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Marcio Veloz Maggiolo: un discendente di italiani nel cuore della letteratura dominicana

daniLo Manera Professore di Letteratura spagnola presso l’Università degli Studi di Milano, direttore della Cattedra di studi dominicani «Marcio Veloz Maggiolo»

In tutti i miei romanzi ci sono personaggi che erano prima parte di una passione o di un ricordo e che a poco a poco hanno creato dentro di me una memoria falsa, una memoria che, sebbene a suo tempo originaria, con lo scorrere degli anni si è trasformata in altra, e non si può più ricordare nel modo in cui la si sentiva, perché ha dovuto trasformarsi in una specie di storia assurda, una illusione anomala, migliore dell’autentica e più convincente (ma già dimenticata) storia originale. Marcio Veloz Maggiolo

Marcio Veloz Maggiolo è nato a Santo Domingo (da poco ribattezzata Ciudad Trujillo) il 13 agosto 1936. Poeta, narratore, storico, archeologo, antropologo sociale, professore universitario, giornalista, uomo politico, pittore e diplomatico; è, senza dubbio, una delle figure intellettuali più rilevanti e prestigiose della cultura dominicana: è unanimemente riconosciuto come l’autore più completo e versatile delle lettere dominicane, con un’opera vastissima che lo rende una delle voci più importanti della letteratura ispanoamericana. Laureato in Lettere e Filosofia presso l’Universidad Autónoma de Santo Domingo (uasd) e dottore di ricerca in Storia d’America (specialità Preistoria) presso l’Universidad de Madrid, è membro della Academia Dominicana de la Lengua e dell’American Anthropological Association statunitense. Ha ricoperto gli incarichi di sottosegretario alla Cultura, direttore del Museo del Hombre Dominicano e direttore del Museo de las Casas Reales. Come diplomatico, è stato ambasciatore dominicano in Italia (1963-1964; 1983-85), Messico (1965-1966) e Perù (1982-1983). Di sangue italiano per linea materna, lo scrittore è bisnipote di Bartolomeo Maggiolo Pellerano (1825-1878), originario di Genova, figlio di Giovanni Battista Maggiolo e Rosa Pellerano Costa, oriundi di Santa Margherita Ligure. Bartolomeo arrivò a Santo Domingo con lo zio materno Giovanni Battista Pellerano Costa (1806-1880) e con il figlio di questi, suo cugino e coetaneo, Vincenzo Benedetto Pellerano Costa (1825-1893), che si sposò a Santo Domingo con María de Belén Alfau Sánchez e fu padre dell’illustre Arturo Pellerano Alfau, fondatore nel 1889 del più blasonato giornale dominicano, il «Listín Diario». Il grande afflusso di liguri verso l’Hispaniola si produce infatti nel xix secolo, quando famiglie di armatori, costruttori navali e marinai arrivarono a Santo Domingo. La presenza dei liguri fu fondamentale all’epoca della guerra d’indipendenza contro Haiti. Nelle sollevazioni del 1844, due genovesi si unirono alle forze indipendentiste: Giovanni Battista Cambiaso e Giovanni Battista Maggiolo, che fornirono le loro navi e i loro uomini alla causa dei dominicani. Maggiolo perse nel conflitto la nave «María Luisa» e, nonostante il suo contratto con lo Stato, non richiese mai il rimborso. Nel 1856 Giovanni Battista Maggiolo tornò a Genova e poco dopo i suoi figli fecero il viaggio opposto per stabilirsi definitivamente a Santo Domingo. Bartolomeo Maggiolo Pellerano generò Manuel Américo Maggiolo Ravelo che a sua volta ebbe come figlia Mercedes Rosa Maggiolo Núñez, che si sposò con Francisco Javier Veloz Molina. Questi ultimi sono i genitori di Marcio Veloz Maggiolo. Oggi porta il suo nome la «Cattedra Marcio Veloz Maggiolo» dell’Università di Milano, dedicata agli studi dominicani in Italia. La bibliografía di Veloz Maggiolo è varia quanto estesa. Ha pubblicato i libri di poesia El sol y las cosas (1957), Intus (1962, Premio Nacional de Poesía), La palabra reunida (1981), Apearse de la máscara (1986); e il volume

Marcio Veloz Maggiolo alla Prima settimana della letteratura dominicana in Italia. Genova, ottobre 2001.

Nella pagina precedente:

Marcio Veloz Maggiolo, Italianos en la vida dominicana, nel quotidiano «El Siglo», 27 ottobre 2001, p. 6E.

che contiene tutti i suoi versi: La sonora armonía – poesía reunida – (2016). Ha scritto libri per bambini e adolescenti: De dónde vino la gente (1978), El jefe iba descalzo (1993), La verdadera historia de Aladino (2007), Las bodas de Caperucita (2008), Ladridos de luna llena (2008) e La iguanita azul (2012). È autore dei racconti contenuti nelle raccolte El prófugo (1962), Creonte: seis relatos (1963, con un atto unico teatrale), La fértil agonía del amor (1982, Premio Nacional de Cuento), Cuentos, recuentos y casi cuentos (1986) e Palabras de ida y vuelta (2006), oltre alla narrazione La dictadura y su magia (2009) e l’antologia Cuentos para otros milenios (2000). Marcio è anche un romanziere fecondo, con titoli come: El buen ladrón (1960), Judas (1962, Premio Nacional de Novela), La vida no tiene nombre (1965), Los ángeles de hueso (1967), De abril en adelante (1975), La biografía difusa de Sombra Castañeda (1981, Premio Nacional de Novela), Florbella (1986), Materia prima (1988, Premio Nacional de Novela), Ritos de cabaret (1991, Premio Nacional de Novela), Uña y carne. Memoria de la virilidad (1999), El hombre del acordeón (2003), La mosca soldado (2004), Memoria tremens (2009), Confesiones de un guionista (2009), Los dueños de la memoria (2014), El sueño de Juliansón (2014) e La Navidad: memorias de un naufragio (2016). Oltre ai premi già menzionati, ha ricevuto nel 1994 il Caonabo de Oro e nel 1996 il Premio Nacional de Literatura, per l’insieme della sua opera, parzialmente tradotta in italiano, inglese, francese e tedesco. Tra i suoi saggi scientifici, critici, di divulgazione e di memorie ricordiamo: Cultura, teatro y relatos en Santo Domingo (1969), Arqueología prehistórica de Santo Domingo (1972), Medio ambiente y adaptación humana en la prehistoria de Santo Domingo (2 vol., 1975-1976), Sobre cultura dominicana y otras culturas (1977), Arte indígena y economía en Santo Domingo (1977), Las sociedades arcaicas de Santo Domingo (1980), Sobre cultura y política cultural en la República Dominicana (1980), La arqueología de la vida cotidiana (1981), Panorama histórico del Caribe precolombino (1990), La isla de Santo Domingo antes de Colón (1993), Archeologia della scoperta colombiana (Roma, 1994), Trujillo, Villa Francisca y otros fantasmas (1996, Premio Feria Nacional del Libro 1997), Barril sin fondo: antropología para curiosos (1996), Historia, arte y cultura en las Antillas precolombinas (1999), La memoria fermentada: ensayos bioliterarios (2000), Antropología portátil (2001), Santo Domingo en la novela dominicana (antologia, 2002), El bolero: visiones y perfiles de una pasión dominicana (2005; con altri autori), Mestizaje, identidad y cultura (2006), Historia de la cultura dominicana: momentos formativos (2012) e Memorias reversibles (2012). È ovviamente impossibile render conto esaustivamente di un’opera così ampia e diversificata, tantomeno in poche pagine. Sceglieremo quindi una prospettiva concreta attraverso pochi titoli di questa immensa bibliografia. Si tratta tuttavia di un aspetto capitale: la scrittura di Marcio Veloz Maggiolo ruota attorno alla memoria, in tutte le sue varianti, dalla storia alla fantasia, e si alimenta delle infinite forme e versioni che ogni testimone o personaggio o epoca, dal suo punto di vista, crede vere o riconosce come inventate. Va sottolineato, inoltre, che si mescolano la memoria individuale, quella collettiva, quella apocrifa e quella vicaria (prestata o trasmessa da altri), si uniscono e si confondono la memoria fissata dagli storici e quella che tramandano la cultura popolare, l’attitudine dissidente o la mentalità magica. È una grande fermentazione che continua a complicarsi con il passare del tempo, una specie di ebbrezza che fa che le storie siano ambigue e sfaccettate, poiché costruite con frammenti di questa infinita pluralità. Fin dai primi romanzi brevi di Marcio Veloz Maggiolo è già presente questa peculiare inclinazione. In El buen ladrón (1960), la voce narrativa è quella della vecchia madre di Denás, impermeabile al messaggio di Gesù, che abbraccia il cadavere del figlio senza credere alla promessa del paradiso ricevuta durante la crocifissione. In Judas (1962), l’apostolo traditore sente che sta facendo un sacrificio per Gesù, cioè è predestinato a svolgere un ruolo importante nel meccanismo della salvezza, e il bacio sul Monte degli Ulivi è un ringraziamento per questa grande opportunità. Ben presto però si rende conto che non c’è una sensazionale risurrezione con la gloria divina ed è costretto ad accettare il suo fallimento e la condizione di «secondo martire» del cristianesimo. La narrazione comprende anche due lettere presentate come autentiche, una da Giuda al padre Simone e l’altra di suo fratello Moabad. Così si conosce la drammatica vita precedente di Giuda e il suo coraggio come «anima che protesta dall’eternità». Segnaliamo che la seconda lettera arriva all’autore in una traduzione francese portata dall’Italia nel xix secolo da uno dei suoi antenati. In La vida no tiene nombre (1965), ci troviamo

nell’est della Repubblica Dominicana durante l’invasione americana del 1916 e un gavillero, Ramón detto «El Cuerno», ci racconta la sua vita, le sue tribolazioni e le sue ragioni, prima di venire fucilato. Anche in questo caso un personaggio parla direttamente: figlio di una cameriera haitiana e oggetto di discriminazione sociale, si oppone alle forze di occupazione per dimostrare di essere «più dominicano» degli altri e lotta per la sovranità nazionale. Così scopre il servilismo e la vigliaccheria dei suoi compatrioti, che si vendono ai gringos. Ramón uccide il padre violento e cade nella trappola tesa dal fratello, che lo consegna agli statunitensi come bandito ed eredita i beni di famiglia. Il fallimento personale è inserito nel fallimento collettivo dei ribelli che sono costretti a comportarsi come malfattori. Già in questa prima fase della produzione di Marcio Veloz Maggiolo (studiata da Nina Bruni), di natura esistenzialista, è evidente la problematizzazione della storia guardata attraverso gli occhi di protagonisti silenziati. Se saltiamo ora alle opere mature, ambientate a Villa Francisca, il quartiere della capitale dove l’autore ha vissuto infanzia e giovinezza, troveremo strutture multiple in cui la realtà è molte realtà, e diventa pertanto più ricca, più piena e più contraddittoria. Ad esempio, nel romanzo Ritos de cabaret (1991, studiato da Fernando Valerio-Holguín, Pedro Delgado Malagón e altri), l’elemento autobiografico è solo un ingrediente che mette in moto un prodigioso meccanismo collettivo, un coro capace di mescolare pettegolezzo e slancio lirico, precipizi visionari individuali e affresco generale di un’epoca e una società, costellato di nomi di vie e di musicisti. A muovere la penna di Veloz Maggiolo è il brusio di una memoria plurale e a volte contraddittoria, con una sua cronologia simultanea che fa coesistere i tempi proponendo una più complessa consequenzialità, una sorta di «eternità crescente». Così, in queste pagine, la voce del testimone principale si alterna con un narratore esterno, con brani di diario e con il cronista del quartiere, Persio, depositario di ricordi e alter ego dell’autore. E alla fine si giunge persino a insinuare la possibilità che l’intera matassa delle storie sia frutto di follia. Ma la frammentazione del discorso non lo sconnette in vaneggiamento, anzi, la molteplicità di riflessi ci restituisce in una luce più vivida la ballata popolare che racconta una nazione attraverso un quartiere e il suo luogo chiave: il cabaret, misto di bar, sala danze e bordello. Il cabaret è il regno del bolero, musica di strada, d’alcol e di penombra, fatta di seduzione e languore, un due quarti da ballare su una mattonella, inseguendo l’amata in mezzo all’assedio dell’oblio e dell’abbandono. Il bolero è la forma di conoscenza di Papo Torres, che obbliga gli avventori del suo locale ad ascoltare a oltranza i successi del passato mentre versa liquore nuovo nelle bottiglie degli anni ruggenti. Ed è la scuola di Papo junior e la colonna sonora della morte di Samuel Vizcaíno, durante i giorni eroici della resistenza di popolo. Il romanzo si svolge infatti negli ultimi anni della dittatura trujillista e culmina con la guerra civile del 1965, snodo chiave della storia dominicana recente. Nonostante la sconfitta, dopo il 1965 non è più stato possibile fermare la presa di coscienza e la richiesta di diritti civili, che possono sbocciare come versi di una canzone tra i tavolini della precarietà, nell’abbraccio della danza, nella tenacia della passione. C’è un senso di fatale ciclicità nel figlio che ripete la vicenda del padre fino all’incesto, aiutandolo persino fisicamente a recuperare il suo più remoto e fondante amore. E c’è un senso di disperazione nella sconfitta della dignità democratica. Ma nel mulinello della narrazione i simboli sono saggiamente aperti e doppi: il cabaret, intrico di musica, sesso e politica, è immagine della nazione prostituita, ma anche spazio di libertà, dissenso, ribellione. E il bolero non è solo nostalgia, ma anche un modo di comprendere gli eventi e sognare il futuro. Un altro simbolo musicale, profondamente dominicano e ambivalente, nel senso che può trasmettere ribellione o oppressione, accettazione o disaccordo, è il merengue. E Marcio Veloz Maggiolo dedica El hombre del acordeón (2003) a un virtuoso del merengue, Honorio Lora, che insegnò a ballare allo stesso dittatore (il ritmo del merengue era considerato una sorta di colonna sonora ufficiale del regime). Nel romanzo si narra la morte del fisarmonicista e il furto della sua fisarmonica, ma anche la resurrezione del cadavere sotto forma di spirito operata da due streghe, attraverso il desunén vudù, e soprattutto si raccontano gli amori di Honorio, che ripetono sempre lo stesso schema. Il narratore-investigatore, che molti anni dopo deve ricostruire l’accaduto, chiarisce prima di iniziare: «Tutti i personaggi di questa storia sono veri, tranne l’autore», e poi precisa: «Se avessi iniziato a scrivere volendo discernere il vero dal

falso, non sarei mai arrivato a una storia più o meno coerente, quindi il lettore dovrà permettermi di usare a volte voci fuori dal tempo, frasi che in un dato momento immagino fossero logiche, dicerie e voci che mi sono arrivate in vari modi, e che non posso giustificare senza fare riferimento alle tappe di una magia comune che è ancora praticata». Infatti, riporta testimonianze confuse e leggende discordanti, ricordi e pettegolezzi, e la sua fonte principale è un calié, un informatore al servizio di Trujillo. Restano quindi molti dubbi e c’è spazio per molti eventi soprannaturali, legati ai miti e alle credenze popolari della Linea Nord-Ovest, quella zona di confine tra la Repubblica Dominicana e Haiti che all’epoca dei fatti aveva appena vissuto il terribile «Massacro del prezzemolo» del 1937, cui si fa riferimento nel testo. Così la vendetta magica e musicale per la morte di Honorio assume anche caratteristiche di critica della purga etnica nota come el corte. El hombre del acordeón (romanzo studiato da Sergio Callau, José Rafael Lantigua, Rita de Maeseneer, Fernando Valerio-Holguín, Julie Sellers, Néstor Rodríguez e altri) recupera ed esalta l’affascinante figura del rayano, un altro dei soggetti emarginati dalla cultura ufficiale (ancora macchiata di trujillismo) che trovano uno spazio nobile nella scrittura di Marcio Veloz Maggiolo, come il nero, l’haitiano, l’indigeno e il contadino. Inoltre, l’autore, come di consueto, attiva relazioni intertestuali con altri discorsi che gestisce perfettamente, dall’antropologia alla storia, dalla cultura popolare all’archeologia. Di emozioni ed esperienze archeologiche si nutrono romanzi come Florbella e La mosca soldado (studiato da Rafael Rodríguez-Henríquez, Sergio Callau, Núria Sabaté Llobera e Daniel Arbino). Ma ci piace concludere con quello che è, finora, l’ultimo romanzo di Marcio Veloz Maggiolo: La Navidad (2016), sottotitolato Memorias de un naufragio, che ha a che fare ancora una volta con la storia, i ricordi fermentati e la fantasia. È dedicato ai primi anni dell’Hispaniola, subito dopo lo sbarco di Cristoforo Colombo. Nel primo capitolo del testo, il più lungo, Nathaniel, ospitato in un monastero dei Gerolamini a Siviglia, scrive una lunga lettera al suo confessore fra Tomás de Abril, raccontando le sue avventure di dodici anni nelle Indie. Nathaniel è uno dei tre sopravvissuti alla distruzione del forte di La Navidad, il primo insediamento europeo in America, che Colombo aveva fatto costruire con i relitti della caravella «Santa María». Al suo ritorno durante il secondo viaggio nel 1493, scoprì che era stato devastato e gli abitanti massacrati dagli indigeni per vendicare gli abusi del governatore Diego de Arana e degli altri Spagnoli. Oltre a Nathaniel, riuscirono a fuggire lo zio Luis de Torres, ebreo esperto di lingue orientali incaricato di apprendere le lingue native, e la gitana Casilda, imbarcatasi come concubina del maestro Juan de La Cosa. Si rifugiarono tutti tra gli indigeni e nel 1505 poterono tutti tornare a casa. Seguiamo più da vicino le vicissitudini di Nathaniel, un maghrebino di bassa statura con i capelli nerissimi, che l’amante nuhuirey Jariquena maschera come un ciguayo, scurendogli con pigmenti vegetali la pelle già brunastra. Soffre la mutilazione di metà della lingua da parte del cacicco Caonabo, perché non dica a nessuno quello che è successo. Nelle pagine del libro appaiono molti personaggi di quegli anni cruciali: l’Ammiraglio e i suoi parenti, il sindaco ribelle Francisco Roldán, fra Ramón Pané e fra Bartolomé de Las Casas, i capi indigeni Anacaona, Guacanagarix e altri. Ma soprattutto, Nathaniel impara i gesti, i costumi e i miti dei Taínos, pratica il rituale della polvere di cojoba e si avvicina alle loro credenze e mentalità. Per questo vede tutta la crudeltà feroce e ingiusta della persecuzione degli indiani da parte di Colombo e degli altri governanti. E la sua narrazione, che va di salto in salto, come una rana toa, ci riporta vividamente al conflitto di culture più antico d’America, arrivando a ricostruire il polso della vita e il battito delle emozioni tra gli indigeni dell’isola, come può fare solo un autore con un’enorme conoscenza delle Antille precolombiane. L’obiettivo del rapporto dettagliato di Nathaniel è quello di tornare a Santo Domingo, con l’aiuto dei frati Gerolamini, ai quali darà una parte dei guadagni, perché sull’isola sua moglie Jariquena, che lo sta sicuramente aspettando, gli rivelerà il nascondiglio del tesoro sepolto nel forte della Navidad e mai ritrovato. Dalla fine del primo capitolo, e soprattutto nei capitoli II, III e IV, il tono del libro diventa meno soggettivo, le voci si moltiplicano, si allegano materiali provenienti dall’Archivio delle Indie, la trama accelera e si disperde, in mezzo a una nebbia di variazioni e con diversi colpi di scena, che gettano una luce cupa sulle affermazioni

di Nathaniel e sui suoi ultimi giorni. In effetti, la sua testimonianza non è creduta: il tesoro nascosto è considerato una menzogna. Areíto, cojoba e tabacco sono visti come diabolici. Nathaniel si sente una specie di «martire taíno». Giudicato eretico da fra Antonio de los Ángeles Custodios, viene mandato al rogo. Jariquena, stanca di aspettarlo, aveva sposato il conte di Villavicencio e si reca in Spagna per il processo, nel 1516, già come contessa Angustias, sulla base di un accordo con i frati Gerolamini, ai quali andrà una parte dei suoi beni. Ma il resto lo avrebbe ereditato lei alla morte del vecchio conte. E poi ritorna sulla sua isola natale. Anche fra Tomás de Abril riceve una punizione. E Casilda, dopo un periodo da monaca, diventa l’amante di un marchese e proprietaria di taverne. Il suo nuovo potere le permette di gettare un fiore bianco tra le braci del rogo dove brucia Nathaniel. Un motivo molto sviluppato nel libro è quello dello zio di Nathaniel, Luis de Torres, sefardita e cristiano nuevo, che diventa una specie di behique tra i Taínos e predica un giudaismo fusionista. Secondo lui, il cui vero nome era Josef Ben Hailevi Haviri, i Colombo erano cripto-ebrei. Ci interessa qui ricordare un particolare curioso: nel libro si racconta che Luis de Torres incontrò in Portogallo Bartolomeo Colombo, che utilizzava le carte nautiche disegnate dal cartografo genovese Vesconte Maggiolo, mappe precise e finemente decorate. Bartolomeo disse a Luis de Torres che suo fratello Cristoforo, con l’aiuto di uno dei discendenti di Vesconte, aveva tracciato nuove rotte per navigare oltre il luogo dove si era arrivati fino ad allora. È un piccolo ammicco da parte dell’autore per fare riferimento alle sue origini italiane in questo innovativo romanzo storico, che riflette su quanto incerta, impalpabile e interpretabile sia la verità, e propone letture alternative di un crocevia determinante della storia d’America. Il «naufragio» del sottotitolo può quindi essere anche quello di un sogno impossibile di comprensione reciproca. In questo tour de force narrativo, Marcio Veloz Maggiolo si conferma uno scrittore generoso, colto e audace, che ha saputo essere da solo quasi un’intera letteratura, attraversando tutte le frontiere con fantasia ed empatia, fino a dialogare con le streghe volanti rayanas e con gli spiriti di Coaybay, il «cielo fermentato» dei Taínos.

Bibliografia

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