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Cristoforo Colombo. Un uomo tra due mondi

gabrieLLa airaLdi Professoressa di Storia Medievale presso l’Università di Genova

Ancora oggi c’è chi mette in dubbio che Colombo fosse genovese. Qualcuno lo vorrebbe catalano, portoghese, corso, savonese o di altra zona rivierasca, piacentina o monferrina, teorie perlopiù costruite su fonti tardive, legate alle trame scaturite dai pleitos (vertenze) tra la Corona castigliana e gli eredi dell’ammiraglio. Qualcuno lo vorrebbe ebreo o converso, anche appellandosi al fatto che egli allude spesso a una possibile riconquista di Gerusalemme e c’è chi pensa addirittura che Colombo appartenga a un lignaggio minore assorbito in qualche «albergo»1 genovese o sia figlio di un papa. Ma nel primo caso il suo rango sarebbe noto, perché chi entra a far parte di un «albergo» mantiene comunque il riferimento al primo cognome. Nel secondo caso a quell’epoca i pontefici non fanno certamente mistero dei loro figli. In realtà rivela scarsa dimestichezza con la storia genovese chi nega che, a quel tempo e in quella società, il figlio di un lanaiolo possa andare per mare, diventare ammiraglio e sposare un’aristocratica portoghese. Un itinerario in controtendenza ma possibile per un emigrante che provenga da una città che ha la più ampia caratura internazionale di quel tempo, che lo ha educato a una particolare forma di regime repubblicano e che ne guiderà gli atti per tutta la vita. Colombo, che comunque nei momenti critici ama definirsi «un povero straniero», nasce e cresce in una città che, costantemente guidata da grandi clan di valenza mondiale che ne controllano le scelte politiche ed economiche dentro e fuori le mura, rifiuterà e combatterà sempre le monocrazie, quelle esterne e quelle che, con il nome di Signorie e Principati, sono ormai comparse nella Penisola. Anche se il ruolo di Genova, principale porto del Mediterraneo e prima cassaforte europea la rende un boccone ghiotto per vicini come la Francia, Milano e i Savoia. L’espansione genovese e ligure, che in età medievale è la più ampia a Oriente e a Occidente, utilizza un modello elastico che non prevede insediamenti diretti, ma sottili forme di acculturazione che privilegiano il primato del mercato, del denaro e dell’investimento sulla rigidità socio-economica delle culture terriere, efficace testimonianza di una globalizzazione che comincia da lontano. Colombo porta con sé i caratteri della cittàstato di provenienza, che inventa e utilizza i suoi strumenti giuridici, istituzionali e sociali adattandoli a sistemi diversi, in una sostanziale libertà d’azione che risponde a una «neutralità», tipica dei genovesi in ogni tempo, disposti a muoversi al di là di ogni steccato ideologico e di ogni patto ufficiale. Quest’espansione favorisce un costante processo migratorio legato al variare e all’ampliarsi di insediamenti che vanno dal Mar Nero alla Penisola Iberica, dalle Fiandre alla Cina fino all’America. I membri dell’élite genovese, perno di un’espansione che impegna molti migranti, giocano un ruolo essenziale entro e fuori le mura. Solo così si capiscono la vicenda di Colombo, la sua storia giovanile, le esperienze portoghesi e castigliane condotte all’ombra di lobby presenti da secoli presso quelle e altre Corti europee ed extraeuropee. Lobby di big business, come quella vicina alla regina Isabella, che a Genova si scontrano continuamente, ma alle quali spettano sia la gestione politica interna sia l’amministrazione del debito pubblico

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Statua di Cristoforo Colombo nel Parque Colón, di fronte alla Cattedrale Primaziale d’America a Santo Domingo.

1 Si tratta di una struttura familiare orizzontale, fondata sulla condivisione del potere e sulla gestione di beni comuni, presente a Genova dal xiv secolo. Attraverso di essa più famiglie si consorziavano, garantendosi maggiori possibilità di occupazione delle cariche pubbliche.

attraverso il potentissimo Banco di San Giorgio, che sovvenziona lo Stato, sia lo studio delle variabili da attuare nell’ambito di una strategia globale in costante aggiornamento. Fin dal Mille è possibile misurare l’ampio coinvolgimento delle componenti laiche e religiose di un’élite disposta a emigrazioni temporanee o definitive insieme con i tecnici e le maestranze di riferimento e la minuta gente che li accompagna. Si tratta di gruppi e individui che operano in regime di rischio, ma che sanno di potersi giovare di coperture ad ogni livello e di solidarietà verticali e orizzontali. Il legame di Colombo con loro e i loro rami naturalizzati altrove è un modello che resiste nel tempo. Questa formula, che fa della famiglia il perno del suo sistema politico, economico e sociale, si consolida presto creando l’«albergo»; un’istituzione che resterà la struttura di base delle varianti politico-istituzionali di una città-stato che propone gli stessi nomi anche nella gestione del Banco di San Giorgio. Colombo appartiene a questa realtà. Colombo nasce a Genova nel 1451. I Colombo provengono dalle terre dei potentissimi Fieschi, costantemente presenti nella loro vita. Il padre Domenico, figlio di Giovanni di Moconesi di Fontanabuona poi trasferitosi a Quinto (Genova), tessitore di panni di lana, a quel tempo custode della Porta dell’Olivella nel borgo di Santo Stefano, qualche anno dopo si trasferisce presso la Porta Soprana, che è destinata a essere, pur tra varie vicende, la residenza definitiva della famiglia. La madre Susanna Fontanarossa è originaria della Val Bisagno. Cristoforo ha altri quattro fratelli: Giovanni Pellegrino, Bartolomeo, Giacomo (poi detto Diego) e Bianchinetta. Secondo un’abitudine diffusa in tutti gli ambienti sociali in area genovese e ligure, pur avendo appreso i primi rudimenti dell’attività artigianale in famiglia, s’imbarca giovanissimo. Nonostante le scarne notizie relative alla sua gioventù, trascorsa parte a Genova e parte a Savona, dove la sua famiglia si trasferisce tra gli anni Settanta e Ottanta, è certo che naviga in tutto il Mediterraneo e nella più prossima area atlantica. La sua attività, svolta in relazione alle esigenze del network internazionale genovese, oscilla continuamente tra guerra e commercio dall’isola di Chio, in mano genovese fino al 1566, fino alle Fiandre. Nelle diatribe dell’epoca, in cui le grandi famiglie genovesi e liguri (compresi i della Rovere e i Cibo, allora al pontificato) svolgono ruoli importanti. Colombo certamente partecipa a qualche azione guerresca sul fronte angioinoaragonese prima di approdare a un definitivo trasferimento in Portogallo forse nel 1476, se non prima. L’ultimo documento che ne ricorda una rapida presenza a Genova per una causa relativa a una partita di zucchero madeirense tra i grandi clan Centurione e di Negro, risale al 25 agosto 1479. Da allora in poi tutto il resto della sua vita è legato all’area iberica, nella quale da secoli è attiva una cospicua presenza genovese e ligure, misurata in centinaia e centinaia di grandi e piccoli nomi. Qui, tra l’altro, fin dal 1317 ha svolto un ruolo importantissimo di raccordo la famiglia Pessagno che, controllando l’ammiragliato portoghese e l’attività marittima collegata con venti sabedores de mar, ha contribuito a intrecciare genovesi e portoghesi nell’azione di «scoperta» e colonizzazione atlantica. Colombo ritrova a Lisbona il fratello Bartolomeo nonché molti dei suoi amici - protettori genovesi di grande nome, che pure hanno presenze nella contigua area andalusa e sono presenti nelle isole atlantiche, attivi soprattutto nel monopolio del mercato dello zucchero e nel mercato degli schiavi. Risalgono a quest’epoca alcune notizie certe di viaggi all’Islanda (1477), a Madera (1478-79), alla Mina in Guinea (1482). Nel 1479 sposa Felipa, figlia di Bartolomeo Perestrelo, di lontana origine piacentina, membro dell’Ordine di Santiago e capitano donatario di Porto Santo, da cui ha il figlio Diego. In quegli anni si susseguono le spedizioni portoghesi sulla costa africana e si stanno conducendo a termine le operazioni di colonizzazione delle isole atlantiche. Tra studi sulla navigazione oceanica e viaggi dall’estremo Nord fino alla Guinea, Colombo mette a punto il suo progetto: «Buscar el Levante por el Poniente», una ricerca che aveva già avuto una premessa importante nel 1291, quando i fratelli genovesi Vivaldi avevano tentato di recarsi «ad partes Indie». È difficile dire quanto abbiano inciso nell’elaborazione del progetto, oltre all’esperienza diretta e al contatto

con le tecniche atlantiche e con gli esperti presenti alla Corte portoghese, lo scambio d’informazione con il geografo fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli e le riflessioni su testi e carte, poi raccolte nei suoi molti scritti e nelle postille ai testi di Marco Polo, di Pierre d’Ailly, di Enea Silvio Piccolomini, di Plinio il Vecchio e altri. Al rifiuto opposto alla sua proposta dal re portoghese Giovanni ii, confortato anche dal costante successo delle spedizioni verso le Indie, poi confermato da Bartolomeu Dias e da Vasco da Gama, succede tra il 1484 e il 1485 un periodo oscuro, seguito da un’improvvisa partenza di Colombo in direzione dell’Andalusia in compagnia del solo figlio Diego (la moglie probabilmente è già morta). La «fuga» sembra dovuta all’infelice esito di una congiura ordita dall’Ordine di Santiago contro Giovanni ii in cui Colombo si trova, sembra, almeno indirettamente coinvolto (la moglie era imparentata con i Braganza). Qui Colombo è accolto da una rete di protezioni familiari, di potenti laici «italiani» e spagnoli (tra essi primeggiano i genovesi, ormai i più fedeli e potenti «asientisti»; l’asiento è un prestito alla Corona di Castiglia, di cui essi sono da secoli e in misura sempre maggiore grandi finanziatori), di altrettanto prestigiosi membri del clero spagnolo e italiano e di potenti Ordini religiosi (in particolare quello francescano). Mentre il fratello Bartolomeo si reca alle Corti inglese e francese in cerca di possibili sostegni, per Colombo comincia un nuovo itinerario che la pubblicistica successiva colorerà sovente di toni romanzeschi. In quegli anni la Corona di Castiglia, legata alla Corona d’Aragona solo attraverso l’unione matrimoniale di Isabella e Ferdinando, è immersa in operazioni di grande rilievo, tra cui la liquidazione della questione ebraica e saracena, due presenze secolari e importanti nella storia iberica, nonché nel tentativo di una possibile immissione nella colonizzazione atlantica, che trova il suo asse nelle Canarie che, per il trattato di Alcáçobas con il Portogallo (1479), cadono ora nell’area di controllo castigliana. A sua volta la Corona aragonese ha problemi aperti nella Penisola italiana. Passano sette lunghi anni, di cui si sa poco, pima che il progetto di Colombo si realizzi. Nel 1488 ha un secondo figlio dalla cordovese Beatriz Enríquez de Arana: Fernando, poi famoso bibliofilo e custode della memoria paterna. Nessuno dei grandi nodi in cui è impegnata la Corona castigliana si scioglie fino al 1492, quando chiuse la questione ebraica e saracena con l’espulsione, Colombo ottiene infine l’auspicato assenso. Il 17 aprile 1492, nell’accampamento di Santa Fe, i sovrani approvano le Capitolazioni, seguite dalla concessione di titoli, prerogative e diritti; da quel momento ammiraglio del Mar Oceano, viceré e governatore delle isole e terre da scoprire Colombo godrà, tra l’altro, anche di una serie di rilevanti privilegi economici: un decimo dei profitti netti ricavati e un ottavo dei profitti commerciali. Il 3 agosto 1492, armate le due caravelle «Pinta» e «Niña» e la nao «Santa María» inizia da Palos il primo viaggio. Una sosta obbligata alle Canarie ne rallenta la velocità. Ma il 12 ottobre il Nuovo Mondo appare infine con la fisionomia di un’isola dell’arcipelago centroamericano delle Bahamas, Guanahaní, che l’ammiraglio ribattezza San Salvador. A questa fanno seguito, nei mesi successivi, le scoperte di una serie di isole battezzate con nomi della famiglia reale o di santi e poi di Juana (Cuba) e Hispaniola (Haiti) e il primo insediamento europeo, con trenta uomini, al fortino della Navidad. Da questo momento parte anche la scoperta di nuovi popoli, nuove culture e di una natura tutta da conoscere. Il 16 gennaio 1493, con due sole caravelle (la nao «Santa María» è naufragata a Natale), comincia il viaggio di ritorno. Un momento fondamentale della storia perché nasce ora l’itinerario che segnerà l’ascesa di un Impero sul quale, come dirà poi Carlo V, «non tramonta mai il sole». Nel corso del viaggio, durante una terribile tempesta, l’ammiraglio stende e getta in mare chiusa in una botte una lettera, forse la stessa poi inviata ai re e a Luis de Santángel (che con il genovese Pinelli ha provveduto a gran parte della copertura finanziaria del viaggio) e a Gabriel Sánchez, in cui riassume tutta la sua esperienza. Il suo primo viaggio si conclude il 4 marzo 1493, quando con la «Niña» giunge alle foci del Tago. Dopo un non facile incontro con il re portoghese, in aprile l’ammiraglio arriva finalmente a Barcellona. Subito stampata e diffusa in tutta Europa, diversamente dal Diario immediatamente secretato, la sua Lettera è il primo vero documento relativo alla «Scoperta», di cui peraltro danno notizia anche molti diplomatici e uomini d’affari. Ne seguono importanti

«bolle» pontificie, intese a convalidare ciò che peraltro appare meglio definito nel trattato di Tordesillas del 1494 che Colombo contribuisce a mettere a punto. La prima grande divisione del mondo nasce dal nuovo patto stipulato tra le Corone di Castiglia e Portogallo, che fissa la raya a 370 leghe dal Capo Verde. Nel corso del secondo viaggio (1493-1495), partito da Cadice con 17 navi e circa 1.200 uomini di equipaggio e sostenuto da nomi e da presenze genovesi, Colombo incontra molte isole delle Antille e arriva fino a Portorico e alle Isole Vergini. Mentre si stendono le prime descrizioni del Nuovo Mondo e l’ammiraglio, teso sempre alla vana ricerca del Catai (Cina), fa giurare ai suoi uomini che Cuba non è un’isola bensì terraferma, cominciano grandi problemi, annunziati dal ritrovamento dei cadaveri degli uomini della Navidad, a cui segue una continua e sempre più violenta serie di contrasti con indigeni e Spagnoli. Da quel momento in poi si avvia la costruzione di una serie di fortezze e cresce il mercato degli schiavi. Nella splendida Vega Real e nel Cibao si trova finalmente l’oro, ma anche la vicenda della prima città fondata all’Hispaniola sta finendo malamente. Infatti Isabela dovrà essere subito abbandonata a causa dell’infelice collocazione ambientale. Due anni dopo, nel 1496, toccherà a Santo Domingo assumere il ruolo di primo centro urbano nelle Americhe e diventare la chiave di volta del sistema nascente. Rientrato in Spagna, dove comincia a incontrare qualche difficoltà, Colombo, peraltro sempre più sostenuto dalla rete genovese, compie un atto fondamentale per la costruzione della sua dinastia spagnola, istituendo nel febbraio 1498 un mayorazgo a favore del primogenito Diego e regolando successione e eredità. Nel mayorazgo, «radice e piede del mio lignaggio e memoria dei servizi che ho reso alle loro Altezze...che essendo io nato a Genova, venni a servirli qui in Castiglia... e per loro scoprii a occidente della terraferma le Indie e le isole suddette...», non dimentica un riferimento al ramo genovese della famiglia, con il quale sembra non aver perso i contatti, ricorda la sua città, indicando anche che i profitti dovranno comunque essere investiti nel Banco di San Giorgio, che come tutti sanno è una sede forte e sicura. Nello stesso anno raccoglie la documentazione necessaria a predisporre un

Vista parziale dell’isola Saona, la famosa «Bella Saonese» di Colombo, trae il nome dalla città di Savona, dove nacque l’uomo d’affari Michele de Cuneo, carissimo amico di Cristoforo Colombo che nel corso del secondo viaggio (1493-1496) decise di donare a lui l’isola.

Libro de los Privilegios. Intanto la Corona concede altri permessi di viaggio, vietandoli però agli stranieri. Ciò non tocca ovviamente i rami delle famiglie genovesi che, come Colombo, sono ormai naturalizzati. Nella sola Siviglia sono rappresentati 23 su 28 «alberghi» genovesi. Il terzo viaggio (1498-1500), in cui la partecipazione genovese è massiccia sia dal punto di vista finanziario sia da quello operativo, segna un punto fondamentale nella storia dell’ammiraglio con il quale ora viaggia anche un cugino genovese. Colombo prosegue nelle sue scoperte, eppure resta testardamente fedele all’impianto dell’inesatta geografia tradizionale da lui stesso sconvolta dichiarando di trovarsi nel «Paradiso Terrestre» anche quando si trova di fronte alle immense foci dell’Orinoco e sembra davvero palesarsi un «otro mundo». Quando torna all’Hispaniola trova una situazione incandescente, che prova sul momento a risolvere con l’applicazione dell’encomienda, un sistema duro in cui i nativi sono affidati a un colono che in cambio di protezione e cristianizzazione riscuote tributi e impone prestazioni di lavoro obbligatorie. Ma ormai la situazione è degenerata. Contro di lui e i suoi fratelli ci sono le tremende accuse dei francescani, che li definiscono «Faraoni» e chiedono che siano allontanati. Che cosa veramente intendono i frati quando scrivono che Colombo vuole «consegnare l’isola ai genovesi»? Dall’ottobre del 1499 Genova è in signoria francese. Forse l’ammiraglio pensa davvero di fare qualche favore alla parte «francesizzante» dei suoi potenti amici? Che cosa vuole veramente la lobby che lo sostiene? Che cosa fanno sospettare la ripresa dei contatti con San Giorgio e Genova da parte di Colombo; e più tardi le lettere che l’ammiraglio invia a genovesi che contano, come Gianluigi Fieschi? Infine, che cosa significa la costante presenza di Bartolomeo Fieschi a fianco dell’ammiraglio fino al letto di morte? Anche se l’élite genovese ama la neutralità, a Genova i Fieschi appartengono pur sempre a un «partito» filofrancese. Per chi, se non per un Angiò, dichiara di aver fatto il corsaro Cristoforo Colombo? Di fatto l’agosto 1500 porta con sé le catene per i fratelli Colombo volute dal giudice inquisitore Bobadilla dopo un processo che ha veramente il sapore di una farsa. E in catene i tre fratelli Colombo sbarcano a Cadice. L’anno successivo arriva all’Hispaniola anche un nuovo governatore, Nicolás de Ovando. Già dal 1498 però Colombo ha messo sul tavolo le sue carte e ora si difende con energia, con memoriali e lettere, con il Libro de las Profecías, in cui la «Scoperta» viene inserita in un tessuto intriso di tematiche di carattere millenaristico e messianico, che si richiama a Gioacchino da Fiore. L’ammiraglio cerca anche l’appoggio dei molti amici, laici e religiosi sicché comincia ora attorno a lui una rinnovata danza di nomi genovesi e liguri mentre segue la preparazione delle nozze del figlio Diego con María de Toledo, nipote del duca d’Alba. Ha sempre attentamente conservato i suoi documenti (di cui resta un parziale catalogo) presso il fedele Gaspare Gorricio, nelle cui mani sta anche una copia del Libro de los Privilegios del 1498 (ora conservata all’Archivo General de Indias di Siviglia), mentre un’altra, certamente all’Hispaniola e oggi perduta, è alla base della rielaborazione a cui, tra il 1501 e il 1502, procede Colombo, aggiungendo altri documenti. Scrive agli amici e invia a Genova copie del Libro dei Privilegi, scrive anche al patriarca Gianluigi Fieschi e il giorno prima di partire per il quarto viaggio, il 2 aprile 1502, scrive ai protettori del Banco di San Giorgio la famosa lettera in cui, come è tradizione dei grandi nomi dell’élite genovese, dispone anche un lascito ad estinzione del debito pubblico. «...Bien que el coerpo ande aca, el coraçon esta ali de continuo ...las cosas de my impresa ...farian gran lumbre si la escuridad del gobierno non le incobriera...», scrive. Il 3 aprile 1502 ha inizio «el alto viaje», come lui stesso lo definisce. L’autorizzazione regia è accompagnata da parole lusinghiere e certifica la volontà di conservargli i suoi privilegi, ma Colombo non è più governatore e ha il divieto di sbarcare a Santo Domingo. Sono con lui il giovanissimo figlio Fernando, il fratello Diego e l’amico più fedele, Bartolomeo Fieschi, che comanda la «Vizcaína». La spedizione, che vede una sostanziosa partecipazione di capitali genovesi e di gente genovese sulle navi, tocca le coste dell’Honduras, Veragua (che più tardi diverrà ducato dei Colombo) e ancora la Giamaica (25 luglio 1503); dove Colombo, al quale è proibito sbarcare all’Hispaniola, deve restare per un lungo, difficilissimo

anno a causa del naufragio delle sue caravelle e da cui, dopo una fortunosa spedizione in cerca di aiuto compiuta dai fedeli Bartolomeo Fieschi e Diego Méndez, può ripartire solo il 28 giugno 1504. Attraversata da eventi funesti e da esperienze esaltanti, la vicenda ci è narrata da lui stesso nella Lettera rarissima, in cui l’ammiraglio del Mar Oceano racconta tutto: il tremendo uragano di Santo Domingo, che lui solo ha previsto, in cui perisce il suo nemico Bobadilla e affondano l’oro spagnolo e le carte contro di lui mentre il suo oro si salva; il terribile anno trascorso da naufrago alla Giamaica, malato, senza rifornimenti e con le teredini che gli divorano le ultime due navi. Il 7 novembre Colombo sbarca a Sanlúcar de Barrameda. La morte della regina Isabella, avvenuta il 26 novembre del 1504, lo priva di un importante appoggio. Infatti l’incontro del maggio 1505 con Ferdinando sarà molto freddo. Tornato dal viaggio, il 27 dicembre 1504, Colombo scrive ancora una lettera all’amico Nicolò Oderico. La missiva, molto interessante, sembra confermare un suo possibile cambiamento di fronte. L’ammiraglio ricorda di avergli parlato a lungo di un progetto, rammentando di avergli inviato, per mano del l’amico de Riberol, il Libro dei Privilegi e le lettere nonché altre due lettere per il Banco di San Giorgio. Nonostante il de Riberol gli abbia detto che tutto è arrivato «en salvo», non ha mai ricevuto risposta. Aggiunge che, prima di partire per il suo viaggio, ha lasciato a Cadice un’altra copia del Libro dei Privilegi nelle mani di Franco Cattaneo, «portador d’esta» perché gliela inviasse. Dice che, mentre era lontano, aveva scritto lettere ai re, di cui una è tornata nelle sue mani. Egli la invia insieme con questa e con il resoconto del viaggio in altra lettera, precisando che l’Oderico deve consegnarla «á micer Juan Luis con la otra del aviso». Infine dice di attendere lettere dell’amico che parlino cautamente del loro proposito. Nello stesso giorno scrive anche a Gianluigi Fieschi, a cui pure dice di essere tornato dalle Indie molto malato e poco sereno per la sua situazione. E poi continua: «Credo che abbiate tenuto ben a memoria il libro che ho lasciato per voi a Cadice e anche l’aviso en que quedamos […], ma il latore della lettera e cioè Franco Cattaneo vi potrà parlare più largamente di ciò in modo che vi serva da resoconto». Aggiunge inoltre: «Vorrei molto servirvi nei vostri affari con messer de Ribera», e chiede al Fieschi di scrivergli più diffusamente in proposito. Colombo ricorda qui di essere in rapporti con don Fadrique Enríquez de Ribera, che, entrato vittorioso all’Alhambra nel 1492, ora governatore dell’Andalusia e giudice superiore nella giurisdizione di Siviglia, diventerà nel 1514 marchese di Tarifa. Don Fadrique, pellegrino verso Gerusalemme, visiterà Genova nel 1519, lasciandone memoria nel diario del suo viaggio. L’ammiraglio lamenta di non aver ricevuto nessun riscontro da parte del Banco di San Giorgio all’offerta del decimo della sua rendita «por descuento de sus derechos». Non sa nulla neppure delle promesse regie per il figlio Diego e ciò lo fa soffrire più della stessa malattia. Non fa alcun riferimento al fatto che è salito al soglio pontificio Giuliano della Rovere; Giulio II è un papa potente, che lui e la sua famiglia conoscono bene e a cui egli stesso ha scritto quando il pontefice si è lamentato di non aver avuto più sue notizie. La vita dell’ammiraglio si conclude a Valladolid il 20 maggio 1506. Il giorno prima Colombo, che vi si è recato per incontrare i nuovi re, ha fatto un’altra volta i conti con il suo passato. Nel codicillo testamentario del 19 maggio è tornato su quanto ha stabilito nel 1498 e ripreso nel 1505, dove non ha dimenticato le donne che lo hanno accompagnato nei tre momenti fondamentali della sua vita: la madre genovese, la moglie portoghese e la compagna spagnola. Ha deciso anche di saldare altri suoi debiti. I nomi che compaiono sono quasi tutti genovesi: gli eredi di Gerolamo da Porto, per le pendenze paterne di anni giovanili; Antonio Basso, un genovese che vive a Lisbona; un ebreo che un tempo abitava alla porta della «Judería» di Lisbona; gli eredi di Luigi Centurione Scotto, mercante genovese e gli eredi di Paolo di Negro; Battista Spinola, genero del Centurione e figlio di Nicolò Spinola di Luccoli di Ronco, che stava a Lisbona nel 1482 (o i suoi eredi, se egli è morto). Come in tutti i momenti importanti della sua vita, ancora una volta gli è accanto Bartolomeo Fieschi.

Su di lui per un po’ calerà il silenzio. Ma un fatto è certo: da quel momento in poi esiste un nuovo Occidente. Subito dopo quel viaggio, infatti, il mondo si spalanca di fronte alle potenze europee, che, pur sfumando nella costruzione delle loro mitografie quest’importante anello di collegamento tra il mondo mediterraneo e la successiva ascesa continentale, non potranno mai rinnegare il contributo dell’uomo venuto dalla «più atlantica» delle città italiane e l’atto con cui «fonda» un Nuovo Mondo al di qua e al di là dell’Atlantico. Non a caso nel 1688, Cristoforo Keller, professore all’Università di Halle, che nella prima edizione della sua Historia Universalis del 1685 ha introdotto la tripartizione tra Età antica, Età medievale e Età moderna, stabilirà infine che il Medioevo si è chiuso nel momento in cui sono avvenuti alcuni fatti fondamentali: la caduta di Costantinopoli, l’invenzione della stampa, la Riforma protestante e, appunto, la «scoperta» dell’America. Colombo eroe o Colombo assassino; Colombo, figlio non di un lanaiolo, ma erede di una stirpe di ammiragli e corsari; Colombo mistico o addirittura templare; Colombo non genovese, ma catalano, portoghese o di chissà quale origine. L’attrazione fatale per il personaggio ha generato nel tempo una produzione scientifica, letteraria e artistica ormai incommensurabile che, pur tra tante polemiche, ancora una volta declina la valenza mitica che accompagna da sempre la vicenda dell’uomo. In effetti, nelle culture di ogni luogo e di ogni tempo, il navigatore che prende il largo su rotte sconosciute per esplorare il mondo, l’«inventore» di nuove terre, assume nella memoria collettiva una duplice fisionomia: quella storica e mortale e quella eroica e mitica. L’uomo senza il quale la «scoperta» non esisterebbe entra così a far parte non solo della memoria razionale e documentaria, ma anche della coscienza e della memoria collettiva; nella quale, assai più del fatto storico, imperano l’eternità del mito, del rito, del gesto fondatore e, insieme, la memoria dell’uomo-eroe che lo ha compiuto. Tra questi miti, che la società di ogni tempo riconduce costantemente alle sue esperienze, alle sue necessità, ai suoi desideri, ai suoi incontri e ai suoi scontri, si colloca la figura dell’ammiraglio genovese, che, come un novello cavaliere di ventura, continuerà sempre ad apparire l’uomo delle sfide impossibili. Ma il mito non nasce subito. Anzi, il gesto compiuto si sovrappone immediatamente alla figura dell’uomo, la ridimensiona e quasi la cancella, rendendo quasi impalpabile la sua immagine. Finché proprio il Nuovo Mondo, staccandosi dal Vecchio, deciderà di riproporla.

Genova. Casa di Cristoforo Colombo e torri di Sant’Andrea.

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