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argoMenti generali

Presenza italiana a Santo Domingo 1492-1900

Frank Moya Pons Ex professore di Storia latinoamericana nella Columbia University; ex direttore di ricerca dell’Istituto di Studi Dominicani del City College della City University of New York

Che il contatto iniziale tra europei e nativi americani si debba a un navigatore genovese è storia ampiamente nota, giacché fu il ligure Cristoforo Colombo l’artefice decisivo del tentativo di raggiungere l’Asia attraverso l’Oceano Atlantico. Colombo non riuscì nel suo intento perché il modello geografico su cui faceva affidamento si trascinava dietro l’errore del cartografo fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, la cui carta di navigazione atlantica indicava erroneamente che la distanza tra il Giappone (il Cipango) e le Isole Canarie era di circa 3.000 miglia nautiche laddove in realtà sono oltre 10.000. Nel mezzo di quel vasto spazio planetario si frappose un continente inaspettato e Colombo morì senza essere mai arrivato in Asia, pur avendoci provato per quattro volte in altrettanti viaggi esplorativi. Ai costi del primo viaggio la regina Isabella di Castiglia contribuì con un milione e centoquarantamila maravedí, poco più della metà dei fondi richiesti, a valere sui benefici promessi da Colombo che, dal canto suo, investì mezzo milione di maravedí, una somma questa ottenuta in prestito da Giannotto Berardi, importante impresario fiorentino che dal 1485 si era stabilito a Siviglia.1 Berardi faceva parte di una fiorente comunità fiorentina residente a Siviglia attiva nel commercio di schiavi africani, sete e altri tessuti, legname, oricello e spezie; prestavano inoltre soldi sia ad altri mercanti sia a re e nobili. Si conservano alcuni nomi di quei

Nella pagina a fianco:

Ritratto ad olio di Giovanni Battista Vicini Canepa nella grande sala riunioni di Casa Vicini.

La grande sala riunioni è l’ambiente principale del secondo piano di Casa Vicini: qui per decenni sono stati trattati gli affari della ditta. Santo Domingo.

fiorentini, tra i quali figurano diversi amici di Colombo: Amerigo Vespucci, il più intimo, Francesco de’ Bardi, Simone Verde, Francesco Ridolfi, Geronimo Ruffaldi e Lorenzo da Rabatta. Molti di loro avevano rapporti di affari con Lorenzo Francesco de’ Medici e mantenevano con lui una corrispondenza, come ha documentato la storica sivigliana Consuelo Varela nella sua opera Colón y los Florentinos. 2 Pertanto alcuni storici hanno ipotizzato che «è probabile che Colombo, come persona fisica e a titolo personale, abbia ricevuto un prestito dalla Banca dei Medici e, quindi, indirettamente da Lorenzo il Magnifico, ma attraverso il suo rappresentante a Siviglia Giannotto Berardi».3 Comunque si siano svolti i fatti, di certo il denaro fornito da Berardi fu usato da Colombo per contribuire al finanziamento del primo viaggio che portò alla scoperta delle Antille, nome derivato da un’isola mitica (Antillia o Ante Illia) che secondo alcuni europei sorgeva vicino ad altre isolette nel mezzo dell’oceano, a sud-ovest delle Azzorre, sul medesimo parallelo delle Isole Canarie. Tra le isole da lui scoperte, Colombo ne scelse una, la seconda per dimensioni, per fondare una fattoria simile a quelle viste in Africa anni prima in compagnia di marinai e mercanti portoghesi. Battezzò quest’isola col nome di Española e pose le basi di una città in un bel porto fluviale situato alla foce di un fiume che gli abitanti aborigeni dell’isola chiamavano Ozama. La città ricevette il nome di Santo Domingo. Prima di allora, nel suo secondo viaggio, Colombo era stato accompagnato da un suo conterraneo, Michele da Cuneo, originario di Savona; il giovane, desideroso di avventure, gli aveva chiesto di potersi unire alla spedizione come semplice viaggiatore curioso. Cuneo scrisse una relazione del suo arrivo nelle Antille in cui racconta che Colombo, in suo onore, battezzò una piccola isola a sud-est di Española con il nome di Saona. Michele de Cuneo fu dunque il primo turista europeo a visitare il «Nuovo Mondo». L’armatore di quel secondo viaggio fu Giannotto Berardi, incaricato dai re di predisporre un’imbarcazione per il ritorno di Colombo nelle Indie occidentali, una commessa che portò all’organizzazione di una flotta di diciassette navi. Per finanziare una flotta di tali dimensioni Berardi fornì un prestito di 65.000 maravedì che gli furono pagati dalla Corona nell’estate dell’anno successivo. Un altro amico italiano di Colombo, suo confidente e depositario delle informazioni raccolte nei primi due viaggi, fu il milanese Pietro Martire d’Anghiera, autore delle celebri Decades de Orbe Novo, una delle prime cronache della presenza di europei a Española. Berardi, socio e finanziatore di Colombo, ne fu l’agente fino alla morte, avvenuta nel 1496. A partire da quel momento a occuparsi dei suoi affari fu Vespucci. Dieci anni dopo, deceduto Colombo, il figlio Diego fu nominato governatore e viceré delle terre scoperte dal padre, che sarebbero state governate da Santo Domingo. Diego si trasferì nella nascente città nel 1509 con la moglie María de Toledo e una piccola corte di hidalgos, gentiluomini, e fanciulle bianche inviate dalla Corona per «nobilitare la terra». Colombo aveva lasciato a Diego un ingente patrimonio. Con quelle risorse, oltre all’impiego di numerosi schiavi aborigeni, tra il 1511 e il 1512 il nuovo governatore costruì un imponente palazzo vicereale dalla spiccata architettura fiorentina rinascimentale. Ignoriamo tuttora il nome del progettista di questo bellissimo edificio oggi conosciuto anche con il nome, fuorviante, di «Alcázar» di Colombo, ma non vi è dubbio che la sua architettura sia italiana, come ha stabilito la ricercatrice Julia Vicioso, che lo ha studiato per oltre vent’anni. Secondo la studiosa, «la disposizione simmetrica della pianta architettonica e le doppie logge ad archi su entrambi i fronti del palazzo vicereale ne mostrano a grandi linee il carattere rinascimentale; l’edificio può essere considerato la prima opera del Rinascimento italiano nel continente americano». Un decennio più tardi veniva avviata la costruzione di un altro edificio emblematico nella città di Santo Domingo, per volere del primo vescovo residente in città, Alessandro Geraldini, nativo di Amelia, in Umbria. Geraldini fu nominato vescovo di Santo Domingo da Carlo I il 23 novembre 1516; giunse in città il 17 settembre 1519 e morì l’8 marzo 1524. Pertanto non riuscì a vedere conclusa la cattedrale che aveva pensato come sua sede episcopale, un tempio modello dell’architettura tardogotica, unico esempio del genere in America

Latina. Tra i suoi molti scritti Geraldini, uomo del Rinascimento, lasciò una relazione di viaggio (Itinerarium ad regiones sub Equinoctiali plaga constitutas) che contiene vivide descrizioni dello sfruttamento cui gli encomenderos, i coloni spagnoli, sottoponevano gli indigeni. Impressionato dalla crudeltà con cui gli indios venivano maltrattati, entrò in conflitto con il governatore dell’isola Rodrigo de Figueroa e scrisse vibranti pagine al Papa denunciando malvagità e ingiustizie. L’arrivo di Geraldini a Santo Domingo coincise con l’incoronazione del nuovo imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V, che tre anni prima, appena sedicenne, era stato incoronato monarca di tutti i regni ispanici come Carlo I. Per la prima incoronazione l’allora principe Carlo si recò in Spagna dalle Fiandre, dove era stato allevato, accompagnato da un folto seguito di cortigiani fiamminghi. Nell’agosto 1518 il nuovo monarca concesse a uno di quei cortigiani, Laurent de Gouvenot, una licenza di monopolio per importare 4.000 schiavi africani a Española e nelle Indie per compensare il deficit di manodopera causato dal rapido venir meno della popolazione indigena. Gouvenot vendette la licenza a trafficanti genovesi, i mercanti Adamo Vivaldo e Valián de Forne, che a loro volta la trasferirono alla cosiddetta Casa Centuriona, con sede a Siviglia, i cui proprietari erano anch’essi genovesi: Gaspare, Stefano e Giacomo Centurione. L’operazione fu quindi nota come «il contratto dei genovesi». Con quella licenza i genovesi divennero i principali importatori di schiavi africani nelle Indie per oltre un decennio, nonostante il fatto che la Corona spagnola non avesse rispettato il monopolio concedendo altre licenze a commercianti privati, tra cui i tedeschi Welser. Oltre al traffico di schiavi, i Centurione avevano partecipazioni anche nell’industria dello zucchero a Española. Uno di loro, Melchiorre, possedeva uno zuccherificio nei pressi di Santo Domingo, gestito da amministratori residenti sull’isola. Si hanno notizie del fatto che i Centurione e altri genovesi prestassero soldi ai

Il patio centrale di Casa Vicini. L’uscita affaccia su calle Isabel la Católica, già calle del Comercio. Santo Domingo.

proprietari degli zuccherifici sull’isola e fungessero da mediatori dello zucchero, occupandosi dell’esportazione del prodotto nel Nord Europa. Gli schiavi erano essenziali per lo sviluppo dell’industria dello zucchero che iniziò a prendere piede dopo il 1518, proprio quando la forza lavoro si estingueva. Una politica di prestiti rivolta a quegli encomenderos interessati a lasciare le miniere per dedicarsi alla produzione di zucchero ne incoraggiò molti a diventare produttori di dolci. Grazie alle licenze concesse dal re, il lavoro degli schiavi fu assicurato. Nel 1520 le autorità spagnole riferiscono della costruzione di sei nuovi impianti, tre dei quali già producevano zucchero. Questi primi zuccherifici utilizzavano manodopera schiava, composta dalle poche centinaia di indios rimasti nelle mani dei loro proprietari e da diverse centinaia di schiavi neri importati a partire dal 1518. Nel 1527 sull’isola si contavano già venticinque zuccherifici funzionanti a pieno regime. I loro proprietari avevano dovuto ingegnarsi per raccogliere il capitale necessario. Oltre ai prestiti concessi dalla Corona, alcuni investitori avevano venduto immobili, altri si erano associati in compagnie con un massimo di quattro azionisti, altri ancora si erano indebitati con i mercanti genovesi della Casa Centuriona di Siviglia. Il legame con questa impresa si spiega col fatto che i genovesi avevano esperienza nel commercio dello zucchero mediterraneo in Europa. Gli schiavi costituivano una parte rilevante dell’investimento che l’installazione di uno zuccherificio comportava e i genovesi erano disposti a finanziarne l’importazione nelle Antille. I genovesi furono piuttosto solleciti nel fornire la manodopera necessaria ai coloni spagnoli e la loro quota di 4.000 schiavi si esaurì molto prima della scadenza degli otto anni della licenza. Carlo V concesse nuove licenze a numerosi cortigiani, nonché a membri dell’élite coloniale di Española. A quest’ultima, il re concesse il privilegio di importare autonomamente, ovvero con mezzi propri, i lavoratori africani in quantità variabili da una dozzina a quattrocento schiavi, ma i genovesi continuarono a essere i principali sensali dello zucchero dell’India occidentale nel Nord Europa. Si conservano numerosi cognomi di genovesi attivi a Santo Domingo in quegli anni, oltre a Centurione e Vivaldo: Castiglione, Grimaldi, Giustiniani..., tutti legati all’industria dello zucchero e alla tratta degli schiavi. La catastrofe demografica in America Centrale e nelle Antille e, in particolare, a Española non lasciò indifferente Girolamo Benzoni, un giovane avventuriero milanese che risiedette a Santo Domingo tra il 1542 e il 1544, autore de La Historia del Mondo Nuovo, 4 in cui narra le sue esperienze come compagno di diversi esploratori e conquistatori spagnoli in Sud America e nei Caraibi. Per quanto carente nello stile e con evidenti errori di fatto, il libro di Benzoni è stato oggetto di trenta edizioni, traduzioni e ristampe nel xvi e xvii secolo e ha continuato a essere utilizzato come fonte preziosa delle crudeltà commesse nella conquista delle Indie. Nel suo lavoro Benzoni confessa di non aver ricevuto un’istruzione accademica, dati i suoi umili natali, ma di aver saputo compensare la mancanza di letture con svariate esperienze accumulate durante i viaggi attraverso l’Europa, l’America Centrale e le Indie Occidentali. Per la sua importanza, la sua storia è stata pubblicata nel 1992 dalla Sociedad Dominicana de Bibliófilos con un dotto studio preliminare. Benzoni apre il suo lavoro con le seguenti parole: «Essendo io giovanetto di età d’anni ventidue, e desideroso di veder, come molti altri, il mondo, e havendo notitia di quei paesi nuovamente ritrovati dell’India, cognominato così da tutti, il Mondo Nuovo; determinai l’andarvi; et così mi partì di Milano, col nome di Dio rettore, e governatore di tutto l’universo, l’anno del M.D.XLI». Dopo vari anni di vagabondaggi in America Centrale e Terraferma, Benzoni giunse a Española, alla cui descrizione dedicò una parte sostanziale del suo racconto. Il suo sguardo ingenuo sulla natura dell’isola e l’accettazione di una storia orale residente nella memoria degli abitanti di Santo Domingo offrono ai lettori una visione diretta della prima vita coloniale dominicana che completa quella degli altri cronisti delle Indie. Nei due secoli successivi al soggiorno di Benzoni, a parte la visita a Santo Domingo, nel 1589, del celebre ingegnere militare Battista Antonelli chiamato a studiare e proporre un nuovo disegno delle mura della città, nella storiografia dominicana non si trovano altri cenni a quelli che oggi chiamiamo italiani. Certamente ve ne saranno stati altri la cui presenza deve ancora essere sepolta negli archivi; per ritrovarli bisogna aspettare fino a

metà Ottocento. Tale assenza è spiegabile con il lungo periodo di declino attraversato dalla colonia spagnola nel corso del xvii secolo. Anziché attrarre nuovi immigrati, la miseria dilagante spinse i coloni a cercare di lasciare l’isola. Neppure la lenta ripresa economica della colonia nel xviii secolo riuscì ad attrarre immigrati che non fossero spagnoli. La Rivoluzione haitiana (1791-1804) e il suo strascico di un quindicennio di guerre, invasioni militari, cambi di governo ed emigrazione di massa furono un deterrente per l’immigrazione europea, almeno fino a dopo il 1822. In quell’anno la colonia spagnola di Santo Domingo cessò di esistere venendo annessa alla Repubblica di Haiti, circostanza ben nota. Nel corso dei vent’anni successivi la popolazione dell’isola, decimata nei decenni precedenti da guerre ed emigrazioni, cominciò a riprendersi mentre l’economia intraprese un processo di trasformazione strutturale. A quel punto la canna da zucchero, il cotone e l’indaco non erano più voci importanti di esportazione essendo state sostituite, per citare i prodotti principali, da tabacco, legno e caffè, molto richiesti. Sebbene ad Haiti l’esercizio del commercio fosse per legge vietato agli stranieri, i principali acquirenti europei e nordamericani di prodotti da esportazione si andarono stabilendo nei principali porti marittimi: Port-au-Prince, Cap-Haïtien, Santo Domingo e Puerto Plata. A loro volta quei compratori importavano manufatti dagli Stati Uniti e dall’Europa. La maggior parte del caffè prodotto sull’isola, perlopiù raccolto nella parte occidentale, era destinato al Nord America. Le spedizioni di cacao, mogano e altri legni, come il guaiaco, molto richiesto dall’industria navale, erano dirette in Europa. Quasi tutto il tabacco e gran parte del legname provenivano dalla parte orientale dell’isola popolata dai dominicani. Nei porti marittimi sopra menzionati si formarono piccole colonie mercantili composte da individui di varie nazionalità: sefarditi di Curaçao, nordamericani, inglesi, tedeschi, olandesi e genovesi. Il gruppo genovese di Santo Domingo controllava il commercio del legname ed era particolarmente attivo nell’importexport. Molti di loro erano proprietari di golette e brigantini con cui attraversavano l’oceano per portare, prevalentemente nei porti di Genova e Liverpool, mogano e guaiaco, cuoio, mangimi e cera. Dall’Europa trasportavano merci di ogni genere, in particolare di produzione italiana, come olio d’oliva, vino, utensili e oggetti di ferramenta e tessuti. Nel 1844, anno della creazione della Repubblica Dominicana, i più importanti genovesi nel piccolo mondo commerciale di Santo Domingo erano i fratelli Giovanni Battista e Luigi Cambiaso, Giovanni Battista Maggiolo, Nicola e Antonio Canevaro, tutti loro proprietari di golette. Molto noto era anche Giovanni Battista Pellerano Costa, tra i finanziatori del governo. È noto che quando, nel marzo di quell’anno, l’esercito haitiano invase il territorio dominicano per cercare di impedire la separazione della parte orientale dell’isola, sia Cambiaso che Maggiolo e Juan Alejandro Acosta misero le proprie navi al servizio del nascente Stato Dominicano e con quelle armarono la prima flottiglia di tre navi della marina nazionale. Per comandarla, la giunta governativa provvisoria scelse Giovanni Battista Cambiaso e lo nominò ammiraglio; la scelta si rivelò azzeccata, tanto che il 23 aprile 1844 le navi dominicane combatterono con successo contro varie navi haitiane nel sito di Tortuguero, nella baia di Ocoa, riuscendo ad affondarne tre. Cambiaso era al comando della goletta «Separación Dominicana», Maggiolo della «María Chica» e Acosta della «Leonor». Quest’ultimo era un creolo dominicano nato a Baní. Dieci anni dopo, nel 1854, al comando di Cambiaso, gli stessi tre marinai, con tre nuove navi («Cibao», «Merced» e «General Santana»), spostarono la battaglia navale sulla costa settentrionale di Haiti in appoggio alle truppe di dominicani che si preparavano per la famosa battaglia di Beler. Degli altri mercanti liguri stabiliti a Santo Domingo meritano una menzione speciale i fratelli Nicola e Antonio Canevaro, originari di Zoagli, presso Genova, proprietari di diverse golette e molto legati ai fratelli Cambiaso. Nicola Canevaro si dedicava all’esportazione di pelli e legname prezioso e all’importazione di merci europee. Alcuni, come i fratelli Luigi e Giovanni Battista Cambiaso e Giovanni Battista Maggiolo, possedevano golette e brigantini; altri, come Giovanni Battista Pellerano, prestavano soldi al governo; altri ancora si

Casa Vicini è stata per quattro generazioni il centro operativo delle aziende di Giovanni Battista Vicini e delle società associate. Qui, da prima del 1879, si tenevano le riunioni. La ditta era collegata ai magazzini del porto di Santo Domingo da un tram che arrivava fino a calle El Conde. dedicavano al commercio e all’artigianato. Canevaro possedeva anche delle imbarcazioni ed era un commerciante molto noto nella capitale della nascente Repubblica Dominicana. Nei libri e nei fascicoli della Regioneria generale dello Stato risalenti al 1853 compaiono numerosi accenni alle attività commerciali e navali di Canevaro. Da questi documenti risulta che Canevaro possedeva almeno una goletta e due brigantini che facevano la spola con l’estero esportando mogano e riportando mercanzie. Queste navi rimasero in funzione per molti anni. La goletta si chiamava «Dos Amigas», i brigantini «Sardo Palestra» e «Julio César». I fratelli Cambiaso, da parte loro, formavano la società Cambiaso e Ventura. Stando a quanto si legge nei libri contabili del Ministero delle Finanze, dove sono registrate le loro vendite di forniture al governo, durante la Prima Repubblica avevano un forte peso commerciale. I Cambiaso proseguirono l’attività anche dopo la Guerra di Restaurazione, e così pure Canevaro, che continuò a essere armatore, importatore, esportatore e fornitore occasionale del governo. Nell’aprile 1869 i Cambiaso tentarono il salto, chiedendo allo Stato la concessione di un magazzino nella cosiddetta Dogana Vecchia del porto di Santo Domingo. Avere un proprio deposito nella dogana diede ai Cambiaso un vantaggio operativo. Entro l’anno Giovanni Battista Cambiaso possedeva varie navi, tra cui la goletta «Dos Amigas», in precedenza appartenuta a Canevaro, oltre alle golette «Rodolfo» e «Citania», il brigantino «Rodolfo» e la goletta a tre alberi «Luis Cambiaso», che trasportava carichi di legname a Genova. Le golette «Rodolfo» e «Citania» avevano una capacità di carico rispettivamente di 68 e 53 tonnellate. Anni dopo i Cambiaso risultano depositari dei primi piroscafi che operavano nel porto di Santo Domingo. Essere proprietari di navi consentiva a Canevaro e ai Cambiaso di offrire merci a prezzi inferiori rispetto ad altri commercianti, potendo vendere i loro carichi senza dover sostenere costi di intermediazione. Dai libri del Ministero delle Finanze si apprende che il governo acquistava da Canevaro gli articoli più vari: bilance, risme di carta, corde, farina di grano e orci d’olio. Canevaro, al pari di altri commercianti stranieri, importava merci da Genova, Curaçao, Parigi, Francia e Inghilterra e Saint Thomas. Un esempio della varietà di articoli che la «Casa de A. Canevaro y Cía» vendeva al pubblico è un annuncio di «novità» pubblicato sul Boletín Oficial del 28 marzo 1872 in cui si rende noto che le merci erano state importate da Francia e Inghilterra, via Curaçao, e che erano arrivate a bordo della goletta «Isabel». L’elenco è quanto mai vario: cappelli di feltro panseburro, scarpe da bambini, stivaletti da donna, scarponcini, tele «irlanda», mussola colorata, tele da fodera bianche e colorate, pezze di tele «prussiane», madapolam bianco, cotone giallo, asciugamani, calze di cotone bianco, rocchetti di filo, tele «bogotana», copriletti di cotone, drill robusto, drill di cotone bianco superiore, calze per bambini, calze di vario genere da uomo, calze da donna, camicie

da uomo in cotone bianco, fazzoletti; la ditta inoltre offriva un variegato assortimento di merci e generi commestibili disponibili nel proprio magazzino. Nei documenti più antichi che abbiamo trovato, Canevaro risulta esercitare il commercio con la ragione sociale «Nicolás Canevaro y Cía», in seguito mutata in «A. Canevaro y Cía». L’importanza dei fratelli Canevaro e, in particolare di Nicola (Nicolás), non risiede solo nell’ampio orizzonte dei loro affari, svolti tra Santo Domingo e Genova, ma anche nell’essere stati i responsabili dell’arrivo nella Repubblica Dominicana di un ragazzo nato a Zoagli nel 1847 e destinato a diventare il fondatore della principale dinastia imprenditoriale del paese: Giovanni Battista Vicini Cánepa, meglio noto come Giobatta. Giobatta arrivò nel paese quando aveva dodici-tredici anni (tra il 1859 e il 1860) e trascorse i successivi cinque anni come apprendista presso la «Nicolás Canevaro y Cía» e iniziò a muoversi autonomamente a 18 anni quando il suo protettore si ritirò dagli affari proponendogli di diventare socio dell’azienda. Quell’anno, il 5 giugno 1865, fu pubblicato sulla Gaceta de Santo Domingo il seguente avviso: «I sottoscritti rendono noto al pubblico che di comune accordo la ditta attiva su questa piazza avente come ragione sociale Nicolás Canevaro & Compañía, continuerà le medesime attività con il nome commerciale Antonio Canevaro y Cía, essendosi da essa ritirato Don Nicolás Canevaro ed essendo entrato come nuovo socio Don Giovanni Battista Vicini, Santo Domingo, 1 giugno 1865. N. Canevaro y Cia». A quel tempo il paese stava appena uscendo dalla cosiddetta Guerra di Restaurazione, condotta dai dominicani per porre fine all’annessione della Repubblica Dominicana alla Spagna. Le truppe spagnole lasciarono il paese nel luglio 1865 e in ottobre il nuovo governo nazionale creò una commissione per sovrintendere alla stampa delle prime banconote in valuta nazionale destinate a sostituire i biglietti spagnoli nonché la vecchia cartamoneta dominicana ancora in circolazione. Nel gennaio dell’anno successivo, Vicini, appena diciannovenne, compare tra i firmatari, insieme a cinque cittadini più anziani, dei verbali della commissione di vigilanza sulla stampa delle banconote da 40, 20 e 10 pesos nazionali. Due anni dopo il ventunenne Giobatta fa la sua comparsa per la prima volta nei libri del Ministero delle Finanze come creditore personale del governo dominicano per la somma di cento pesos registrati in un foglio di «pagamenti vari» in quella che a tutt’oggi sembra essere la prima operazione commerciale di Vicini Cánepa come singolo individuo, non come dipendente o rappresentante delle società del Canevaro. In quella transazione il suo nome fu registrato come Juan Bautista Bichini. Da allora in poi gli affari di Vicini Cánepa non fecero che crescere. L’esportazione di legname gli procurava continue eccedenze di valuta forte che aveva imparato a utilizzare per concedere prestiti al governo, ad altri stranieri risiedenti a Santo Domingo, e anche per soddisfare le crescenti richieste di prestiti da parte della popolazione civile in un momento in cui non c’erano banche. Così, gradatamente e grazie a una ferrea disciplina personale e uno spiccato spirito organizzativo, Vicini Cánepa divenne uno dei principali finanziatori della città rimanendo un commerciante esportatore e importatore e conservando anche la ditta originaria che vendeva ogni genere di merci, nazionali e d’importazione. Nel 1880 lo troviamo anche come investitore associato in diversi «enti creditizi», un nome dato ai sindacati di prestasoldi organizzati nelle principali città (Puerto Plata, Santiago, Santo Domingo) per anticipare fondi al governo, quasi sempre con la garanzia delle entrate doganali. Vicini Cánepa prese parte agli inizi della «rivoluzione dello zucchero» fomentata in seno allo Stato dai dirigenti del cosiddetto «Partido Azul», agendo come prestatore individuale a numerosi investitori stranieri che volevano stabilirsi nel paese per godere delle franchigie e dei privilegi fiscali che lo Stato concedeva a quei capitalisti intenzionati a investire nella costruzione di zuccherifici. Vicini Cánepa si gettò a capofitto nel settore dello zucchero almeno dal 1880, in qualità di refaccionista, ovvero di finanziatore della produzione, e commissionario dello zucchero. Per facilitare le operazioni di spedizione di zucchero e miele quell’anno Vicini Cánepa acquistò un piroscafo in sostituzione delle golette che per conto della sua società effettuavano la navigazione tra Santo Domingo e New York. Entusiasta del buon andamento

degli affari e del boom generato dalla rivoluzione dello zucchero, nel 1883 decise di lanciarsi nella costruzione di uno zuccherificio tutto suo, l’Italia, su terreni di sua proprietà situati vicino a Yaguate, nel comune di San Cristóbal, in un sito denominato Caoba Corcovada. Comprò in Francia le attrezzature e i macchinari destinati allo stabilimento, tra cui una grande alambicco per la produzione di rum, alcol e acquavite. Il 28 febbraio 1883 Vicini chiese il permesso di costruire una strada ferrata che dallo zuccherificio Italia giungesse al porto di Palenque, permesso che gli fu accordato. Nel 1884, sopraggiunta la crisi dei prezzi dello zucchero, molti dei debitori di Vicini Cánepa fallirono e pagarono i debiti che avevano contratto con lui cedendogli i propri zuccherifici in esecuzione delle ipoteche. Così, quasi dall’oggi al domani, Vicini Cánepa si ritrovò a essere un imprenditore nell’industria, proprietario di diverse fabbriche di zucchero e piantagioni di canna, tra cui Constancia, Santa Elena, Angelina, Ocoa e Bella Vista e i pascoli di La Encarnación, Santa Elena, Asunción e Las Damas, in parte successivamente convertiti in piantagioni di canna da zucchero. Vicini Cánepa continuò in contemporanea a espandere le sue attività nel settore dello zucchero e le operazioni finanziarie, prestando denaro sia al governo sia a privati. La riscossione di ipoteche gli permise di accumulare un ingente patrimonio immobiliare nella città di Santo Domingo. Inoltre, i crescenti benefici ottenuti dai suoi zuccherifici gli permisero di estendere le piantagioni nel sud e nel sudest del paese, tramite successivi acquisti di terre, tanto che, alla sua morte, il 23 febbraio 1900, era il titolare della più grande fortuna della Repubblica Dominicana: l’ammontare del suo patrimonio superava di tre volte il bilancio nazionale di quell’anno. Altri liguri che emigrarono nel paese negli anni di massima espansione dell’impero commerciale e industriale di Vicini furono il cugino Angelo Porcella, il fratello di questi Andrea e un cugino di primo grado, Angiolino Vicini, arrivato a Santo Domingo nel 1894. Angelo, anch’egli di Zoagli, era giunto nella Repubblica Dominicana nel 1878. Da allora i Porcella e Porcella-Vicini sono stati sempre imprenditori di primo piano nel paese, e molti dei loro componenti professionisti di spicco. Tra le altre famiglie di origine italiana arrivate a Santo Domingo nel xix secolo, spiccano i Billini, discendenti di un soldato piemontese giunto nel 1802 con le truppe inviate da Napoleone Bonaparte per reprimere la rivolta degli schiavi della parte occidentale dell’isola. Sopravvissuto al disastro militare che costò la vita a più di 50.000 soldati, il soldato, di nome Giovanni Antonio Billini Ruse, si rifugiò a Baní, dove sposò una giovane creola con la quale formò una famiglia numerosa che avrebbe dato al paese due sacerdoti (Miguel e Francisco Xavier) e diversi patrioti, militari, politici o scrittori. Uno dei suoi nipoti, Francisco Gregorio, divenne Presidente della Repubblica per nove mesi nel 1884, e fu autore di un importante romanzo costumbrista, Baní o Engracia y Antoñita, e di due opere teatrali, oltre che di numerose collaborazioni con i principali giornali dell’epoca. Fino alla fine del xix secolo i pochi immigrati italiani che si stabilivano nella città di Santo Domingo provenivano dal nord, quasi tutti liguri. Anche altre città, come Puerto Plata, Santiago e La Vega, hanno ricevuto alcuni immigrati, ma si deve aspettare fino al ventesimo secolo perché il numero di questi fosse significativo. Edwin Espinal se ne occupa nel capitolo 3. Sappiamo che la grande emigrazione italiana in Nord America e America Latina iniziò con gli abitanti delle regioni settentrionali d’Italia dopo l’unificazione nazionale del 1861, e fu solo dopo il 1880 che gli abitanti del Mezzogiorno iniziarono a lasciare le loro regioni di origine. Con il graduale fallimento dell’ordine feudale dopo l’Unità d’Italia, iniziò la massiccia partenza di italiani poveri verso gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina. A quel punto la popolazione dei campi e dei villaggi dell’Italia meridionale era intrappolata in un penoso stato di mancanza di terra arabile, malnutrizione, malattie (malaria, tubercolosi, pellagra) che rendevano la vita insostenibile. Pertanto, nonostante i tentativi iniziali delle autorità per impedire la partenza della forza lavoro all’estero, la popolazione italiana credette alle storie popolari che dipingevano l’America come la terra

dell’abbondanza. Di conseguenza, tra il 1876 e il 1900 circa cinque milioni di italiani lasciarono la loro patria, e altri otto milioni lo fecero tra il 1900 e il 1915. La maggior parte delle famiglie di origine italiana che risiedono oggi nella Repubblica Dominicana sono figlie di questo grande movimento migratorio, in particolare dell’ondata dei primi due decenni del ventesimo secolo. Alcune località hanno riversato una parte significativa della loro popolazione in questo paese, come è successo con il paesino calabrese di Santa Domenica Talao, da cui proviene un gruppo di intraprendenti famiglie che hanno contribuito allo sviluppo economico e sociale di Puerto Plata e della Repubblica Dominicana.

Zoagli, la località ligure da cui proviene la famiglia Vicini.

Note

1 c. varela, Cristóbal Colón y la construcción de un mundo nuevo: estudios, 1983-2008, Archivo General de la Nación, vol. CVII, Santo Domingo 2010. 2 c. varela, Colón y los florentinos, Alianza Editorial, Madrid 1988. 3 g. barceló ed e. barceló, Colón y su empresa de Indias ¿Comercio, descubrimiento o cruzada?, Editorial Arpegio, Barcelona 2019. 4 M. g. benzoni, La historia del Nuevo Mundo, Sociedad Dominicana de Bibliófilos, Santo Domingo 1992.