Scelte Pubbliche

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COMMENTI

al convegno: paesaggio, democrazia, innovazione

di ANDREA MANCIULLI

Riflessioni nel 150˚ dell’Unità d’Italia. Quando Riccardo Conti mi ha chiesto di fare questa relazione e di farla pensando al mio vecchio mestiere, quello di storico, più che a quello attuale di segretario di partito, ho pensato subito al fatto che dopo un po’ che non si fa un mestiere non è semplice tornare a farlo. Lì per lì non ero molto contento per la fatica che mi sarebbe costato, ma ora mi sento di ringraziarlo perché questo fine settimana è stata davvero una bella soddisfazione lavorare per preparare questo intervento. La riflessione che voglio fare parte da lontano. Volutamente. Il nostro paesaggio, quello per il quale siamo qui, è stato negli ultimi anni al centro di un dibattito talvolta anche spiacevole. L’immagine classica della Toscana, quella dei cipressi, delle campagne ordinate, dei centri storici, ha fatto della nostra regione una specie di “icona immutabile”, che nel mondo è finita per diventare uno stereotipo. Ma è la parola “immutabile” che proprio è sbagliata. Il paesaggio non è mai immutabile. Anzi, esso si può trasformare in maniera spontanea oppure può essere prodotto dalle mani dell’uomo, talvolta anche con metodi dirompenti e fortemente impattanti. E io voglio partire in questa mia riflessione proprio da questo secondo caso, il paesaggio trasformato dall’uomo, riscoprendo un vecchio libro, che oggi purtroppo non pubblicano più, di Emilio Sereni. E’ uno dei suoi libri migliori, una raccolta di saggi che lui scrisse durante il periodo della prigionia attorno al tema dell’agricoltura. In particolare mi preme analizzare qui il saggio che ha dato origine al titolo del volume “Terra nuova e buoi rossi”, un saggio molto bello, che, a mio avviso, meglio di altri, nella storia dell’agricoltura, spiega l’asprezza con la quale l’uomo ha cercato di dominare la natura, talvolta anche assoggettandola con metodi brutali di uso del suolo. La chiave sta nelle parole del titolo, “Terra nuova e buoi rossi”, che dette così possono suonare misteriose, ma che invece meglio di ogni altra cosa possono essere svelate nel loro significato

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più profondo da questa storia antica della Sila, che ora vi leggerò, con la quale comincia il saggio di Sereni. La storia narra il confronto tra un contadino e un mago a proposito delle sue terre infruttuose: “C’era ai tempi antichi un contadino di queste parti carico di figli e di miseria e di anno in anno i raccolti mandavano le cose di male in peggio finché il contadino disperato decise di rivolgersi al mago Salomone. Sentito il guaio dei raccolti sempre più cattivi Salomone subito rispose ‘Per te figlio mio ci vogliono terra nuova e buoi rossi’. Il contadino se tornò a casa e, raggranellati i suoi ultimi risparmi, seguì il consiglio di Salomone, non mancò anzi di andare persino in debito pur di comprarsi un pezzo di terra e un paio di buoi rossi. Ma che fu o che non fu, al momento del raccolto le cose andarono ancora peggio. Sicché il contadino più che mai disperato con pianto e con grida tornò da Salomone a fargli rimostranza per i suoi inetti consigli. Ma udite le rimostranze dal contadino, Salomone rispose che ‘Non è il mio consiglio che è inetto, sei tu che non l’hai seguito. Hai comprato una terra nuova che non è nuova perché come l’altra esausta da lunga coltura. Terra nuova è solo quella della foresta che mai alcuno diede ancora a raccolto di segale o grano e la tua terra esausta hai lavorata con buoi rossi che non sono rossi perché rosso è solo il fuoco, rossa è sola la sua fiamma. Va dunque nella foresta e là, di anno in anno, scegliti un pezzo di terra nuova da arare col fuoco e con la fiamma senza altro aratro, semina poi segale nella cenere degli alberi e il raccolto abbondante non ti mancherà’”. Questa storia è cruda, racconta di come è nato il debbio: la pratica agricola dell’incendio dei boschi per ottenere terra fertile. Fu un’usanza assai diffusa in tutta l’area del Mediterraneo, capace di cambiare il paesaggio per i secoli seguenti. Ciò che vediamo oggi e che a noi sembra così dolce e bello spesso fu frutto di questa violenta trasformazione voluta dall’uomo. Anche quella che era l’area boschiva della Val d’Orcia, tanti anni

fa è diventata il paesaggio che noi conosciamo oggi attraverso questa pratica. Quelle armoniche colline la cui vista accarezza i nostri occhi furono il prodotto della caparbia volontà dell’uomo di trasformare la natura in campi coltivabili o pascolabili. Questa storia ci fa capire come il paesaggio non esisterebbe senza la mano dell’uomo. Ciò che noi definiamo paesaggio in realtà non è che il risultato del confronto dell’uomo con la natura, una tensione nella quale l’uomo cerca di trasformare l’ambiente che lo circonda alla ricerca di una utilità necessaria alla sua sopravvivenza. Senza questo confronto ciò che noi definiamo paesaggio non esisterebbe ed è per questo che non esiste nessuna forma immutabile del paesaggio. Per questo anche la fase attuale di discussione sul paesaggio sarebbe infruttuosa se fosse fondata su un principio di conservazione assoluto delle forme dell’ambiente. Nella storia dell’uomo l’individuo è perennemente alla ricerca di scelte


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