquista della terra: e, con la terra, la conquista della libertà, di più accettabili condizioni di vita e di maggiore dignità sociale e politica. Quattro o cinque baroni latifondisti in paese esercitavano un potere tale da togliere il fiato. Né era solo un potere economico; era anche e soprattutto un potere morale, che creava un abisso nei rapporti personali. Persino nel saluto, la differenza era ancora mortificante.

Un secolo avanti Garibaldi aveva abolito il baciamano, ma in paese si continuava sempre a dare, e sempre si pretendeva il saluto del baciamano, che non era il baciamano praticato per galanteria con le donne, e nemmeno il baciamano dato dai fedeli ai loro ecclesiastici superiori. Il baciamano preteso dai signori di Cattolica era e voleva essere solo segno d’asservimento e di sottomissione. In dialetto recitava “Vasu li mani a Voscenza” oppure “Voscenza mi benidica”. Conseguire l'abolizione di quel saluto non era comunismo e nemmeno socialismo; nondimeno, per ottenerne l'abolizione, come dimostrava la persistente inosservanza del divieto garibaldino, occorIII

reva farne conquista di libertà, pensare e agire da comunisti. Il comunismo non era quindi il “sol dell'avvenire”, come recitava l'inno dei lavoratori, e meno ancora era il fine preconizzato nel Manifesto del Partito comunista, scritto e pubblicato da Marx e da Engels nel 1848.

Il comunismo per i contadini, che mi volevano come loro dirigente, non era una conquista millennaristica da realizzare chi sa quando nello scorrere del tempo: era il possesso dell'arma politica e della forza organizzata, in breve del partito politico, che consentisse loro di conquistare la terra, di contare come gruppo sociale, di avere più libertà, di salutare buon giorno e buona sera. Insieme con la falce e il martello, nella rossa bandiera volevano fosse riportata la frase “terra e libertà” oppure, come avrebbe detto alcuni mesi dopo lo stesso Palmiro Togliatti, capo dei comunisti italiani, "sete di libertà e fame di terra".

I contadini di Cattolica, come i contadini del secondo dopoguerra italiano, anche senza averne consapevolezza, volevano ottenere quel che non era stato ottenuto dai Fasci dei lavoratori siciliani del 1893. Allora, la direzione nazionale del partito socialista credette che la parola d’ordine «terra ai contadini» non fosse una richiesta proletaria. I Fasci dei lavoratori senza il sostegno nazionale del partito socialista furono poi repressi nel sangue con lo stato d'assedio deciso da Francesco Crispi e la fame di terra dei contadini non fu appagata. La fame di terra non fu appagata neanche in seguito, quando il socialismo del latifondo, ossia il socialismo dei contadini viventi nel latifondo con a capo Bernardino Verro di Corleone e Lorenzo Panepinto di Santo Stefano di Quisquina fu lasciato solo sempre per la considerazione che la richiesta della terra ai contadini non fosse una rivendicazione socialista. Il socialismo rurale generalmente riconosciuto era quello dei braccianti agricoli dell’Emilia e della Valle Padana. Il socialismo rurale del Mezzogiorno e delle Isole non era considerato invece parte organica del socialismo rurale italiano.

La scelta comunista traeva origine da quella storica incomprensione.

Il comunismo contadino meridionale, di cui quello di Cattolica era una modesta parte, era espressione appunto di quel mai soddisfatto diritto dei contadini alla terra.

Allora non ero in condizione di fare la distinzione tra comunismo come fine e comunismo come mezzo, e ovviamente non lo erano i contadini miei interlocutori. Il comunismo per me e per loro era mezzo e fine nello stesso tempo, qualcosa di fascinoso, che veniva da lontano. Nel dizionario la parola comunismo chiamava in causa molti personaggi famosi. Se ne poteva fare un lungo elenco, a cominciare dall'ateniese Platone per giungere a Carlo IV

Marx.

Ma i contadini non leggevano il dizionario e forse nemmeno sapevano che esistesse il dizionario. Non c’è offesa nelle mie parole. Giuseppe Di Vittorio, bracciante pugliese, che da giovane lavorava la terra dei padroni col salario a giornata, e che poi divenne segretario generale della CGIL e presidente della Federazione mondiale dei lavoratori, scoperse il dizionario quando aveva 14 anni, e il poter leggere le voci una dopo l'altra in ordine alfabetico fu per lui la scoperta dell'America. La ventura di Di Vittorio era però eccezionale. A Cattolica, non c’era nessun Di Vittorio, e l’analfabetismo era presso che generale fra i contadini. Solo i più giovani e i più fortunati avevano avuto la possibilità di frequentare le scuole elementari. Giuseppe Spagnolo, tuttavia, sebbene quarantenne, a differenza degli altri, non era analfabeta, sapeva leggere e scrivere, e ciò che lo distingueva era la sua cultura politica superiore alla media.

In siffatte condizioni, più che il mito letterario del comunismo, quel che contava e prevaleva era il mito della Russia sovietica, l'avanzata travolgente dell'armata rossa, il comandante supremo che si chiamava Stalin. Chi fosse e cosa fosse Stalin non era dato sapere e a nessuno importava sapere.

Era un nome, e non più che un nome, ma un nome avvolto nell’apoteosi della vittoriosa battaglia di Stalingrado. Era quello che maggiormente aveva importanza. Non si supponeva allora che i contadini sovietici non lavorassero più la propria terra, e che soggetti a prestare la loro opera nei campi dei colcos senza compenso adeguato, avendo la sola concessione di lavorare in proprio il pezzetto di terra attorno alla loro casa d’abitazione con diritto di vendere liberamente al mercato popolare della vicina città. Meno ancora sapevano che molte regioni sovietiche erano state decontadinizzate col malaugurato supposto che i contadini kulak, ossia i contadini non proletari, non avevano diritto di esistere in un paese socialista.

Per la verità, sconoscevo anche io la sorte drammatica del contadino sovietico. L’ignoranza, tuttavia, non creava problemi. I contadini miei conterranei non manifestavano propositi eversivi. Non pensavano di fare la rivoluzione. Meno che mai aspiravano a divenire colcosiani dell'agricoltura isolana. Quando l'anno appresso Eduardo D'Onofrio, su mio invito, tenne a Cattolica una conferenza su come si viveva in Unione Sovietica, furono più i dissensi che i consensi. D'Onofrio ne trasse la convinzione che Cattolica era un paese arretrato. Il giudizio in parte era vero. Però era anche vero che quanto da lui detto riguardo al come si lavorava e si viveva in Unione Sovietica non era stato condiviso.

Il comunismo voluto a Cattolica non era e non voleva essere un comuV

nismo sovietico. I contadini progettavano la fondazione locale di un partito comunista, col proposito di riprendere e portare avanti il movimento di conquista della terra che si era sviluppato nel 1920 e che il fascismo aveva fermato. Il loro comunismo era solo riformismo agrario, riformismo radicale senza dubbio, però solo e non altro che riformismo. Erano comunisti che volevano terra e libertà e in tanti non disdegnavano di diventare contadini kulak, ossia liberi proprietari di terra che insieme alla terra avessero anche libertà e benessere.

Mi soffermo su quanto volevano i contadini che m’invitavano ad accettare che fossi il loro dirigente, perché poi quel loro bisogno e quel loro proposito divennero l’anima della travolgente mobilitazione contadina per la conquista della terra. Il partito comunista aveva riconosciuto la fame di terra dei contadini e aveva accettato che i contadini si battessero perché si desse loro la terra cui avevano diritto. Sulla rossa bandiera comunista sovrastava pertanto la falce e il martello, ma anche la rivendicazione contadina “terra e libertà”, e nella Sicilia degli anni ’45-55 dietro quella bandiera si moveva un fiume in piena di contadini che rivendicavano giustizia e, quel che più importava, con i decreti Gullo e la riforma agraria cominciavano a gustare il sapore della terra e l’odore della libertà.

Nell’incontro del dicembre in casa mia, il rifiuto a diventare un capo di contadini apertamente comunisti fu espresso in termini assai rispettosi e cortesi, e forse fu lasciato aperto qualche spiraglio. In un piccolo paese, non c’è mai nulla che avvenga all’insaputa. L’incontro e l’invito provocarono perciò sorpresa e scandalo. La sorpresa o lo scandalo stava nel fatto che sia l’incontro che l’invito avessero coinvolto la mia persona. In paese ero conosciuto come dirigente dell’azione cattolica giovanile. Senza che ci fosse ancora una propaganda comunista, l’attesa del comunismo cominciava a respirarsi come l’aria, e il vento che scuoteva gli animi in un senso o nell’altro soffiava da lontano, sia da quanto avveniva sul fronte orientale, dove le armate sovietiche ricacciavano indietro l’invasore nazista, sia da quanto si apprendeva della guerra partigiana nell’Italia occupata dai militari tedeschi.

Il cosiddetto “vento del Nord” giorno dopo giorno soffiava con sempre crescente impeto.

Giusto o sbagliato che fosse, la guerra in Sicilia si considerava finita.

Il “vento del Nord” ciò nonostante giungeva a folate impetuose dalle regioni e dai paesi dove la guerra non era ancora finita, e quella sua provenienza suscitava reazioni diverse, in alcuni di speranza, in altri di paura. Se ne discuteva in piazza fra colleghi e amici, spesso senza sapere quel che si voleva dire e quel che si doveva fare. In effetti, mentre in tutti prevaleva l’incertezVI

za, la politica bussava di porta in porta, e quanti nutrivano timore chiudevano porte e finestre, perché i venti della politica e più ancora il “vento del Nord” non scompigliassero la loro vita consueta.

Il giovane ventenne venuto da Bari personificava senza volerlo una di quelle folate di vento impetuoso, e il suo modo di discutere della guerra e della pace come d’altri insoliti problemi, compresi quelli della fede, lo rendeva sospetto di comunismo. Il suo dire e il suo fare non avevano nulla che legittimasse quel sospetto. La sola cosa vera si riduceva al fatto che non era più o non parlava più come il giovane d’azione cattolica qual era sempre stato. In paese lo si sapeva un dirigente dell’azione cattolica giovanile e invece veniva fuori un giovane che non appariva più quello di prima.

Quell’opinione aveva l’effetto di allontanarlo dagli antichi legami e di avvicinarlo ai nuovi che mi stavano dappresso. Fu pertanto in quel groviglio di contraddizioni che avvenne la mia decisione di accogliere l’invito di Giuseppe Spagnolo.

La prima soglia di quel nuovo mio cammino fu l’adesione a fondare un Circolo di lavoratori apolitico, ma i cui soci erano comunisti e socialisti. La fondazione del circolo avvenne il 19 marzo 1944, giornata festiva intestata dalla Chiesa a San Giuseppe. Presidente del circolo fu il prof. Aurelio Bentivegna, rappresentante socialista, e vice presidente il giovane studente universitario, del quale si discuteva animosamente, rappresentante a sua volta i soci comunisti. La fondazione del 19 marzo fu solennizzata da un discorso del prof. Bentivegna cui fece seguito il discorso del vice presidente. Fu il mio primo discorso pubblico, pronunciato con viva emozione. Me la cavai fra vivi applausi ma i battimani (come poi mi fu chiarito quando ne chiesi la ragione) miravano, quando necessario, a superare le pause o le incertezze del mio dire.

Il Circolo dei lavoratori ebbe vita breve. Il prof. Bentivegna prese l’iniziativa di costituire la sezione socialista con sede dentro il circolo, sua proprietà privata. Egli credette in quel modo di trarne vantaggio e invece provocò la nostra immediata decisione di aprire senza perder più tempo la sezione comunista.

Lasciato il Circolo dei lavoratori, ci mettemmo subito all’opera. La prima ricerca fu quella del locale. Affittammo un pianterreno in Via Regina Margherita, sito non centrale ma non molto periferico rispetto alle piazze principali. Cercammo della stoffa rossa per farne una bandiera, ma nel paese non trovammo quanto ci occorreva. Dovemmo contare su quel poco di cui disponevamo. Non ci fu sventolio della bandiera e nemmeno lo stappo di qualche bottiglia in segno di auguri.

VII

La cerimonia d’apertura della sezione comunista avvenne il 28 maggio. Era domenica e l’affluenza fu maggiore del previsto. Il locale non poteva contenere più di cinquanta persone. Molti perciò rimasero fuori e al fine di farli partecipi della cerimonia il tavolo della presidenza fu collocato davanti l’ingresso del locale in modo che l’oratore fosse ascoltato sia da dentro che da fuori. Il compito di tenere il discorso inaugurale fu scaricato sulle mie spalle e dovetti adempiere quel rito senza sapere nulla di comunismo.

Questa confessione non depone in senso sfavorevole alla mia decisione. In quel 1943 altre centinaia di giovani facevano la mia medesima scelta, anche loro senza nulla sapere di comunismo. Era il “vento del Nord” che soffiava dappertutto, e che faceva respirare il comunismo come l’aria. Nel maggio ’44 il partito comunista in Sicilia era agli inizi del suo cammino, e nonostante gli entusiasmi gli inizi non erano sempre chiari e definiti. La situazione in provincia d’Agrigento era relativamente migliore che in altre province. La federazione provinciale, tuttavia, era ancora da fare e chi la rappresentava in via provvisoria non era idoneo e in ogni caso non amava recarsi in provincia. Cercammo aiuto nei paesi vicini. A Ribera ci recammo in bicicletta, ma non ottenemmo nulla. A Raffadali andammo a dosso di mulo; l’accoglienza di Cesare Sessa fu cordiale ma le sue condizioni di salute erano precarie, e quindi ce ne tornammo a mani vuote. I 40 km di strada di andata e ritorno nella stessa giornata misero a dura prova la mia schiena non abituata a tollerare i movimenti della cavalcata. Dovetti stare un paio di giorni a letto. La conseguenza più grave fu tuttavia la cerimonia rimasta tutta a nostro carico. Il carico maggiore fu però il mio, giacché, come segretario della sezione, dovetti pronunciare in pubblico il primo discorso politico comunista. Che fare? Che dire? Dal dicembre al maggio non ebbi possibilità di leggere qualcosa di comunista. Non avevo libri né opuscoli né giornali. La sola risorsa fu un opuscolo, comprato a Reggio Calabria, contenente la Costituzione sovietica del 1936 . Ne lessi e commentai gli articoli che mi parvero più notevoli. Non sapevo che quella costituzione era solo un pezzo di carta e in assoluta buona fede parlai di una mirifica Unione sovietica che di fatto non esisteva. L’errore rimase, tuttavia, un caso isolato.

La sezione comunista nacque senza essere distinta dalla camera del lavoro. Nel maggio 1944 non eravamo in condizioni di fare una siffatta distinzione. Senza saperlo e senza volerlo, per tutta l’estate del ’44, la sezione comunista fu quindi anche camera del lavoro.

Una prima iniziativa che ebbe un successo clamoroso è ricordata nel testo di Giuffrida. La sezione comunista di Cattolica ottenne dal ministro Gullo che un decreto legge nazionale fosse modificato nei termini richiesti VIII

dai contadini. Fu infatti abrogato l’obbligo di conferire ai “granai del popolo” l’orzo, le fave e altri prodotti destinati all’alimentazione del bestiame di lavoro come muli, cavalli e asini La sezione comunista di Cattolica fu chiamata ad affrontare un altro decreto Gullo, che fissava il compenso del grano da conferire ai “granai del popolo” in lire 1000 il quintale, 500 come prezzo e 500 come premio di coltivazione. La tesi che noi sostenemmo fu che il canone d’affitto agrario fissato in rapporto al prezzo del grano dovesse corrispondere non a 1000 lire il quintale, ma solo a 500 lire, giacché le altre 500 lire erano un premio di produzione che spettava al produttore, non a chi affittava i suoi feudi. Quella vertenza fu assai controversa. I proprietari ricorsero anche alla magistratura.

La tesi da noi sostenuta trovò però conferma anche in quella sede.

La sezione comunista navigava quindi a gonfie vele. I comizi che ogni domenica tenevo nel piazzale davanti la chiesa della Mercede erano sempre più affollati.

In agosto, però, la mia licenza militare ebbe termine, e ritornato alle armi lasciai tutto sulle spalle di Spagnolo e compagni.

Spagnolo era un vero capo contadino. Nelle due iniziative anzidette il suo ruolo fu decisivo. Quando il 19 ottobre successivo uscì il decreto Gullo per la concessione delle terre incolte ai contadini, da me sollecitato da Palermo, egli si mise al lavoro, e diede subito vita alla cooperativa Proletaria, della quale fu eletto presidente. A me fu data la delega di rappresentare la cooperativa al primo congresso regionale della lega nazionale delle cooperative, nel quale fui eletto segretario con Cesare Sessa presidente.

Qui dovrei concludere. Aggiungo tuttavia due altre brevi informazioni La prima. Quando si procedette all’occupazione delle terre – alle cavalcate, come le chiama Giuffrida, ma erano cavalcate che precostituivano un diritto presuntivo sulla concessione dei feudi ove si piantava la bandiera – scrissi sulla rivista Chiarezza, che si stampava a Palermo, un articolo titolato I contadini occupano un feudo.

La seconda. Quando Giuseppe Spagnolo fu eletto sindaco, sempre nella rivista Chiarezza scrissi l’articolo Un contadino è sindaco di Cattolica Eraclea.

Quanto al resto, vorrei ricordare la straordinaria partecipazione di popolo ai funerali del nostro compagno ucciso. Ma nel racconto di Giuffrida è detto il necessario, e non credo di avere altro da aggiungere.

IX

INTRODUZIONE Delitto di prestigio è un’inchiesta storico/giornalistica che ricostruisce la vita di Giuseppe Spagnolo, focalizzando l’attenzione sul suo impegno politico e sociale nel periodo che va dal “biennio rosso” (1919-21) al “ventennio nero” (1922-42) fino alla fondazione della Repubblica.

Giuseppe Spagnolo è stato il primo sindaco del dopoguerra a Cattolica Eraclea ed è stato anche il primo ed unico contadino ad occupare la carica più alta del paese.

Attraverso la vita di questo valente dirigente politico ucciso dalla mafia ripercorriamo mezzo secolo di storia durante il quale, tra guerre e rivoluzioni, vittorie e sconfitte, furono conquistati importanti diritti sociali e politici.

All’inizio della ricerca ho avuto qualche difficoltà sia ad attingere informazioni sia a trovare la forza per scavare dentro ogni documento, atto, avvenimento, aneddoto che mi permettesse di ricostruire la vita politica di un uomo la cui caratteristica principale è stata la tenacia nella lotta alla mafia.

Lotta alla mafia in tempi in cui di mafia non si parlava, ma la si subiva in silenzio. La storia di Giuseppe Spagnolo dimostra, seppur con l’altissimo prezzo pagato, quanto sia essenziale il coraggio e l’impegno per la lotta alla mafia ma soprattutto per la conquista di diritti civili e politici. Col suo impegno e la sua intelligenza politica, col suo carisma e con la collaborazione di numerosi contadini e intellettuali, Giuseppe Spagnolo riuscì ad intaccare il potere di mafiosi e latifondisti che esercitavano una sorta di sovranità politica sul territorio siciliano.

Delitto di prestigio non ha la pretesa di deporre la verità sulla vita e sull’omicidio di Giuseppe Spagnolo, ma è un testo che, attraverso documenti, sentenze, articoli di stampa, immagini, e testimonianze, vuole fornire soprattutto alle giovani generazioni, ma anche agli adulti, un quadro generale, il più possibile vicino alla realtà, di un periodo storico complesso e travagliato, in una terra, la Sicilia, tanto bella e generosa, quanto strana e misteriosa.

Sono certo che il testo darà la possibilità ai giovani d’oggi di comprendere meglio il presente attraverso i fatti e le esperienze del passato.

17

Giuseppe Spagnolo

18

Giuseppe Spagnolo Biografia Giuseppe Spagnolo è nato a Cattolica Eraclea il 28 settembre del 1900, da Liborio Spagnolo, contadino, e Maria Russo, casalinga.

Fin da ragazzino lavorò in campagna col padre. Proseguì gli studi fino alla seconda elementare, imparò a leggere e a scrivere. Per far fronte alla crisi causata dalla prima guerra mondiale, lavorava a jurnata, coltivava le terre, mieteva il grano, raccoglieva i frutti. Mentre lavorava pensava a come rendere la sua condizione di contadino più dignitosa. Sin da giovane si rivelò curioso osservatore della realtà sociale, mostrando interesse verso gli avvenimenti politici di quel tempo. L’emancipazione dei contadini era un pensiero fisso di Giuseppe che,dall’infanzia, visse le condizioni di soggezione e sfruttamento in cui versava il mondo contadino nel periodo tra la prima guerra mondiale e la fondazione della Repubblica. Peppi, come lo chiamavano in dialetto gli amici, il 13 settembre del 1924 si sposò con Filippa Guaragna, una giovane popolana del paese. La coppia mise al mondo tre figli: Liborio (nato il 3 gennaio del 1926), Maria (22 novembre del 1928), Salvatore (18 luglio del 1931)1. Peppi trascorreva il tempo libero in piazza con gli amici o leggendo il giornale. «Ma a casa – dice il figlio Liborio – non parlava mai di politica. Non voleva coinvolgerci, amava farci stare tranquilli. Mio padre era un tipo riservato»2.

Cattolica Eraclea dal “biennio rosso” al “ventennio nero” Cattolica Eraclea è un paese della provincia di Agrigento, si trova a 10 chilometri dal mare nella parte sud-occidentale della Sicilia, è in pianura, a 220 metri sul livello del mare, ed è circondato da montagne e numerosi feudi.

Si estende su un territorio di circa 65 chilometri quadrati e costituisce un importante centro agricolo. La popolazione, secondo il primo censimento del 1936, era composta da 10.000 abitanti, in maggioranza braccianti agricoli, fittavoli, piccoli e medi proprietari. Quattro o cinque grandi proprietari terrieri costituivano l’agrarismo locale. Buona parte dei terreni era invece adi19

bita a pascolo. L’economia cattolicese era molto povera, la viabilità rurale quasi inesistente e i mezzi di trasporto molto limitati o rudimentali. Le coltivazioni prevalenti erano di mandorli, frumento, cereali e cotone (durante la maggese), e in misura minore, di olivi, pistacchi e carrube, notevoli anche le aree boschive di pino mediterraneo.

Durante e dopo il primo conflitto mondiale, l’economia di Cattolica Eraclea, come nel resto della Sicilia, soprattutto nel settore agricolo, precipitò in una profonda crisi, al contrario delle regioni del nord Italia che vissero un positivo processo di industrializzazione. I contadini dovevano far fronte a numerose difficoltà: il rialzo dei canoni d’affitto delle terre, la mancanza di attrezzi agricoli, l’arroganza e l’ostilità dei gabelloti nonché danni e taglieggiamenti subiti dalla bande di briganti.

“La guerra fornì il destro a facili e repentini arricchimenti, creando un vero e proprio ‘pescecanismo agrario’3. Oltre ad accrescere le distanze tra piccola e grande azienda cerealicola, causò delle marcanti differenze, all’interno degli stessi ceti rurali, tra coloro che erano stati costretti ad abbandonare il proprio piccolo appezzamento di terra per andare al fronte e coloro che erano rimasti sul cosiddetto ‘fronte interno’. Questi ultimi, sfuggiti alla trincea per ragioni di età, per imperfezioni fisiche, per essere riusciti a strappare o a ‘comprare’ un esonero dal servizio militare, aguzzarono ingegno e furbizia e si dedicarono ad attività più o meno lecite. Così, molti imboscati, per lo più gabelloti, si arricchirono “oltre che con l’accaparramento a condizioni vantaggiose delle terre (dei piccoli e medi proprietari richiamati alle armi), con le più svariate attività speculative, tra le quali il traffico delle licenze e degli esoneri, il mercato nero, la requisizione dei quadrupedi per l’esercito”4.

Altri invece scelsero la via più umile, quella di lavorare per quanto fosse possibile, benché sfruttati dai proprietari terrieri. Si lavorava in campagna, dall’alba al tramonto, per poco più di un chilo e mezzo di pane al giorno. Fenomeni di brigantaggio rendevano talvolta vani i sacrifici dei contadini. La «mafia dei giardini» imponeva le sue regole, i contadini non osavano pronunciare la parola mafia, subivano in silenzio il terrore dell’onorata società di quel tempo, «capeggiata in Sicilia da don Calogero Vizzini, che nelle province di Caltanissetta, Palermo e Agrigento spadroneggiava tra le campagne, diventando presto il principale tramite dei rapporti intessuti tra il brigantaggio e il mondo dei signori e latifondisti»5. Sistema feudale vigente anche a Cattolica Eraclea, dove veniva imposto il pizzo sulle coltivazioni e sul raccolto; dove i potenti campieri dei feudi dei baroni, e non l’ufficio di collocamento, assegnavano il lavoro ai contadini, sfruttandoli dal sorgere del 20

sole al levarsi della luna. Anche a Cattolica Eraclea, Calogero Vizzini, il «Re Sole» della mafia, vantava autorevoli amicizie in ambienti nobiliari e politici.

In questo contesto, Giuseppe Spagnolo parlava in piazza, ad alta voce, tra i coetanei ma anche tra gli anziani, dei diritti dei contadini. Incitava alla lotta di classe per l’emancipazione dei coltivatori agricoli, reclamava condizioni più dignitose. “Molti contadini siciliani, con la chiamata alle armi, avevano per la prima volta abbandonato il paese natìo, ed erano venuti a contatto con culture, lingue, costumi diversi dai propri. Nelle trincee inoltre avevano acquisito piena coscienza dei propri diritti sociali e politici – aiutati in questo senso da alcuni valorosi ufficiali/intellettuali – primo fra tutti quello di essere ricompensati per il loro sacrificio in onore della Patria. Così, con il conflitto ancora in corso, si cominciò a parlare di redistribuzione terriera a favore dei combattenti. Lo Stato italiano avallò questa richiesta al fine di rafforzare il senso patriottico dei fanti-contadini e di ottenerne il massimo impegno. Nel 1917 fu istituita l’Opera Nazionale Combattenti, ente pubblico che redistribuì la proprietà fondiaria”6.

Ma la «fame di terra» dei contadini emerse con forza, prese forma, si concretizzò in protesta. «La terra ai contadini!»7, con questo motto, mentre il paese si preparava ad affrontare il primo dopoguerra, divamparono le proteste dei contadini che reclamavano pane e lavoro.

Nell’immediato dopoguerra, durante il “biennio rosso”, Giuseppe Spagnolo partecipò alle prime lotte per la conquista delle terre incolte. A Cattolica Eraclea esse erano state organizzate da Enrico La Loggia, socialriformista che aveva guidato il movimento dei contadini prima dell’avvento del fascismo. Il Governo, incalzato dalle proteste, per far fronte alla crisi aveva emanato due decreti: il decreto Visocchi (2 settembre 1919) e il decreto Falcioni (22 aprile 1920), misure con le quali fu disposta «la concessione delle terre incolte o insufficientemente coltivate alle cooperative di contadini reduci combattenti». Ma le commissioni provinciali che assegnavano le terre erano composte in maggioranza da proprietari terrieri e funzionari statali. Ciò causò notevoli problemi ai contadini, poiché tutte le decisioni a loro favore si scontravano con gli interessi dei proprietari i quali, «appellandosi a consuetudini locali e sterminate tipologie di modi d’utilizzazione aziendale e di cause di forza maggiore»8, non cedevano le terre incolte. I contadini accentuarono il tono della protesta continuando a chiedere pane e lavoro, un miglioramento delle condizioni di vita. Reclamavano la modifica dei patti agrari, la riduzione dei canoni d’affitto, l’abolizione dell’intermediario parassitario. Furono assegnati solo alcuni ettari di terra, ma pochi, mentre nel 21

frattempo con l’avvento del fascismo, furono soffocate le richieste di cambiamento provenienti dal mondo contadino. A Cattolica Eraclea, come nel resto d’Italia, la classe borghese e quella aristocratica aderirono al fascismo sin dalla presa del potere, si contendevano con agguerrite lotte la nomina dei podestà. Gli artigiani riuscirono ad emanciparsi e poterono permettersi di mandare i propri figli a scuola fino all’età adolescenziale, cominciarono inoltre anche ad interessarsi di politica, mentre le famiglie povere non s’interessavano per nulla della vita pubblica e del regime. I contadini videro nel fascismo il nemico di sempre: il potere in mano ai padroni, ai conservatori di antichi privilegi feudali. Giuseppe e pochi altri continuarono a ribellarsi. Il Duce, intanto, si sbarazzava degli oppositori. Nel 1935, insieme ad altri compaesani, Giuseppe Spagnolo fu accusato di «associazione a delinquere contro il Fascismo»9 (art. 251 C.P.) e condannato dal Tribunale speciale del Fascismo a 4 anni di confino nell’isola di Pantelleria. I provvedimenti d’arresto e confino riguardarono un numeroso gruppo di persone10: furono in 245 ad essere accusati, a vario genere, d’essere «mafiosi o sovversivi». In realtà si trattava o di antifascisti clandestini, intesi dal regime come sovversivi; o di cosiddetti «scassapagliara», intesi come mafiosi. Ciò rientrava nella lotta che il fascismo, sulla scia dell’opera del prefetto Mori, condusse in Sicilia per ristabilire l’ordine e la sicurezza, sbarazzandosi degli oppositori politici e cercando di togliere alla mafia il controllo sociale, culturale e politico del territorio. In realtà furono colpiti soprattutto gli «scassapagliara», perché i veri mafiosi e i cosiddetti «colletti bianchi» riuscirono ad accordarsi col regime di Mussolini traendone beneficio. Nell’autunno del 1939 Giuseppe tornò dal confino, mentre cominciava, con l’invasione della Polonia da parte della Germania, la seconda guerra mondiale.

L’Italia entrò in guerra il 10 giugno del 1940, i giovani erano chiamati alle armi. Giuseppe Spagnolo, già quarantenne, restò in paese (dove erano rimasti solo donne, anziani e bambini) e ricominciò a lavorare in campagna.

Presto diventò “burgisi”, piccolo produttore agricolo. Lavorò anche nelle terre del dottor Raimondo Borsellino, aiutandolo nell’acquisto e nella vendita di alcuni terreni. Il 18 luglio del 1943 le truppe alleate anglo-americane, provenendo da Raffadali, giunsero a Cattolica Eraclea. Furono accolti dall’arciprete Giuseppe D’Angelo e dal Cav. Bartolomeo Vaccarino, che fu nominato sindaco dall’AMGOT11 giunto a Cattolica Eraclea. Per nomina prefettizia divenne poi sindaco del paese il notaio Antonino Marsala. La guerra stava per finire e il fascismo si avviava alla sconfitta. Il 25 luglio del 1943 Mussolini fu destituito e arrestato, il governo del paese restò al maresciallo Badoglio, il Re fuggì12.

22

In confino a Pantelleria13, Giuseppe aveva conosciuto alcuni condannati politici, tornò pertanto in paese influenzato da rinvigoriti sentimenti sociali e culturali che avevano rafforzato il suo senso di partecipazione politica. Giuseppe era un leader naturale, aveva carisma, formava gruppi, avvertiva la necessità di riforme sociali che dessero lavoro e libertà, sentiva soffiarsi addosso il “vento del Nord”14, intuì la necessità del coinvolgimento di forze giovani e intellettuali nella battaglia politica. A capo di un gruppo di contadini chiese ad un giovane studente, figlio di contadini che tornava dalla guerra, di rappresentare il movimento contadino. Quel giovane era Francesco Renda,che in un primo momento rifiutò, ma poi, fatte le opportune valutazioni, accettò la proposta. Renda e il prof. Aurelio Bentivegna, un altro intellettuale, costituirono il Circolo dei lavoratori, dalla cui scissione nacquero poi il partito socialista e il partito comunista. Con la nascita dei partiti e l’affermarsi di nuove istituzioni cominciò l’attività di dirigente politico di Giuseppe Spagnolo, caratterizzata da un forte impegno contro la mafia in difesa dei diritti dei lavoratori.

Le fonti 1 Dati anagrafici estratti dallo stato di famiglia.

2 Intervista al signor Liborio Spagnolo 3 Espressione coniata da Francesco Renda 4 Da: Storia del movimento antimafia siciliano. Dai Fasci siciliani all’omicidio di Carmelo Battaglia, di Gabriella Scolaro (motore di ricerca Google).

5 Le vicende storiche legate alla mafia sono state acquisite da Storia della mafia, di Francesco Renda, Ed. Arti Grafiche, 1997, Palermo. Da I padrini, di Giuseppe Carlo Marino, Newton & Compton, Roma, 2001. Da Il socialismo nel latifondo, di Giuseppe Carlo Marino, E.S.A., Palermo, 1972.

6Da tesi di laurea del Dott. Nino Aquilino, Relatore Prof. Francesco Renda.

7 Formula lanciata dai lavoratori della Federazione della Terra.

8 Da I padrini, di Giuseppe Carlo Marino, Newton & Compton, Roma, 2001 9 Da: citazione in atti di tribunale e verbali di seduta del consiglio comunale di Cattolica Eraclea.

10 Da: articolo apparso nella sezione “storia” del motore di ricerca www.siciliano.it 11 Allied Military Gouvernment of Occupied Territory. Il Governo istituito dagli Alleati americani.

12Gli avvenimenti politici di questo paragrafo sono narrati nelle pubblicazioni di: Giacomo Spoto Cattolica Eraclea e il suo territorio, Edizione propria, 1980, Cattolica Eraclea; Lorenzo Gurreri Cattolica e le sue radici, Ed. Momenti, Ribera, 1994; Antonio Vento, Cattolica Eraclea tra le due guerre, a cura del comune di Cattolica Eraclea, 2000.

13 Gli aneddoti inerenti Giuseppe Spagnolo emergono, oltre che dalla Prefazione del prof. Francesco Renda, da varie testimonianze raccolte dall’autore tra alcuni anziani protagonisti di quegli avvenimenti.

14 Le nuove idee e sentimenti rivoluzionari che prendevano piede nelle regioni del nord Italia, dando avvio al cosiddetto “biennio rosso”(1919-21). Le classi dominanti della Sicilia occidentale accolsero questo nuovo movimento con indifferenza, perché lo ritenevano di vita breve. Non ebbe dunque la stessa intensità che ebbe al Nord Italia. Anche perché gli agrari siciliani avevano a disposizione ben “collaudati” sistemi per soffocare le agitazioni popolari. Erano sufficienti qualche provvedimento demagogico, il clientelismo, l’uso delle organizzazioni mafiose, per reprimere i conflitti con i contadini. (Storia del movimento antimafia siciliano – nota 4)

23

Il movimento contadino a Cattolica Eraclea Cattolica Eraclea tra conservatorismo, riformismo e mafia “Negli anni precedenti il Fascismo, l’amministrazione della cosa pubblica era contesa dalle famiglie aristocratiche più in vista: la Borsellino, la Spoto e la D’Angelo, di tradizioni culturali e politiche fortemente conservatrici. Le elezioni amministrative erano delle vere e proprie giostre del malcostume amministrativo. Si mettevano in campo amici e parenti e, quando necessario, si ricorreva alla piccola corruzione. Chiuse le operazioni di voto, tutto ritornava come prima, il contadino restava contadino, e il signore, eletto sindaco, diventava il signore assoluto del contadino. Così per parecchi decenni, dopo la guerra mondiale le cose cambiarono. Ai contendenti tradizionali si aggiunse un nuovo rivale: Enrico La Loggia, socialriformista. Con l’avvento del Fascismo, i maneggioni del politicantismo locale si compromisero con esso, sostituendo alla campagna elettorale la lotta subdola per il podestà e la direzione locale del partito fascista. I contadini, che avevano creduto di trovare in La Loggia il proprio dirigente, furono abbandonati a se stessi ed alla reazione avversaria. Caduto il fascismo, gli affari amministrativi del comune rimasero nelle stesse mani dei fascisti. Da qui il malcontento dei contadini che, organizzati e guidati da Francesco Renda, Giuseppe Spagnolo ed Aurelio Bentivegna, fondarono un importante movimento contadino d’ispirazione riformista”1 . Anche la mafia fu protagonista degli eventi sociali e politici dell’immediato dopoguerra. Il “grande padre” dell’organizzazione mafiosa di Cattolica Eraclea era Antonino Manno2.

La “mafia dei giardini” «Le condizioni di arretratezza economica e sociale della Sicilia, dove sopravvivono tuttora elementi legati ad un’agricoltura di tipo feudale, hanno favorito lo sviluppo della criminalità mafiosa. (…) Aboliti, all’inizio del diciannovesimo secolo, i feudi e le giurisdizioni baronali, essi, pur essendo privi di funzione giuridica, continuarono ad imporre il dominio dei proprietari, e soprattutto il loro dominio, approfittando della mancanza di leggi efficienti e di un apparato giudiziario e di polizia in grado di funzionare. È proprio allora che nasce l’organizzazione mafiosa. Inizialmente risulta compo-

24

sta da campieri e feudatari, interessati a mantenere la popolazione in una condizione di totale asservimento e sfruttamento. La mafia nasce nelle campagne per difendere essenzialmente gli interessi dei campieri, ma con il passare del tempo estende il suo raggio d’azione anche nelle città. I membri delle diverse associazioni mafiose sono legati tra loro da un patto di mutua assistenza, dall’omertà, dal disprezzo nei confronti delle leggi e delle persone oneste, attraverso il ricorso a qualsiasi mezzo: omicidio, rapina, estorsione ed altro ancora»3 .

Il capo della mafia locale, Antonino Manno, aveva al suo seguito un nutrito gruppo di fedelissimi sparsi in paese e nelle campagne4. Tra questi, «i Rizzuto, che poi emigrarono in Canada. Nicola Rizzuto partì per primo per Montrèal, dove divenne “Nick”, grande boss. A Cattolica Eraclea lavorava per il barone Agnello, che possedeva tutte le terre “a perdita d’occhio”.

Comandavano le terre “soggiogando i pavidi, intimidendo i laboriosi e mortificando la coscienza degli onesti, incrementando così, in maniera del tutto abnorme le loro posizioni patrimoniali»5. Dunque gabelloti e campieri, manutengoli (complici, favoreggiatori) al servizio dei notabili.

Partiti e protagonisti della rinascita democratica del paese Dopo un ventennio di dittatura fascista, rientrati dall’esilio i leaders politici nazionali come De Gasperi, Nenni, Togliatti, Saragat ed altri, furono rifondati legalmente in Italia i partiti politici e fu istituito il Comitato di Liberazione Nazionale per formare il “governo provvisorio”. Nel nord Italia cominciava la resistenza dei partigiani alle truppe d’occupazione tedesche, in Sicilia impazzava una dura e lunga resistenza contadina. Partiti, sindacati e associazioni ricominciarono le loro attività. A Cattolica Eraclea verso la fine del 1943 fu fondata la sezione locale della Democrazia Cristiana, nella primavera del 1944 quella del Partito comunista,del Partito socialista ed altri partiti che costituirono il CLN locale.

PCI - Il contadino Giuseppe Spagnolo e il giovane universitario Francesco Renda, i fratelli Pasquale e Antonino Spinello, Giuseppe Graceffo, Giuseppe Arcuri, Francesco Tutino, Bernardo Cicero, Vincenzo Marchetta e altri braccianti e agricoltori, fondarono la sezione del Partito Comunista, segretario fu nominato lo studente universitario Francesco Renda. Nella sezione sita in via Regina Margherita (dove è adesso il palazzo Ganci) il giovane studente Renda cominciò ad animare i contadini nella lotta «per il lavoro e la libertà». La questione meridionale, la riforma agraria, le condizioni dei lavoratori, i salari dei contadini, erano i temi dell’agenda politica del movimento contadino, inoltre le riforme sociali, agrarie, poli25

tiche e istituzionali. Il comunismo dei contadini cattolicesi era dunque riformismo: non si proponeva di sovvertire l’ordine, né d’abolire la proprietà privata, bensì di migliorare le condizioni del presente in uno Stato che, sconfitto il fascismo, si avviava a diventare liberale, democratico, parlamentare.

L’introduzione di nuovi elementi di riformismo sociale in uno Stato liberale era l’auspicio di quei contadini che avevano “fame di terra e sete di libertà”.

Giuseppe Spagnolo fu tra i dirigenti più attivi del partito. Nella piazza del paese, Peppi, già quarantacinquenne, leggeva l’Unità e “pridicava”, incitando con lunghi discorsi i contadini a battersi per la conquista delle terre incolte dei feudi di baroni, marchesi e cavalieri. Peppi, parlando in piazza, incuriosiva la gente. Riusciva a radunare attorno a sé nutriti gruppi d’ascoltatori, giovani e anziani. Parlava in piazza tra la gente e nelle riunioni della cooperativa e del partito. Era eloquente, convincente, persuasivo, era un dirigente politico pragmatico, non demagogico. Capeggiava ogni battaglia, si batteva con tenacia, non indietreggiava mai di fronte a rappresaglie con i campieri. Giuseppe Spagnolo credeva nella partecipazione contadina alla ripresa della vita nazionale come ad un articolo di fede, aveva un’intelligenza politica superiore alla media, aveva partecipato agli eventi del biennio rosso e al confino aveva conosciuto vari condannati politici. Giuseppe era competente, manifestò il suo impegno anche da presidente del Circolo dei contadini, dirigente della Camera del Lavoro (della quale fu segretario) e della Federterra. I compagni e gli amici che lo ascoltavano e lo seguivano, un po’ scherzando, un po’ sul serio, lo incitavano, in vista delle prime elezioni libere dopo un ventennio di repressione fascista, a candidarsi come sindaco.

Gli altri partiti PSI. La sezione locale del Partito Socialista fu fondata dal professor Aurelio Bentivegna, dall’avvocato Antonio Bentivegna, dal professor Giuseppe Petralia, dal signor Francesco Tutino e da altri piccoli agrari e impiegati. La leadership del partito - rappresentata dalla famiglia Bentivegna e Petralia - riuscì a portare al suo seguito numerosi militanti ed elettori.

DC. La sezione del Partito Democratico Cristiano fu fondata a Cattolica Eraclea dall’avvocato Salvatore Scifo. La DC, espressione dei valori cristiani e della famiglia, rappresentante degli interessi di proprietari terrieri, commercianti, artigiani e ceto impiegatizio, ebbe numerosi sostenitori al suo seguito: il farmacista Gaetano Sajeva, Giuseppe Lumia Borsellino, Vincenzo Ippolito, il sarto Ignazio Giuffrida, Nino Pennino, il prof. Antonio Vento, la signora Angelica Miliziano, il professor Raimondo Borsellino, il cavalier Giuseppe Di Michele. Fra gli attivisti il prof. Gaspare 26

Ippolito e il notaio Marsala. Ne fecero parte insomma la classe borghese, grossi, ma anche piccoli proprietari terrieri e coltivatori diretti. La DC operò in strettissima collaborazione con il clero locale.

Il Partito Liberale Italiano a Cattolica Eraclea fu fondato, invece, da don Bartolo Rondelli e dal barone Giovanni Rizzuto. Tra i fondatori del Partito d’Azione si ricordano Settimo Russo e Libertino Mormina. Giuseppe La Loggia autonomamente formò il Partito Democratico del Lavoro, che in seguito aderì alla DC. I contadini cattolicesi incontrano il ministro Gullo Nel giugno del 1944, un decreto del ministro dell'agricoltura obbligava i contadini al deposito oltre che del grano, delle fave, dell'orzo e d’altri prodotti analoghi ai “granai del popolo”. Il provvedimento suscitò un enorme scalpore, poiché l’orzo e le fave erano utilizzati come alimentazione per i muli e per gli asini. Scattò l’allarme tra i contadini. Francesco Renda e Giuseppe Spagnolo radunarono dei contadini, li organizzarono e protestarono pacificamente, presentarono anche un esposto al ministro Gullo con cui chiesero la revoca del decreto. Nel corso della manifestazione di protesta arrivò la notizia che il ministro Gullo era in Sicilia e andava ad Agrigento. I dirigenti del movimento contadino costituirono una delegazione capeggiata dal giovane Renda, andarono ad Agrigento ed esposero la questione al ministro che, tornato a Roma, modificò il decreto. Fu un’enorme soddisfazione per il movimento contadino cattolicese che trovò così un sostegno morale utile ad affrontare le dure lotte che da lì a poco si sarebbero intraprese.

L’incontro del movimento contadino cattolicese col ministro Gullo segnò simbolicamente la nascita di un grande movimento di massa e l’avvio di una lunga stagione di lotta per l’emancipazione dei contadini e dei meno abbienti. Giuseppe Spagnolo ebbe un ruolo decisivo anche nella battaglia contro un altro decreto emanato dal ministro dell’agricoltura che fissava il compenso del grano da conferire ai “granai del popolo” in 1000 lire al quintale, 500 come prezzo e 500 come premio di produzione. Le 500 lire del premio che doveva andare ai produttori erano pretese dai padroni. Contro questa pretesa partì una vertenza controversa nella quale intervenne anche la magistratura, ma la sezione del PCI di Cattolica Eraclea riuscì a risolverla positivamente e il premio di produzione spettò ai contadini6.

Spagnolo presidente della cooperativa La Proletaria Il 13 dicembre 1944 un gruppo di agricoltori, uno studente universitario e un commerciante, davanti al notaio cavalier Antonio Tutino, costituiro27

no una società cooperativa di lavoro agricolo a responsabilità limitata con sede a Cattolica Eraclea sotto la denominazione di Società Cooperativa La Proletaria. Fu eletto presidente del consiglio d’amministrazione Giuseppe Spagnolo, che guidò la cooperativa fino al 1954, poi la guida passò a Giuseppe Graceffa.

La cooperativa si diede subito da fare nell’organizzazione e nella mobilitazione degli 800 soci (divenuti poi più di 2000) che, con le rispettive famiglie, affrontarono una lunga stagione di lotta nelle campagne. Nel volgere di pochi anni i contadini riuscirono ad emanciparsi diventando agricoltori e braccianti.

I soci della cooperativa si batterono per la conquista delle terre incolte con i nuovi strumenti legislativi che la democrazia in via d’affermazione metteva a loro disposizione.

La cooperativa agricola dei cattolici. Il sacerdote Amodeo Gammacurta, Gaetano Gagliano, Ignazio Giuffrida, Vincenzo Morello fondarono nel 1945 la cooperativa agricola San Giuseppe, che ebbe un seguito di numerosi soci. La San Giuseppe operò anche per l’assegnazione delle terre ai contadini, ottenne parte delle terre del Vucrito, ma dopo due anni fu sciolta.

Le cavalcate nei feudi di baroni, marchesi e cavalieri Nel 1944, stimolati e incoraggiati dai decreti Gullo7, i contadini diedero avvio ad una serie di occupazioni delle terre incolte o insufficientemente coltivate. L’occupazione delle terre si allaccia al contesto storico sociale che, nell’immediato dopoguerra, vedeva, in tutto il Meridione ma in Sicilia in particolare, numerosissimi contadini lottare per la terra e per il lavoro, contro i proprietari terrieri e la mafia che comandava nei campi. Le manifestazioni contadine per l’attuazione dei decreti del ministro dell’agricoltura del secondo Governo Bonomi, dunque per una giusta distribuzione delle terre, giunsero alla loro fase più acuta nel corso del 1946 e coinvolsero tutti i partiti.

Contadini occupano i feudi 28

A Cattolica Eraclea furono numerose le «cavalcate» organizzate dai partiti per l’occupazione delle terre incolte dei feudi dei padroni, con l’obiettivo della coltivazione in affitto o a mezzadria. Le «cavalcate» erano grandi manifestazioni popolari a cavallo. Si principiava con i comizi dei capi lega in via Monsignor Amato. Partendo dal centro storico del paese, dove vi erano le abitazioni di baroni, marchesi e cavalieri, si proseguiva in corteo fino alle terre da occupare. Nel febbraio del 1946 un folto corteo di manifestanti capeggiato da Giuseppe Spagnolo, Giuseppe Il porta-bandiera Petralia ed altri dirigenti del movimento contadino, da via Monsignor Amato, dopo aver percorso le vie Professor Leonardi e Regina Margherita, giunse in Piazza Roma dirigendosi in via Marconi presso l’abitazione degli Spoto. Si affacciò al balcone la signora Spoto, moglie del cavalier Gaspare Borsellino, detto “‘u signurinu”.

“Lavoro! Lavoro!”, urlavano a gran voce numerosi braccianti e agricoltori.

La nobildonna, dal balcone, con modi gentili e pacati, calmò la folla di manifestanti. “Vi prometto 1000 giornate di lavoro nella pistacchiera della famiglia Spoto”, avrebbe detto. I contadini gioirono, apprezzando la nobiltà della donna. La promessa naturalmente fu mantenuta: tante famiglie andarono a lavorare nel gran pistacchieto della famiglia Spoto nei pressi del Monte Sara.

Bandiera piantata sul feudo San Giorgio. Novembre 1946. Cavalcata in direzione San Giorgio. I proprietari del feudo erano il marchese Borsellino di Cattolica Eraclea e il barone Agnello di Siculiana. «Da più di venti giorni la cooperativa contadina aveva inoltrato domanda alla Commissione provinciale per l’assegnazione del feudo San Giorgio, ma gli intrighi, le lungaggini burocratiche, le connivenze più o meno coperte, avevano frustrato le giuste aspettative dei contadini, nella maggior parte reduci e sfrattati dalle terre che avevano coltivato l’anno precedente. Si era tutti sdegnati, si reclamava giustizia. In una manifestazione di protesta la popolazione del paese volle far sentire la sua voce che reclamava terra; quella terra brutta, arida, desertica dei feudi, che aspetta di essere dissodata e che i padroni intendono lasciare a pascolo, quella terra che potrebbe produrre tanto grano e dar lavoro a mol29

tissime braccia, e che invece è in alcuni casi abbandonata alla rovina delle erbacce e delle intemperie naturali. Sono con i contadini, ci si avvia a San Giorgio. Lo spettacolo che si presenta davanti ai miei occhi è imponente.

“Cavalcata” a Cattolica Eraclea Una colonna di uomini a piedi e a cavallo si dilunga per lo stradale per circa un chilometro e mezzo. Il cuore mi si gonfia, gli occhi quasi mi si riempiono di lacrime.

Sono per lo meno quattromila persone. Il porta bandiera, un povero uomo logorato dalla fatica e dalla miseria, arranca su una gamba mezzo irrigidita, ma non voleva cedere a nessuno il simbolo del riscatto. Si avvista il feudo. È deserto e abbandonato. Lo saluta un fitto schioppettare a salve, sulla collina più alta si fa sventolare il drappo rosso: poi ci si riposa un po’, si prende un boccone con pane e olive salate, quindi si prende la via del ritorno. Fra giorni si ritornerà sul posto, ma con zappe e aratri per preparare la semina.

In paese le donne che ci hanno aspettato ansiose stanno con gli artigiani. Li vedi assiepati agli imbocchi delle vie trasversali, a salutare la bandiera e gli uomini che tornano con uno scroscio assordante di battimani. È una fierezza che tutti sentono che i lavoratori abbiano trovato la loro unità, per la difesa della casa, del pane, della giustizia»8.

Occupato Monte Sara. Settembre 1947. I contadini cattolicesi occuparono il feudo del Marchese Borsellino di Monte Sara. Fu una cavalcata vivace nella quale si registrarono scontri alla presenza della commissione circondariale che assegnava le terre incolte. I contadini avrebbero voluto che la commissione decidesse lì sul posto, erano agitati e focosi. Francesco Renda si rivolse a Giuseppe Spagnolo per calmare la folla di manifestanti, ma non fu ascoltato. Non ci riuscì nemmeno Giuseppe Petralia, che era sindaco.

Renda prese la bandiera e se ne andò cavalcando la giumenta. I contadini lo seguirono, la manifestazione fu sciolta senza gravi conseguenze. Giunti in paese i contadini spararono ai lampioni del centro storico in segno di prote30

sta, perché invece le periferie del paese ancora non erano illuminate.

Assalto al Palazzo Borsellino. Entusiasti per i successi raggiunti, braccianti e agricoltori, nel 1947, in Piazza Roma, sotto il palazzo del marchese Borsellino, tornarono a chiedere lavoro. La piazza era gremita di manifestanti. Alcuni bussarono alla porta del marchese, in casa non c’erano né lui né la moglie; dopo le ripetute insistenze della folla, aprì la porta il signor Giovanni Amato, l’amministratore delle terre di famiglia. Il Palazzo Borsellino fu assaltato. I manifestanti più accesi entrarono in casa, salirono al primo piano e lanciarono dal balcone le foto della nobile famiglia Borsellino. Il “fuori programma” della manifestazione seminò il panico tra i presenti alcuni dei quali fuggirono impauriti. Furono saccheggiati magazzini pieni d’orzo, frumento e cereali, dagli appartamenti furono prelevati beni preziosi e vennero distrutte le suppellettili.

La manifestazione fu sciolta, ognuno rientrò nella propria casa. La notte successiva, però, “Cavalcata” per l’occupazione delle terre incolte i carabinieri individuarono alcuni dei giovani più focosi presenti alla manifestazione e operarono numerosi arresti.

Furono arrestati: il trombettista Andrea Gagliano (27 anni), Antonino Giuffrida (17 anni), Filippo Arcuri (20 anni) e Filippo Arcuri (25 anni), Francesco Tortorici (19 anni), Liborio Lumia (36 anni) Calogero Bentivegna (43 anni), Sebastiano Todaro (37 anni) ed altri ancora. Le condanne inflitte nei loro confronti dal Tribunale di Agrigento oscillavano dagli 8 ai 18 mesi di reclusione.

Bombe mafiose a Cattolica, muore Giuseppe Scalia Numerosi avvenimenti sociali e politici segnarono il primo dopoguerra. Le lotte contadine per la conquista del latifondo diventarono dure e aspre.

Dentro e a sostegno della grande proprietà agraria operava la mafia, che 31

gestiva e sorvegliava i feudi dei padroni. Gabelloti e campieri che gestivano le terre dei padroni appartenevano infatti ai gruppi mafiosi locali. Migliaia di ettari di terra erano rimasti incolti “la pecora prese il posto dell’uomo, gli agrari trasformano i loro fondi in redditizie aziende agro-pastorali”9. Padroni e mafiosi “volevano lasciare le terre a pascolo, perché alti erano i redditi dell’agro-pastorizia; i contadini insistevano per avere la terra e perché dal pascolo si tornasse alla coltivazione. Questi ultimi, pertanto, godevano della coincidente spinta governativa, di avere maggiori quantità di cereali agli ammassi”10. Le occupazioni delle terre da parte del nascente movimento contadino infastidirono da subito la mafia locale, per la quale le terre dei nobili latifondisti rappresentavano un importante attività economica e politica.

In vista delle elezioni amministrative del 1946 - le prime elezioni libere dopo un ventennio di repressione fascista – la mafia lanciò la sua offensiva contro il movimento contadino.

Il 18 novembre del 1945 verso le ore 19 a Cattolica Eraclea Aurelio Bentivegna e Giuseppe Scalia passeggiavano davanti alla sede della Camera del Lavoro, in prossimità dell’abitazione del Bentivegna, davanti la Chiesa Madre. Alcuni sicari della mafia lanciarono al loro indirizzo bombe a mano che colpivano mortalmente Giuseppe Scalia e ferivano il Bentivegna. Data la buona fama di Giuseppe Scalia, agricoltore laborioso, e la grande notorietà che il Bentivegna godeva per la sua attività politica svolta sin dal marzo 1944 alla testa del movimento proletario paesano è opinione generale che la causa del delitto debba ricercarsi nella cricca reazionaria, forse nella speranza di sedare il movimento socialista, togliendo alla massa il capo più attivo.

Indifferente è stato l’atteggiamento degli agrari in occasione dell’attentato, e quasi inconsistente è stata l’opera della polizia locale che, fra l’altro non si è nemmeno degnata di interrogare Aurelio Bentivegna, che era anche vice sindaco, e che da tempo era stato preso di mira con denunzie e con ogni sorta di persecuzione. Non sono stati interrogati nemmeno i familiari di Giuseppe Scalia, tra i fondatori della Cooperativa La Proletaria11. Ma i contadini, come vedremo in seguito, reagirono con coraggio. «Il movimento contadino ebbe il sostegno delle popolazioni urbane. Si creò, attorno agli agrari latifondisti, fermi nel loro isolamento, l’appellativo di “affamatori del popolo”»12.

“C’è Gramsci tra Giuseppe Spagnolo e Francesco Renda” Affrontando la questione meridionale, Antonio Gramsci sosteneva che i contadini non potevano diventare una forza attiva della rivoluzione senza superare lo stato di disgregazione e d’estraneità in cui si trovavano e che li teneva alla mercé delle classi dominanti all’interno del blocco agrario.

32

Attribuiva dunque agli intellettuali un ruolo decisivo per la realizzazione del progetto dell’emancipazione dei contadini. Gli intellettuali per Gramsci erano insegnanti, preti, tecnici, studenti; reclamava per loro l’egemonia culturale nel partito, il ruolo di mediatori, comunicatori culturali delle istanze dei contadini e dei meno abbienti. Bisognava affrontare i problemi dei contadini con gli stessi codici comunicativi, giuridici, politici, culturali, delle istituzioni giuridiche e politiche dello Stato, per questo era d’essenziale importanza il ruolo di chi, attraverso la capacità di scrivere e parlare, poteva formulare le proposte a contadini in prevalenza analfabeti.

Giuseppe Spagnolo e Francesco Renda, unendosi come per destino, misero in pratica la teoria gramsciana conseguendo, come abbiamo visto, notevoli risultati. Il giovane studente universitario si fece portavoce delle richieste dei contadini. Era in stretta collaborazione con Giuseppe Spagnolo, che guidava il Circolo dei contadini e la cooperativa La Proletaria. Giuseppe raccontava a Francesco, che tornava da Palermo per organizzare manifestazioni e cavalcate, gli ultimi fatti avvenuti in paese. Francesco Renda, studente/lavoratore, dava voce nei comizi e nelle riunioni al comune sentire dei contadini, riuscendo a ricodificarlo politicamente: producendo proposte, programmi di partito, obiettivi cooperativi.

Quando le tensioni all’interno del blocco agrario giunsero alla fase più estrema, il contadino e lo studente dunque si unirono, animando nel corso del difficile dopoguerra a Cattolica Eraclea i più rilevanti avvenimenti politici e sociali. I contadini trovarono soggetti capaci di organizzarli, indirizzarli, guidarli, riunirli in movimento di massa, rendendo politicamente efficaci le lotte per l’occupazione delle terre incolte dei nobili, riuscendo così a vincere la loro battaglia quotidiana per la libertà materiale e culturale dai padroni (né schiavi, né padroni) e a conseguire grandi successi: la cooperativa La Proletaria, la terra ai contadini, il sindaco comunista, il seggio al Parlamento13.

Le fonti 1 Francesco Renda, da articolo pubblicato su Chiarezza il 10 novembre 1946 2 Da: rapporto dei Carabinieri di Cattolica Eraclea del 28 marzo 1956.

3 Umberto Ursetta Salvatore Carnevale – La mafia uccise un angelo con le ali, l’Unità, 2005, Roma.

4 Rapporto dei Carabinieri di Cattolica Eraclea del 28 marzo 1956.

5 “Diario”, 11-03-05 – Inchiesta vecchio stile di Enrico Deaglio e Franco Castaldo. La citazione è tratta da un rapporto del 1978 dal capitano della compagnia di Agrigento, Giuseppe Cocilovo.

6 Francesco Renda Movimenti di Massa e Democrazia nella Sicilia del dopoguerra, Ed. De Donato, 1979, Bari 7 Decreti Gullo N.279 - 19 ottobre 1944. Concessioni ai contadini delle terre incolte. Le 33

associazioni dei contadini, regolarmente costituite in cooperative o in altri enti, possono ottenere la concessione di terreni di proprietà privata o di enti pubblici che risultino non coltivati o insufficientemente coltivati in relazione alle loro qualità, alle condizioni agricole del luogo e alle esigenze culturali dell'azienda in relazione con le necessità della produzione agricola nazionale.

8 F. Renda – Chiarezza - Ibidem 9 Tesi di laurea del dr. Nino Aquilino, relatore prof. Francesco Renda.

10 F. Renda – Movimenti di Massa e Democrazia nella Sicilia del dopoguerra, Ed. De Donato, 1979, Bari.

11 Da La Voce della Sicilia del 28 novembre e dell’8 dicembre 1945.

12 Tesi di laurea del dr. Nino Aquilino, relatore prof. Francesco Renda.

13 Corsivo dell’autore.

34

Il sindaco buono Il 25 aprile del 1945 i partigiani nel nord Italia costrinsero alla resa le truppe d’occupazione tedesche, l'Italia fu liberata. In Sicilia la resistenza contadina intanto assumeva toni sempre più duri e violenti. Il 15 maggio del 1946, per fronteggiare le rivolte separatiste che stavano spargendo sangue in Sicilia, il Governo, con decreto legislativo luogotenenziale, istituì lo Statuto della Regione Siciliana. Lo Stato Italiano, in pratica, concesse alla Sicilia un ampio potere d’autonomia, inteso come esercizio nell’isola di tutte o quasi le funzioni svolte dallo Stato in campo nazionale. Il 2 giugno del 1946 dopo il vittorioso referendum, fu proclamata la Repubblica Italiana.

1946, il primo sindaco contadino e comunista Era la prima volta che un contadino aspirava a diventare sindaco del paese. Giuseppe Spagnolo era il leader della lista del Blocco del Popolo, denominata anche La Zappa, il simbolo dell’unione tra il Partito Comunista e il Partito Socialista. L’altro aspirante sindaco della Democrazia Cristiana, dei liberali e del movimento sociale era il dottor Antonino Borsellino. Vinse la lista della Zappa raccogliendo 1.841 consensi contro i 1.414 delle forze avversarie.

Il 19 marzo del 1946, il giorno dei festeggiamenti in onore a San Giuseppe, patrono di Cattolica Eraclea, a norma della legge comunale e provinciale n° 148/1915, con 12 voti favorevoli fu eletto sindaco Giuseppe Spagnolo per il quadriennio 1946/1950. Il primo contadino nella storia del paese a sedere sullo scranno più alto del palazzo comunale. Il popolo è in festa! Festeggia a cavallo e a piedi in giro per il paese! Con la zappa sulle spalle, strumento di lavoro ora anche simbolo di vittoria! Per tutti i lavoratori, per i contadini in particolare, fu un’enorme soddisfazione, fu una grande vittoria politica del Blocco del Popolo. «‘U bummuliddu» contro l’assenteismo Diventato sindaco, Giuseppe Spagnolo cercò subito di porre rimedio ai “vizietti” dei dipendenti comunali, alcuni dei quali erano soliti assentarsi dal posto di lavoro per andare nel vicino bar della Piazza Umberto I° o per andare a bere nelle fontanelle del paese, distanti dalla sede del comune. Il comportamento di alcuni dipendenti rendeva inefficienti alcuni uffici del 35

Articolo di Francesco Renda pubblicato su “Chiarezza� il 7 aprile 1946

36

municipio, il sindaco intendeva quindi far rispettare l’orario di lavoro. Per evitare che i dipendenti si assentassero dal posto di lavoro, il sindaco rifornì gli uffici comunali di svariati «bummuliddi» (piccole brocche) che gli impiegati potevano riempire di acqua fresca dalla «quartara» (grosso recipiente) sistemata in un angolo del municipio. I dipendenti comunali, alcuni dei quali facevano in precedenza parte della gerarchia fascista, non gradirono per niente l’iniziativa e continuarono, malgrado i contrasti col sindaco, ad assentarsi dall’ufficio, mentre altri la apprezzarono.

Il riformismo della giunta Spagnolo Uno dei primi atti della giunta Spagnolo fu l’aumento forfettario degli stipendi dei dipendenti dell’ufficio razionamenti e consumi, da 600 a 900 lire sulla base del lavoro svolto.

Gli uomini della vecchia gerarchia fascistizzata del municipio videro perdere man mano il loro potere di condizionamento dell'attività amministrativa. Cominciarono i primi contrasti col sindaco il quale, però, andò avanti per la “via riformista”. Con urgenza, portò in consiglio comunale la proposta di modifica del regolamento del mercato settimanale. Fu istituita, infatti, la tassa per l’occupazione del suolo pubblico per i commercianti, e fu sottolineato nella delibera «il danno erariale che ne sarebbe derivato al comune da un ritardo nel provvedere». I commercianti non gradirono, ma l’iniziativa trovò il consenso di gran parte della popolazione cattolicese.

Il sindaco, avvertendo da qualche tempo il paese il bisogno di avere un corpo musicale «sia per ragioni di decoro, sia per motivi di civiltà e educativi»1, nel luglio del 1946 portò in consiglio comunale la proposta di ricorrere ad un’addizionale sulle bevande alcoliche, sul vino, la carne e il pesce per far fronte alla spesa per il maestro di musica, poiché l’iniziativa non si sarebbe potuta finanziare con le riserve di bilancio. La proposta fu approvata all’unanimità.

Il consiglio comunale denunziò maggiori entrate nel bilancio per lire 12.568.50 che destinò ad alcuni stanziamenti passivi del bilancio.

La giunta capeggiata da Spagnolo istituì pure due nuovi posti di lavoro, portiere e inserviente del comune, dando così occupazione a due persone.

Gli impiegati e i salariati comunali ricevettero il Premio della Repubblica consistente in 1500, 3000 o 6000 lire secondo le mansioni svolte. Il personale dipendente beneficiò anche della gratifica pasquale, consistente in un aumento in busta paga di 1000 lire lorde per il lavoro prestato durante il quadrimestre dal 1° gennaio al 30 aprile 1946.

L’amministrazione Spagnolo proseguiva con le “piccole riforme socia37

liste”. Modificò, infatti, anche il regolamento per la distribuzione dell’acqua potabile ai cittadini. La tassa sull’acqua cominciò a pagarsi in base al reddito e non più in base al numero dei componenti delle famiglie. Anche la modifica di questo regolamento infastidiva le classi più agiate del paese.

A vantaggio della popolazione fu istituito l’Ente comunale di consumo con l’annesso spaccio comunale di paragone allo scopo di fronteggiare gli alti prezzi dei generi alimentari. L’Ente non si proponeva di conseguire utili di gestione, ma solamente si rivaleva delle spese strettamente necessarie sui generi destinati alla vendita.

Furono pagati i debiti di segreteria e i debiti fuori bilancio accumulati nel 1945 e furono anche sistemati alcuni bevai, per dissetare gli animali domestici e le fontanelle pubbliche da cui si attingeva l’acqua potabile.

Il Blocco del Popolo accusò i latifondisti. Un decreto del ministro dell’agricoltura, come abbiamo visto, imponeva a proprietari e contadini l’ammasso del frumento ai “granai del popolo”, (depositi in cui lo Stato raccoglieva il frumento come bene nazionale per farne il pane). Spesso i padroni si sottraevano all'ammasso del grano e lo rivendevano al mercato nero accumulando illeciti profitti. Anche per questo i padroni furono soprannominati “affamatori del popolo”. Il 7 luglio 1946 dalla maggioranza del consiglio comunale fu richiesta con urgenza alla Prefettura di Agrigento “l’istituzione di un comitato comunale di vigilanza e di controllo su tutte le operazioni di ammasso del grano”. Vale la pena riportare qui uno stralcio del discorso del consigliere socialista Antonio Sciascia al consiglio comunale: «(…) vi è la necessità che la Camera del Lavoro venga ammessa a partecipare al controllo dell’UCSEA (ente di controllo per l’ammasso del grano), che lascia a desiderare, di modo che ai grossi proprietari non sia più possibile evadere all’ammasso del grano, come è avvenuto lo scorso anno, i cui risultati sono stati un completo fallimento, e non si assista allo scarico di azioni intimidatorie e sequestri esercitati su piccoli proprietari terrieri e mezzadri sui quali si vuol far ricader tutto il rigore della legge, che deve essere invece esercitata sui grossi proprietari alimentatori del mercato nero in grande stile e “affamatori del popolo”. (…) Il pane si vende ancora a L. 75 e a L. 80 al chilo, mentre gli speculatori locali caricano giornalmente grossi camion di grano che partono per ignota destinazione. Sebbene la trebbiatura volga al suo termine, pochi quintali di grano sono stati fino ad oggi ammassati se si eccettuano i tre camion sequestrati per lodevole iniziativa del Comando Stazione Carabinieri e di questa amministrazione comunale. Il comportamento dell’UCSEA fa giustamente sospettare che si dorma. Invito dunque il consi38

glio comunale a discutere e deliberare»2. La proposta fu approvata all’unanimità.

Nella seduta del consiglio comunale del 21 luglio del 1946 si registrò il primo contrasto in seno alla giunta del Blocco del Popolo, che chiese il voto di sfiducia per l’assessore Arcuri perché “non collaborava con la giunta ed era passato alla Democrazia Cristiana”. Dopo due sedute infuocate, la maggioranza del consiglio comunale approvò la sfiducia all’assessore Arcuri. La giunta Spagnolo cominciò ad essere logorata da una forte e dura opposizione. Tuttavia resse fino al 12 dicembre 1946, quando 6 membri della giunta si dimisero. L’opposizione intanto accusava il sindaco di essersi appropriato di parte del denaro pubblico utilizzato per la costruzione di un nuovo abbeveratoio costruito – a detta dell’opposizione – non rispettando a pieno le regole dell’iter burocratico. Il sindaco Spagnolo, sentendosi offeso da accuse così pesanti, il 13 dicembre ’46 si dimise. La maggioranza consiliare restò al Blocco del Popolo, che, nella seduta del 22 dicembre 1946, nominò sindaco il prof. Giuseppe Petralia. La giunta rimase pressoché invariata e restò in carica fino al 10 maggio del 19483.

Intanto l’opposizione chiedeva alla Prefettura di Agrigento la «rimozione» di Giuseppe Spagnolo anche da semplice consigliere comunale, perché durante il regime fascista, considerato sovversivo, era stato condannato al confino per associazione a delinquere. Ma Spagnolo il 16 ottobre de 1947 presentò le dimissioni al consiglio comunale per “motivi di famiglia”4. Il Blocco del Popolo dapprima respinse moralmente le dimissioni del consigliere Spagnolo “perché egli è un buon elemento che ha dato la sua attività operosa e zelante all’amministrazione comunale, specie in qualità di sindaco”. Ma i consiglieri comunali socialisti e comunisti, si trovarono “costretti ad accettare le dimissioni di Spagnolo e nel contempo a tributargli un senso di gratitudine nei confronti della popolazione, perché egli ha assolto le funzioni di sindaco con simpatia e ammirazione da parte della massa popolare verso la quale ha rivolto le sue attenzioni e il suo interessamento”5.

Aprile 1948, "a morti nni sunaru l’aunìa" In vista delle elezioni politiche ed amministrative del 1948, in Sicilia furono uccisi dalla mafia i dirigenti più carismatici del movimento contadino, nel tentativo di scompaginare e creare confusione tra i contadini che alle elezioni amministrative del 1946 e alle regionali del 1947 avevano riscosso notevole successo.

39

Il 4 gennaio del 1947 a Sciacca, una raffica di mitra uccise Accursio Miraglia, segretario della Camera del Lavoro di Sciacca. Il 1 maggio del 1947, l’eccidio di mafia a Portella della Ginestra, uccisi 12 contadini. Il 3 marzo del 1948 cadde a colpi di “lupara” Saverio Li Puma a Petralia Sottana.

Stessa fine per Giuseppe Cangelosi a Camporeale. Il 10 marzo del 1948 a Corleone “lupara bianca” per Placido Rizzotto.

Alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, in Sicilia, come in campo nazionale, vi fu una pesante sconfitta delle sinistre.

La Dc affrontò una campagna elettorale aggressiva: in strettissima collaborazione con i rappresentanti della Chiesa locale organizzò un massiccio attacco politico-ideologico contro comunisti e socialisti che vennero additati come sovversivi che volevano fare delle chiese stalle per cavalli. A Cattolica Eraclea, il Blocco del Popolo raggiunse il 38% dei suffragi, contro il 59,49% della Democrazia Cristiana e il 6% delle altre forze La DC vinse plebiscitariamente le elezioni. Il signor Calogero Miceli, pastore e poeta, così descrisse quella sconfitta: “Successi a Cattolica Eraclea / ca a morti nni sunaru l’aunìa / è stata dda cricca farisea / na bona parti da democrazia”6.

Mentre la guida del governo nazionale fu affidata ad Alcide De Gasperi, un cattolicese fu eletto al parlamento nazionale, diventò onorevole della Democrazia Cristiana il professor Raimondo Borsellino. Anche alle elezioni amministrative del 1949 a Cattolica Eraclea la DC riconfermò il successo e divenne sindaco il notaio Antonino Marsala.

Le terre occupate assegnate ai contadini Il movimento contadino, nel corso delle dure battaglie per la conquista delle terre incolte dei padroni, raggiunse a Cattolica Eraclea importanti risultati. Furono assegnate alla cooperativa agricola La Proletaria, guidata da Giuseppe Spagnolo, le terre di Monte Sara, Borancio e contrada Asparacia, di proprietà del marchese Giovanni Borsellino e del Cavalier Gaspare Borsellino, inoltre le fertili terre di Piana Vizzì, di proprietà del latifondista Briucci di Montallegro, ed ancora quelli di contrada San Giorgio, Pere Barbaro, situati nel territorio di Agrigento, di proprietà della famiglia baronale dei Pasciuta Agnello di Siculiana. Furono assegnate a La Proletaria anche le terre di contrada Mandorla appartenenti al barone Giovanni Rizzuto. Per far rispettare l’attuazione delle decisioni della commissione provinciale per l’assegnazione delle terre incolte, Spagnolo, da presidente de La Proletaria, chiamò in tribunale sette nobili latifondisti che esercitavano una sorta di sovranità su tutto il territorio cattolicese7. Fu un grave affronto.

40

Le rappresaglie con i campieri e i gabelloti. Baroni, marchesi e cavalieri, per difendere al meglio arcaici privilegi feudali e per impedire l’emancipazione sociale di braccianti e contadini, affidavano le loro proprietà terriere ai campieri, uomini forti, appartenenti alla mafia locale, che si ponevano come garanti a difesa delle terre dei padroni, prese d’assalto in quel periodo dai contadini che chiedevano di coltivarle in gabella o a mezzadria. I grossi proprietari, come abbiamo visto, preferivano per i loro terreni la pastorizia, molto redditizia, e riempivano le terre di pecore piuttosto che di cereali e frutti o qualsiasi altra coltivazione. Il movimento contadino, spinto dalla necessità di dover sostentare le proprie famiglie, incoraggiato da una legislazione che permetteva l’emancipazione di braccianti e agricoltori, scontrandosi duramente con i campieri dei feudi, riuscì ad ottenere ciò che voleva: terra e lavoro. La guerra aveva creato nelle campagne situazioni di squilibrio, entro le quali nacque e si sviluppò il movimento bracciantile. I campieri, naturalmente, consideravano proprie le terre incolte dei padroni e le facevano fruttare per proprio conto. Le istanze dei contadini, benché agevolate dal decreto Gullo, si scontravano con gli interessi economici, ma anche col prestigio sociale dei campieri. Nel corso delle occupazioni delle terre ci furono più volte scontri e rappresaglie, e Giuseppe Spagnolo si trovava sempre coinvolto alla testa del movimento contadino8.

Giuseppe Spagnolo, picchiato e intimidito da “ignoti” 1952. Giuseppe picchiato da sicari della mafia. Una famiglia mafiosa di Ribera acquistò delle terre in contrada Piana, terre che Giuseppe Spagnolo da qualche anno coltivava in gabella. Ma i nuovi proprietari non volevano Spagnolo su quei terreni: nell’estate del 1952 Spagnolo fu selvaggemente aggredito da otto “picciotti”, alla presenza del figlio Liborio e di alcuni contadini montallegresi. Insanguinato, rannicchiato per terra, con le costole rotte e varie lesioni sul corpo, denunciò l’aggressione al locale Comando dei Carabinieri. I nuovi padroni si ripresero tutto il feudo.

1954. “Ignoti” incendiano un pagliaio di Spagnolo. Il presidente della cooperativa La Proletaria continuava la sua battaglia in difesa dei diritti dei contadini. Era stata nel frattempo approvata la nuova Riforma Agraria che tentava di costruire una nuova gestione del latifondo, ma fondata sulle piccole proprietà terriere individuali e non più sul sistema cooperativistico.

Quindi le terre dovevano essere distribuite a singole persone piuttosto che a cooperative di contadini. Qui lo scontro con la mafia diventò più violento in tutta la Sicilia, i padroni preferivano infatti assegnare le terre a singole per41

sone di loro fiducia, gabelloti e campieri. Da queste parti, per la distribuzione del latifondo, la mafia, in sostanza, applicò l’arbitrio privato9 e la distribuzione del latifondo non fu per niente equa, né giusta. Addirittura padroni e mafiosi tentarono di riconquistare le terre incolte che erano state affidate in precedenza ai contadini. Per difendere queste terre Giuseppe Spagnolo ebbe vivaci discussioni col barone Agnello e i suoi campieri. Durante l’inverno del 1954 Spagnolo ricevette un altro messaggio intimidatorio. “Ignoti” incendiarono un pagliaio di sua proprietà, ubicato nel centro abitato di Cattolica Eraclea, in via Pozzillo. Fu sporta denuncia contro “ignoti” ma le indagini non risalirono né agli autori né ai mandanti dell’intimidazione10.

Lettera con la quale la Camera del Lavoro di Cattolica Eraclea cita gli agrari in tribunale 42

Le fonti 1 Da: delibere di giunta comunale e verbali di seduta del consiglio comunale del 1946/47 2 ibidem 3 ibidem

4 Da: lettera di Giuseppe Spagnolo al sindaco Petralia del 16/10/1947 5 Da: verbale di seduta consiglio comunale del 30/10/1947

6 Da tesi di Laurea del Dott. Nino Aquilino, relatore Prof. Francesco Renda

7 Da: verbali di seduta e bilanci annuali della cooperativa La Proletaria, da comunicazioni

scritte della Camera del Lavoro di Cattolica Eraclea e documenti della Commissione provinciale per l’assegnazione delle terre incolte.

8 Da: testimonianze di anziani protagonisti degli avvenimenti.

9 Da: Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della

mafia in Sicilia (DOC. XXIII n.2 – VI LEGISLATURA) 10 Da: articoli stampa e da denunce presso la stazione dei Carabinieri di Cattolica Eraclea citate nella documentazione processuale.

43

13 agosto 1955, l’omicidio Ucciso in campagna trafitto da 7 colpi di lupara La notte tra il 13 e il 14 agosto del 1955 Giuseppe Spagnolo fu ucciso crivellato da 7 colpi di lupara, mentre dormiva all’aperto nel suo terreno in contrada Bissana, tra Cattolica Eraclea e Cianciana1.

Fu trovato morto dalla moglie e dal figlio Liborio alle ore 13 circa del 14 agosto. “Impensierita del suo ritardo – raccontò la moglie ai carabinieri pensai di raggiungerlo in campagna. Temendo che egli avesse potuto ricevere qualche calcio dalla giumenta, mi avviai da sola a piedi. Nei pressi di Monte Sara mi raggiunse con la mula mio figlio Liborio e da lì raggiungemmo il nostro terreno a Bissana. Giunti sul posto, potei scorgere, distesa sulla ristoppia, la nostra bisaccia sotto la quale, immerso nel sangue, giaceva esanime il corpo di mio marito, colpito in più punti da colpi di arma da fuoco. (…) Con l’aiuto di mio figlio lo caricai sulla mula trasportandolo in casa”2.

Il dottor Salvatore Marino, incaricato dai carabinieri dell’ispezione del cadavere, espresse il parere che la morte dello Spagnolo risaliva “intorno alla mezzanotte del 13 agosto ed era stata causata da 6 o 7 colpi di fucile, caricati a lupara, esplosi a breve distanza”3.

Un popolo intero al funerale di Giuseppe Spagnolo Un popolo intero partecipò ai funerali di Giuseppe Spagnolo che si svolsero il 15 agosto del 1955 a Cattolica Eraclea. Gli uomini indossarono camicia bianca e fascia nera, le donne una veste nera e fazzoletto nero in testa. Non si svolse la funzione religiosa perché la vittima era comunista e l’arciprete Cuffaro non volle celebrare la Messa funebre.

La bara con il defunto fu portata in giro per il Momenti del funerale

44

paese dagli amici e dai compagni. Si celebrò ugualmente un momento di meditazione e preghiera davanti alla chiesa della Mercede durante il quale Francesco Renda, amico e compagno della vittima, gli tributò l’ultimo saluto con una commovente orazione funebre, nella quale apprezzò la sua integrità morale e le alte qualità di dirigente del movimento contadino.

Erano presenti le delegazioni provinciali e regionali del PCI così come le delegazioni di tutti gli altri partiti senza distinzione di colore politico.

Un immenso corteo lo accompagnò al cimitero. Anche uno degli assassini (che ancora non era stato scoperto) partecipò al funerale, addirittura accompagnò sotto braccio Liborio, il figlio primogenito della vittima4.

Momenti del funerale

Momenti del funerale 45

Commemorazione funebre

Le fonti 1 Da: Rassegna Stampa

2 Da processo verbale d’interrogatorio di Guaragna Filippa del 20 agosto 1955 presso la sta-

zione dei Carabinieri di Cattolica Eraclea.

3 Rapporto dei Carabinieri di Cattolica Eraclea del 21 agosto 1955 relativo alla denunzia in stato di arresto di R. Gurreri, L. Cammalleri, L. Salvo, G. Arcuri.

4 Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state attinte da intervista a Liborio Spagnolo e moglie, dalla rassegna stampa, da testimonianze varie.

46

RASSEGNA STAMPA DELL’OMICIDIO

L’Unità, 15 agosto 1955

47

Giornale di Sicilia, 15 agosto 1955

48

Il Messaggero, 15 agosto 1955

49

L’ORA, 17 agosto 1955

50

L’Unità, 16 agosto 1955

51

Le indagini partono dal fiume Platani arrivano alla mafia Sicari scoperti grazie ad una mula Cominciarono le indagini e l’attenzione dei carabinieri fu rivolta a tre curiosi episodi.

La notte tra il 13 ed il 14 agosto 1955, la stessa notte dell’omicidio, mentre erano in servizio di perlustrazione in contrada Bonura e Pirrone, sulla sponda sinistra del fiume Platani, i carabinieri, giunti al guado del fiume, scorsero tre individui incappucciati a cavallo che provenivano dalla sponda opposta, dal lato della contrada Bissana. I tre guardavano il fiume, ma dopo aver visto i militari, si diedero alla fuga verso Cianciana; i carabinieri li inseguirono, spararono qualche raffica di mitra per indurli a fermarsi ma i tre riuscirono a far perdere le loro tracce. L’episodio fu segnalato dal brigadiere Miniagi al Pretore del mandamento di Cattolica Eraclea, dott. Antonino Marsala «non in riferimento all’omicidio ma per dovere d’ufficio»1. I Carabinieri notarono anche che “uno dei tre fuggitivi fu scaraventato a terra dalla mula recalcitrante”, ma non riuscirono ad acciuffarlo.

Il 14 agosto alle ore 4 del mattino, inoltre, il vigile urbano Antonino Lo Iacono trovò in via Oreto e consegnò ai Carabinieri della locale stazione “una bisaccia contenente il calciolo di un fucile da caccia non denunziato (calibro 12, marca Bernardelli, n. 10/600/553. Anno 1927. Acquistato direttamente presso la ditta di produzione “Vincenzo Bernardelli” con sede a Palermo), due cartucce a lupara, un berretto nero, una canottiera e un residuo di modulo a stampa dell’amministrazione comunale”2.

La domenica del 14 agosto, il sacerdote don Dinaro, durante la Santa Messa nella chiesa Sant’Antonio Abate, informò la popolazione che di buon mattino era stata ritrovata una mula di manto nero. Rosario Gurreri, il proprietario della mula smarrita (una morella di 6 anni marcata OX), andò a ritirarla. Ricordandosi della notte precedente i Carabinieri pensarono che “Gurreri non fosse estraneo all’omicidio” e, alle ore 17 del lunedì 15 agosto, i carabinieri lo arrestarono. Fu anche arrestato Paolo Gurreri, il fratello di Rosario, ma, considerato estraneo all’omicidio, fu rilasciato il mattino seguente.

Rosario Gurreri, da complice a pentito. Il 17 agosto, dopo pressanti interrogatori dei Carabinieri e del Pretore, intorno a mezzogiorno, Rosario

52

Gurreri si decise a confessare. Dichiarò che circa un mese addietro i suoi amici Giacinto Arcuri, Leonardo Salvo e Leonardo Cammalleri, gli avevano chiesto di «partecipare all’uccisione di Giuseppe Spagnolo, da compiersi alla prima occasione propizia per “fatti d’onore”, per vendicare l’offesa subita della suocera del comune amico Leonardo Cammalleri, commessi nel passato dallo Spagnolo in danno della donna»3.

Gurreri disse di avere «declinato l’invito», ma il 13 agosto fu coinvolto ugualmente nell’omicidio: alle ore 20 Giacinto Arcuri gli chiese di «prestare la sua mula al Cammalleri, in quanto nella nottata egli, il Cammalleri e il Salvo si sarebbero dovuti recare in contrada Bissana, ove lo Spagnolo possiede un piccolo appezzamento di terreno, allo scopo di ucciderlo».

Il Gurreri obbedì. Alle ore 23 portò la mula al “Piano Balilla”, vicino al fiume Platani. Raccontò ai carabinieri: «Dopo alcuni minuti d’attesa consegnai l’animale al Cammalleri, dopo averlo munito di basto presso la mia stalla. In luogo non trovai altre persone ed io, assolto il mio compito, feci ritorno a casa dove trovai mia moglie che dormiva. Cammalleri indossava indumenti da campo ed una coppola nera. Apparentemente non era armato.

Secondo gli accordi presi la sera precedente, la mula mi sarebbe stata restituita a casa, non appena portata a termine l’impresa criminosa. Poiché attesi invano, verso le ore 8 uscii di casa, in via Monsignor Amato incontrai l’Arcuri. Egli mi affermò che avevano commesso l’omicidio in contrada Bissana trovando Spagnolo dormiente all’aperto. Non mi disse però con quali armi né con quali modalità. Della mia mula non sapeva darmi notizie perché sulla via del ritorno egli, il Salvo e il Cammalleri, giunti sulla riva del fiume Platani, in prossimità del nuovo ponte si erano dovuti sbandare e scompagnare l’uno dall’altro per essersi imbattuti in una pattuglia di Carabinieri»4. I tre furono ricercati dai carabinieri che non riuscirono però a rintracciarli poiché, in concomitanza con l’arresto del Gurreri, si resero irreperibili. Racconta qualche anziano, anzi… mormora, che i due ricercati furono ospitati e protetti dal presunto boss del paese Antonino Manno all’interno della sua abitazione in via Rosario, di fronte alla sacrestia della Chiesa Madre. Poi, si racconta sempre a bassa voce, l’arciprete Cuffaro li avrebbe fatti nascondere all’interno della chiesa Madre dove si sarebbero recati travestiti da donna per passare inosservati. Alcuni amici e compagni di Giuseppe Spagnolo improvvisarono una sorta di manifestazione davanti alla Chiesa Madre, per concentrare l’attenzione dei carabinieri sui fuggitivi, ma i tre non furono più visti. Secondo gli inquirenti che si sono occupati di loro nel corso degli anni, godendo della protezione della mafia italo-americana, sarebbero espatriati clandestinamente in America prima e in Canada poi, 53

«visto che queste fulminee emigrazioni non avvengono senza l’ausilio di una predisposta organizzazione»5.

Il processo a Sciacca: ergastolo agli assassini Il processo per l’omicidio Spagnolo fu istruito nel 1956 presso la Corte d’Assise di Agrigento6. Le quattro udienze del processo furono convocate a Sciacca all’interno di una chiesa sconsacrata per l’occasione adibita a tribunale penale. I giudici della Corte trovarono subito “evidenti prove a carico degli imputati sin dalle indagini svolte dai carabinieri”.

“La reità degli imputati – scrissero i giudici – è provata dalla chiamata in correità dal Gurreri, soggettivamente attendibile e oggettivamente confermata da fatti ad essa collegati (comportamento degli accusati, identificata causale, convergenza di univocità, deduzioni indizianti). Gli avvocati degli imputati, Frontespizio della sentenza della Corte d’Assise di Sciacca Pietro Renda, Giuseppe Sabatini e l’onorevole della Dc Rocco Gullo, respingevano le accuse nei confronti dei loro assistiti sostenendo che «non esistesse alcuna causale, né alcuna prova della reità degli imputati». Ma inchiodati dalle rivelazioni del Gurreri i difensori tentarono di far passare come movente del delitto il fin troppo abusato “motivo d’onore”, puntando sulla concessione delle attenuanti. Ma la signora Giuseppa Di Salvo, la suocera 54

del Cammalleri che, secondo la difesa, avrebbe subito in passato l’insidia dallo Spagnolo si avvalse della facoltà di non rispondere (di cui all’art. 450 C.P.P.).

I legali degli imputati tentarono anche di far passare per pazzo, «affetto da morbose malattie mentali» il Gurreri, sulla cui testimonianza era stato impiantato il processo. L’avvocato di parte civile dr. Giuseppe Grillo, così come il pubblico ministero, provarono invece che la causale del delitto fosse di natura politico-mafiosa, per via dell’attività sindacale in favore del movimento contadino della vittima. «Dietro l’omicidio di mio marito – disse la signora Filippa Guaragna - si nascondono dei mandanti. Mio marito era presidente della cooperativa La Proletaria ed inoltre segretario della Camera del Lavoro. A causa dell’attività sindacale svolta per l’assegnazione delle terre ai contadini, gli interessi di gabelloti, campieri e mafiosi furono lesi”. Il “padrino” di Cattolica Eraclea, Antonino Manno, fu chiamato in tribunale “per citazione”, ma egli si avvalse della facoltà di non rispondere (art. 450 C.P.P). Furono chiamati dai giudici anche il potentissimo Barone Agnello e i suoi campieri.

Ma, in mancanza di più saldi elementi, campieri e boss non furono incriminati e nei loro confronti non fu aperto procedimento penale.

L’onorevole Francesco Taormina, membro del Partito Socialista siciliano, difese Giuseppe Spagnolo rilevando la profonda conoscenza che aveva della vittima «la cui attività politica lo aveva reso particolarmente inviso agli elementi della tradizione locale sin dal 1944». Sulla scorta degli atti processuali e del rapporto dei carabinieri, l’avvocato Taormina osservò che «il teste Gurreri non è il pazzo che si vuol far pensare. La causale amorosa e l’insidia alla suocera del Cammalleri sono solo delle scuse – esclamò in aula l’onorevole – dirette ad oscurare ben altra causale che presuppone i mandanti, quella sociale! I deboli – continuò – non sono gli imputati, il cui stato di latitanza è anzi prova di forza e di potere in contrasto con il potere dello Stato. I deboli sono le parti offese, che rischiano il dileggio sulla loro sciagura per l’impunità degli assassini».

Dopo una prima sentenza di rinvio a giudizio emessa nel febbraio 7 1957 , il 26 febbraio del 1960, la sezione di Sciacca della Corte d’Assise di Agrigento condannò i tre imputati principali all’ergastolo per “omicidio premeditato, ai sensi degli articoli 110, 575, 577 n° 3 del Codice Penale”.

Gurreri invece, accusato di concorso in omicidio, fu assolto per «insufficienza di prove», ma fu l’unico a soggiornare in carcere per quasi 4 anni (il Pm aveva chiesto per lui 14 anni di detenzione). Aver collaborato con la giustizia forse lo favorì sotto l’aspetto processuale: fu assolto, infatti, per insuf55

ficienza di prove, sebbene fossero lampanti le prove di concorso in omicidio a suo carico. Gli assassini furono condannati anche al pagamento delle spese processuali e singolarmente al pagamento della somma di lire duecentomila alla Cassa delle ammende; inoltre le spese sostenute dalle parti civili Guaragna Filippa vedova Spagnolo e Spagnolo Maria, Liborio e Salvatore, furono liquidate in lire duecenteventicinquemila, ivi compresi gli onorari degli avvocati.

Con la sentenza, la Corte confermò dunque le motivazioni di merito contenute nell’accusa del Pubblico Ministero: «La continuità e il legame effettivo tra le intimidazioni mafiose di cui nel passato era stato vittima Giuseppe Spagnolo per la sua attività in difesa dei contadini e il suo conseguente assassinio»8.

1960. Paolo Bongiorno ucciso prima delle elezioni La mafia tornò ad uccidere nell’agrigentino. Il 20 settembre del 1960 cadde a colpi di lupara Paolo Bongiorno, 38 anni, cattolicese residente a Lucca Sicula, ed ivi segretario della Camera del Lavoro. Dopo i successi raggiunti sin dal 1946 da dirigente del Partito Comunista, nel settembre del 1960 si stava candidando alle elezioni amministrative in tempi in cui tra le montagne bisognava “spazzar via i comunisti”, provocare uno shock, colpire una figura prestigiosa del partito.

Paolo Bongiorno aveva risvegliato dal torpore il movimento contadino montanaro, negli ultimi mesi aveva guidato i braccianti agricoli in manifestazioni e scioperi provinciali e regionali per rivendicare l’assistenza sanitaria, paghe più alte, la La Strada, giornale diretto da Salvatore Leonte, settembre 1963 56

difesa degli elenchi anagrafici. Il 20 settembre 1960, poco dopo le ore 22, dopo una riunione della Camera del Lavoro, stava rientrando a casa in compagnia del giovane nipote Giuseppe Alfano, leader dei giovani comunisti; i due si salutarono. Due minuti dopo, due pallettoni sparati a lupara colpirono Paolo Bongiorno alla schiena. Il sicario, in compagnia di qualche complice, si diede alla fuga e non fu più trovato. “I mandanti dell’omicidio sono da ricercare nelle cricche mafiose clericali e fasciste del luogo, che dopo anni di lotta feroce stavano stipulando un’alleanza elettorale (DC-MSI) con il duplice obiettivo di strappare alle sinistre l’amministrazione comunale e di scompaginare l’organizzazione del PCI e della Camera del Lavoro. Paolo Bongiorno era stato per anni tra i dirigenti più intelligenti, attivi e prestigiosi. Era il migliore di tutti. Era quello che parlava e le cose agli avversari gliele diceva in faccia. Era quello che leggeva di più, il più informato” – questo i compagni dissero di lui a Federico Farkas, il giornalista che raccontò l’omicidio sulle pagine dell’Unità.

Paolo lasciò cinque orfani: Beppe di 14 anni, Pietro di 12, Giuseppina di 9, Salvatore di 4 ed Elisabetta di 2, mentre sua moglie, Francesca Alfano, attendeva un’altra creatura. Un immenso corteo, preceduto dalla bandiera rossa e dalle corone, lo accompagnò al cimitero. Ai dirigenti provinciali e regionali accorsi a tributare l’ultimo saluto alla vittima, la vedova disse: «Non ci dimentichiamo che è morto per il partito. Lui è morto, ma noi più forti siamo»9.

Delitto Spagnolo, in Appello: castigo ordinato dalla mafia Intanto il processo Spagnolo si spostava ad Ancona. Gli avvocati degli imputati condannati in contumacia impugnarono la sentenza di primo grado e, reclamando attenuanti ed altri accertamenti, chiesero il secondo grado di giudizio. Su richiesta del Procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo, il processo fu spostato dalla Corte di Cassazione, per legittima suspicione, presso la Corte d’Appello di Ancona. Furono riaperte le indagini che miravano: 1) ad accertare la topografia, le distanze e i percorsi della zona tra l’abitato di Cattolica Eraclea ed il luogo dell’omicidio; 2) a ricostruire la posizione dello Spagnolo allorché era stato ucciso, la quantità dei colpi sparati contro di lui, la distanza dalla quale erano stati sparati, la qualità delle armi usate.

Svanita inoltre la possibilità di poter provare l’insidia alla suocera del Cammalleri come movente del delitto, i legali degli imputati insistevano sulla presunta instabilità mentale di Rosario Gurreri. Quest’ultimo fu sottoposto ad esami psichiatrici presso l’ospedale psichiatrico di Agrigento e l’o57

spedale militare di Palermo, ma non risultò affetto da malattie mentali. I giudici dunque considerarono attendibile la sua testimonianza.

Difensori, accusatori ed anche i giudici della Corte di Appello di Ancona concordarono nel ritenere “assurdo identificare il movente del delitto nel desiderio di vendicare la supposta insidia ai danni della suocera del Cammalleri, che sarebbe avvenuta molti anni addietro.

Anche perché – scrisse il giudice della Corte dott. Alberto Mazza nelle motivazioni della sentenza – la supposta insidia è comprensibilmente idonea ad un’immediata rappresaglia. (…) Che al Gurreri sia stata Frontespizio della sentenza della Corte di Appello di Ancona fornita questa causale può essere, ma che ciò corrisponda al vero non è credibile. Ben più attendibile, per convergenza di indizi, è la causale alternativamente emergente dalle carte processuali: un castigo ordinato dalla mafia.

Sicuramente estraneo ad ogni movente di rapina, di astio, di immediati interessi patrimoniali, l’omicidio va inquadrato nella categoria dei delitti di prestigio, caratterizzati dalla meditata eliminazione di chi ostacola una supremazia che altri vuol conservare. Deciso e volitivo, forse anche temibile per la sua irruenza, lo Spagnolo – emerge ancora dalle motivazioni della sentenza d’Appello – si era posto a capo del movimento bracciantile ispirato alla ideologia comunista ed era venuto a contrasto con persone ostili al frazionamento dei fondi e legati alla mafia, di cui Spagnolo aveva osato farsi beffa.

Nulla di più possibile che la sua fine fosse segnata e comandata. Il Maresciallo dei Carabinieri, la persona presumibilmente meglio informata al riguardo, afferma, nel rapporto del 28 marzo 1956, che questo è il solo movente accettabile dell’omicidio. La ipotesi si rafforza riflettendo sulla immediata sparizione dei tre imputati, dato che queste fulminee emigrazioni verso altri lidi suppongono l’ausilio di una predisposta organizzazione”.10 58

Inoltre sulle modalità dell’uccisione si è sottolineata la «ritualità mafiosa.

Schierati di lato al dormiente, con le armi puntate, a viso coperto, i tre esecutori del delitto assunsero l’aspetto di un plotone di esecuzione. Se all’origine dell’omicidio ci fosse stata la vendetta individuale, il delitto sarebbe stato consumato meno solennemente e con minor apparato di forze e non sarebbe stato facile al vendicatore aggregare persone estranee alla sua vendetta. Dunque il movente del delitto non è individuale ma collettivo. I mandanti non furono mai individuati, ma al processo, Filippa Guaragna, la vedova, e i figli dell’ucciso, continuavano a manifestare l'opinione che “i tre esecutori del delitto avessero agito su mandato di tal Manno Antonino, esponente della mafia locale, (…) i cui abusivi introiti erano pregiudicati dall’attività dello Spagnolo, fervente sindacalista e zelante attivista del partito comunista, intesa a favorire il frazionamento dei latifondi e la creazione della piccola proprietà contadina. (…) Queste ipotesi venivano dichiarate attendibili, con rapporto del 28 marzo del 1956, dai Carabinieri di Cattolica Eraclea.

Secondo il rapporto, «i tre latitanti e l’arrestato erano stati presumibilmente assunti di recente nelle file della mafia e l’uccisione dello Spagnolo costituiva la dimostrazione di capacità e d’obbedienza che l’associazione criminale esige dai neofiti». Nei confronti dei presunti mandanti non fu aperto nessun procedimento. La Corte comunque respinse i ricorsi degli appellanti e, non concedendo nessuna attenuante, il 31 marzo del 1967 confermò le condanne emesse con sentenza di primo grado dalla Corte d’Assise di Agrigento. La difesa fece appello alla II^ seconda sezione penale della Corte di Cassazione»11.

La Cassazione conferma: omicidio politico La Suprema Corte di Cassazione, presieduta a Roma dal dott. Carlo Della Venaria, il 29 ottobre del 1969 confermò le condanne al Salvo ed al Cammalleri e annullò la condanna a Giacinto Arcuri, per avvenuta morte dell’imputato (il 3 marzo del 1969). I giudici di Cassazione confermarono le tesi dell’accusa e della difesa nei precedenti gradi di giudizio. Nelle motivazioni della sentenza: «I giudici di Appello nel ritenere le prime dichiarazioni del Gurreri un valido e fondamentale elemento di prova, su cui legittimamente potevano fondare il proprio giudizio, non sono incorsi in alcun errore perché i fatti relativi al processo possono essere acquisiti con qualunque mezzo, purché non lo vieti legge. Il giudice attribuì alla chiamata in correo dell’imputato in sede d’interrogatorio rilevanza decisiva a fondare sulla stessa una dichiarazione di colpevolezza che – considerata nel complesso ed in relazione agli elementi di controllo forniti nelle risultanze processuali – presenta il 59

requisito della certezza. Neppure è esatto – spiegano ancora i giudici di Cassazione – che l’impugnata sentenza abbia trascurato elementi processuali di decisiva rilevanza (…) la lunga e scrupolosa motivazione ha preso in esame con serena obiettività tutte le prove sia a favore che a carico, indicandone l’effettivo contributo all’accertamento della verità»12.

Dunque il processo si concluse con la condanna in contumacia dei tre esecutori materiali del delitto, ma con la mancata identificazione dei mandanti dell’omicidio di Giuseppe Spagnolo.

Frontespizio della sentenza della Corte di Cassazione

1972, Canada: vendetta a colpi d’accetta Nel 1972, in Canada, intervenne anche il “tribunale della mafia”. Il giustiziato: Rosario Gurreri, il teste chiave del processo Spagnolo, condannato a morte senza possibilità d’appello.

Il 2 marzo del 1972, a Montrèal, Rosario Gurreri fu trucidato a colpi d’accetta da cucina e coltello da caccia. Fu trovato morto all’interno del suo ristorante New Miss Mont-Royal dalla cameriera che andava ad aprire il locale.

Dopo avere scontato quasi 4 anni di carcere, il Gurreri, il 9 luglio del 1962 era emigrato in Canada, in un primo momento lavorando nel settore dell’edilizia, successivamente cominciò a gestire in comproprietà il ristorante all’interno del quale fu trovato ucciso. La sezione per le indagini criminali della polizia canadese accusò dell’omicidio i latitanti Leonardo Cammalleri (nato a Cattolica Eraclea il 2 ottobre 1919) e Leonardo Salvo, (nato a Cattolica Eraclea il 18 luglio del 1931) “causa un regolamento di conti da compiere in virtù della tradizione siciliana”. La polizia canadese, in sostanza, collegò l’uccisione del Gurreri con il delitto Spagnolo avvenuto il 13 agosto 1955. La notizia suscitò ampio interesse nella stampa canadese.

Così Le Journal de Montréal: “Dopo 12 d’attesa, due siciliani uccidono un traditore a Montréal”.

60

Anche il Corriere Canadese e il Cittadino Canadese scrissero che anni prima il Gurreri avrebbe “venduto” i suoi complici alla giustizia. Per onestà di cronaca, malgrado ciò non sia documentato nelle carte processuali, da testimonianze raccolte tra alcuni anziani di Cattolica Eraclea, emergerebbe la complicità del Gurreri con gli assassini non solo per ever prestato la mula, ma anche per aver commesso l’omicidio. I contadini che dormivano all’addiaccio nei pressi del luogo del delitto Spagnolo, la notte dell’omicidio avrebbero visto fuggire quattro persone, i carabinieri, invece, ne avrebbero visti solamente tre (come scritto nel rapporto consegnato ai giudici).

Elemento importante questo, supportato dal fatto che, nel corso dell’interrogatorio, Gurreri cercò più volte di variare le dichiarazioni a favore dell’uno o dell’altro imputato. E poi, sette i colpi di lupara che trafissero Spagnolo, quindi o uno degli assassini ricaricò l’arma due volte, considerando che la lupara spara solo due colpi, o a sparare furono in quattro. Dunque anche Gurreri forse era tra gli assassini. Ma consideriamola solo un’ipotesi13.

Le Journal de Montrèal, 2 aprile 1972

61

Il Corriere Canadese, 2 aprile 1972

Le fonti 1 Dal Rapporto (n° 40) relativo alla denunzia in stato di arresto di: R. Gurreri, L. Cammalleri, L. Salvo, G. Arcuri.

2 ibidem 3 Dal Processo verbale d’interrogatorio di R. Gurreri (16/08/1955) 4 ibidem 5 Dalla lettura degli atti del processo e dalla rassegna stampa.

6 Le notizie di questo paragrafo sono contenute nel dibattimento processuale e nella sentenza della Corte di Assise di Agrigento del 15 marzo 1960. Convocata in Sciacca la Corte era presieduta dal dott.

Giuseppe Navarra, a latere i giudici Vincenzo Marchia e Nicolò Raggio.

7 Sentenza di rinvio a giudizio 18 febbraio 1957 del Tribunale civile e penale di Sciacca, Giudice Istruttore, dr. Giuseppe Russo.

8 Dalla sentenze della Corte di Assise di Sciacca.

9 Dalla rassegna stampa.

10 Dalla Sent. del 26 Agosto del 1967 della Corte d’Assise di Ancona presieduta dal dr. Alberto Mazza 11 ibidem 12 Dalla sentenza della Corte di Cassazione di Roma del 29 ottobre 1969 presieduta dal dott. Carlo Della Veneria 13 Da rapporto della Sezione per le indagini criminali della polizia di Montrèal citato in due articoli stampa (allegati).

62

L’Unità, 28 febbraio 1960

63

Giornale di Sicilia, 28 febbraio 1960

64

Giornale di Sicilia, 31 marzo 1967

65

Giornale di Sicilia, 31 ottobre 1969

66

Le leggi antimafia

67

68

Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia Nel 1963, nel corso della VI^ legislatura parlamentare della Repubblica, fu istituita la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia”. La commissione bicamerale analizzò nei dettagli comportamenti e atteggiamenti pubblici e privati della mafia dagli inizi del‘900 fino agli anni ’60. Dalla «mafia dei giardini» alla «mafia urbana».

Presieduta dall’on. Scalfaro prima e dall’on. Carraro poi, la commissione considerò “manifestazione oggettiva della mafia” l’omicidio di Giuseppe Spagnolo, così come l’uccisione degli altri dirigenti politici e sindacali trucidati dalla mafia nel dopoguerra.

“Manifestazioni oggettive della mafia. Nelle province siciliane interessate al fenomeno la vita sociale è sostanzialmente condizionata dai valori e dal potere mafioso. La limitazione del diritto di proprietà da parte della mafia, è esercitata a beneficio di interessi privati, non certo della collettività. Infatti, quando si trattò della riforma agraria, che voleva essere un’applicazione del principio costituzionale della limitazione della proprietà terriera ai fini di una maggiore giustizia sociale, la mafia riuscì a rendere in gran parte inoperante la legge imponendo l’arbitrio privato. Questo aspetto, determinante per la caratterizzazione del potere mafioso, merita una trattazione particolare che ha importanza primaria per individuare i legami di tale potere con gli interessi conservatori e la struttura pubblica. Sul piano sociale, la mafia ha ostacolato con la violenza l’azione per il miglioramento di vita delle classi lavoratrici, per le riforme di struttura e il processo di sindacalizzazione per perseguire l’obiettivo di impedire il progresso sociale che è, per definizione, antitetico alla esistenza del potere mafioso. La mafia si è macchiata di delitti di fronte ai quali la commozione e lo sdegno si accompagnano, nella coscienza di ognuno, ad un interrogativo: come tutto ciò sia stato possibile. È forse la drammaticità di questo interrogativo che spingeva i siciliani – ai quali nel corso dell’indagine sono state rivolte domande al riguardo – a chiudersi in un silenzio impenetrabile. Il gruppo di ricerca ritiene di doversi riferire, in particolare, ai numerosi omicidi in persona di esponenti sindacali. Ecco un elenco non definitivo dei sindacalisti uccisi per mano mafiosa”1.

69

VITTIME DELLA MAFIA 1. Allotta Vito 2. Almerico Pasquale 3. Azoti Nicolò 4. Battaglia Carmelo 5. Biondo Giuseppe 6. Bongiorno Paolo 7. Caiola Calogero 8. Camilleri Pino 9. Campo Vincenzo 10. Cangelosi Calogero 11. Carnevale Salvatore 12. Carrubia Giuseppe 13. Castiglione Giovanni 14. Cresceri Margherita 15. Curcio Nicasio 16. Cusenza Giorgio 17. D’Alessandro Agostino 18. Di Maggio Lorenzo 19. Di Salvo Vincenzo 20. Farno Paolo 21. Grifò Giovanni 22. Guarino Gaetano 23. Intravaia Costanza 24. La Fata Vincenzo 25. Lascari Filippo 26. Lascari Serafino 27. Li Puma Epifanio 28. Lo Jacono Vincenzo 29. Macchiarella Pietro 30. Maniaci Giuseppe 31. Megna Giovanni 32. Miraglia Accursio 33. Montaperto Vito 34. Passafiume Nunzio 35. Pipitone Vito 36. Puntarello Giuseppe 37. Raia Andrea 38. Rizzotto Placido 39. Salvia Leonardo 40. Sansone Nunzio 41. Salvia Michelangelo 42. Scaccia Girolamo 43. Scalia Giuseppe 44. Spagnolo Giuseppe 45. Spinelli Marina 46. Vicari Francesco

LUOGO DELL’OMICIDIO Portella della Ginestra Camporeale Baucina Tusa Santa Ninfa Lucca Sicula San Giuseppe Jato Naso Gibellina Camporeale Sciara Partitico Alia Portella della Ginestra Ficarazzi Portella della Ginestra Ficarazzi Portella della Ginestra Licata Comitini Portella della Ginestra Favara Portella della Ginestra Portella della Ginestra Portella della Ginestra Portella della Ginestra Petralia Soprana Partinico Ficarazzi Terracini Portella della Ginestra Sciacca Palma di Montachiaro Trabia Marsala Ventimiglia Sicula Casteldaccia Corleone Partinico Villabate Partinico Alia Cattolica Eraclea Cattolica Eraclea Favara Portella della Ginestra

70

DATA DELL’OMICIDIO 1 maggio 1947 25 marzo 1947 21 dicembre 1946 24 marzo 1966 12 ottobre 1946 20 settembre 1960 3 novembre 1947 28 giugno 1946 22 febbraio 1948 15 aprile 1948 6 marzo 1945 30 giugno 1947 22 settembre 1946 1 maggio 1947 1 maggio 1947 1 maggio 1947 11 settembre 1967 1 maggio 1947 17 marzo 1948 28 novembre 1946 1 maggio 1947 16 maggio 1946 1 maggio 1946 1 maggio 1946 1 maggio 1946 1 maggio 1946 3 marzo 1948 22 giugno 1947 19 febbraio 1947 25 novembre 1947 1 maggio 1947 4 gennaio 1947 13 settembre 1947 18 giugno 1945 8 novembre 1947 5 dicembre 1945 23 novembre 1946 10 marzo 1948 13 febbraio 1947 13 febbraio 1947 30 giugno 1947 22 settembre 1947 25 novembre 1945 13 agosto 1955 16 maggio 1946 1 maggio 1947

Vittime della mafia risarcite dallo Stato Alla luce della relazione conclusiva della commissione, l’Assemblea Regionale Siciliana, l’1 aprile 1967, approvò un norma in favore delle vittime della mafia con la quale venne concesso un vitalizio ai parenti delle vittime. Il Commissario di Stato impugnò la legge e la Regione Siciliana si oppose. Ma la Corte Costituzionale accolse le tesi contenute nel ricorso del Commissario dello Stato e giudicò incostituzionale la legge. Il 4 febbraio del 1976 la Commissione parlamentare antimafia, presieduta dal senatore Luigi Carraro (Dc), inviò alle Camere la sua relazione conclusiva. Fu "insabbiato" tutto quanto riguardava il rapporto tra mafia e istituzioni. Fu invece riconosciuto il sostegno fornito dalla mafia agli Alleati per lo sbarco in Sicilia del 1943 ("Le cause vere della folgorante ripresa mafiosa... sono connesse all'occupazione alleata"). Il 13 settembre del 1982, dopo l’uccisione del Generale Dalla Chiesa, il Parlamento approvò la "legge La Torre" (dal nome del deputato comunista che l'aveva proposta, prima di essere ucciso), che introdusse il nuovo reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, prevedendo anche il sequestro e la confisca dei beni illecitamente accumulati. Con l’articolo 416, 416 bis e ter del Codice Penale cominciarono i maxi processi alla mafia. Caddero Chinnici e la sua scorta, Guazzelli e Livatino, Falcone, Borsellino e gli uomini che li proteggevano.

Nel 1995 l’associazione antimafia Libera organizzò una straordinaria mobilitazione, furono raccolte oltre un milione di firme con le quali si chiedeva “l’utilizzo a fini sociali dei beni confiscati alla mafia”. Così è nata la legge 109 del 1996.

Il 13 settembre del 1999 - mentre alla guida del Governo della Regione Siciliana c’era l’on. Angelo Capodicasa - su proposta dei deputati del Gruppo Parlamentare Ds, dall’Assemblea Regionale Siciliana, fu istituita la legge 20: “Nuove norme in materia di interventi contro la mafia e di misure di solidarietà in favore delle vittime della mafia e dei loro familiari”. Anche il Parlamento nazionale istituì nuove norme in favore delle vittime di mafia (vedi la legge 302/2000 ed altre analoghe). Nel 2004, inoltre, una nuova norma della Regione siciliana ha consentito l’assunzione come dipendente pubblico di un familiare di Giuseppe Spagnolo1.

Le fonti 1 Da: “Relazione conclusiva e documentazione allegata della prima commissione d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia”.

2 «Legge n° 7 del 3 maggio 2004, art. 7: Autorizzazione all'assunzione da parte del comune di Cattolica Eraclea di un familiare di Giuseppe Spagnolo. Nel 50° anniversario dell'assassinio di Giuseppe Spagnolo, vittima della mafia, già sindaco di Cattolica Eraclea, il comune di Cattolica Eraclea è autorizzato, con oneri a carico del bilancio comunale, ad assumere un familiare della vittima entro il quarto grado, nell'ambito della dotazione organica ed in deroga alla procedura dettata dalla normativa ordinaria vigente in materia di assunzioni».

71

72

Conclusioni Spesso noi giovani facciamo il grande errore di sottovalutare che la mafia pervada la nostra società.

Forse così, senza accorgercene, diamo più forza alla mafia.

La mafia non è una semplice organizzazione criminale, è soprattutto un sistema culturale ricco di valori, una sfilza di codici, riti e simboli che si tramandano di generazione in generazione rendendo l’organizzazione mafiosa un fenomeno quasi impossibile da estirpare.

La mafia, infatti, è ancora viva anche se si esprime diversamente e si presenta con un volto meno violento.

Utilizza nuove forme e sistemi per l’acquisizione del consenso (punto forte dei mafiosi), si è insidiata nelle Istituzioni, ha raggiunto i vertici della società.

L’organizzazione mafiosa ha cambiato negli anni il modo di presentarsi, ha innovato il modo di comunicare, si è adattata alla modernità dei tempi, ma è sempre qui in mezzo a noi. Sempre più forte e compatta, Cosa Nostra è presente in modo pervasivo in tutti i settori vitali della società, dall’economia alla politica, dai tribunali alle pubbliche amministrazioni. Sarà forse indistruttibile, ma bisogna pur fare qualcosa. È importante la diffusione di una cultura che sia contro la mafia e che la combatta.

La mafia coinvolge tutti noi, ha ferito tutto e tutti, senza distinzioni di ceto, professione, cultura, educazione o religione, sacrificando ai suoi interessi numerosi uomini e donne, talvolta anche bambini.

Ricordare Giuseppe Spagnolo, vittima della mafia, è certamente un modo per non dimenticare, per tenere viva la memoria.

Coltivare la memoria è essenziale, è presupposto necessario per rafforzare nei giovani – ma anche negli adulti - la fiducia, o almeno il sogno, che è possibile cambiare e costruire un futuro migliore, libero da sopraffazioni e violenza. Partendo dalle scuole è necessario creare un patrimonio di valori civili condiviso, una “memoria intera”, come la chiama il Presidente della Repubblica Ciampi, che porti con sé tutte le pagine della nostra vicenda nazionale. Come italiani renderemo, così, più solide le ragioni del nostro stare insieme. È importante coltivare la memoria di tutti quelli che hanno pagato con la vita il loro impegno sociale per combattere – o solamente contrastare – la 73

mafia che, qui in Sicilia, ha reso impossibili dei seri piani di sviluppo economico e sociale.

Gli italiani, in particolare i siciliani, devono mostrare stima e riconoscenza a magistrati e giornalisti, forze dell’ordine, preti, imprenditori e commercianti; sindacalisti, politici e amministratori, semplici cittadini uccisi da Cosa Nostra solo perché, con tenacia e coraggio, hanno compiuto il loro dovere. È un percorso difficile, tortuoso e pericoloso, che però il ricordo del sacrificio di quanti sono stati ammazzati può rendere percorribile.

Un ruolo di primaria importanza debbono svolgerlo le Istituzioni.

Affermava Giovanni Falcone che “si muore general-mente perché si è soli”. È dunque necessario che lo Stato, con le leggi e il governo, si mostri come garanzia e sicurezza per i cittadini, innalzando e diffondendo una cultura che sia in ogni senso e assolutamente contro la mafia.

Spesso la mafia viene vista – forse a causa di certa cinematografia e di un giornalismo spesso sensazionalistico - solo in Sicilia. Ma il fenomeno mafioso - anche se in quest’isola assume forme rilevanti - non è solo in Sicilia, è nel mondo, è ovunque, e certo non sempre è siciliano. Per questo le mafie tutte vanno combattute non solo con leggi nazionali o regionali, ma soprattutto attraverso una vigorosa cooperazione internazionale, che veda l’Europa e le sue Istituzioni impegnate a comprendere e combattere il fenomeno mafioso. Qualche passo avanti è stato fatto. Nel nuovo Statuto della Regione Siciliana, all’unanimità, è stata inserita la lotta alla mafia come impegno costituzionale. Qualche passo avanti dunque, forse siamo sulla buona strada. Ma ancora c’è tanto da fare e serve l’impegno di tutti noi.

“Bisogna alzarsi in piedi”, come disse Papa Giovanni Paolo II° nel suo viaggio in Sicilia1. Con la consapevolezza, per dirla col giudice Falcone, che “dovremo combatterla ancora a lungo, ma non per l’eternità”.

Le fonti 1 Incoraggiamento ai siciliani, lanciato da Papa Giovanni Paolo II° durante il suo viaggio in Sicilia nel 1993. Ad Agrigento il suo storico anatema contro la mafia. “convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!, gridò il Papa ai tempi del Tempio della Concordia.

“Dio ha detto ‘non uccidere’: nessuna agglomerazione umana, mafia, può calpestare questo diritto santissimo di Dio”. “Questo popolo siciliano – aggiunse il Papa – talmente attaccato la vita, che ama e dà la vita, non può vivere oppresso sotto la pressione di una civiltà contraria, la civiltà della morte”. Il Papa definì i magistrati uccisi dalla mafia “martiri della giustizia, indirettamente della fede”.

74

75

76

INDICE

Prefazione Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 17 Giuseppe Spagnolo - Biografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 19 Il movimento contadino a Cattolica Eraclea . . . . . . . . . . . pag. 24 Il sindaco buono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 35 13 agosto 1955, l’omicidio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 44 Rassegna stampa dell’omicidio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 47 Le indagini partono dal fiume Platani arrivano alla mafia. . pag. 52 Le leggi antimafia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 67 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 73

77

78

Stampa: Agrostampa Matinella Ribera - Via Berlinguer, 36 - Tel. 0925 544996 LUGLIO 2005

79

80

“Un castigo ordinato dalla mafia. Sicuramente estraneo ad ogni movente di rapina, di astio, di immediati interessi patrimoniali, l’omicidio va inquadrato nella categoria dei delitti di prestigio caratterizzata dalla meditata eliminazione di chi ostacola una supremazia che altri vuol conservare.

Deciso e volitivo, forse anche temibile per la sua irruenza, lo Spagnolo Giuseppe si era posto a capo del movimento bracciantile ispirato alla ideologia comunista ed era venuto a contrasto con persone ostili al frazionamento dei fondi e legati alla mafia, della quale ultima lo Spagnolo aveva osato farsi beffa.

Nulla di più possibile, pertanto, che la sua fine fosse segnata e comandata e il Maresciallo comandante della stazione di Cattolica Eraclea, la persona presumibilmente meglio informata al riguardo, afferma, nel rapporto del 28 marzo 1956, che questo è il solo movente accettabile dell’omicidio.

La più attendibile causale, pertanto, è quella di un delitto di mafia, eseguito dai membri deputati alla bisogna.

Il movente del delitto non è individuale ma collettivo.”

Dalla sentenza della Corte di Assise di Appello di Ancona, 31 marzo 1967

Calogero Giuffrida Nato a Ribera il 3 aprile del 1981.

Studia Scienze della Comunicazione all’università La Sapienza di Roma.

Ha collaborato con TeleAcras, Oggi Sicilia (1998), La Sicilia (1999), Il giornale di Sicilia (2000).

Dal 2001 è Collaboratore Parlamentare presso il Senato della Repubblica.

Ha pubblicato Il Sindaco Buono (2005).