Non arrendersi - Cancro Primo Aiuto

Page 1


2014 Š Non arrendersi. Mai! Editore: Media (iN) in collaborazione con Cancro Primo Aiuto Media (iN) Via Paolo Regis, 7 - 10034 Chivasso (TO)

Cancro Primo Aiuto Onlus Via Ernesto Ambrosini 1, Monza (MB) Testi di Giuseppe Pozzi con Greta Chiara Pagani Impaginazione: Giancarlo Favaro - Promotion Merate


Giuseppe Pozzi Con la collaborazione di Greta Chiara Pagani

NON ARRENDERSI. MAI!

Un libro per aiutare gli ammalati di cancro e i loro familiari. Paure, dubbi e domande. Le risposte degli psicologi. Le storie di chi ce l’ha fatta. E l’invito dell’alpinista Marco Confortola a non mollare mai. Perché sì, si può vincere!

Media (iN)


4


Sommario Introduzione.................................................................................. p. 7 «Mai mollare», parola di Marco Confortola.............................. p. 9 L’importanza dell’intervento psicologico................................... p. 17 • Le domande dei malati di cancro............................................. p. 20 • Le domande dei familiari dei malati di cancro....................... p. 37 La dieta da seguire........................................................................ p. 55 Tutto ciò che può aiutare.............................................................. p. 61 Storie da conoscere....................................................................... p. 69 • Laura Erba................................................................................... p. 71 • Monica S...................................................................................... p. 77 • Roberta Mariani......................................................................... p. 81 • E. P................................................................................................ p. 87 • Severina Villa.............................................................................. p. 92 • Elisa Bonaccorsi......................................................................... p. 97 • Daniela Gurini............................................................................ p. 102

Per una buona lettura o visione.................................................. p. 107 • Libri.............................................................................................. p. 107 • Film.............................................................................................. p. 122

5


6


Non arrendersi. Mai!

Introduzione Partiamo da una constatazione, purtroppo difficile da negare: nonostante i progressi compiuti dalla medicina, la parola “cancro” suscita ancora spavento, paura, angoscia, dubbi, insomma brutti pensieri. Inutile girarci intorno: quando ti senti dire «Mi dispiace, lei ha un cancro», la tua mente, i tuoi occhi, le tue labbra, le tue mani, tutto il tuo corpo trasmettono immediatamente preoccupazione, tensione, rabbia, e il tuo pensiero finisce quasi subito lì dove non vorrebbe andare: la morte. Per molti non è una diagnosi: è una sentenza. Questo è tanto più vero quanto più nella vita quotidiana tendiamo a non pensare alla sofferenza, alla fine, a credere che certe cose possano capitare agli altri, ma non a noi. E anche chi è vicino a una persona colpita da una malattia tumorale si riscopre da un giorno all’altro confuso e turbato, ha la sensazione che il mondo gli crolli addosso e si sente perso. L’incertezza e la paura hanno a volte la meglio. La parola “cancro” è stata per lungo tempo quasi impronunciabile, sostituita spesso con “male incurabile”, per indicare una malattia che non lasciava scampo, oppure “brutto male”, come se il male potesse essere “bello”… Eppure la scienza medica negli ultimi anni ha compiuto progressi incredibili: è ormai un dato di fatto che di tumore si muore sempre meno, grazie a terapie innovative e a massicce campagne di prevenzione e informazione, e sono sempre di più gli ammalati che guariscono completamente. Prendiamo per esempio il tumore alla mammella: l’incidenza nella popolazione femminile è pari al 10%, un dato molto elevato; ma delle donne che si ammalano, quasi il 90% arriva a gua7


Non arrendersi. Mai!

rigione. Insomma, la speranza di vita, anche per chi con la malattia deve fare i conti ogni giorno, è sempre maggiore. Nonostante ciò, il cancro continua ad essere percepito come una delle peggiori malattie. D’accordo, in fondo ancora lo è, visto che è la seconda causa di morte (il 30% di tutti i decessi) dopo le malattie cardiovascolari. Però si può affrontare, e va affrontato, in maniera positiva. Perché, diciamolo in modo altrettanto forte e chiaro, si può guarire. Davvero! In Italia oggi sei pazienti su dieci ce la fanno e ci sono circa due milioni e 250mila persone che hanno avuto una diagnosi di cancro, si sottopongono a controlli sempre meno frequenti e sono tornati alla vita di tutti i giorni, hanno ripreso il lavoro, praticano sport e hanno figli. E poi ci sono tutti quei pazienti che, grazie allo sviluppo tecnologico e scientifico di nuove terapie, possono convivere con la malattia anche per anni e con una qualità della vita accettabile e dignitosa. Ma come si affronta questa malattia? Difficile dare una risposta a questa domanda. Però, se è vero che non esiste un manuale che dica come combattere il cancro, le pagine che seguono vogliono dare una mano agli ammalati ad affrontare la loro sofferenza, con l’obiettivo di fornire delle risposte alle tante domande che sorgono quando si scopre di avere il cancro; così come vogliono sorreggere i parenti e gli amici e offrire loro i suggerimenti necessari per assistere i loro cari che soffrono; e, soprattutto,vogliono trasmettere un messaggio di speranza. Un obiettivo non facile ma che ci auguriamo, una volta letto il libro, di avervi aiutato a raggiungere. Flavio Ferrari Amministratore delegato di Cancro Primo Aiuto 8


Non arrendersi. Mai!

«Mai mollare», parola di Marco Confortola L’alpinista valtellinese ha visto in faccia la morte sul K2 dove ha perso le dita dei piedi. Ma si è rialzato e ha conquistato di nuovo due Ottomila. Sembra la storia di un malato di cancro che ce l’ha fatta… Iniziamo questo libro dando la parola a Marco Confortola, uno degli alpinisti più conosciuti al mondo. Poco più di un anno fa ha conquistato il suo ottavo Ottomila, il Lhotse. E nel 2012 è salito in cima al Manaslu (8.163 mt), sempre sull’Himalaya. Ce l’ha fatta senza le dita dei piedi, amputategli nel 2008, dopo che gli si erano congelate sul K2, una vetta che gli è costata molto cara e dove, davvero, ha visto in faccia la morte. E ce l’ha fatta dopo altri due tentativi andati a vuoto di scalare altrettanti Ottomila, sempre il Lhotse (8.516 mt) nel 2010, quando fu costretto a rinunciare a quota 7.991 metri per il freddo ai piedi, e il Dhalaugiri (8.167 mt) pochi mesi prima. Ecco perché partiamo da lui e dalla sua tenacia: gli ammalati di cancro hanno bisogno della stessa perseveranza per combattere il male che li ha colpiti. Anche loro spesso si trovano di fronte a delusioni, a fallimenti, a ricadute. Forse l’esempio di Confortola può essere d’aiuto: non si deve mai mollare, perché la vetta - la guarigione - si può raggiungere. E che si arrivi in cima o meno, comune è anche il sacrificio e la fatica di ogni giorno, la conquista, passettino dopo passettino, metro dopo metro, di buona salute o di montagna. «L’importante è crederci – assicura Confortola – Ed essere sempre positivi. Se non sei convinto di potercela fare, se non sei persuaso di poter arrivare in cima o di guarire, è finita ancor prima di cominciare. Se ti 9


Non arrendersi. Mai!

trovi in un letto di ospedale dove ti hanno detto di avere un cancro e rinunci a combattere, è evidente che la morte avrà la meglio. Anch’io, dopo le delusioni del Lhotse e del Dhalaugiri, non sarei mai arrivato in cima al Manaslu se non ci avessi creduto fino in fondo». Quand’è stato il tuo primo vero contatto con il cancro? «Quando si è ammalata la mia nonna materna Adelina, poi morta a meno di 60 anni per un tumore al pancreas. Anche mio nonno è morto di cancro poco più che cinquantenne, ma di lui non mi ricordo molto, ero piccolo. Di mia nonna, invece, ho dei ricordi molto vivi, perché frequentavo le scuole medie quand’è successo. Partivo da casa mia in bicicletta da corsa e andavo a trovarla; abitava ad Aquilone in Valdisotto… Poi, purtroppo, ho incrociato tante volte il cancro, anche troppe. Com’è successo poco più di due anni fa al mio amico, Danilo. L’avevo conosciuto qualche anno prima quasi per caso: era venuto a casa mia per fare dei lavori e avevo scoperto che era un mio fan e seguiva le mie imprese. Siamo diventati amici e mi ha anche venduto la sua auto. Poco prima di partire per la salita al Manaslu, mi è arrivato un messaggio della figlia sul cellulare: “Danilo non c’è più”. Un cancro se l’è portato via. E quattro anni prima aveva ucciso anche sua moglie. Che merda di male! Però…». Però? «Però l’esito di questa malattia non è sempre la morte. Dopo la conquista del K2, con tutte le dita dei piedi congelate che poi mi amputarono, sono stato ricoverato nel reparto di chirurgia tumorale all’ospedale di Padova. E’ lì che ho capito come pazienti e alpinisti condividono un 10


Non arrendersi. Mai!

sogno. Entrambi si vengono a trovare in condizioni difficili, estreme, sull’orlo della morte e a volte, purtroppo, anche oltre. Ma sono sorretti dallo stesso desiderio, dalla stessa convinzione: vogliono ripartire, vogliono rimettersi in piedi e raggiungere la meta, che sia la guarigione o la vetta. Non è facile, lo so, a volte può persino sembrare impossibile; ma alpinista o malato che sia deve mettercela tutta perché diventi fattibile». Cos’hai imparato a Padova? «Di quel periodo ricordo un male fisico pazzesco. Eppure ero quello che stava meglio: molti dei ricoverati non sono usciti con le loro gambe… Tutte le mattine passavo a salutarli, cercavo di farli sorridere, proprio perché sapevo dei loro problemi: insomma, cercavo di fargli passare quel tempo nel miglior modo possibile. Davo la sveglia a tutti, con le mie barzellette, le mie “monate”, le gimkane con la mia sedia a rotelle. Avevo creato un bel rapporto anche con i medici. Certo, alcune volte mi sono trovato con persone, anche giovani, devastate dal male, coscienti che non avrebbero portato a casa la pelle. Ma molto spesso ho incontrato ammalati che se si fossero rassegnati sarebbero morti ancor prima di aver tentato di guarire. Invece nei loro occhi c’era una luce speciale; e nei loro gesti, insieme a rabbia e dolore, ho visto anche tanta determinazione, tanta voglia di non perdersi un attimo di vita e di tentare in ogni modo di venirne fuori. Quando mi incontro con il dottor Giuseppe Valmadre, un amico oncologo che lavora presso l’ospedale di Sondalo, mi ricorda spesso quanto sia importante per un ammalato crederci fino in fondo. E’ quello che cerco di trasmettere a chi incontro».

11


Non arrendersi. Mai!

Beh, qualche motivo per poterlo dire agli ammalati ce l’hai. «In effetti… Quando mi hanno amputato le dita dei piedi, il dottor Gianfranco Picchi, con cui ero ormai entrato in confidenza, mi aveva detto: “Guarda che con molta probabilità non potrai più correre”. Io gli ho risposto: “Confortola facilmente correrà ancora”. E con fatica, con sofferenza, sono tornato a fare quello che facevo prima: sciare, scalare e, naturalmente, correre. Cosa sarebbe successo se mi fossi fermato a compatirmi e piangermi addosso? Lo so benissimo che è dura, l’ho provato sulla mia pelle. E non solo in quella stanza di ospedale». A cosa ti riferisci? «Non sai quante volte mi sia già trovato vicino alla morte… Come la notte dopo aver conquistato la vetta del K2. Ai limiti del seracco, poco sotto la vetta, io e un altro alpinista avevamo scavato due buche per il sedere e i piedi: senza tenda, senza sacco a pelo abbiamo affrontato un bivacco a 8.400 metri! A volte mi alzavo per saltellare, tenevo il più possibile in movimento le dita delle mani e dei piedi, ci massaggiavamo a vicenda. Mi sono aggrappato all’idea che ce l’avrei fatta, che mi sarei salvato: volevo tornare a casa con tutte le mie forze. E’ stata la mia determinazione a sottrarmi alla morte. Per gli ammalati di cancro è probabilmente più pesante di quanto lo sia stato per me; ma devono crederci, possono farcela. Oggi sono davvero tanti quelli che si salvano. Lo so che forse non può bastare perché questo è un male bastardo e può non darti scampo. Ma non si deve mai mollare, non bisogna mai dargliela vinta. Se io quella notte sotto la vetta del K2 mi fossi addormentato e non ci avessi creduto, sicuramente non mi sarei più svegliato».

12


Non arrendersi. Mai!

Tu, però, sei preparato per queste imprese. «E’ vero, ma anche chi si ammala si deve allenare. Quando sei costretto a sottoporti a un ciclo di chemioterapia, magari a un secondo, a un terzo... è importante non piangersi addosso ma, nel limite del possibile, comportarsi come sempre, facendo quello a cui si era abituati. Senza dubbio aiuta a ritrovare quella positività, quella serenità che permette di affrontare nella maniera giusta la malattia». Credo che tu possa dire qualcosa agli ammalati anche sull’esperienza del dolore. «Più di un’esperienza, oserei dire. Nessuno può immaginare cos’ho provato quando mi sono svegliato dopo l’intervento di amputazione delle mie dita: un dolore lancinante, dalla punta dei piedi che mi era rimasta fino alla testa. Vi garantisco che per diversi giorni è stata una vera tortura: non sapevo dove mettermi, dovunque, steso o sulla sedia a rotelle era la stessa cosa. Certe notti, anche diverse settimane dopo l’amputazione, mi faceva male persino lo sfregamento delle lenzuola ed ero costretto a infilare i piedi in una sorta di gabbia di protezione. Ho dovuto imparare, giorno dopo giorno, a convivere con il dolore che ancora oggi, in molte occasioni, non mi ha abbandonato. Non hai idea di che dolore avessi ai piedi durante la salita al Manaslu: però ho tenuto duro e ce l’ho fatta. E poi il dolore per la morte: quanti amici ho perso sulle montagne. Pochi giorni prima che salissi sulla vetta del Manaslu, una valanga s’è portata via undici compagni... E quanti ne ho messi via nella mia attività con l’elisoccorso. Credo che un ammalato di cancro si trovi nelle stesse condizioni: ci si deve mettere in testa che per guarire sarà necessario soffrire, tanto, al limite del possibile. La guarigione, come una 13


Non arrendersi. Mai!

cima, non te la regala nessuno: te la devi conquistare. E voglio dire un’altra cosa, anche a chi non è ammalato». Prego. «Quando si sta bene non ci si rende conto di quello che abbiamo e ci si lamenta magari di un dolorino, del lavoro, della fatica. Non capiamo la fortuna che abbiamo quando stiamo in salute. Lo sa bene un allettato: quando riesce anche solo a camminare, gli cambia il mondo. Quando io ho mollato la sedia a rotelle m’è cambiato il mondo». Oltre chiaramente alla tua determinazione, cosa ti ha aiutato nei momenti più difficili? «Innanzitutto le persone che mi vogliono bene, a cominciare dagli affetti più cari che mi sono sempre stati vicini e mi hanno sostenuto, anche quando ci sarebbe stato qualche motivo per considerarmi un po’ “esagerato”. E con loro tanti amici, quelli veri intendo, non quelli che mi sono stati accanto finché è durata la fama, perché avevano degli interessi, e sono spariti appena mi sono trovato di nuovo in difficoltà. Penso, ad esempio, al mio amico Roberto Baitieri, detto “Pelanda”, un autista in pensione che quando ho avuto bisogno mi ha dato tutta la sua disponibilità: prima dell’amputazione mi caricava in macchina e dalla Valfurva mi portava a Bergamo, aspettava un paio d’ore che facessi la mia seduta in camera iperbarica e poi mi riportava a casa. Tutti i giorni e senza mai lamentarsi». E poi? «Di grande aiuto sono stati i miei progetti, i pensieri alla mia casa, alle mie salite, alle mie discese, ai miei libri... Credo che quando un amma14


Non arrendersi. Mai!

lato si trova in ospedale e il tempo non passa mai, se pensasse ai progetti che può fare una volta uscito, sicuramente troverebbe un conforto, un aiuto, uno stimolo in più per non mollare. Quando esco da qui cosa devo fare? E’ questa la domanda che ci si deve porre: è importante pensare a questo. I sogni e gli obiettivi da raggiungere aiutano molto perché si deve essere convinti che c’è ancora un futuro da riempire. Dopo l’amputazione delle dita, come dicevo, spesso ho forti dolori ai miei piedi: mi sveglio anche di notte. Ma sai che dico? Me li tengo. E nella sfortuna di quanto mi è successo mi accorgo di quanto ho e posso fare. Insomma, anch’io sono stato vicino alla morte in più occasioni, ma sono ancora vivo e ho un futuro da costruire. Questo vale per tutti e anche i malati di cancro non devono mai dimenticarselo». A proposito di futuro, molte volte t’ho sentito parlare dei giovani... «… che sono il futuro del mondo. Spesso mi chiamano a parlare nelle scuole. La prima cosa che gli dico è che il K2 con me è stato un signore, perché mi ha lasciato la vita. Quello che cerco di insegnargli è appunto di rispettare questo dono, il più importante che abbiano avuto; e non devono, non possono sciupare la vita. E gli parlo anche di cancro perché devono rendersi conto di quanto sono fortunati, di quanto stanno bene. Grazie alle imprese compiute vedo che mi ascoltano e allora cerco di inculcare in loro i miei valori, i miei “comandamenti”: obbedire, studiare e fare sport. Gliel’ho fatto mettere anche sulle magliette». La paura è un altro sentimento che credo accomuni l’esperienza dell’ammalato di cancro e quella di uno scalatore. Come superarla, come andare comunque avanti? «La paura è un sentimento fondamentale per portare a casa la pelle. 15


Non arrendersi. Mai!

Soprattutto quando ti ritrovi in certi passaggi della montagna, dove se sbagli, come dico io, non serve un medico ma un fiorista... Anche i ragazzi con cui vengo in contatto nei miei incontri nelle scuole mi chiedono spesso se ho paura. Rispondo che magari è una paura diversa dalla loro, ma anch’io ho paura. Se hai paura stai attento a non sbagliare: altrimenti sei incosciente, ti butti e rischi di ammazzarti. L’esempio che porto sempre è quello del bambino che comincia a gattonare: arriva ai limiti della scala, ma poi torna indietro. E’ la paura che gli salva la vita. Quando ti dicono hai un tumore, per di più maligno, come puoi non aver paura di lasciarci la pelle? Quella notte sul K2 non sapevo se sarei tornato a casa. Ho avuto paura e mi sono detto: qui ci resto secco. Però ho saputo tirar fuori il mio spirito di combattente, di guerriero: ho tenuto giù la testa e non ho mollato. Solo così sono riuscito a rivedere le mie montagne». Perché un malato di cancro non dovrebbe mollare mai, come spesso dici? Sai anche tu che i momenti di sconforto sono tanti. E poi, in fondo, tu te le sei andate a cercare, a loro la malattia è piovuta addosso... «Quando sei nel dolore, nella sofferenza, davanti alla morte... cambia qualcosa se ti trovi in quella situazione perché in un certo qual modo l’hai voluta, oppure t’è semplicemente piovuta addosso? Io credo di no. L’importante è capire come uscirne, come superare quei momenti, quelle difficoltà. E se qualcuno ti può dare una mano, chiunque sia, ben venga. Ecco, io spero che la mia storia e il mio contributo possano avere questo ruolo: servire ad aiutare un ammalato a recuperare speranza, ad avere una ragione in più per lottare, per combattere il cancro. Per non mollare mai!». 16


Non arrendersi. Mai!

L’importanza dell’intervento psicologico. Le domande dei malati e dei loro familiari Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male? E se non ce la farò? Potrò tornare come prima? Si chiede chi scopre di avere un cancro. Meglio dirglielo o no? Non ho il coraggio di parlargli, sono in imbarazzo: cosa posso fare? Quali argomenti affrontare? Come posso aiutarlo? Si chiedono, invece, i loro familiari. Risposte e suggerimenti. Ammalarsi di cancro non è solo una questione di salute fisica. Una diagnosi di tumore può essere vissuta come un vero e proprio dramma che coinvolge tutti gli aspetti di una persona, dalla sfera esistenziale a quella psicologica, dai rapporti con gli altri fino alla dimensione religiosa e spirituale. Perché il vissuto soggettivo del cancro e l’interpretazione individuale e sociale della malattia sono un processo insidioso e incontrollabile che invade, trasforma e lentamente può portare alla morte. Il cancro, indipendentemente dai contesti culturali, è considerato in ogni caso la malattia più temuta in assoluto. Poche altre malattie hanno un impatto con conseguenze così evidenti. Gli effetti della malattia possono essere devastanti: paura e rabbia sono immediati, ma poi seguono quasi immediatamente incertezza, angoscia e prostrazione. Di fatto, è un trauma che rischia di sconvolgere l’intera vita del malato, di comprometterne la vita sociale, i rapporti con le persone, di aumentare il numero di giornate di degenza e perfino di arrivare a interferire negativamente con la capacità di affrontare il cancro, i cambiamenti fisici e il trattamento di cura; perché è evidente che il cancro provoca 17


Non arrendersi. Mai!

profondi cambiamenti di vita a cui bisogna sapersi in un certo qual modo adattare. Quindi il problema va individuato e affrontato subito. Perché a volte succede che si dia un po’ per scontata la sofferenza psicologica da parte di chi scopre di avere un cancro e di chi gli sta vicino; invece va affrontata e curata come si combatte il dolore fisico. Non per nulla già nel Piano oncologico nazionale 2010-2012 si stabilisce che «l’attivazione - nelle diverse neoplasie e fasi di malattia, di percorsi psico-oncologici di prevenzione, cura e riabilitazione del disagio emozionale, siano essi di supporto o più specificamente psicoterapeutici (individuali, di gruppo, di coppia, familiari) - risulta fondamentale per il paziente e per la sua famiglia». Senza dimenticare che una maggiore coscienza di quello che si sta vivendo può aiutare ad affrontare meglio la malattia. Perché se è vero che il cancro non nasce per ragioni psicologiche, non è, insomma, una malattia psicosomatica, è altrettanto vero che il ruolo della psicologia può essere determinante per guarire. Chi, appunto, è cosciente della lotta che sta portando avanti, aderisce meglio alla terapia; anzi, ne parla senza problemi con i medici così da aiutarli a personalizzare la cura da seguire in modo che risulti più efficace. Ai malati e ai loro familiari si deve, quindi, far sapere che si possono e si devono curare anche gli aspetti psicologici; che controllare e limitare lo stress legato a malattia e trattamenti terapeutici è possibile; che affrontare il futuro, per forza di cose incerto, e dare ancora un senso alla propria esistenza è necessario; e che migliorare la qualità di vita non è un sogno. Per non cadere nella disperazione è allora fondamentale trovare un aiuto, qualcuno che dia delle risposte alle molte domande che quel 18


Non arrendersi. Mai!

tremendo responso provoca. E non solo all’ammalato, ma anche ai suoi familiari, alle persone che gli sono vicine. Quindi, non abbiate paura di chiedere. Chi vi sta curando saprà certamente rispondere alle vostre domande e darvi le informazioni che vi saranno utili a superare i momenti di difficoltà e di paura e affrontare con lucidità le decisioni da prendere. Questo vale anche per i familiari che possono accompagnare il malato, se lo desidera, alle varie visite mediche: preparatevi bene al colloquio, ponete domande e se non capite qualcosa, chiedete. Purtroppo, però, non è sempre possibile avere a disposizione personale sanitario, meglio ancora se uno psicologo, che ti dia una mano, che ti sappia ascoltare, che sia in grado di darti le giuste risposte; e spesso non si ha nemmeno voglia, o coraggio, di parlarne. Per questo abbiamo pensato che fosse opportuno valutare, insieme ad alcune psicologhe che ogni giorno affrontano queste situazioni nei reparti di oncologia e radioterapia degli ospedali o nelle stanze degli hospice, quali sono le domande che gli ammalati e i loro familiari si pongono e le risposte da dare. E’ evidente che personalizzare gli interventi è praticamente impossibile, perché ogni situazione andrebbe valutata per conto suo. Però, abbiamo la presunzione di sperare che queste risposte possano consentire a chi le leggerà di ridurre l’angoscia e la preoccupazione e di ritrovare un po’ di serenità. Insomma, ci auguriamo di darvi una mano!

19


Non arrendersi. Mai!

Le domande dei malati di cancro E adesso cosa mi succederà? Come cambierà la mia vita? Sarò in grado di affrontare una malattia di questo genere? Sono certamente alcune delle prime domande che si pone chi scopre di avere un cancro. Appena un medico annuncia la presenza della malattia, è normale chiedersi cosa succederà e come si sarà in grado di reagire. Probabilmente nella risposta che verrà data è già insita la modalità in cui verrà affrontata la malattia. C’è chi è fatalista e ritiene che il destino gli abbia riservato questa sorte: inutile quindi disperarsi, ma anche cercare di cambiarlo. Non è certo il modo migliore per affrontare il cancro. E nemmeno aiuta l’atteggiamento di chi si fa sopraffare dall’ansietà: succede così che colga ogni sintomo diverso dal normale come un peggioramento della malattia, anche se non ha niente a che vedere col cancro. Peggio ancora il modo di reagire di chi immediatamente si dispera e si dà già per morto, convinto che non ci sia più alcuna speranza: la principale conseguenza è l’abbandono del lavoro e di ogni interesse che si aveva in precedenza. Chi è credente di solito riesce a darsi più facilmente delle risposte a queste domande: c’è, infatti, la convinzione che a ogni uomo venga data la croce che è in grado di sopportare, ma nel senso che ha le capacità per affrontarla. In ogni caso, l’atteggiamento più costruttivo è quello di chi si pone di fronte al cancro con spirito combattivo: con la consapevolezza che sarà un percorso difficile in cui ci saranno dei momenti di sconforto e smarrimento ma al tempo stesso con la convinzione che c’è una battaglia per la quale vale pena di combattere e lottare, quella per la propria vita.

20


Non arrendersi. Mai!

Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male? E’ molto probabile sia questo un altro degli interrogativi principali che si pone chiunque si ritrovi con una diagnosi di cancro. Sono domande automatiche che ogni ammalato e famigliare si pongono. Le stesse che si rivolge chi viene colpito da una disgrazia o da un lutto. E sono di quelle che difficilmente possono trovare una risposta esauriente. Perché l’evento di malattia è imprevedibile: è la vita che ti sfugge e ti mette in difficoltà. Ti mette ansia perché non puoi controllarla. La rabbia per quello che sta accadendo è enorme: si pensa all’ospedale, alle terapie che si dovranno seguire, a quello che si potrebbe perdere… Ma perché proprio a me? C’è chi si arrovella su questa domanda e va a cercare nella propria vita un motivo, il più delle volte negativo. Della serie: cos’ho fatto di male per meritarmi questo? Ma perché bisogna aver fatto qualcosa di male per avere il cancro? E’ inutile chiedersi continuamente il perché o ritenersi in parte responsabile di questa situazione: il cancro è una malattia complessa e in molti aspetti ancora oscura, che non è mai riconducibile a una sola causa. Sembrerà magari strano, ma di fronte a questo interrogativo si potrebbe ricordare il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, una straordinaria poesia di Giacomo Leopardi che, quanto a domande sul significato dell’esistenza, non era secondo a nessuno. Nel canto, il pastore si rivolge alla luna con queste parole: «Mille cose sai tu, mille discopri, / Che son celate al semplice pastore. / Spesso quand’io ti miro / Star così muta in sul deserto piano, / Che, in suo giro lontano, al ciel confina; / Ovver con la mia greggia / Seguirmi viaggiando a mano a mano; / E quando miro in cielo arder le stelle; / Dico fra me pensando: / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito Seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?». 21


Non arrendersi. Mai!

Questi interrogativi non sono molto diversi da quello a cui si sta cercando di dare una risposta. Rispondere alla domanda “Perché proprio a me?” è come spiegare il senso della nostra vita. E di fronte a un medico che ti dice che hai il cancro, c’è un vero e proprio smarrimento di questo senso. Perché la nostra esistenza non va sempre secondo quello che ci aspettiamo: chi la pensa in questo modo non potrà che restare continuamente deluso. Non è per nulla automatico che, siccome ho sempre rigato dritto, non ho mai fumato, pratico sport e nella mia vita non ho realmente mai concesso spazio agli eccessi, allora non mi debba ammalare. Una simile condotta, pur encomiabile e sicuramente appropriata, non esenta dalla possibilità di ammalarsi di cancro. A questo proposito, è opportuno ricordare anche una pagina del romanzo “La morte di Ivan Ilic”, una delle opere più apprezzate di Lev Tolstoj, in cui il protagonista scopre di essere malato: «Durante la malattia – scrive Tolstoj riferendosi a Ivan Ilic - si forma l’idea che, se non avesse vissuto una vita giusta, la sofferenza e la morte avrebbero avuto un senso. Ma lui era sempre vissuto onestamente, e tutto questo non si spiegava». Insomma, anche il protagonista si smarrisce, ritiene impensabile che si possa essere ammalato; e si chiede: “Perché proprio a me?” Ecco, invece, cos’ha detto Anastacia, la celebre cantante statunitense, in un’intervista al Corriere della Sera del settembre 2014. Così scrive la giornalista Chiara Maffioletti: «La cantante ha avuto due volte il cancro al seno e due volte è guarita. E mai le è successo di farsi quella che si pensa sia la domanda più naturale: perché io? “Ho sempre saputo come mai mi trovassi io in quella situazione: avevo l’opportunità di fare del bene a molte persone”. Anastacia non ha mai provato a nascondere la malattia e anche oggi l’argomento non la infastidisce. “E’ interessante come abbiano iniziato a definirmi una ‘combattente’. In realtà per me si 22


Non arrendersi. Mai!

tratta di andare avanti nonostante capitino cose difficili. A volte queste cose sono così strane, così diverse, che affrontarle è il solo modo per superarle. Semplicemente, non ne conosci altri”. Per questo, quando si parla di ‘combattere’, la cantante lo fa “con un’accezione positiva. Per me significa continuare a pensare che nonostante il cancro, nonostante magari si rischi di morire, se invece poi se ne esce, alla fine, si può imparare qualcosa. Perché si impara da tutto, anche dalle cose negative”. Riflessione che è il dono di uno spirito ottimista: “Il mio modo di dare un senso alla vita è cercare di trasformare il negativo in positivo. E’ il mio più grande obiettivo”. Ma come si fa? “Non è sempre facile, specie all’inizio. Quando scopri di essere malato ti viene da piangere e credo sia giusto lasciarsi andare alle emozioni più naturali. Ma se si resta fermi alle prime reazioni, non si supererà mai il momento. Credere che alla fine di tutto si possa arrivare a qualcosa di buono è indispensabile per andare avanti». Certo Anastacia è una donna che dimostra di avere un grande coraggio, ma si potrebbe rispondere alla domanda “perché proprio a me?” anche con il post che lo scrittore/comico/cantante Giorgio Faletti, morto a luglio 2014 per il cancro, inviava un mese prima ai suoi amici: «Nella vita ci sono cose che cerchi e altre che ti vengono a cercare. Non le hai scelte e nemmeno le vorresti, ma arrivano e dopo non sei più uguale. A quel punto le soluzioni sono due. O scappi cercando di lasciartele alle spalle o ti fermi e le affronti. Qualsiasi soluzione tu scelga ti cambia, e tu hai solo la possibilità di scegliere se in bene o in male».

Ma siamo sicuri? Non posso sentire qualcun altro? Un secondo consulto medico, in effetti, può essere utile e in molti casi viene anche proposto; l’importante, però, è prendere coscienza di quel23


Non arrendersi. Mai!

lo che sta avvenendo. Non è evitando di affrontare la realtà che si può sfuggire all’inevitabile angoscia che la malattia porta con sé. Inoltre, un atteggiamento “negazionista”, è bene tenerlo presente, può essere di ostacolo nel cammino di cura: non è nascondendo la realtà che si può affrontare il problema.

Da quando ho scoperto di avere il cancro, gli stati d’ansia e le reazioni depressive sono aumentati. Questo può peggiorare la mia malattia o limitare l’effetto delle terapie? Chi non attraversa momenti di angoscia quando scopre di avere un cancro? E’ naturale che si venga presi da uno stato d’inquietudine che potrebbe anche crescere col tempo. Ma se non esistono prove che dimostrino una connessione tra l’ansia e lo sviluppo della patologia, è altrettanto vero che una scarsa determinazione o le più diverse forme di apatia possono influenzare i risultati delle terapie antitumorali, chemioterapia o radioterapia che sia: è importante che il paziente partecipi attivamente al percorso di cura. Una ricerca britannica che ha preso in esame 9.417 pazienti, per quanto senza valore definitivo, ha dimostrato che nei malati con sintomi di depressione il tasso di mortalità è più alto fino al 39%. Ma questo vale sempre: uno stato d’animo di questo genere, infatti, influisce negativamente sulla qualità della vita di ciascuno, a maggior ragione di un ammalato. Così come potrebbe influenzare la sensazione del dolore, amplificandone la percezione e facendolo sembrare maggiore di quanto sia nella realtà, perché la percezione psicologica non può essere disgiunta da quella fisica. Ecco perché è necessario non prendere sottogamba questi sintomi e se il livello di ansia o depressione peggiora è bene preoccuparsene. Il 4024


Non arrendersi. Mai!

45% dei pazienti oncologici sviluppa sintomi ansiosi che raggiungono i criteri per una diagnosi e il 30-35% sviluppa importanti reazioni depressive: trattarli e riconoscerli tempestivamente significa affrontare la malattia e le cure al meglio.

Mi sento debole e fiacco, svogliato e scoraggiato, ho difficoltà a concentrarmi, ho poco appetito e faccio fatica a dormire; insomma, sono proprio a terra… Queste sensazioni sono sempre più frequenti tra i malati di cancro, anche se non tutti ne soffrono allo stesso modo. E’ quella che i medici definiscono come “fatigue” e consiste, appunto, nella spossatezza, nella mancanza di energia fino al punto di non riuscire a svolgere le normali attività quotidiane. E’ evidente che un malato di cancro che subisce un intervento chirurgico poi si senta stanco. Questo succede spesso anche dopo la chemioterapia o la radioterapia; una stanchezza e debolezza che viene accentuata se la cura provoca nausea e vomito e, quindi, riduzione dell’appetito. Una situazione di questo genere influisce chiaramente anche sui rapporti interpersonali con amici e parenti perché rende insofferenti e spinge all’isolamento. La “fatigue” determina, perciò, un netto peggioramento della qualità della vita. In una situazione di questo genere si può e si deve intervenire in diverso modo a seconda di quali siano le sensazioni prevalenti. Innanzitutto occorrerà parlarne col medico, senza nascondere alcun aspetto. Se il problema è soprattutto di carattere clinico si raccomanderanno supplementi di ferro o di vitamine o si consiglierà l’uso di integratori alimentari. Se, invece, la “fatigue” è in particolare di carattere psicologico, è opportuno che il malato si rivolga a uno psicologo che lo aiuti, 25


Non arrendersi. Mai!

parlandone o attraverso questionari, a quantificarla e a valutare come attenuare i disturbi, come gestire il sonno, la dieta o l’esercizio fisico… Qualche consiglio, di carattere generale, si può dare subito. Ad esempio, per combattere il poco appetito, conviene mangiare poco ma spesso, scegliendo magari i cibi preferiti. Può essere molto utile compilare quotidianamente un elenco di cose da fare, compatibilmente alle vostre forze, distribuendole anche sull’arco di più giornate. L’attività fisica fa sicuramente bene e occorre sforzarsi perché l’immobilità potrebbe peggiorare la situazione: una passeggiata aiuta a combattere la nausea o il vomito e può persino migliorare il sonno o l’umore. C’è anche chi consiglia esercizi di rilassamento se si è molto tesi: in questo caso trovate in casa un angolo, magari con una poltrona o un divano, dove possiate stare comodi, ascoltando musiche dolci e facendo anche esercizi di respirazione. E’ comunque fondamentale riconoscere che la vita subisce non poche modifiche: il ritmo e gli impegni di prima vanno modificati perché non si è più in grado di mantenerli e va, quindi, ricercato un nuovo equilibrio. Ma è altrettanto importante, pur con tempi diversi e con frequenti momenti di riposo, tenersi impegnati: non fare più nulla può aumentare il rischio di insorgenza di sintomi depressivi e di maggiori pensieri negativi.

Mi danno fastidio le domande delle persone. Se da un lato rivelano interesse e attenzione, dall’altro le domande delle persone possono essere vissute come invadenti e fuori luogo. I pazienti faticano a rispondere alla semplice domanda «Come stai?». Infatti, anche nei casi di guarigione, rimane sempre il timore che qualcosa possa ripresentarsi. Inoltre, le domande che ci pongono le persone che 26


Non arrendersi. Mai!

si incontrano per strada a volte riportano alla mente quanto successo anche in un momento in cui non ci si stava pensando. E’ utile sottolineare come il timore di riammalarsi non equivale a stare male. Se i medici confermano la vostra guarigione è bene credergli e convincersi di questa verità e poter, quindi, rispondere tranquillamente alla domanda «Come stai?» considerando lo stato attuale e non quello passato. Se, invece, vi infastidisce la curiosità della gente rivolta alla vostra condizione di salute, potete usare la strada di rispondere in modo vago e poi spostare l’attenzione della discussione su altri aspetti che non hanno nulla a che vedere con la malattia.

Mi hanno detto che potrebbe essere molto doloroso... Inutile nasconderlo: questa malattia può essere dolorosa. Anche se, occorre dirlo quale premessa, non tutti percepiamo il dolore allo stesso modo, perché si tratta di un’esperienza soggettiva; e c’è chi è in grado di sopportare più di altri. Non per nulla l’Organizzazione mondiale della Sanità sottolinea che il dolore deve essere inteso come esperienza somatopsichica unitaria: nel senso che le caratteristiche psicologiche di ciascuno possono aumentare o causare il dolore. In ogni caso, è bene… non fasciarsi la testa prima di averla rotta. Nel senso che anche il dolore si può, comunque, affrontare: il miglioramento della conoscenza della malattia insieme allo sviluppo che hanno avuto le terapie del dolore e le cure palliative hanno ridotto al minimo il rischio di dolori intrattabili.

27


Non arrendersi. Mai!

Posso usare gli analgesici? Questa è chiaramente una domanda da porre al medico curante. Però, almeno una considerazione va fatta: perché soffrire se c’è il modo per evitarlo o almeno per alleviare il dolore? Questa domanda retorica sta alla base della “filosofia” di cura che si deve avere per il cancro. Bando, quindi, alle false opinioni, purtroppo ancora piuttosto diffuse, secondo le quali si debbano assumere analgesici solo quando il dolore diventa insopportabile. Ricordato che la percezione del dolore è un’esperienza soggettiva e quindi varia da persona a persona, è meglio, comunque, ricorrere agli antidolorifici appena si avvertono i primi sintomi: si soffrirà di meno e ne beneficerà enormemente la qualità della vita. Non per nulla, nel 2010 è stata approvata una legge per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, una possibilità estesa anche ai bambini.

E se non ce la farò? E’ vero, c’è la possibilità che questa malattia porti alla morte. Però non è necessario essere per forza pessimisti! Non si deve, quindi, dimenticare che tanti, sempre di più, riescono a guarire. E moltissimi altri a sopravvivere a lungo e con un’ottima qualità della vita. Basti dire che, secondo le stime più recenti, in Italia ci sono circa due milioni e 250mila persone che hanno fatto l’esperienza del cancro e che sono sempre più vicine al giorno della completa guarigione.

Ho perso tutti i capelli a causa della chemioterapia: piacerò ancora a mio marito? Con questa domanda ci introduciamo in un tema complesso come 28


Non arrendersi. Mai!

quello della sessualità e dei problemi di coppia quando uno dei due partner è ammalato, perché è evidente che il cancro va a colpire anche la sfera più intima di un rapporto. E’, infatti, normale perdere interesse per l’attività sessuale subito dopo la diagnosi e durante i trattamenti, perché si è concentrati sul superamento della malattia. Comunque, i cambiamenti provocati dal cancro possono essere sia fisici che psicologici o, ancora più spesso, una loro combinazione. Va, innanzitutto, detto che le trasformazioni possono essere diverse a seconda del tipo di trattamento a cui l’ammalato si sottopone. Ad esempio, la disfunzione erettile nell’uomo che si sottopone a intervento chirurgico per tumori di prostata, vescica e retto. Nelle donne, invece, la chemioterapia può indurre una condizione di menopausa che, a seconda dell’età a cui ci si sottopone alle cure, può essere temporanea o definitiva. Inoltre, nei casi di cancro alla mammella, le terapie ormonali della durata di 5 anni, anche per quelle donne che non devono sottoporsi a chemioterapia, inducono una condizione di menopausa che spesso è definitiva. Alle donne pesano soprattutto i cambiamenti nell’immagine corporea, legati alla mutilazione chirurgica, alla caduta dei capelli o all’alterazione del peso: spesso, in questi casi, la donna finisce per sentirsi meno attraente e sicura di sé, con ovvie ripercussioni che possono abbassare l’autostima, compromettere la sfera sessuale e l’equilibrio della vita di coppia. Per non parlare della stanchezza generalizzata, del senso di inadeguatezza, della perdita della stima di sé, uniti all’ansia e alla paura che aleggiano sempre… Insomma, sono tanti gli elementi che possono agire negativamente sul comportamento sessuale. Che fare, dunque? Molto dipende da come la sessualità era vissuta nella coppia prima della malattia: se l’intesa, sia affettiva che sessuale, era molto forte, è sicuramente più facile recuperare quell’intimità che 29


Non arrendersi. Mai!

a volte va ricostruita ascoltandosi e rispondendo alle nuove esigenze, magari scoprendo un sentimento reso ancora più forte dall’affrontare insieme la dura prova della malattia. Così come è altrettanto evidente che se una coppia viveva già delle problematiche, la malattia rischi solo di accentuarle. Si tenga poi presente che una relazione sessuale gratificante non è semplicemente legata all’integrità fisica, ma dipende anche dalla buona accettazione dell’immagine corporea e dalla capacità, anche da parte del partner, di non considerare gli esiti dell’intervento come un ostacolo. E’ evidente che un approccio più tenero può aiutare a recuperare quella sicurezza che è venuta a mancare, così come è importante rassicurare il partner che i cambiamenti fisici determinati dalla malattia hanno poca importanza. In ogni caso, parlarne è essenziale, anche per capire cosa nel frattempo è cambiato nella sfera sessuale. E, per favore, lasciate perdere quelle stupide credenze sulla trasmissione del cancro attraverso l’attività sessuale.

Ma io sono meno bella… Soprattutto per le donne malate, guardarsi allo specchio e non riconoscersi, è un vero trauma: si vedono brutte, grasse o magre e poi, quando cadono i capelli... E’ inutile nasconderlo, le cure per combattere le neoplasie lasciano sicuramente il segno. Certo, all’inizio la prima preoccupazione è come affrontare la malattia: ma poi il tema della bellezza diventa una componente rilevante per il benessere di ogni donna. E migliorare il proprio aspetto è di sicuro aiuto ad affrontare il cancro. E allora si faccia tutto il possibile per migliorarlo, a cominciare dall’impiego di una parrucca. Ma non solo: usate pure tutti i cosmetici che ritenete utili, dal fondotinta al fard, dalle ciprie agli idratanti della pelle. L’obiettivo bellezza 30


Non arrendersi. Mai!

diventi una priorità. Oggi molti ospedali offrono anche dei corsi di make up per ammalate su come nascondere i segni delle terapie antitumorali: non lasciateveli sfuggire, sia per imparare a farvi belle, sia per scambiare due chiacchiere con chi sta affrontando i vostri stessi problemi. Comunque, non c’è un comportamento giusto e uno sbagliato; c’è un comportamento che fa stare bene e fa mantenere la quotidianità e un comportamento che la limita. E’ bene far prevalere il primo. Se una donna decide di non utilizzare la parrucca, deve comunque riuscire a mantenere la sua quotidianità, uscire di casa e “tollerare i giudizi” degli altri e le loro domande che possono essere imbarazzanti e fastidiose.

Potrò tornare come prima? Sgombriamo subito il campo da false illusioni: non si potrà mai tornare come prima, né voi né i vostri familiari. Ma questa affermazione vale non solo per la malattia ma per tutti gli eventi, piacevoli e meno piacevoli, di cui è costellata l’esistenza di ognuno. E’ vero che dal cancro si può guarire e riacquisire un’aspettativa di vita significativa, ma rimarrà sempre leggermente inferiore rispetto alla popolazione che non si è ammalata. Così com’è sicuro che il cancro, anche per chi guarisce completamente, non è una passeggiata: passa sulla vita, sul fisico e nell’intimo del malato lasciando segni profondi, indelebili. Impossibile dimenticare il trauma, i dolori, le sofferenze, i colloqui con i medici, gli esami, le terapie… Questo non vuol dire che non si possa essere di nuovo felici e appagati, contenti di vivere e di quello che si farà. E magari anche sentirci meglio di prima. Come? Ad esempio “sfruttando” al meglio questa situazione, accettandola per quello che è, sofferenze comprese: difficile, certo, ma potrebbe essere di grande aiuto per una 31


Non arrendersi. Mai!

crescita personale. La vita apparirà sotto una luce completamente nuova, se si sapranno cogliere sfumature che prima sfuggivano: al punto che c’è addirittura chi “ringrazia” la malattia di averlo scosso, di avergli fatto apprezzare maggiormente l’esistenza, arrivando a rivedere completamente il proprio modo di vivere. Forse Nietzsche aveva ragione quando scriveva: “Quello che non mi uccide, mi fortifica”. A questo proposito è significativo quello che dice Alessandro, uno dei ragazzi protagonisti di “Io... dopo. Io adolescente e la mia vita con il cancro”, una raccolta di storie autografe scritte da giovani pazienti e messe insieme da Lorenzo Spaggiari, il chirurgo oncologo che li ha curati: «In questi quindici anni (di malattia) ho patito il dolore, è vero, come è vero che ho sofferto: ma sono anche stato a Londra ogni anno, ho restaurato quattro Vespe, costruito due chitarre. Sono salito al Pordoi in Vespa, bruciando tutti e trentatré i tornanti, mentre i turisti mi guardavano stupefatti. Sempre in Vespa, sono andato all’isola d’Elba sotto un diluvio. (…) Ho riso e urlato. Amato. E non è ancora finita, non è finita! La felicità non è alla fine della strada, la felicità è la strada».

Lo dico ai miei figli? E come glielo dico? Quando il papà o la mamma si ammalano cosa si deve fare? Istintivamente in ogni genitore scatta un atteggiamento di difesa, un desiderio di protezione, in particolare dei figli più piccoli. Prevale la paura che una notizia di questo genere possa essere traumatica e non si vuole farli soffrire oppure si pensa che, comunque, il bambino piccolo non sia in grado di capire la situazione. E allora succede spesso che i bambini, anche quelli più grandi, vengano tenuti all’oscuro della malattia. Ma davvero pensate che il piccolo non si accorga di nulla? Rendetevi 32


Non arrendersi. Mai!

conto che la vostra vita cambia completamente, che il papà o la mamma ammalati non possono essere gli stessi di quando erano sani: anche sotto l’aspetto fisico i cambiamenti possono essere significativi. Il clima in casa evidentemente non potrà essere lo stesso: anche non volendo, è molto probabile che la tensione in famiglia si toccherà con mano. E quando il bambino se ne accorgesse, che reazione potrebbe avere? Non capendo cosa sta succedendo in casa, finirebbe, comunque, per pensare il peggio, per il papà, per la mamma, ma anche per se stesso: si sentirebbe escluso e abbandonato e, a volte, addirittura responsabile di quanto sta accadendo. Non è inconsueto che i bambini mettano in evidenza problemi di comportamento a scuola, disturbi nell’alimentazione e difficoltà a dormire; alcuni peggiorano le loro dinamiche relazionali, manifestando persino atteggiamenti aggressivi. E’ allora opportuno trovare la maniera più adatta per informarlo, con semplicità ma anche in modo chiaro. Certo anche rassicurandolo. Sicuramente favorirà un allentamento della tensione. Il bambino va aiutato a capire: magari l’informazione può essere graduale, legata ai tempi della malattia, delle terapie e delle conseguenze che queste provocano. Anche lui potrà, quindi, manifestare i suoi sentimenti, le sue paure, la sue angosce che non sono molto diverse da quelle degli altri familiari coinvolti: il bambino deve sempre avere un canale di comunicazione aperto. Anche perché, potete esserne sicuri: se questo non viene fatto, prima o poi sarà lui a fare le domande.

Vorrei farmi aiutare, ma temo che se vado da uno psicologo mi considerino malato di mente. Basta pregiudizi: e piantiamola di pensarla in questo modo! Se decido 33


Non arrendersi. Mai!

di farmi aiutare è solo perché ne ho bisogno, non perché sono pazzo. Se fossi malato di mente capirei di aver bisogno? No! Quindi… Diciamo di più: cercare l’aiuto dei propri cari, ma anche di uno psicologo o di uno psichiatra è un atto di forza e di coraggio, perché nasce dalla consapevolezza di dover combattere una dura battaglia e che è meglio farsi aiutare per vincerla. Certo questo pregiudizio è ancora molto diffuso, ma è altrettanto vero che sta a voi subire questa situazione o affrontarla per superarla. Perché da soli è davvero difficile lottare contro il cancro; e qualsiasi tipo di aiuto deve essere ben accetto. Inoltre, di alcuni aspetti della malattia, dalla apprensione alla profonda angoscia, si fa fatica a parlare con i familiari perché si vuole evitare di farli star male: lo spazio psicologico serve anche per scaricare lì emozioni negative e preoccupazioni. In ogni caso, se l’angoscia vi impedisce di dormire, vi provoca inappetenza e vi condiziona anche durante la giornata, se i momenti di sconforto sono sempre maggiori e fate fatica a trovare la forza di reagire, non esitate a rivolgervi a uno psicologo. Sono davvero pochi gli ammalati che hanno richiesto il supporto psicologico e non siano rimasti soddisfatti dell’aiuto ricevuto.

Mi hanno detto che ormai ne sono venuto fuori. Ma se dovessi riammalarmi? Non riesco a vivere senza pensarci. E’ una paura comprensibile e molto umana. Anche se i medici assicurano la guarigione, dopo tanto dolore e sofferenza, giorni passati nelle corsie degli ospedali, terapie che hanno lasciato il segno nel fisico e nella memoria, come non temere un ritorno della malattia? Elementi che mantengono vivo o risvegliano il ricordo sono sempre presenti: gli esiti degli interventi chirurgici, le terapie, i controlli, le 34


Non arrendersi. Mai!

modifiche degli stili di vita… sono tutti segni quotidiani di qualcosa che è stato, ma potrebbe tornare e che influenza il senso di identità, la percezione di sé, il livello di autostima e di proiezione del futuro. Le modalità con cui le persone vivono e reagiscono a questa fase nuova di “ritorno alla vita” sono diverse e influenzate dalle modalità individuali di far fronte alle difficoltà. Ma anche dal supporto ricevuto dalle persone più vicine, dalla propensione o meno all’ottimismo, dalla capacità di dare significato all’esistenza. Solo con il tempo la paura del ritorno della malattia può diminuire, ma è persino possibile che possa non svanire mai completamente. In questo caso si può imparare a conviverci; ma non diversamente da come si convive con tante altre paure, da quello che riserverà il futuro ai nostri figli alla garanzia di un posto di lavoro che mai come oggi può essere precario. Più che cercare un “ritorno al passato”, sarà quindi opportuno uno “sguardo nuovo al futuro”, nel senso che sarà meglio dedicarsi a ricostruire una nuova vita, un nuovo equilibrio nei rapporti con gli altri e con le nostre esigenze, dandosi probabilmente nuove priorità. Perché è vero: niente sarà più come prima. Insomma, occorre avere un po’ di pazienza: magari la malattia potrà ripresentarsi, magari non si ripresenterà, ma sicuramente possiamo affrontare una vita piena. E, soprattutto, non vale la pena di farci del male fin da subito.

Come ci si prepara al passaggio dalla chemio e dalla radioterapia alle cure palliative? Quando gli interventi chirurgici, la chemioterapia, la radioterapia… hanno esaurito la loro funzione, per l’ammalato si prepara il passaggio alle cure palliative. E’ una fase molto delicata perché il primo pensiero 35


Non arrendersi. Mai!

del paziente può essere: «Se non mi curano più come prima è perché non c’è più niente da fare…». D’altra parte, quando le cure cosiddette “attive” non hanno dato i risultati sperati e si sono dimostrate inefficaci, perché continuare e subire i disagi degli effetti collaterali? Meglio valutare una nuova modalità di cura che consenta di eliminare il dolore e garantisca un’adeguata qualità della vita. A livello psicosociale, la fase avanzata di malattia ripropone le problematiche, le angosce e le difficoltà che il paziente ha già incontrato al momento della diagnosi e dei trattamenti, con la variante che la speranza di guarigione perde consistenza. Le reazioni dei malati e dei loro familiari a questa situazione sono le più diverse, dalla negazione dei fatti alla presa di coscienza della realtà; praticamente comune è, invece, il senso di impotenza determinato dalla consapevolezza di non poter più guarire. Si possono registrare shock e negazione, rabbia e impotenza, trattativa e patteggiamento, depressione/rassegnazione e accettazione dell’inevitabile. In un primo momento possono essere presenti tutte le possibili reazioni emotive, talvolta mescolandosi tra di loro, talvolta passando dall’una all’altra, anche in spazi di tempi brevi. In una seconda fase si assiste alla graduale riduzione dell’intensità delle emozioni. E, infine, il paziente riconosce l’inevitabilità della propria morte e si prepara ad accettarla nell’immediato futuro: scompaiono le emozioni e può essere presente una condizione di tristezza e paura oppure una pervasiva serenità interiore, spesso favorita dalla propria fede. E’ soprattutto in questa fase che diventa fondamentale l’intervento dello psicologo, per il malato ma anche per i familiari.

36


Non arrendersi. Mai!

Le domande dei familiari dei malati Lo shock della scoperta di un cancro non coinvolge solo il malato, ma anche chi gli sta vicino, familiari, amici e conoscenti. Quante domande assalgono anche loro… Anche ai loro interrogativi non è facile rispondere, perché non sempre c’è una risposta che vale per tutti. Però, è innanzitutto doveroso dire, anche per non farsi venire poi rimorsi inutili, che chi sta vicino a un ammalato di cancro non è in ogni caso chiamato alla dedizione assoluta: ha una sua vita che deve portare avanti. E non può nemmeno pretendere di avere sempre le parole giuste al momento giusto. Occorre, quindi, essere clementi verso se stessi: qualcosa si sbaglierà, è inevitabile. Le domande e le risposte che seguono intendono aiutare ad affrontare questa difficile situazione, ma la “formula magica”, il mix di parole e atteggiamenti corretto per stare accanto a un malato, purtroppo, non esiste. Fate vostri i suggerimenti che ritenete più significativi per la situazione che state attraversando e… in bocca al lupo. Meglio dirglielo o no? La domanda che dovreste porvi forse è un’altra: quando le sue condizioni cominceranno ad aggravarsi e capirà la gravità della situazione, cosa penserà? Che l’avete preso in giro? Che non vi siete fidati delle sue capacità di accettazione della malattia e di adattamento a una nuova vita? Questo sì che potrebbe essere negativo per i rapporti col vostro caro e molto più nocivo del comunicare con amore una verità che è sicuramente amara. Perché prima o poi se ne accorgerà e magari andrà 37


Non arrendersi. Mai!

a cercare informazioni in maniera indiretta, consultando fonti che non sempre sono all’altezza della situazione, generando anche equivoci e incomprensioni. Senza dimenticare che i pazienti hanno il diritto di avere tutte le informazioni che li riguardano. Il problema, in realtà, non riguarda se informare il paziente; piuttosto, evitare situazioni assolutamente opposte e controproducenti come potrebbero essere la totale assenza di informazioni da una parte e la rivelazione esasperata della verità, cioè un vero e proprio accanimento informativo, dall’altra. Si cerchi, quindi, di capire quanto il paziente sia in grado di sostenere le informazioni che lo riguardano. Un’altra cosa importante per i familiari è tenere presente che non si è soli: c’è almeno un medico che si è preso cura del vostro familiare malato fino ad ora ed è a lui che potreste affidarvi per una comunicazione adeguata dello stato attuale della malattia.

Non so cosa dire… Non ho il coraggio di parlargli, sono in imbarazzo: cosa posso fare? Esiste forse qualcuno che ha sempre le parole giuste di fronte a un ammalato di cancro? Purtroppo ci sono situazioni che arrivano a spingere parenti e amici lontani dall’ammalato perché, appunto, non si sa cosa dire. Ma chiunque sarebbe in difficoltà! Per tutti è difficile, se non addirittura imbarazzante, avviare una conversazione con un ammalato di cancro. Si è convinti che ci sarebbe qualcosa da fare o da dire, ma che in quel momento e in quella situazione non si riesce a individuare. Certo è meglio stare zitti piuttosto che dire stupidaggini del tipo «Ti trovo bene», quando è evidente che sta male. Però la cosa più importante è quella di essere presenti, vicini alla persona cara, offrendo la maggiore 38


Non arrendersi. Mai!

serenità possibile. Cercate di far comprendere alla persona amata, con gesti e parole, che i vostri sentimenti non sono mutati e che nonostante questi cambiamenti, il legame che vi unisce è forte come prima. Sforzatevi di essere naturali, perché, non dimentichiamocelo, la nostra presenza o la nostra assenza e qualunque cosa si dica o si faccia sono messaggi. Facile a dirsi, direte voi; ma quando hai la mente sconvolta e il cuore in subbuglio… Vero, ma non ci si deve dimenticare che ogni movimento del nostro corpo “parla”: se la tensione vi fa fregare le mani piuttosto che mordervi le unghie, state certi che l’ammalato si accorgerà della vostra tensione; e se quando gli parlate non lo guardate negli occhi, cosa volete che pensi? Ma attenzione, se siete persone normalmente di poche parole e diventate di colpo particolarmente loquaci, l’effetto è identico: si accorgerà immediatamente della vostra angoscia. Tutto quello che facciamo lancia dei messaggi a cui i nostri cari sono particolarmente sensibili, perché ci conoscono bene e capiscono se siamo preoccupati. Pertanto, piuttosto ammettete la vostra difficoltà e chiedete al paziente quale atteggiamento preferisce che teniate.

E’ meglio parlargli e farlo parlare o lasciarlo tranquillo? Come faccio a capire se ha voglia di dialogare? E’ ovvio che durante la malattia ci siano dei momenti in cui non si ha voglia di parlare; e avere di fianco qualcuno che tenta di dialogare può davvero essere fastidioso. Ma non c’è bisogno di avere il cancro perché questo succeda. Comunque, non è difficile capirlo: insofferenza e nervosismo solitamente sono piuttosto evidenti e gli ammalati non fanno alcuno sforzo per nasconderli; non fanno domande e non rispondono; e magari voltano pure il viso dall’altra parte. Questo succede spesso 39


Non arrendersi. Mai!

nella primissima fase della malattia: lo shock della diagnosi lascia il segno. In questi momenti, per prima cosa cerchiamo sempre di “ascoltare” e di lasciare che il malato si esprima e non si tenga tutto dentro. Se, invece, i segnali indicano di voler essere lasciati in pace, non insistete e rispettate la sua volontà. E fate in modo, usando il giusto tatto, che anche eventuali visitatori lo capiscano e abbrevino la visita. Dimostrate, comunque, che siete sempre disponibili all’ascolto, a stare al suo fianco. La fase del rifiuto potrebbe essere breve ed è importante che il malato sappia che voi siete pronti a supportarlo. Viceversa, se l’ammalato desidera comunicare, partecipa alla discussione, pone questioni, al limite controbatte o addirittura contesta quanto diciamo, non si deve aver paura di parlare e di coinvolgerlo. Se, ad esempio, si lamenta di essere sempre solo o chiede di lasciare aperta la porta della camera, è evidente che ha voglia di compagnia. Parlare e sfogarsi spesso aiuta ad allentare la tensione di chi soffre, a togliersi un peso dallo stomaco. Riuscire a sfogarsi è importante per l’ammalato: gli dà un po’ di sollievo, gli permette, in un certo modo, di condividere il suo peso, così che il cancro possa diventare un carico più sopportabile. Quindi, di fronte a sfoghi o confessioni, evitate atteggiamenti che mostrino fretta, come guardare continuamente l’orologio, o frasi del tipo «non dire così, non ci pensare, non voglio sentirti dire…»: bloccano la comunicazione e impediscono a chi soffre di aprirsi. In questo modo, inoltre, diventano più facili tutti quei gesti di comunicazione che dimostrano all’ammalato quanto gli siamo vicini e coinvolti dalla sua esperienza: una carezza, un bacio, un po’ di coccole… E se proprio non riuscite a distinguere se abbia o meno voglia di parlare, chiedeteglielo: “Hai voglia di parlare un po’?”

40


Non arrendersi. Mai!

Quali argomenti affrontare, di cosa parlare? Innanzitutto di quello di cui si parla normalmente. Se andate a trovare un caro amico ammalato di cancro con cui condividete la passione per il calcio e magari siete andati spesso insieme allo stadio a vedere la squadra del cuore, non è che di colpo smettete di parlarne: continuate pure ad “azzuffarvi” su un fuorigioco non fischiato o su un gol annullato. Ma non abbiate nemmeno paura di conversare della malattia se vedete che lui desidera parlarne. Tenete conto che la riluttanza a discuterne è molto individuale: a volte anche una semplice domanda rimanda alla malattia e viene rifiutata. Sarebbe importante capire se il paziente desidera parlare della malattia o piuttosto preferisca concentrarsi su altro. Se, quindi, lui manifesta con una certa serenità le sue preoccupazioni, non esitate a fare altrettanto: servirà ad allentare l’inevitabile tensione che si crea in queste circostanze. E’ dimostrato, infatti, che non parlare di situazioni di paura o angoscia come queste rischia di ingigantirle anziché ridimensionarle o portarle nei corretti ambiti. Se, invece, notate una certa riservatezza, o solo il desiderio di sfogarsi, imparate a essere dei buoni ascoltatori. A volte, più che dare improbabili opinioni (anche perché non saremo mai in grado di rispondere a tutte le domande che un malato di cancro ci può porre) è meglio avere una buona capacità di ascolto. Quindi, non interrompetelo mentre parla, ma dimostrate che lo state ascoltando, che non vi perdete una sua parola. A questo proposito è significativa una ricerca condotta anni fa negli Stati Uniti per verificare quanto avere di fronte un “buon ascoltatore” possa aiutare un ammalato. Così alcuni malati volontari hanno parlato dei loro problemi a persone che potevano solo annuire, oppure invitare a continuare a parlare, oppure ancora usare semplici espressioni che dimostravano comprensione tipo «Posso im41


Non arrendersi. Mai!

maginare», «Già», «Capisco». Ebbene, dopo una sola seduta gli ammalati erano tutti convinti di aver fatto un’ottima terapia e alcuni hanno addirittura chiamato per ringraziare e chiedere un nuovo incontro.

E se parlare gli fa crescere la preoccupazione? Questo pericolo non esiste: ce lo creiamo noi. La scienza ha dimostrato che chiedere al malato se è preoccupato per il suo stato o per la cura che sta seguendo non determina una crescita della sua paura o della sua ansia. Anzi, è un modo per dare la possibilità di sfogarsi, di alleggerire il fardello che si è costretti a portare. Semmai è probabile che avvenga il contrario, soprattutto se c’è una certa intimità con l’ammalato: cioè, meno se ne parla, più l’ammalato si preoccupa. Infatti, si chiederà: perché non mi dicono niente, perché non parliamo della mia malattia? A quali conclusione pensate possa arrivare? E mi raccomando: non sminuite mai la sua malattia. Il primo ad essere consapevole della situazione in cui si trova è proprio l’ammalato: il dolore e le sofferenze che deve sostenere, la fatica e la difficoltà delle cure lo rendono pienamente cosciente di quello che sta vivendo. A questo proposito ecco un altro passaggio del racconto “La morte di Ivan Ilic” di Lev Tolstoj, dove il protagonista odia i familiari perché sminuiscono il suo problema e si arrabbia per il loro superficiale tentativo di evitare il tema della sua morte. «Il maggior tormento di Ivàn Il’ìč era la menzogna che lo voleva malato ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti, chissà perché: bastava che stesse tranquillo e si curasse, e allora ci sarebbe stato un gran miglioramento... Ma egli sapeva benissimo che, qualunque cosa gli facessero, non ci sarebbe stato proprio niente salvo che sofferenze ancora più tormentose e la 42


Non arrendersi. Mai!

morte. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna. Quella menzogna, una menzogna perpetrata su di lui alla vigilia della sua morte, una menzogna che si sentiva in dovere di umiliare questo terribile atto solenne al livello delle loro visite di cortesia, delle tende in salotto, del pesce in tavola... era un orribile tormento per Ivàn Il’ìč. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato a un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch’io che sto morendo, almeno finitela di mentire. Ma non aveva mai avuto cuore di farlo».

Cosa devo fare per fargli capire che sono disponibile ad ascoltarlo? Ci sono dei modi e degli atteggiamenti che sarebbe bene tenere presenti quando ci si confronta con un ammalato, parente o amico che sia. E’ evidente, come si è più volte ribadito, che bisogna innanzitutto dimostrare la disponibilità al dialogo e all’ascolto. Se quando entrate in casa o nella stanza di un ammalato non vi allontanate dalla porta, guardate frequentemente l’orologio, lasciate squillare il vostro telefono e non accennate minimamente a togliervi il giubbotto, cosa volete che pensi? Al malato devono, invece, arrivare segnali di apertura: per cui fate vedere che siete lì per lui, appoggiate la giacca sull’attaccapanni e accomodatevi, possibilmente non troppo lontano. Se siete in ospedale e le regole lo permettono, sedetevi pure sul suo letto. E’ possibile che, se riuscite a farlo parlare, ci saranno momenti delicati, magari dolorosi, e la vostra vicinanza, anche fisica, sarà fondamen43


Non arrendersi. Mai!

tale per potergli appoggiare un braccio sulla spalla o stringergli le mani. La sua apertura dipende molto dal clima di intimità e fiducia che sarete in grado di creare.

Da quando si è ammalato non è più lo stesso, non lo riconosco più. Le persone che affrontano il cancro, che lo superano e lo vincono, spesso cambiano radicalmente da un punto di vista caratteriale e personale. L’evento di malattia, infatti, mette in contatto con la morte e con la finitezza della vita. Questo porta spesso le persone a concentrarsi di più su se stesse e sui loro bisogni, a riuscire a godere delle piccole cose e degli attimi, a dare la giusta importanza ai casi della vita e ad avere la sensazione di non avere più tempo a disposizione così da non rimandare quello che si vuole.

Si arrabbia spesso con me, a volte è davvero indisponente. E io non so come comportarmi… Questo può succedere in particolare nella prima fase della malattia: il paziente, carico di rabbia per quello che gli sta accadendo, si sfoga magari addossando la responsabilità di tutti i suoi problemi alle persone che gli stanno accanto. Al punto anche da rendersi davvero insopportabile ai parenti e agli amici. E non è escluso che la sua aggressività provochi anche in voi non poca irritazione. La diagnosi di cancro è un evento traumatico anche per la famiglia che sperimenta, parallelamente al proprio congiunto, reazioni fisiologiche acute caratterizzate da shock, sentimenti di angoscia paralizzante, di stupore incredulo e, appunto, di rabbia. Non sono momenti facili per chi si dedica con amore alla cura del pro44


Non arrendersi. Mai!

prio caro… Però bisogna cercare di mettersi nei suoi panni e di non prendere i suoi sfoghi sul piano personale: non ce l’ha con voi, ma con la malattia. Nella maggior parte dei casi questa aggressività è in realtà un vero e proprio grido di aiuto che l’ammalato lancia verso chi gli sta vicino, chi ama di più. Ed è importante che ci siano orecchie in grado di “sentire” questo grido e di dare una pronta risposta. Comunque, potete starne certi, il vostro amore e la vostra dedizione avranno sicuramente la meglio sull’ira del vostro caro malato. Certo, se la rabbia è costantemente eccessiva, è bene che sia trattata psicologicamente.

Come possiamo aiutarlo? Quali atteggiamenti devo assumere? La maggior parte dei malati che raccontano la loro storia mette in evidenza che il ruolo dei familiari e degli amici è stato fondamentale. Un ruolo che deve avere alcune caratteristiche: stare vicini, condividere il dolore, ma anche trasmettere ottimismo e positività. Il malato, a meno che non abbia un carattere particolarmente positivo, tende facilmente a vedere il bicchiere mezzo vuoto: chi gli sta vicino deve aiutarlo a vedere quello mezzo pieno, ad apprezzare la vita per quello che dà, una sorta di “carpe diem” costante, a regalare momenti di spensieratezza. Se non siete in grado di farlo, fatevi aiutare da altri. Ma, per favore, non trasmettetegli sfiducia e pessimismo. Se non siete in grado di far meglio, scusate, ma stategli vicino il meno possibile: ha bisogno di aiuto, non di compassione.

A volte non ce la faccio e mi viene da piangere. E’ umano aver voglia di piangere, anche davanti all’ammalato. Se vi 45


Non arrendersi. Mai!

capita non abbiate vergogna: date libero corso alle vostre lacrime. Se vi amate, si renderà conto che anche lui si sarebbe comportato allo stesso modo. Inoltre, la condivisione del dolore rende più unite le persone: non è trasmissione di pessimismo. Non sforzatevi, quindi, di nascondere la vostra angoscia e di tenerla dentro inutilmente: può farvi solo male.

Ho una rabbia addosso… E’ normale che anche voi siate arrabbiati e ce l’abbiate col mondo. Ma non succeda che siate voi a essere i più arrabbiati: i malati non siete voi, chi sta peggio non siete voi. Tra voi e il malato chi ha più bisogno di supporto non siete voi: non è lui che deve rassicurarvi, ma siete voi che dovete essergli vicino, dimostrandogli affetto e disponibilità. Non dimenticatevelo!

Non riesco ad accettare questa situazione… Una reazione di questo genere è molto frequente: non è per niente facile accettare che un proprio caro si ammali e che si ammali di cancro. Non si è preparati. E’, d’altra parte, impossibile arrivare ad accettare una diagnosi di malattia, soprattutto se è grave e a volte può portare alla morte. C’è chi si arrabbia, chi ha paura, chi si abbatte e non riesce a trovare la forza di reagire… Molti cercano la maniera di allontanare la realtà in modo anche contrastante, chi diventando iperprotettivi, chi rifiutando l’amico o il parente malato. Diciamo subito che non c’è una reazione “giusta” e tutte le altre “sbagliate”, non ci sono comportamenti “corretti” prestabiliti: ciascuno, per 46


Non arrendersi. Mai!

carattere, per formazione, per educazione, è diverso dagli altri. Quindi è normale che si abbiano reazioni diverse di fronte alla malattia. Piuttosto è evidente che il cancro cambia completamente anche la vita di amici e parenti. La prima cosa da fare è non restare soli: facciamoci aiutare. Se il malato ha bisogno di sentire e avere vicino persone care che lo aiutino, anche parenti e amici devono trovare qualcuno che dia loro una mano: guai a ritrovarsi da soli a gestire una situazione di questo genere. In secondo luogo, non trascuratevi: per poter curare bene l’ammalato bisogna sempre essere al cento per cento. I familiari tendono spesso a mettere in secondo piano i propri bisogni e la loro persona. Ma nessuno riesce a essere completamente a disposizione di un altro senza concedersi dei momenti di riposo e di respiro: anche i familiari hanno bisogno di momenti di distacco per “ricaricare le batterie”. Ognuno sa come fare. Anche perché, sarà bene ricordarlo, se anche voi vi ammalate o, comunque, non siete completamente efficienti, come potrete essere utili al vostro caro? Invece di risultare una risorsa rischiate di essere un peso e di rallentare il suo percorso terapeutico. E se doveste accorgervi di avere bisogno anche di un supporto psicologico, non vergognatevi e non esitate a farvi aiutare.

Cosa succederà quando, terminato l’intervento e la degenza, tornerà a casa? E’ evidente che, finché il paziente è ricoverato, si è tranquilli sotto l’aspetto della cura e dell’assistenza e la malattia resta in qualche modo “circoscritta” all’ospedale. Quando, però, il malato rientra a casa, anche la vita dei suoi familiari viene per forza di cose scombussolata, perché 47


Non arrendersi. Mai!

occorre prendersene cura e assumere nuovi compiti. In particolare se la malattia è piuttosto grave, tanto da impedire lo svolgimento di molte attività. A volte si è davvero costretti a rivoluzionare la quotidianità, a riorganizzare la propria vita: familiari e amici devono affrontare nuovi impegni e oneri inaspettati, mentre i malati, impossibilitati a svolgere i soliti compiti, si potrebbero sentire inutili. Il rischio è che saltino quegli equilibri che si sono creati nell’arco di una vita. E’ quindi necessario che il malato e i suoi familiari ed amici trovino insieme il modo per superare queste difficoltà, tenendo conto sicuramente dei bisogni del primo, ma senza dimenticare le esigenze degli altri. Si deve costruire un nuovo equilibrio: quello di prima non si può più recuperare.

Non ce la farò mai ad accettare la sua scomparsa. La possibilità che la malattia abbia la meglio bisogna, purtroppo, metterla nel conto. Nonostante i progressi della medicina, ancora oggi il cancro conduce in molti casi alla morte: lo sa il paziente e lo sanno i suoi familiari. Eppure non è facile accettarlo, soprattutto da parte di chi affianca il malato, solitamente il congiunto più stretto, che progressivamente va spegnendosi. Nella maggior parte dei casi il processo di preparazione al lutto comincia quando il paziente è ancora in vita: chi sta accanto a un malato terminale inizia a pensare a come sarà il momento della morte e a cosa succederà dopo. Dopo la morte è normale subire un periodo di shock, di tristezza, così come arrabbiarsi per la cattiva sorte; se poi si è stati insieme per molti anni c’è pure il rischio di subire un certo spaesamento per la perdita del punto di riferimento affettivo di un’intera vita. E’ bene prendere coscienza di tutto questo per essere pronti e non cadere 48


Non arrendersi. Mai!

nella disperazione. Ma come venirne fuori? E’ di fondamentale importanza avere vicino delle persone care, che possono essere di aiuto e di conforto: la cosiddetta “famiglia allargata” può garantire il necessario sostegno. Però il passaggio fondamentale per superare il lutto consiste nell’indirizzare i propri interessi, le proprie passioni verso nuovi progetti, nuovi obiettivi: scegliete nuove attività, apportate modifiche in casa, datevi all’hobby preferito e che non eravate mai riusciti a portare avanti… In quel momento diventerà possibile guardare con maggiore serenità alla perdita subita. Il che non vuol dire fare un torto a una persona cara come molti sembrano pensare, ma accettare quanto accaduto e riconoscere la necessità di andare avanti, di continuare a vivere: soprattutto se ci sono altre persone, a cominciare dai figli, a cui è doveroso pensare.

Ho fatto tutto quello che potevo? Alle domande su come stare vicino alla persona ammalata (parlare/ non parlare, stare accanto/non dare fastidio...) si aggiunge la paura/ angoscia di non fare o, soprattutto, di non aver fatto tutto quello che si doveva, di non aver comunque fatto abbastanza. E magari si sono passati o si stanno passando giorni e notti al suo fianco, anche quando l’ammalato è sedato, gli si è tenuta la mano finché è stato possibile... Di fronte a una simile malattia, in particolare se ha portato alla morte, è scontato porsi questa domanda. Ed è altrettanto umano mettersi in discussione perché ci si sente sempre inadeguati di fronte a situazioni di questo genere che coinvolgono parecchio emotivamente. Non ci si dà pace, si pensa di non aver risposto in modo soddisfacente alle sue esigenze, anche quando nel proprio intimo si sa di aver fatto 49


Non arrendersi. Mai!

tutto quello che si poteva. E’ molto difficile reprimere i sensi di colpa che si presentano molto spesso in queste situazioni. Ci si ricorda di tutti i momenti in cui, forse, si sarebbe potuto agire diversamente, parlare invece di tacere, o viceversa, confortare o spronare… E si vive nell’angoscia. Ripetiamo: è uno stato d’animo del tutto normale. E’ comprensibile mettere in discussione il nostro comportamento per il semplice motivo che non esistono atteggiamenti corretti o sbagliati in assoluto. Però non si deve essere troppo severi con se stessi. Anche chi è stato vicino a un ammalato ha sofferto e patito con la persona cara; e se ci si pone questa domanda è perché si è stati accanto parecchio tempo, tanto che non si riesce a distinguere i momenti in cui si è agito in modo giusto da quelli in cui, forse, si sono compiuti degli errori. Ma non si devono avere sensi di colpa per la propria inadeguatezza o debolezza. Una cosa è certa: si è stati presenti. E questo è sicuramente quello che conta di più.

E se toccasse anche a me? Non è una domanda insolita tra i familiari di un malato di tumore, in particolare tra i figli. La paura di essere portatori di una mutazione genetica che predispone ad ammalarsi di cancro può essere anche forte. Che fare in questi casi? Detto, innanzitutto, che aver ereditato un’alterazione del Dna che predispone allo sviluppo di un tumore non equivale assolutamente a una “condanna automatica” - insomma, non è detto che ci si ammali per forza -, là dove si riscontrasse una certa ricorrenza della stessa patologia fra parenti varrebbe la pena rivolgersi a un genetista medico, che valuterà se è il caso o meno di effettuare un test genetico che permette di evidenziare eventuali mutazioni: si tratta di un semplice prelievo di sangue che 50


Non arrendersi. Mai!

viene solitamente proposto a chi ha già avuto la malattia. Sono una quindicina le neoplasie a cui sono stati riconosciuti i caratteri di ereditarietà o familiarità, soprattutto quelle della mammella, dell’ovaio e del colon retto. Particolare attenzione va posta quando lo stesso tumore si presenta in famiglia in più generazioni (nonno, padre, figlio) oppure quando un tipo di cancro è presente in uno o più familiari in giovane età, o ancora quando un membro della famiglia sviluppa diversi tumori. In questi casi, ci si potrebbe sottoporre a un test genetico. E se il test desse un risultato positivo? Sotto l’aspetto psicologico cosa cambierebbe? Probabilmente non molto: perché chi attraversa questa situazione vive già con la paura che il cancro possa colpire anche lui. E’ chiaro che, sapendo a cosa si va incontro e quali rischi si corrono, i controlli diventeranno per forza più frequenti rispetto a quelli che farebbe una persona con un rischio medio-basso, e in alcuni casi potrebbe addirittura essere necessario intervenire con un “preventivo” intervento chirurgico. E’ quello che ha fatto l’attrice Angelina Jolie che nella primavera 2013 ha rivelato al “New York Times” di essersi sottoposta a un intervento di doppia mastectomia preventiva contro il tumore al seno dopo avere appreso di avere il gene “difettoso” Brca1 che aumenta in maniera consistente il rischio di sviluppare il cancro al seno e alle ovaie. Ogni anno nel nostro Paese sono segnalati dal ministero della Salute circa 50 mila tumori al seno, ma solo il 5-6% di questi sono su base ereditaria e hanno un 70-80% di rischio di sviluppare la patologia. Resta da dire che questa preoccupazione non è solo dei familiari, ma degli stessi ammalati: infatti, non sono pochi i genitori che scoprono di avere il cancro e si preoccupano di aver trasmesso ai figli i geni della malattia. 51


Non arrendersi. Mai!

A conclusione di questo capitolo, vogliamo proporvi alcuni dei messaggi che gli ammalati di cancro hanno inviato alle psicologhe che fanno capo all’Associazione Cancro Primo Aiuto dopo aver usufruito del loro servizio. «Buonasera dottoressa, anche questa volta le sue parole e l’intento che mi comunica mi hanno tranquillizzata. La saluto con gratitudine, e lavorerò su me stessa, in maniera più serena, fino al prossimo incontro. A presto». «Buongiorno, volevo ringraziarla per il colloquio. Per la prima volta ho lasciato fluire cose appartenenti a un mio percorso personale, vissuto in parallelo al cammino con mamma. Mi sono sentita in colpa per la virata dell’attenzione che si è spostata da mamma a me stessa, ma penso che sia stato necessario. Grazie per la disponibilità e il sostegno». «Gentile dottoressa, oggi non ce l’ho fatta ad andare in ospedale: avevo febbre e non stavo proprio in piedi... La chiacchierata con lei ieri mi ha fatto bene; sono così riuscita ad affidarmi completamente al vostro servizio di cure palliative e abbandonare il reparto di oncologia che ora non può più aiutarmi... Come mi ha suggerito lei è tempo di conservare le energie per cose piacevoli come stare con la mia famiglia e gli amici. Questo weekend, d’accordo con mio marito, organizzeremo una cena. Ci sentiamo presto, saluti». «Buongiorno dottoressa, le scrivo questo messaggio per ringraziarla del nostro colloquio di ieri dopo il quale sono riuscita senza più paura 52


Non arrendersi. Mai!

ad affrontare il discorso della mia malattia ormai non più curabile con i miei figli…». «Grazie ancora per la Sua sensibilità e professionalità che non abbiamo trovato altrove…».

53


Non arrendersi. Mai!

54


Non arrendersi. Mai!

La dieta da seguire Quant’è importante l’alimentazione corretta per un malato: aiuta ad affrontare meglio gli effetti collaterali delle terapie e a contrastare la crescita o la ricomparsa del tumore.

Quando si sente parlare del rapporto tra dieta alimentare e cancro si pensa sempre ai cibi che possono aiutare a prevenire la malattia. E a questo proposito si trovano spesso e ovunque molti suggerimenti. Invece, non sempre si prende in considerazione quanto un’alimentazione adeguata possa aiutare le persone a cui il cancro è già stato diagnosticato, sia ad affrontare i malesseri provocati dalla malattia, sia a fronteggiare gli effetti collaterali delle cure e addirittura a contrastare la crescita o la ricomparsa del tumore. Basti dire come alcune ricerche indichino che quasi il 20% dei malati non guarisca perché si nutre in modo sbagliato. E’ evidente che ogni ammalato necessita di indicazioni personalizzate; e qui è impossibile scendere nel dettaglio. Però si possono offrire dei consigli di carattere generale che sarebbe bene, comunque, seguire. La malattia e le cure provocano effetti rilevanti sul metabolismo: la conseguenza è quasi sempre una significativa perdita di peso (è stato calcolato che fino al 40% dei pazienti oncologici sia già dimagrito al momento della diagnosi o abbia problemi di nutrizione), tranne nel caso delle donne operate al seno e in terapia che tendono, invece, a ingrassare. In entrambi i casi si tratta di situazioni su cui è necessario intervenire: nel primo perché occorre rinforzare le difese immunita55


Non arrendersi. Mai!

rie e recuperare le forze necessarie per affrontare la malattia e le cure in modo tale che risultino efficaci; nel secondo perché il sovrappeso potrebbe determinare un peggioramento dell’umore della donna ammalata e del suo già precario equilibrio ormonale peggiorando, quindi, la prognosi e addirittura rendendo più probabile una recidiva dopo la terapia. Senza dimenticare, come si è accennato, che un’alimentazione adeguata può aiutare a contrastare in modo efficace gli effetti collaterali delle terapie: dalla nausea al vomito, dalla stipsi alla diarrea. Ecco perché per un ammalato di cancro è di grande importanza mantenere il proprio peso forma: la diminuzione o l’incremento di peso possono influire negativamente sull’effetto delle terapie e dei farmaci. E sulla psiche: vedersi sempre più magri non fa che provocare turbamento, perché ricorda di essere ammalati. Entriamo, ora, nel dettaglio e rispondiamo a qualche specifica esigenza. La chemioterapia, la radioterapia o la somministrazione dei nuovi farmaci biologici provocano spesso nausea e vomito che, se non sono controllati in modo adeguato, possono spingere il soggetto a interrompere la terapia e a non fare i cicli successivi che invece sono fondamentali: come contrastarli? Detto che una piccola dose quotidiana di zenzero è un ottimo rimedio (e le donne che sono state incinta probabilmente lo sanno), e sorseggiare una bibita gassata è la classica ricetta popolare (che comunque funziona), il modo migliore per contrastare nausea e vomito è innanzitutto quello di distribuire l’alimentazione in molti spuntini durante l’arco della giornata, e non concentrarla nei tre pasti principali, per consentire una più facile digestione. E’ quindi evidente che si debbano 56


Non arrendersi. Mai!

evitare piatti pesanti, così come dosi eccessive di cibi grassi, fritti o piccanti e con sapori troppo forti. Insomma, bando a patatine fritte e torte supercremose... Per quel che riguarda i liquidi, è consigliabile assumerne pochi e a piccoli sorsi durante i pasti, mentre è meglio bere tra un pasto e l’altro preferendo l’acqua. Se l’appetito lascia a desiderare, fate di tutto per rendere il cibo invitante, guarnitelo con gli alimenti che più vi piacciono o magari stimolatelo con un aperitivo e create l’ambiente ideale: mangiare deve essere un piacere come lo era prima della malattia. Si seguano, poi, i detti degli antichi latini, a cominciare dal classico “prima digestio fit in ore”, cioè “la prima digestione avviene in bocca”: quindi, non si mangi di corsa ma con calma, prendendosi tutto il tempo necessario, e masticando lentamente. Poi lasciate perdere la “pennichella”, evitando assolutamente di sdraiarvi per un paio d’ore. E se potete, fatevi una passeggiata: oltre che ad aiutare la digestione, vi potrà dare benefici anche sull’appetito. Nel caso in cui vi dia nausea anche cucinare, non esitate a farvi aiutare oppure puntate su cibi freddi o surgelati. Ad alcuni ammalati le varie terapie provocano o stipsi o diarrea. In queste situazioni, gli interventi consigliati valgono per chiunque, non solo per gli ammalati di cancro. Nel caso di intestino pigro sarà bene adottare una duplice strategia: da una parte evitare alcuni cibi, tipo legumi, broccoli, cipolle e noccioline che provocano la formazione di gas, dall’altro puntare su cibi ricchi di fibre a cominciare dalla crusca e dai cereali integrali (facili da consumare a colazione), fino a verdure e legumi come lenticchie, fagiolini, piselli e alla frutta, in primis kiwi e mele, queste ultime mangiate possibilmente con la buccia. E soprattutto bere molto, acqua ma anche tè. Per chi, invece, è affetto da diarrea, 57


Non arrendersi. Mai!

sarà bene, innanzitutto, reintegrare i liquidi persi, evitando, però, alcolici e bevande calde; quindi, stare alla larga da cibi grassi e fritti, dai salumi, dai formaggi e dai dolci, limitare i consumi di frutta, verdura e latte, e preferire, invece, alimenti ricchi di potassio e di sodio, come pane non integrale, riso, pesce, prosciutto cotto ma sgrassato, e alcuni frutti quali banane, albicocche e ananas che hanno proprietà astringenti. Nel caso, poi, di flatulenza, oltre a masticare e bere lentamente, si evitino alcuni cibi come fagioli, cavoli, carciofi, uva e bevande gassate e aiutatevi con i confetti di carbone che si trovano in farmacia. Molto fastidiose sono poi l’infiammazione o la secchezza del cavo orale e, in generale, la difficoltà a deglutire, conseguenza delle cure per alcuni tumori, come quello encefalico, che riducono la salivazione: cubetti di ghiaccio o ghiaccioli alla frutta possono aiutare a recuperare la deglutizione e una masticazione normale, comunque converrà nutrirsi con cibi morbidi preferendo gelati, budini, yogurt o anche frutta cotta e zuppe, mentre sarà bene evitare alimenti asciutti che impastano la bocca, dai cracker ai grissini e i cibi secchi e speziati. Si condiscano i piatti con salse e sughi appetitosi ma non piccanti. E se bere con la cannuccia vi dà meno problemi, fatelo. E’ poi evidente che la chemioterapia o la radioterapia possano provocare stanchezza e affaticamento. E dato che sopperire a questa carenza con dei dolci potrebbe essere controproducente, soprattutto se la spossatezza è accompagnata da diarrea, è preferibile puntare su cibi integrali, legumi, fibre con un po’ di olio extravergine di oliva. Va bene anche la frutta secca, sempre che non si soffra di stitichezza. Comunque, se fate fatica anche a cucinare, come già detto non fatevi scrupoli e puntate tranquillamente su surgelati e prodotti precotti o in scatola. C’è, poi, chi lamenta una perdita o cambiamento di gusto: cibi per cui 58


Non arrendersi. Mai!

si andava pazzi che diventano “disgustosi”, oppure che non hanno più sapore. Spesso si tratta di una situazione temporanea; in ogni caso non resta che dare la preferenza agli alimenti che piacciono e utilizzare spezie ed erbe, come rosmarino, basilico e menta, che rendano più graditi i vari cibi. Di tutt’altro genere, come si diceva, è il problema delle donne che hanno avuto un tumore al seno: sovrappeso e, in alcuni casi, obesità. Questo, oltre a determinare altri rischi di malattie, in particolare di carattere cardiovascolare, dall’infarto all’ictus cerebrale, può essere anche causa di problemi di carattere psicologico che potrebbero limitare i benefici delle cure. Le indicazioni, in questo caso, sono quelle classiche per chi vuole ridurre peso: limitare i dolci, i grassi, i fritti, il pane e la pasta, ridurre il consumo di zucchero e puntare su carni magre e pesce, magari cucinati ai ferri o al vapore, incrementare il consumo di fibre, frutta e verdura e preferire latte scremato e yogurt a basso contenuti di grassi; e aumentare, nel limite del possibile, l’attività fisica. Infine, occorre ricordare come siano sempre più frequenti le ricerche che mettono in evidenza la bontà di alcuni alimenti nella cura del cancro e addirittura in alcuni specifici tumori. E’ il caso, ad esempio, di uno studio del consorzio composto dal Fox Chase Cancer Center e dalla Pennsylvania State University che ha rilevato come una dieta ricca di pesce azzurro (che contiene gli acidi grassi “Omega 3”, già noti per i loro benefici a cuore e cervello) sia particolarmente efficace nel rallentare o addirittura fermare la proliferazione delle cellule del tumore del seno triplo negativo. Non è un caso, infatti, che si riscontrino meno casi di cancro nelle donne che scelgono una dieta mediterranea ricca di pesce rispetto a quelle che utilizzano una dieta occidentale.

59


Non arrendersi. Mai!

60


Non arrendersi. Mai!

Tutto ciò che può aiutare Dalle cure naturali, utili nell’affrontare il dolore, a quelle termali che possono aiutare nella fase di ripresa dalla malattia; dall’attività fisica, valida nel far fronte in modo adeguato alle terapie anticancro e nel ridurre le possibilità di complicazioni, all’occupazione della mente, con attività musicali o artistiche; fino alla cura di un animale e, soprattutto, del proprio aspetto fisico.

Pur nelle difficoltà della malattia – e sono tante – diventa quanto mai importante valorizzare tutto ciò che di positivo ci possa essere, anche per mantenere quella fiducia che aiuta nel cammino verso la guarigione. Ecco perché è fondamentale, per l’ammalato e per i suoi familiari, ricercare anche piccoli momenti di benessere che diano valore a giornate lunghe, faticose e, a volte, dolorose. Può essere la lettura di un libro o la visione di un film, una passeggiata con il vostro cane o una partita a carte con gli amici, la cura delle piante o il recupero di un vecchio hobby… Anche perché concentrarsi su un’attività, in particolare se è piacevole, stimola la volontà del paziente e, soprattutto, distoglie la mente dalla malattia.

Le cure naturali Quando parliamo di cure naturali è d’obbligo una premessa: non si tratta di medicine che sostituiscono i trattamenti anticancro tradizionali, ma di terapie complementari. L’agopuntura, la cura a base di erbe e i prodotti omeopatici in generale non sono medicinali anticancro 61


Non arrendersi. Mai!

e non possono assolutamente prendere il posto della chemioterapia, della radioterapia o delle terapie ormonali, ma sono in grado di dare una mano a controllare e gestire alcuni degli effetti collaterali di questi trattamenti. Gli studi scientifici sulla loro sicurezza ed efficacia non sono ancora esaustivi. Però anche in Italia hanno cominciato a diffondersi queste pratiche che si stanno rivelando utili nell’affrontare il dolore, le radiotermiti provocate dalla radioterapia o la nausea e la debolezza determinate dalla chemioterapia: in quest’ultimo caso, ad esempio, l’utilizzo di polline di fiori o dell’estratto secco di eleuterococco hanno dato buoni risultati. Si sono dimostrate efficaci anche con le terapie ormonali che causano spesso sbalzi di umore e atteggiamenti depressivi. Effetti positivi li hanno dati anche il ginseng, il ginger o i semi di lino. Così come sembrano dare un aiuto a sopportare meglio il dolore e la “fatigue” alcune tecniche di rilassamento o l’agopuntura. Anche i massaggi non hanno alcuna controindicazione assoluta e sono comunque utili per il benessere generale. Non che manchino altri medicinali veri e propri che combattono allo stesso modo le conseguenze di radioterapia o chemio; ma questi farmaci in alcune situazioni possono avere conseguenze negative. Al contrario il prodotto omeopatico è spesso meglio tollerato. In ogni caso è sempre l’oncologo a decidere quale terapia sia meglio seguire, e se l’utilizzo di eventuali cure naturali possa interferire con le terapie anticancro. Rimanendo in questo ambito, un ruolo importante nella cura e, in particolare, nella ripresa dalla malattia, possono averlo le cure termali. Uno studio francese su un gruppo di donne trattate con chirurgia, radioterapia o chemioterapia, ha rilevato come quelle tra loro che erano 62


Non arrendersi. Mai!

state sottoposte a un programma di cure termali di due settimane nel corso dei nove mesi successivi alla fine delle cure avevano una qualità della vita migliore, con meno episodi depressivi, un sonno migliore, più attività fisica, meno obesità e una maggiore facilità nel riprendere il lavoro. Effetti che si sono mantenuti simili dopo due anni, con un ulteriore miglioramento della qualità del sonno. L’ambiente Più di una ricerca ormai lo dimostra: i pazienti che hanno accesso alla natura si riprendono più in fretta rispetto agli altri. Poter vedere dalla finestra un albero, un prato, un bosco è molto meglio che scorgere un cantiere o un muro e aiuta pure a guarire. Insomma, il verde fa bene alla salute. Non è un caso che i progetti di Renzo Piano per la nuova realtà ospedaliera che era stata programmata nell’area ex Falck di Sesto San Giovanni (Mi) prevedevano che ogni camera avrebbe dovuto avere una piccola finestra sporgente sul parco e da ogni letto si sarebbe dovuto godere la vista sugli alberi d’alto fusto e sugli orti. «Se vedevo un albero, mi sentivo meglio – diceva il dottor Roger Ulrich, fondatore del primo centro interdisciplinare tra medicina e architettura all’Università del Texas e pioniere della ricerca sui giardini curativi, ricordando la sua esperienza da piccolo in ospedale - Quando si è immersi in un ambiente freddo, funzionale e spaventoso come un ospedale, la mente cerca una via di uscita verso la normalità». Negli Stati Uniti esiste persino un’associazione, Hope in Bloom, che realizza giardini e allestisce terrazzi e balconi nelle case per le donne in cura per il cancro al seno.

63


Non arrendersi. Mai!

L’attività fisica Praticare uno sport o perlomeno dedicarsi con costanza a un’attività fisica è determinante nel cammino verso la guarigione. Chi si ammala tende a pensare che tutto, compresa l’attività fisica, possa compromettere il cammino verso la guarigione. Non è assolutamente vero. Anzi, ricordatevelo: chi batte la fiacca aiuta il tumore. Spesso avrete letto dell’importanza dell’attività fisica nella prevenzione: vale altrettanto per chi s’è ammalato. Certo, ci sono situazioni in cui si è impossibilitati a muoversi; ma chi può deve assolutamente farlo. Infatti, ci sono numerose ricerche che hanno dimostrato come l’attività fisica abbia aiutato ad affrontare la debilitazione provocata dalle terapie. E poi, una volta guariti, tenersi in forma contribuisce notevolmente a ridurre le probabilità che si sviluppi una recidiva. Perché l’attività fisica aiuta sicuramente a ridurre lo stress, l’ansia, la depressione, e non è escluso, ma non ci sono ancora prove certe, che contribuisca al rafforzamento delle difese immunitarie. Non solo, fare ginnastica può aiutare ad affrontare meglio le terapie anticancro e a ridurre le possibilità di complicazioni. Lo dicono ormai diversi studi: fare regolarmente un’attività fisica è un sistema valido per contrastare alcuni degli effetti collaterali secondari ai trattamenti. Contrasta, ad esempio, la stanchezza che spesso provoca la chemioterapia e aiuta a ridurre molti problemi psicologici, a cominciare dall’ansia. Quindi, chi svolge un’adeguata attività fisica riesce ad affrontare le cure, anche le più pesanti, le sopporta sicuramente meglio. Ma che sport praticare? Non tutti possiamo pretendere di raggiungere i livelli della runner Ivana Iozzia che, dopo essere guarita da un cancro al seno, è tornata a correre e a vincere maratone di primo piano. Però non farebbe male, alle donne operate al seno, un po’ di nordic walking 64


Non arrendersi. Mai!

che consente di tenere in esercizio anche le braccia, mentre sarà meglio che eviti di andare in bicicletta, almeno per un po’, chi ha avuto una neoplasia alla prostata o del colon-retto. La cura estetica Non sarà certo la prima preoccupazione di una donna che scopre di avere il cancro; ma una volta metabolizzato che si è ammalate, la bellezza sarà sicuramente un aspetto importante di cui prendersi cura. E che non deve essere trascurato, perché per una donna è importante sentirsi esteticamente a posto: ne va anche del suo benessere generale e quindi della sua capacità psicologica di saper affrontare le cure. Non solo perché viviamo in una società dove la bellezza spesso conta più di tutto il resto… Comunque, al di là di questa considerazione, una donna che si guarda allo specchio e non è soddisfatta perché si vede brutta, troppo magra o troppo grassa, magari senza capelli… è una donna che affronterà con maggiore fatica le terapie necessarie per guarire. Spazio, quindi, alla cura del proprio aspetto. Sul mercato ci sono molte soluzioni a tutti i problemi. Innanzitutto procuratevi una parrucca, magari anche prima di cominciare la chemioterapia, così che quando inizieranno a cadere le prime ciocche, sarete già “attrezzate” ad affrontare l’alopecia. Non mancano, poi, tantissimi prodotti per un perfetto make up, del viso o delle mani, creme idratanti per la pelle che durante le terapie ha bisogno di essere idratata (in questo caso fa molto bene anche bere abbondantemente), reggiseni speciali per le donne che hanno subito piccole o grandi asportazioni del seno. Insomma, via libera a fondotinta, cipria e fard senza nessuna preclusione, senza dimenticare, per chi ha subito amputazioni, che oggi la chirurgia estetica compie interventi impensabili anche solo pochi anni fa. 65


Non arrendersi. Mai!

Impegnare la mente con arte e musica Il cancro non si combatte solo con l’esercizio fisico: tenere allenato il corpo è importante, ma anche lo spirito vuole la sua parte. Spazio quindi all’arte, alla cultura, alla musica, strumenti importanti per migliorare la qualità della vita dei malati, in quanto aiutano ad affrontare la sofferenza psicologica che spesso accompagna il percorso di chi ha il cancro. Disegnare o dipingere, cucire o suonare uno strumento sono attività che, da una parte, impegnano sicuramente la mente del paziente impedendo di pensare ossessivamente alla malattia e anche al dolore che spesso provoca, dall’altra diventano argomento di discussione e quindi consentono di allacciare o coltivare rapporti, cosa utile in qualsiasi fase della malattia. Secondo alcune ricerche, infatti, i malati utilizzano meno analgesici se sono dediti a un’attività artistica. E sono in corso degli studi per verificare se la musica può aiutare a rilassarsi e quindi a superare lo stress della malattia e delle terapie. Non per nulla nel Nord America è normale affiancare ai tradizionali trattamenti anti-cancro diverse attività artistiche, ma anche la preghiera o la meditazione, per alleviare l’ansia. Metodologie che pian piano stanno trovando spazio anche nelle nostre strutture ospedaliere. Inutile dire che musicoterapia, arteterapia e via dicendo sono utili non solo agli ammalati, ma anche ai loro familiari che vengono messi a dura prova dal punto di vista psicologico e sono sottoposti a stress non indifferenti. In ogni caso, tenere la mente occupata è sempre utile. Per cui pensare a cosa si può e si deve fare, a quali obiettivi portare avanti, non può che far bene. A questo proposito eccovi la testimonianza, ancora una volta, di Anastacia, la cantante statunitense che ha dovuto combattere per ben due volte contro il cancro: «E’ più facile affrontare un brutto periodo se c’è 66


Non arrendersi. Mai!

all’orizzonte qualcosa che non vedi l’ora di fare. Avere degli obiettivi aiuta. Non importa se li devi spostare nel tempo... Io l’ho fatto, a volte non li ho raggiunti, ma va bene comunque». Prendersi cura di un animale Funziona con i bambini, ma anche con gli adulti: un animale può aiutare ad affrontare meglio la malattia, anche il cancro. La pet therapy è utile e lo sapevano già i primi medici, visto che lo stesso Ippocrate lo consigliava ai suoi pazienti. I risultati migliori si sono avuti con bambini e anziani, soprattutto quelli con disabilità fisiche, ma la terapia assistita dagli animali sta dando frutti positivi anche in ambito oncologico. In questo caso, infatti, si è rivelata utile a restituire al malato quella fiducia in se stesso e quella sicurezza che gli permettono di affrontare con maggior energia e coraggio le cure necessarie. Non solo, la pet therapy ha dimostrato di potere, in diversi casi, alleviare la sofferenza fisica e psicologica dei malati. I bambini, in particolare, hanno effetti benefici dalla vicinanza dei cani/gatti, instaurano con loro un rapporto affettivo, li accarezzano, ci giocano, gli danno da mangiare, e tutto questo li aiuta in modo significativo a superare il dolore e le paure che gli provocano il cancro. Tutte le ricerche effettuate, infatti, dimostrano come i malati di cancro rispondono meglio alle cure e le affrontano con meno paura se prima e durante hanno affrontato un percorso di pet therapy. Non è sicuramente un caso se si dice che il cane è il miglior amico dell’uomo…

67


Non arrendersi. Mai!

68


Non arrendersi. Mai!

Storie da conoscere Sono tanti gli uomini e le donne che hanno superato la malattia. Soprattutto queste ultime hanno scelto di raccontarsi. La loro esperienza sia da stimolo a chi il cancro lo sta combattendo.

69


Non arrendersi. Mai!

70


Non arrendersi. Mai!

Laura Erba «Non abbiate paura e non vergognatevi di cercare un sostegno psicologico: può essere decisamente un aiuto che vi farà cambiare vita». Con il cancro ha già combattuto due volte. Anzi tre, visto che dopo di lei ha colpito anche il padre. Eppure ne parla con una disinvoltura disarmante. Adesso. Ma non è stato per nulla facile venirne fuori: «Ero arrivata al punto di voler dare forfait perché non riuscivo più a sopportare il peso che avevo sulle spalle». A confessarlo è Laura Erba, 56enne di Villasanta (MB), che dalla fine del 2004 ha conosciuto da vicino questa malattia. Tutto nasce in modo casuale, dal classico controllo a cui anche lei si sottopone quando raggiunge i 45 anni: mammografia ed ecografia di routine. Solo che se la prima non dà riscontri negativi, la seconda «me la fece un amico – ricorda Laura – che subito mi disse. “Vedo un nodulo: io ti consiglierei di toglierlo”. Però, in simili situazioni vuoi vederci chiaro, capire se ci sono altre soluzioni... E mi sono immediatamente rivolta all’Istituto Oncologico Europeo». Dove le dicono di non intervenire, ma di tenere monitorata la malattia. In un primo momento ascolta il consiglio. Poi, però, incontra una vicina di casa della madre che ha avuto il suo stesso problema e l’ha risolto con un intervento chirurgico: la invita, anche in modo piuttosto brusco (forse perché, appunto, c’era già passata e sapeva che non bisogna sprecare tempo...), a non indugiare e ad approfondire il problema; e, addirittura, le fissa un appuntamento in un laboratorio creato dall’associazione monzese “Salute Donna” che lavora in parallelo con 71


Non arrendersi. Mai!

i senologi dell’Istituto dei Tumori di Milano. «Ho incontrato un medico giovane che mi ha messo subito a mio agio – continua - e mi ha consigliato di sottopormi ad una agobiopsia e di decidere poi il da farsi in base al risultato». E’ quello che fa e l’esito è che ci sono delle cellule cancerogene da asportare. «Qui ho la fortuna di incontrare lo staff del professor Marco Greco che allora operava all’Istituto dei Tumori di Milano. Tutti sono di una dolcezza fantastica, dal primario a chi fa le pulizie: per loro non sei un numero di ospedale, il letto numero 13, ma sei Laura. Mi hanno operato il Giovedì santo del 2005 e il martedì successivo ero già al lavoro». Il linfonodo “sentinella” non rileva altri problemi, quindi l’intervento si limita a una quadrantectomia; si sottopone, poi, alla necessaria radioterapia al Policlinico di Monza e tutto sembra filare per il verso giusto. Laura non sgarra agli appuntamenti di controllo semestrale. Ed è proprio in occasione di uno di questi controlli che scopre la presenza di un altro nodulo, questa volta all’altro seno. Sono passati circa tre anni e mezzo dal primo intervento e Laura torna sotto i ferri del professor Greco. Questa volta, però, il linfonodo “sentinella” evidenzia immediatamente la presenza di cellule tumorali, quindi, l’operazione è un po’ più invasiva della precedente, visto che si tratta di eliminare i linfonodi. Il percorso successivo si rivela meno facile del previsto. Innanzitutto per un problema al braccio destro che le impedisce di sottoporsi subito alla chemioterapia. Poi perché decide di seguire il trattamento all’Istituto dei Tumori di Milano e non al più vicino San Gerardo di Monza. «Allora il reparto monzese mi sembrava più opprimente, non è bello come oggi. Ricordo che dopo averlo visitato sono rientrata a casa piangendo. E poi a Milano c’era lo staff che mi aveva seguito, un ambiente più colorato... Per la prima seduta avevo comprato delle crocs 72


Non arrendersi. Mai!

rosse e gli avevo messo sopra un paio di spillette». La realtà è che Laura ha paura della chemioterapia. «Quando mi sono svegliata dopo il secondo intervento, la mia prima domanda è stata: “Ma devo fare la chemio?” Per me è stato difficile accettare di fare questo trattamento, non ne volevo sapere: non volevo accettare di avere il cancro, non volevo perdere i capelli... – si sfoga – Un po’ ero condizionata dalla storia di una cugina che, nella stessa situazione, aveva subito i peggiori effetti della chemio. Un po’ ero per natura pessimista... In quel periodo ho avuto parecchi scontri anche con mio marito che alla fine, con l’aiuto anche di alcuni amici particolarmente sensibili, è riuscito a convincermi e mi è stato molto vicino. Le prime sedute duravano oltre quattro ore e lui è sempre rimasto lì ad aspettarmi. Non si può entrare nella sala della terapia, ma io sapevo che lui era lì fuori e mi arrivava il suo effluvio benefico». In realtà la cura si rivela meno drammatica di quanto Laura si era immaginata. Gli effetti peggiori, dalla nausea al vomito fino alla diarrea, sono quasi nulli, magari un po’ di stanchezza nei periodi di maggiore cura. Il momento peggiore è la caduta dei capelli. «Non tanto per la perdita in se stessa – spiega – quanto per il lungo iter. Uno pensa che un bel giorno ti cadano i capelli ed è finita lì. Purtroppo non è così: è un fenomeno che dura giorni. E per fortuna che mi ero mentalmente preparata... La prima mattina che mi sono ritrovata parecchi capelli sul cuscino ho avuto la brillante idea di farmi una doccia ‘così li elimino tutti e sono una principessa’, mi sono detta. Errore madornale: non l’avessi mai fatto! A un certo punto avevo il corpo pieno di capelli, stile donna di Neanderthal: mi è venuta solo voglia di scappare. Mi sono asciugata velocemente, mi sono messa un asciugamano in testa e ho aspettato fino a sera che tornasse mio marito. Per fortuna, quand’è 73


Non arrendersi. Mai!

arrivato, ha cercato di fare il brillante ed è riuscito a buttarla sul ridere convincendomi a rasarmi completamente. Una liberazione... ». Senza dimenticare l’altro problema estetico, visto che due quadrantectomie lasciano il segno, soprattutto perché Laura non ha mai voluto sottoporsi a interventi di chirurgia estetica: «Si fosse trattato di una mastectomia radicale...». Già, però quando vai a cercare un reggiseno e non lo trovi, perché, come dice scherzosamente Laura, «la destra non sa cosa fa la sinistra», il problema nasce: o trovi qualche vecchia bustaia che te lo adatta o magari può diventare un altro elemento di demotivazione. In tutto Laura si sottopone a otto cicli di chemioterapia, via via più leggeri. Poi, di nuovo, la radioterapia. Ad agosto 2010, dopo mesi di cura si concede qualche giorno di vacanza. Non fa in tempo a tornare a casa e a pensare di girare una nuova pagina del libro della sua vita che una nuova tegola è pronta a caderle sulla testa: a ottobre il papà ottantenne, caso raro ma possibile, scopre di avere un nodulo alla mammella. Poi il solito iter: esami, ecografia, intervento chirurgico al San Gerardo di Monza dove ora si è spostato il professor Greco... Per fortuna, anche per lui la storia finisce bene. Ora per Laura è routine di esami e controlli, con esiti che a volte mettono un po’ di apprensione. Come quella volta che sembrava ci fossero tre nuovi noduli («e volevo uscire dal controllo urlando... ») che, per fortuna, si sono rivelati essere deposito di cellule morte di grasso; ma dopo successivi accertamenti e giorni e giorni di apprensione. O quella volta che la scintigrafia ha evidenziato un’interruzione del tracciante su alcune ossa della colonna vertebrale («già mi ero immaginata una metastasi ossea...»). 74


Non arrendersi. Mai!

I momenti difficili, quindi, non sono mancati. Chi l’è stato di maggiore aiuto in questo cammino? «Innanzitutto mio marito. Non avendo figli mi sono appoggiata completamente su di lui: non gli ho mai nascosto nulla, nel bene e nel male. Per fortuna, al contrario di me, lui è un inguaribile ottimista e si arrabbiava per il mio pessimismo. Quando non riusciva a tirarmi fuori dalle sabbie mobili lo facevo sentire impotente... però è stato al mio fianco lungo tutto il percorso. Poi mio papà, mio fratello, col quale ho un rapporto molto stretto, i miei amici... Da questo punto di vista sono stata molto fortunata. Ma un grande sostegno mi è stato dato dalla psicologa». Ci racconti... «Mi sono rivolta a lei quando si è ammalato il papà. Si pensava potesse essergli d’aiuto a metabolizzare l’esperienza. Lui, invece, non ne aveva per nulla bisogno. Ma io sì e ne ho approfittato. Era un periodo durissimo: pensi che mi vestivo solo di nero e la maggior parte delle volte che andavo da lei piangevo. Mi adducevo una sorta di lutto o addirittura di preparazione alla mia morte. Ero convinta, insomma, che non ci fosse due senza tre e che sarebbe stato quello definitivo... All’inizio del percorso ero davvero annientata ed è stato fondamentale avere qualcuno non solo che ti stesse ad ascoltare – cosa che possono fare anche gli amici o i parenti – ma soprattutto che ti sapesse dare delle risposte. A cominciare dal riconoscere per quel che era il momento che stavo vivendo. Io ero convinta che si trattasse di una situazione da metabolizzare, mentre la psicologa mi ha fatto capire che si trattava di una situazione da accettare, perché comunque non puoi privartene. Il mio rapporto con la psicologa è stato davvero vitale e oggi posso 75


Non arrendersi. Mai!

dire che gli esami periodici a cui sono costretta a sottopormi non mi angosciano più». Si sente di dare qualche consiglio a chi dovesse trovarsi nella sua stessa situazione? «Direi di non passare nulla sotto silenzio. Parlate di tutto: serve a voi e a chi vi sta accanto. A volte, poi, può essere utile – e per me lo è stato – cercare qualcuno che abbia avuto un percorso affine al vostro; anche sotto l’aspetto logistico-operativo perché ti sanno dare delle dritte che possono aiutare l’ammalato e i loro familiari. Infine, non abbiate paura e non vergognatevi di cercare un sostegno psicologico: può essere decisamente un aiuto che vi farà cambiare vita».

76


Non arrendersi. Mai!

Monica S. Dopo la malattia è diventata mamma di Thomas. Il suo messaggio: «Abbiate coraggio perché c’è una via d’uscita, ci può essere un lieto fine». «Guardala in faccia la realtà!». Il grido di Vasco Rossi nella canzone “Dillo alla luna” se l’è sentito addosso nel momento più duro della sua malattia. E in quel momento la realtà era un cancro che sembrava minacciare il suo futuro. La storia della monzese Monica S. si scontra con il male nel 2011. In quel momento ha 32 anni e, quando la intervistiamo, è una donna felicissima che ha appena scoperto di essere incinta del secondo figlio. «A giugno siamo andati in vacanza - racconta - e cercavamo un fratellino per Eleni, la nostra primogenita. Tornati a casa ho fatto il test ed è risultato positivo». Poi, come quelle cose che non sai spiegare ma ti succedono, le viene quello strano pensiero: speriamo che sia sano. «E subito mi sono detta: piuttosto succeda qualcosa a me». Un mese dopo non sta bene: qualche perdita di sangue, ma che può succedere (così almeno le dicono...). Per scrupolo, lei si reca comunque al pronto soccorso. Lì le chiedono se il suo pap test era regolare. E, per quanto lo fosse, capisce subito che c’è qualcosa che non va. «Penso avessero capito subito, però volevano essere cauti». Altri esami e poi la rimandano a casa. Passano tre giorni e la richiamano: ci sono dei valori fuori norma e la invitano a recarsi all’ospedale. Lì commette quello che oggi riconosce essere stato un errore madornale: si mette davanti al computer e comincia a navigare in internet alla ricerca di informazioni. «Ho trovato di tutto, il peggio del peggio: praticamente mi vedevo già finita, un momento di vero panico». 77


Non arrendersi. Mai!

Passano circa quindici giorni di esami e controlli, quindi l’esito: mola vescicolare che poi si scoprirà essere “completa”. Il 17 luglio viene sottoposta al raschiamento dell’utero all’Ospedale San Gerardo di Monza. «Avevo il terrore dell’anestesia totale, ma in quel momento prevaleva in me il desiderio di liberarmi». Se tutto fosse girato per il verso giusto, i valori sballati avrebbero dovuto azzerarsi e tutto si sarebbe concluso lì. Così sembrava al primo controllo. Ma dopo dieci giorni la concentrazione di beta-HCG nel sangue comincia a salire. «Mi spiegano che occorre fare un ciclo di cure – continua – una sorta di chemioterapia, ma piuttosto blanda: tre cicli di iniezioni di metrotrexato insieme alla somministrazione di acido folico per tre giorni alla settimana nell’arco di tre mesi». Per fortuna la cura funziona e i valori di beta-HCG, che prima del trattamento erano arrivati a quota 27mila, già alla fine del secondo ciclo erano azzerati. Ma con il debellamento delle cellule impazzite non finiscono i problemi. Dopo circa due mesi cominciano gli attacchi di panico. «Non era timore che tornasse la malattia – spiega – Avevo paura di morire. Ero terrorizzata a fare qualsiasi cosa, non riuscivo più nemmeno a guidare». Finisce anche al pronto soccorso e rischia di essere sottoposta a un pesante trattamento farmacologico. Per fortuna ha la forza di ascoltare i consigli del medico alla consueta visita ginecologica e si affida alle cure di una psicologa. «I primi incontri sono stati strazianti, ma alla fine mi ha completamente riabilitato. Credo che il non poter tentare subito una nuova gravidanza, visto che si doveva aspettare sei mesi, sia stata la causa scatenante di questa situazione». Appena sta bene, infatti, Monica e suo marito cercano di avere un altro figlio e alla fine del 2012 resta di nuovo incinta. «La gravidanza è anda78


Non arrendersi. Mai!

ta benissimo, ma all’inizio ho avuto davvero molti timori». Ed ecco il lieto fine: il 25 giugno 2013 è venuto alla luce Thomas. Una storia di speranza, ma anche di momenti difficili. Cosa o chi l’ha aiutata di più? «Chiedere aiuto agli altri. Innanzitutto a mio marito che, poverino, si svegliava con me alle 3 di notte e stava ad ascoltarmi e a chiedermi cosa poteva fare per aiutarmi, e a mia madre che mi è sempre stata vicina passo passo nella malattia, mio papà, mia sorella. Poi la psicologa che è stata sicuramente la mia valvola di sfogo: è impressionante come sia riuscita, lei così giovane - credo poco più che trentenne -, ad essere la mia ancora di salvataggio. Ma mi ha aiutato tantissimo parlare anche con gli altri, in particolare con chi aveva avuto una storia simile alla mia: quando mi recavo nel reparto di oncologia del San Gerardo di Monza non era un momento doloroso, anzi, perché ho sempre trovato persone serene che mi confortavano. Se potessi, mi piacerebbe essere di supporto a chi si trova nelle difficoltà in cui mi sono trovata anch’io, come tanti altri lo sono stati con me». Non dev’essere stato facile nemmeno gestire la malattia con una bambina che le stava comunque al fianco. Eleni lo sapeva? «Ha capito che c’era qualcosa che non andava, anche perché qualche volta non sono riuscita a trattenere le lacrime... Comunque è stata stupenda: mi accarezzava e mi confortava. E anche a scuola non ha avuto ripercussioni. Io, però, ho avuto il terrore di non vederla crescere: quante volte l’ho pensato... ».

79


Non arrendersi. Mai!

Vuole dare un consiglio a chi ha a che fare con il cancro? «Di avere coraggio perché c’è una via d’uscita, ci può essere un lieto fine. E poi di farsi aiutare per evitare un crollo com’è successo a me: non tenetevi tutto dentro. E voglio anche dire una cosa da non fare». Cioè? «Lasciate perdere Internet. Rischiate solo di farvi del male se non siete aiutati a capire quello che leggete».

80


Non arrendersi. Mai!

Roberta Mariani La paura, le angosce, il dolore; ma senza mai perdere la stima per se stessa. «Mantenete la vostra dignità: non fate che il cancro abbia la meglio e ve la tolga. So che non è facile, ma evitate di piangervi addosso. Vi aiuterà a superare la malattia». A lanciare questo “appello” che è poi uno stile di vita, o meglio il modo con cui ha affrontato il tumore, è Roberta Mariani. 44 anni, di Lissone, in provincia di Monza e Brianza, impiegata in una multinazionale a Milano, ha scelto di fronteggiare con la giusta dose di amor proprio questo momento difficile. Tra alti e bassi, dolori e paure, ha però avuto il coraggio, è davvero il caso di dirlo in queste situazioni, di prendersi cura di se stessa e di non trascurare i particolari. Tutto è cominciato nel luglio 2011, mentre è in vacanza. «Stavo facendo la doccia e mi sono accorta che c’era qualcosa che non andava – ricorda Roberta – una pallina proprio sopra una costola, sotto il seno». Magari non è niente, ma… chiama immediatamente la madre per fissare un appuntamento presso un centro di prevenzione che già conosce a Monza. «Ero spaventata, non lo nascondo». La dottoressa che la visita nota l’anomalia e comincia a porre le classiche domande sulle abitudini di vita, sulla familiarità... finché salta fuori che Roberta ha fatto delle cure ormonali presso una clinica dell’infertilità. La manda, allora, a fare subito la mammografia e l’ecografia. Dalla prima non risulta nulla, il nodulo è sotto la mammella, quindi non visibile dalla mammografia, mentre l’esito della seconda è di un probabile fibroadenoma e il radiologo del centro analisi le propone di rivederla dopo sei mesi. «Il mio medico, però, mi consiglia vivamente di rifarla con un ra81


Non arrendersi. Mai!

diologo dell’ospedale: gli accertamenti di questo tipo, mi dice, è sempre meglio farli in ospedale. Vengo chiamata a ottobre e noto subito dall’espressione del medico che esegue l’esame che c’è qualcosa che non va: “Farei un ago aspirato, le prendo l’appuntamento per la settimana prossima”». La diagnosi è quella temuta: tumore maligno. «Non ho capito più niente, mi si è appannata la vista, non riuscivo a capire che si stava parlando di me: non avevo disturbi, ero stanca ma non mi sentivo male». Subito la scintigrafia ossea e l’intervento chirurgico. Viene tolto il nodulo e il linfonodo sentinella. «Ho affrontato serenamente l’intervento. Il chirurgo che mi ha operato mi ha dato fiducia. Mia zia, che lavora in ospedale, ha assisto in sala operatoria; mi sono sentita protetta e in buone mani. Sono rimasta in ospedale solo due giorni. Non ho sofferto ed ero felice perché pensavo fosse finita lì. Dell’intervento nessuna traccia: una piccolissima cicatrice sotto il solco del seno e quindi non visibile. Sì, mi avevano detto che avrei dovuto fare la radioterapia e probabilmente la cura ormonale per cinque anni, ma ero la stessa di prima e mi sentivo bene». Il dramma, però, arriva alla visita oncologica con il risultato dell’istologico del campione analizzato. La dottoressa le spiega che per quel tipo di tumore sono necessarie quattro sedute di chemioterapia a scopo preventivo, di un ciclo di 18 flebo di anticorpi, di una serie di 30 radioterapie e della necessità di indurre la menopausa farmacologica allo scopo di eliminare la produzione di estrogeni, principale causa dei tumori femminili. «Allora perderò i capelli?», chiede. «Sì». «Mia madre, che era con me, si è messa a piangere. Io, invece, mi sono isolata, non capivo niente. Ricordo sul mio braccio la mano del chirurgo che mi ha operata e che mi ha accompagnato alla visita con l’oncologa. Ho 82


Non arrendersi. Mai!

cercato di essere forte, ma ancora adesso, quando ne parlo, non riesco a essere del tutto lucida». Due giorni dopo avevo già la mia parrucca. E’ l’inizio di dicembre. Le chiedono se vuole passare con tranquillità le feste natalizie e accetta. Poi, però, decide che «prima è, meglio è» e a ridosso del Natale telefona all’Ospedale San Gerardo di Monza dando la disponibilità a cominciare subito. Il 2 gennaio è pronta per gli esami e il giorno dopo per la prima seduta. «E’ stata una giornata lunghissima: una mattina di colloqui con medici e infermieri e nel primo pomeriggio la chemio. Ero l’ultima. Il reparto era confortevole, le persone che erano lì per le cure sembravano serene e curate e gli infermieri molto gentili e disponibili, ma avevo paura. Mi hanno messo in una camera da sola. E’ arrivato il prete: si è subito accorto di avermi turbato e se n’è andato. Mi sono messa a piangere. Mi hanno spostato in un’altra sala per non lasciarmi sola, ma nel letto a fianco c’era una signora senza capelli. L’avevo scampata fino a quel momento, non avevo visto nessuno manifestare in qualche modo la malattia. L’infermiera che mi stava preparando ha capito il mio disagio e ha cercato di confortarmi, dicendomi: “La signora adesso sta bene, vedi che i capelli stanno cominciando a ricrescerle...”. Ma era una minima peluria, il suo viso era grigio e ho pensato: Chissà com’era prima, quando stava male!». La prima seduta va bene: pochi effetti collaterali, anche se dopo qualche giorno compaiono delle vesciche in bocca. Il trauma, come anticipato, arriva al quindicesimo giorno perché comincia a perdere i capelli. «Ricordo le ciocche che mi restavano in mano e la drastica decisione di tagliarli a zero. E’ stato un vero shock, anche se poi con la parrucca ho risolto questo disagio senza difficoltà». La cura prosegue e le altre sedute di chemioterapia hanno effetti più pe83


Non arrendersi. Mai!

santi. La terza è addirittura costretta a rimandarla a causa degli anticorpi troppo bassi. Le prescrivono una puntura di globuli bianchi che le provoca la febbre. La cosa si ripete alla quarta seduta. «Sono sempre stata golosa ma in quel periodo non riuscivo a mangiare molto e dal mio normale peso di 56 kg ero scesa a 49. Penso che non riuscirò più a mangiare quei cibi che mi hanno fatto stare male, perché avevo la nausea». Tra chemioterapie, punture, febbre e nausee Roberta ne è comunque venuta fuori. E’ stata dura? «Sì, ma ho sempre cercato di non darlo a vedere. Già il giorno dopo la terapia cercavo di uscire, di sforzarmi di essere normale e fare le cose di sempre, anche se non mi sentivo bene. Non mi sono mai fatta vedere da nessuno senza capelli: la parrucca è stato un ottimo investimento. Ero sempre in ordine e nessuno si è mai accorto di niente. E’ importante perché chi vede una donna senza capelli pensa subito alla malattia. Certo in casa me la toglievo ma mi sono comprata diversi foulard e cappellini colorati. Spesso di ritorno dagli esami mi fermavo in profumeria a prendere un rossetto, un trucco... Non ho mai voluto dare l’impressione di essere malata, sarebbe stato umiliante: volevo, al contrario, dare l’impressione di essere superiore a quello che mi stava accadendo. Ma non è stato facile». E’ un atteggiamento che consiglia? «Certo. E’ importante che le conseguenze delle terapie non ci tolgano la voglia di prenderci cura di noi. Non bisogna farsi prendere dalla pigrizia; è fondamentale aiutarsi con una parrucca, un abito nuovo. Magari divertirsi a giocare con il trucco. La psicologa che mi ha dato 84


Non arrendersi. Mai!

supporto in quel periodo e che mi segue tuttora, mi ha proposto di partecipare all’iniziativa di una associazione che aiuta le donne in terapia oncologica a prendersi cura di sé e con l’aiuto di un’estetista a rendere più piacevole la propria immagine usando i trucchi e i prodotti giusti. Partecipare mi ha fatto molto bene». Anche se gli ostacoli da superare sono tanti... «Mi bastava guardarmi allo specchio per ricordarmi quello che stavo vivendo. Nella fase più difficile, quando uscivo dalla doccia e mi vedevo così magra e senza capelli mi sentivo male. Ma mi vedevo solo io. Ricordo solo un episodio che mi ha creato imbarazzo, alla centratura della radioterapia, perché mi hanno fatto togliere la parrucca: non avevo niente da mettermi e non è stato facile farsi vedere così». Ha avuto paura di affrontare le cure? «Sì, avevo paura del dolore. Le infermiere mi avevano detto che durante la flebo della chemioterapia sarei dovuta rimanere immobile, per via del pericolo di fuoriuscita del farmaco, ed ero ovviamente spaventata. La flebo però non è dolorosa e gli effetti collaterali oggi si riescono a controllare meglio che in passato. Anche se non è una passeggiata». Ci sono stati momenti in cui ha creduto di non farcela? «Nel periodo della radioterapia. Alla fine di quei sei mesi ho avuto un crollo. La radioterapista ha intuito il mio forte disagio e ha provveduto a mettermi in contatto con la psicologa dell’ospedale che mi ha aiutato a superare quel momento e continua a darmi supporto. E’ stato molto importante il sostegno morale e materiale delle persone più care. La mia famiglia è stata sempre presente». 85


Non arrendersi. Mai!

Qualche aspetto positivo quest’esperienza l’ha lasciata? «La malattia non ha avuto, ovviamente, aspetti positivi. Posso solo dire che questa pausa forzata mi ha permesso di rallentare i ritmi, di concedermi più tempo per stare con la mia famiglia e vedere le cose sotto un altro aspetto». Ad esempio? «A osservare la vita in maniera diversa, ad affrontare i problemi uno alla volta, viziarmi un po’ e assaporare le cose di ogni giorno. Vorrei fare tante cose subito, cose che ho sempre rimandato. Pensiamo di essere onnipotenti, che le cose capitino sempre agli altri, poi in un attimo ci si accorge che ci siamo dentro e cambiano le prospettive, il futuro, il senso di ogni nostra fatica...».

86


Non arrendersi. Mai!

E. P. «Mi hanno aiutata la vicinanza di mia figlia, delle mie sorelle... ma devo riconoscere che il confronto con la psicologa mi è stato di grande aiuto. Se non avessi avuto il suo supporto, in certi momenti non so come sarebbe andata a finire. In quelle occasioni la mente va a pensare di tutto...».

Scoprire di essere ammalati di cancro e quasi non rendersene conto. O almeno non dare alla cosa il giusto peso. E non perché si è superficiali, frivoli o trascurati; ma solo perché la mente è occupata da qualcosa di peggiore o che ha la prevalenza in quel momento. E’ quello che è successo alla valtellinese E. P. nel settembre 2010. Fino a quel momento il suo corpo non aveva dato alcun segno di strano: nessun dolore, nessun nodulo. Qualche esame ogni tanto, ma senza essere assillante. Finché un giorno il suo medico le dice: «Ormai ha cinquant’anni, sarebbe bene fare un controllo». Il pap test è negativo. Passa alla mammografia. «Quando ho ritirato il referto – racconta – l’ho letto subito. E’ stato scioccante; ma quando ho aperto la busta non so nemmeno io se ho realizzato bene quanto mi accadeva in quel momento». Perché da un mese stava facendo dentro e fuori dall’ospedale: il suo compagno era in coma vegetativo a causa di un’emorragia celebrale e lei stava dedicando tutta la sua vita all’uomo di cui era profondamente innamorata. Al punto che quasi mette da parte il cancro, o perlomeno in secondo piano. «Nella mia testa c’era il caos totale», ricorda. Fa l’ago aspirato al seno e arriva la conferma. Ma lei pensa sempre 87


Non arrendersi. Mai!

prima al suo uomo e, in un certo senso, “delega” il cancro alla figlia e alle sorelle che le prendono un appuntamento all’Istituto oncologico europeo di Milano. «In quel momento volevo solo togliere il problema, completamente – assicura – perché avevo altro a cui pensare, a cui dedicarmi». L’operazione di mastectomia totale avviene a novembre. E’ solo in quel momento che comincia a focalizzare quanto le sta succedendo e quello che è già avvenuto: quando la mano non trova più il seno, quando si guarda allo specchio… «Allora mi sono accorta di quello che avevo perso. Mi sembrava che gli altri, tutti quelli che incontravo, guardassero solo lì. Non sopportavo quanti mi dicevano: “Oh, ti trovo bene”. Mi sembrava dovessero giustificare che bene non mi vedevano affatto: e, quindi, pensavo di essere cagionevole, di sembrare ammalata anche se ormai mi sentivo bene». Poi la terapia ormonale e oggi i controlli semestrali di routine. «Comunque sempre con una certa apprensione – ammette – Basta un valore fuori norma e si pensa subito al peggio. Diciamo la verità: non è mai finita anche se ti assicurano che ne sei venuta fuori». Come ha fatto a dirlo alle persone più care? «Ho voluto dirlo subito a mia figlia, che allora aveva 34 anni, perché so che altrimenti sarebbe stato peggio. L’ho, quindi, invitata ad andare insieme a mangiare una pizza e, prendendola un po’ alla larga, sono riuscita a raccontarle tutto; nello stesso tempo, però, ho cercato di rassicurarla sull’entità del tumore e sulle buone prospettive che mi avevano ventilato».

88


Non arrendersi. Mai!

E agli altri, sull’ambiente di lavoro? «Premetto che io non ho mai smesso di lavorare, a parte i momenti dell’intervento. Faccio l’operatrice socio-sanitaria e il mio lavoro mi piace ed è una delle cose più importanti della mia vita. Non ho mai pensato di starmene a casa: non posso fare a meno del mio lavoro. Al punto che quasi temevo che la malattia mi potesse impedire di farlo. A proposito di rapporti con gli altri, invece, devo dire che il cancro mi ha permesso di ritrovare amiche di infanzia che avevo perso di vista. Non so se c’è di mezzo la malattia, la compassione o che altro, però a me ha fatto piacere. In particolare un’amica: eravamo cresciute insieme e avevo saputo che era stata afflitta dal mio stesso problema. Appena ha saputo del mio tumore, mi ha chiamata, è venuta a trovarmi. E mi ha dato preziosi consigli. Insomma, un po’ di sana solidarietà tra ammalati non fa sicuramente male. Anzi... Certo, poi ci sono anche quelli che ti raccontano dell’amico, del parente, che ha avuto questo, che ha avuto quest’altro... ». Qual è stato il momento peggiore? «Quando ho letto l’esito dell’ago aspirato al seno che mi ha confermato il cancro. In quel momento ho perso un po’ del mio autocontrollo che ho sempre avuto e ho pianto. Mi sono detta: “Non c’è più niente da fare”. Ho davvero pensato al peggio. Mi sono venuti dei flashback, ho rivisto le persone che conoscevo, soprattutto del primo periodo del mio lavoro, quando mi occupavo di malati terminali... Ricordo che subito dopo sono andata in ufficio e la prima persona che ho incontrato mi ha chiesto “Come va?”; ho risposto “Malissimo”. Non sono riuscita a continuare a parlare e me ne sono andata. Sa, invece, qual è stato il momento migliore?». 89


Non arrendersi. Mai!

Me lo dica. «Può sembrare strano, ma è stato quando mi hanno detto che dopo l’operazione la mia malattia era compatibile con una terapia ormonale. Il che, sotto l’aspetto clinico, non sempre è meglio o un segnale di malattia meno grave. Solo che avevo il terrore di chemioterapia e radioterapia e se mi avessero consigliato uno di questi trattamenti avrei sicuramente ipotizzato il peggio. E ho davvero pensato che con una pastiglia la situazione fosse maggiormente sotto controllo e comunque ho potuto continuare a lavorare». Cosa l’ha aiutata nei momenti difficili? «Sicuramente la vicinanza di mia figlia, delle mie sorelle... ma devo riconoscere che il confronto con la psicologa mi è stato di grande aiuto. Se non avessi avuto il suo supporto, in certi momenti non so come sarebbe andata a finire. In quelle occasioni la mente va a pensare di tutto... Potermi raccontare, scaricare sulla psicologa quello che non riuscivo a dire a nessuno, nemmeno a mia figlia con la quale peraltro ho sempre avuto un ottimo rapporto confidenziale, è stato davvero fondamentale. Anche la terapia di gruppo mi è stata utile. Lì ti rendi conto di come quello che tu vivi non è molto differente da quello che stanno passando le altre donne: i tuoi interrogativi, le tue ansie, le tue paure sono anche le loro. Nella testa hai tante domande e da sola non riesci a trovare le risposte. Ecco perché è fondamentale farsi aiutare da un esperto, da uno psicologo che conosca questo tipo di situazioni. Ci sono cose difficili da esprimere, che non puoi e non vuoi dire a chiunque, a volte nemmeno ai tuoi cari: deve essere qualcuno che sia innanzitutto in grado di riceverle e magari anche capace di tirartele fuori».

90


Non arrendersi. Mai!

E adesso come va? «Bene... Benino. Una parte di te non c’è più... Sì, è vero che oggi ricostruiscono, però l’amputazione c’è stata e c’è il problema di accettarsi, di guardarsi allo specchio, perché comunque non sei più come prima». Cosa consiglierebbe a chi scopre di avere il cancro? «Innanzitutto di farsi aiutare. Ma non andando su internet a cercare chissà quali informazioni come ha fatto anche mia figlia. Lì trovi di tutto, ma poco che ti possa davvero dare una mano; anzi, rischi di peggiorare la situazione. Quando ti trovi davanti a questo problema, hai paura, ma non riesci a tirarlo fuori. Ecco perché è necessario incontrare qualcuno, penso appunto a uno psicologo, che aiuti a non chiudersi in se stesse. E’ anche quello che poi mi ha permesso di essere più forte».

91


Non arrendersi. Mai!

Severina Villa «Questa roba ce l’abbiamo, ce la teniamo e impariamo a gestirla nel migliore dei modi e con il sorriso sulle labbra».

«Ad Angela che non ce l’ha fatta. A tutte le donne che ce la faranno! A tutti quelli che mi sono stati vicino con le parole e quelli che l’hanno fatto con il silenzio». Comincia con queste dediche il racconto di Severina Villa, 52enne della Brianza lecchese, una sorta di diario che le ha consentito di affrontare la malattia. «Scrivere mi ha aiutato a venirne fuori», è la prima cosa che mi dice quando la incontro. E mi dà tra le mani “Risentirò il profumo delle mie rose”, una sessantina di pagine dattiloscritte in formato A4 ben rilegate, con in copertina un roseto. Dove spiega come «narrare ciò che ho incontrato sulla mia strada è stato anche un vezzo che mi sono concessa per farmi compagnia; un passatempo per coccolarmi e rielaborare i miei pensieri più intimi. Con il passare del tempo ogni scena registrata nella mia mente, poi scritta e descritta, è divenuta un unguento balsamico, uno strumento utile a lenire, curare e attutire tutte le mie emozioni e i miei turbamenti». Tutto comincia con una telefonata che la invita a recarsi in ospedale per ulteriori accertamenti sugli esami clinici effettuati. La dottoressa «antipatica» che la riceve non è di molte parole: «Signora, è un nodulo malato… E’ da togliere». Severina prende subito coscienza di quanto sta accadendo. «Un serpente velenoso è entrato nel mio corpo - racconta nel suo scritto - ed io devo iniziare ad affilare i miei artigli e battermi contro di lui; sarà una lunga ed estenuante lotta che mi vedrà (spero!) vincitrice sul trono». 92


Non arrendersi. Mai!

La prima vera presa di coscienza è in ospedale, pronta per l’intervento chirurgico. In stanza si ritrova con una donna ansiosa e depressa che ripete continuamente, come una litania, «Perché proprio a noi?». Una nenia che diventa insopportabile e a cui reagisce duramente. «Adesso la pianti di continuare a ripetere perché proprio a noi? Non capisco cosa vuoi dire», le dice. E fa questa riflessione: «Più ci pensavo, più trovavo che io non ce l’avrei mai fatta ad attribuire ad altre donne questa sfiga. E poi a chi? A un’amica? A una collega? Alla proprietaria del negozietto vicino a casa? Alla commessa del supermercato? A un’insegnante dei miei figli? No! Non ci riuscivo proprio ad essere così narcisista ed egocentrica… Le dico “Smettila! E’ successo a noi perché doveva andare così! Non c’è un motivo preciso! Questa roba ce l’abbiamo, ce la teniamo e impariamo a gestirla nel migliore dei modi e con il sorriso sulle labbra”». Il cancro la costringe a un duplice intervento chirurgico. Il secondo è inaspettato: devono togliere i linfonodi ascellari intaccati dalla malattia. Glielo annunciano mentre è insieme al marito; ed è lei che lo consola: «Tranquillo, papi… Se stiamo uniti come sempre, ce la facciamo anche quest’altra volta…». Al secondo ricovero conosce un’altra donna nella sua stessa situazione. Se la prima era depressa, «questa volta si tratta di una coetanea – scrive – e intuisco, da subito, che il suo comportamento, in psicologia, verrebbe definito di negazione. Praticamente non ha raccontato a nessuno che doveva entrare in ospedale». Due donne diverse, ma, come racconta Severina, che le hanno dato molto. «Io non so cosa ho dato loro. Ma lo scambio del numero di cellulare è inevitabile quando ci si sente accomunate dal destino e dalla curiosità femminile “di spiarsi” a vicenda, per condividere i percorsi successivi e farsi reciproca forza. 93


Non arrendersi. Mai!

E anche questa medicina, chiamata solidarietà, è qualcosa che fa star bene. Nell’attesa della prognosi. Nell’attesa che l’alba di un nuovo giorno porti buone notizie». Quando rientra a casa, scopre che le migliori medicine che l’aiuteranno a guarire sono fondamentalmente due: quelle che lei definisce un “grasso strato di incoscienza” e che prende immediatamente appena alzata dal letto la mattina, e un “sano egoismo” che assume subito dopo colazione. «Con il “grasso strato di incoscienza” camuffavo il tutto – racconta nel suo libro – fingendo di non essere malata, ma di aver vinto alla lotteria “una bella pausa di riflessione”. Una pausa tutta per me, senza condizionamenti e interferenze altrui. Aggiungere allo “strato di incoscienza” una bella pillola di “sano egoismo” aumentava gli effetti curativi e il mix esplosivo che si creava mi consentiva praticamente di fare quello che volevo, da mane a sera, infischiandomene beatamente di tutti quelli che mi circondavano e dell’universo mondo». E’ anche “fortunata”: tra le terapie che deve seguire non c’è la chemio e, quindi, non perde i capelli. Questo le consente di “proteggere” la famiglia, di non dover coinvolgere fino in fondo i figli. Ma la malattia la “costringe” a rivedere le relazioni con gli altri. «La malattia – continua – mi ha aperto gli occhi anche sui rapporti interpersonali permettendomi di fare una classificazione e una cernita delle persone e delle amicizie… ti aiuta a fare una pulizia mentale, una selezione tra le persone vere e autentiche, che non ti lasciano neanche nel momento del bisogno, e quelle insulse». C’è comunque la radioterapia, 33 sedute. Colpisce, però, come nel suo racconto parli più degli altri che della sua cura: delle infermiere che lavorano in un sotterraneo, «salvano la vita degli altri e non vedono la luce del sole fino a quando non finisce il loro turno di lavoro», piutto94


Non arrendersi. Mai!

sto che della portinaia che l’accoglie sempre con la solita litania della mancanza di posti di parcheggio. Altrettanto significativa è la fede di Severina che contraddistingue tutta la sua storia, nel bene e nel male: quando si affida a Dio, ma anche quando, di fronte alla morte, soprattutto a quella di una bimba, si ribella e non trova una spiegazione. Eloquente, a questo proposito, è la poesia che legge ogni giorno sulla bacheca della chiesina dell’ospedale dopo la radioterapia: «Prima di mandarti la croce che stai portando, Dio l’ha guardata con i suoi occhi sapienti, l’ha controllata con la sua infinita giustizia, l’ha riscaldata sul suo cuore pieno d’amore, l’ha pesata bene con le sue mani affettuose, affinché non accadesse che fosse più pesante di quanto tu non possa sopportare. E dopo aver valutato il tuo coraggio, l’ha benedetta e l’ha appoggiata sulle tue spalle: puoi portarla! Tienila forte e sali il Golgota verso la resurrezione». Sarebbe bello che altre donne malate leggessero la storia di Severina. Soprattutto per l’ironia con cui ha saputo affrontare la malattia. Eccovene una prova, l’inizio del capitolo sulla radioterapia. «Sono seduta davanti alla dottoressa che mi chiede, sorridendo, se acconsento ad andare da loro per abbronzarmi… Le rispondo che l’unico posto dove non avevo mai preso il sole era sulle tette, perché ho sempre bandito il topless. Ora capisco, però, che non ne posso fare a meno e, con un guizzo di sana modernità, firmo per accedere alla loro “beauty farm”. In realtà la cosa mi fa ridere perché il servizio è previsto solo al 50%, ovvero una tetta sì e l’altra no. E’ davvero uno strano ma necessario salone di bellezza!». E val la pena concludere con il racconto del suo incontro con la moglie di un conoscente suicidatosi all’improvviso pochi giorni prima. «Mentre mi saluta – scrive Severina – mi dice ancora sorridendo: “Comun95


Non arrendersi. Mai!

que, non posso lamentarmi… penso che c’è chi sta peggio di me”. Non so chi potrebbe stare peggio di lei che è stata lasciata da un marito da un giorno all’altro e chissà, forse senza spiegazioni… Ma penso che per affrontare la vita ed essere sereni bisognerebbe prendere esempio da lei e saper vedere “ il bicchiere sempre mezzo pieno”. Mai mezzo vuoto». Ricordiamocelo!

96


Non arrendersi. Mai!

Elisa Bonaccorsi «E’ un’esperienza che ti fa rendere conto di come le cose importanti siano altre...».

Perché non a me, invece che a lui? E’ la domanda che probabilmente ogni madre si pone quando scopre che suo figlio ha una grave malattia. E se l’è posta anche Elisa Bonaccorsi, 35enne di Bormio (So), il giorno in cui ha scoperto che il suo piccolo Pietro era stato colpito dalla leucemia. Tutto comincia nel giugno 2011, dopo la festa di fine anno scolastico: il bimbo aveva 7 anni. “Ci siamo accorti che non stava bene, ma sembrava un malessere passeggero e Pietro è partito con la nonna per una vacanza al mare – racconta la mamma – Anche lì, però, il bambino non era in forma e la nonna l’ha portato dal pediatra, ma senza esito». Tornato a casa, la situazione precipita. «Dopo due giorni siamo andati dal medico che gli ha prescritto un esame del sangue – continua Elisa – Lui però non stava in piedi per il mal di schiena e allora l’ho portato al pronto soccorso dell’Ospedale di Sondalo. Gli esami del sangue segnalavano la presenza di un’infezione e ci hanno consigliato di portarlo a Sondrio dove il bambino è rimasto ricoverato per una settimana». I valori ematologici sono altalenanti e i medici non scoprono nulla. «Ci consigliano di tornare di lì a una settimana per ripetere gli esami vedendo nel frattempo come il bambino reagisce oppure di rivolgerci a una struttura più qualificata come l’Ospedale San Gerardo di Monza». Elisa e suo marito Daniele non ci pensano due volte e decidono di portare Pietro a Monza. Alle 8 di un venerdì mattina eseguono il prelievo di midollo e a mezzogiorno il piccolo subisce subito il pri97


Non arrendersi. Mai!

mo trattamento chemioterapico. Dopo mezz’ora dal prelievo sanno già cos’ha colpito Pietro: leucemia acuta B matura. «E’ stata dura – ricorda mentre gli occhi le si inumidiscono per le lacrime – Non ce l’aspettavamo che stesse così male... ». A dirglielo è il dottor Momcilo Jankovic, responsabile dell’unità operativa di Ematologia pediatrica del San Gerardo. «La persona migliore che ci potesse capitare in quel momento», sussurra Elisa; ma il colpo è forte lo stesso. «E’ inutile nasconderlo: in quel momento ho pensato al peggio. E mi sono chiesta: “Perché non a me?”». Lì è cominciato il loro calvario che per fortuna si è concluso bene. In ospedale Pietro resta 45 giorni di fila, la maggior parte passati in una camera sterile. Le dosi di chemioterapia a cui viene sottoposto sono molto pesanti: tra un ciclo e l’altro dovrebbero passare nove giorni, ma a volte ne servono di più perché Pietro possa recuperare per affrontarli. Le conseguenze sul fisico del piccolo si fanno evidenti, dalla perdita dei capelli a una pesante mucosite alla bocca e all’apparato digerente. Il dolore è molto forte: tra il primo e il secondo blocco di cure è necessario somministrare a Pietro anche la morfina. «In ospedale ha perso più di 5 kg – prosegue la mamma - è entrato che pesava 30 kg ed è uscito che non raggiungeva i 25». Il bambino non può mangiare e il nutrimento gli viene somministrato via parenterale, direttamente per via venosa. All’uscita dall’ospedale le cure devono continuare ed Elisa e Pietro restano a Monza, ospiti di una cugina. «Saremmo potuti rimanere nel Residence a fianco dell’Ospedale, ma abbiamo preferito questa soluzione perché pensavamo potesse sentirsi meglio e cercavamo di fargli fare tutto quello che si poteva: quante passeggiate abbiamo fatto nel Parco della Villa Reale...». La cura a Monza si è conclusa dopo quasi sei mesi: l’8 luglio veniva dia98


Non arrendersi. Mai!

gnosticata a Pietro la leucemia e tornava a Bormio alla fine di novembre. Al suo fianco è sempre rimasta Elisa, nonostante a casa ci fossero anche i piccoli Tommaso e Lorenzo che richiedevano la presenza della mamma. «Adesso Pietro sta bene. Non sono ancora passati i canonici cinque anni che i medici indicano come necessari per dichiararlo completamente fuori pericolo di una recidiva, ma per noi è guarito. Anche se non nascondo che quando si avvicinano i giorni del controllo periodico un po’ d’ansia mi viene». E’ stata dura? «Sì, anche perché a casa c’erano due fratellini, Lorenzo di 5 anni e Tommaso di 2. Il più piccolo non s’è accorto di nulla, ma Lorenzo sì. Mia mamma mi raccontava che non voleva più andare dagli amici che lo invitavano: voleva solo starsene a casa sua. Comunque, il momento più duro è stato quando Pietro mi ha chiesto: “Perché mi sono ammalato io e non Lorenzo?” Sono rimasta sbalordita e mi sono rivolta alla psicologa che mi ha spiegato come fosse una reazione normale in un bambino come lui». Pietro, appunto, come ha vissuto la malattia? «Era arrabbiato con il mondo. Sopportava solo il dottor Jankovic: con gli altri poteva avere anche reazioni molto dure, si rivolgeva loro con parolacce, lanciava anche calci. Il cortisone gli provocava continui sbalzi di umore. A volte trattava male anche me... Poi però mi portava un regalino, per farsi perdonare. Erano i momenti più toccanti». Cos’aveva capito? «Per fortuna era ancora piccolo e non ha mai percepito che si potesse 99


Non arrendersi. Mai!

trattare di una malattia mortale. L’ha capito successivamente, quando altri bambini che ha conosciuto in ospedale non ce l’hanno fatta... Oggi, comunque, è ormai tornato alla completa normalità: ha dimenticato l’esperienza del dolore e non fa mai riferimento al periodo in cui era stato necessario l’uso della morfina. Si ricorda che era ammalato, ma rievoca quel periodo più come un’impresa: forse perché noi gli dicevamo sempre che era forte». Chissà quanto l’ha coccolato in quel periodo! «Devo riconoscerlo: in quel periodo l’ho straviziato. E come non potevo? Adesso sto comunque recuperando». E papà Daniele come ha reagito? «All’inizio è stato molto difficile per lui: quando veniva a Monza piangeva e faceva fatica a stare con Pietro da solo. Non facevo in tempo ad assentarmi per fare una salto a casa che mi telefonava. E non era da lui. Senza dirglielo sono andata dalla psicologa e mi ha spiegato che a volte succedeva: gli uomini più sensibili in questi casi possono essere più deboli. Mi aveva, però, assicurato che quando io sarei stata stanca, lui mi avrebbe sostenuto. E così è stato». Quale influenza ha avuto la malattia di Pietro sulla vostra relazione? «Io e Daniele siamo usciti ancora più uniti e non era facile: ho visto più di una famiglia sfasciarsi, soprattutto quando il figlio non ce l’ha fatta». E gli altri che reazione hanno avuto? «Noi siamo stati fortunati. Tutti ci sono stati vicini e ci hanno dato una mano anche senza chiedere nulla: mia mamma si è trasferita a 100


Non arrendersi. Mai!

casa mia, mia suocera mi ha aiutato in mille modi. Però voglio ricordare anche mio papà: è un vero e proprio omone che mi dà una mano nell’albergo che gestiamo insieme. I clienti mi hanno poi raccontato di quell’estate e di come si mettesse a piangere come un bambino quando gli chiedevano di Pietro. Gli zii sono stati sempre presenti: compatibilmente con il lavoro e la lontananza venivano sempre a trovare Pietro. Stefano, il fratello più grande di Daniele, lavora a Milano e durante la malattia ha azzerato tutta la sua vita post lavoro e ha pensato solo a Pietro. Tutti hanno fatto i salti mortali per il mio piccolo grande campione. Devo ringraziare veramente tutti». Quale bilancio può tracciare da questa esperienza? «Allora l’ho vissuta come una tragedia; oggi mi accorgo che mi ha cambiato la vita, ma in positivo. Ho preso una segretaria che mi aiuta nella gestione dell’attività e io ho più tempo per stare con i miei figli. E’ un’esperienza che ti fa rendere conto di come le cose importanti siano altre...».

101


Non arrendersi. Mai!

Daniela Gurini Essendo una giornalista, ha deciso di raccontarsi da sola. «Ho ancora impresso nella mente quel lungo giorno di chiamate ininterrotte in clinica a Milano per conoscere il referto tanto atteso». Non sai quando bussa alla tua porta. Magari proprio in uno dei momenti più felici della tua vita, appena sposata e con tanti progetti e idee da concretizzare: uno su tutti metter su famiglia. Ed è proprio lì che ti colpisce. La mia storia è datata luglio 2010, neanche tre mesi esatti dalla data del matrimonio: un viaggio di nozze in Messico, la “nuova” vita a due che entrambi auspichiamo possa diventare ben presto a tre. Nel bel mezzo della notte mi sveglio di soprassalto per un dolore lancinante al lato destro della pancia, mai provato prima, che non si affievolisce ma anzi aumenta; e, ben consapevole di non essere proprio una piatola (espressione dialettale che significa “una che si lamenta per niente”) capisco che si tratta di qualcosa di grave. Forse appendicite, mi son detta; e quindi, dopo il primo responso del pronto soccorso che non mi aveva convinta per niente, vado a farmi visitare dal mio medico curante. Il dolore nel frattempo, anche grazie agli antidolorifici, era praticamente sparito; ma è bastata la faccia del medico per farlo ricomparire. E’ grazie alla sua ecografia che sono andata d’urgenza, bollino rosso, all’ospedale. «Vai subito – mi aveva detto – e portati qualcosa perché ti tratterranno sicuramente. C’è una massa». Io, che in un primo momento avevo pensato all’appendicite, di certo non ipotizzo un tumore. Il male è passato, ma mi fanno un’altra ecografia e mi ricoverano. Un giorno di esami e poi, quasi quasi, personalmente vorrei andarmene a 102


Non arrendersi. Mai!

casa dato che si avvicina il weekend ed il male è sparito. Ma qualcosa mi trattiene e, di notte, il dolore torna, intenso e insopportabile. Vengo operata d’urgenza e mi viene asportato un “regalino” scomodo, ovvero un cistoma di ben 560 grammi di peso, di una lunghezza di 14 cm: un essere mostruoso che si era impossessato della mia pancia. Mai avuto un dolore, mai un sintomo e, anche in quel momento, la parola “tumore” - o meglio, nel mio caso, adenocarcinoma mucinoso - è ancora lontana. Beata ignoranza... Ma poi lo scopri e, come molti ancor oggi fanno, appena ti viene diagnosticato lo associ alla chemioterapia e alla morte. Nulla di più sbagliato. Di cancro si può guarire, eccome. Dopo l’annessiectomia destra, con asportazione dell’ovaio, sono stata all’ospedale una decina di giorni per tutti gli esami e approfondimenti del caso, per “prepararmi” alla visita e al ricovero all’Istituto tumori di Milano. Giorni e nottate lunghe, soprattutto per una persona che all’ospedale non ci aveva mai messo piede fino a quel momento, giorni di preghiere e pensieri. Tanti. Chissà come avrebbero reagito i parenti, gli amici. Chissà fino a quando sarei stata in grado di essere “autonoma” prima che la malattia avesse avuto il sopravvento. E mio marito? Dopo soli tre mesi di matrimonio si ritrovava con un “fardello” incredibile. Le prime ripercussioni della notizia della malattia le ho notate in reparto. Un esempio su tutti: la donna delle pulizie, che fino al mattino precedente scambiava come me qualche parola, all’indomani del responso entrò nella mia camera a testa bassa, spazzò il pavimento senza quasi guardarmi e se ne andò. “Avrà saputo”- mi son detta. Del resto, in una realtà piccola come quella dell’Alta Valtellina, di tumori del genere non se ne erano quasi mai visti. Pochi casi; me lo confermò una sera anche un’infermiera che mi aveva subito conquistata per pro103


Non arrendersi. Mai!

fessionalità ma anche schiettezza, una che sembrava non avesse paura a parlare di “dolore”. Poi scoprii le sue vicissitudini di salute e a quel punto mi son detta: “Se ce l’ha fatta lei”. E così ho iniziato a cambiare atteggiamento. Tornata dall’ospedale, dopo una ventina di giorni a casa in attesa che si rimarginasse la ferita, ho deciso di riprendere subito il lavoro. Tranne che con i più intimi, con gli altri ho fatto finta di niente; quello che era successo era stata “solo” una piccola parentesi. Ed invece attendevo la chiamata per il ricovero all’Istituto tumori; ma tanto valeva starmene a casa mogia mogia ad aspettare. Il telefono squillò alle 12.45 del 9 settembre 2010. Non avevo tanto tempo per decidere e, in un primo momento, fui quasi tentata di dire… “rinviamo”. Stavo bene e, una settimana dopo, avrei dovuto fare da testimone a un matrimonio. Poi, pensando che fosse “solo” una laparoscopia, come mi era stato prospettato inizialmente, feci una telefonata a mio marito e ai miei genitori e poi dissi: “Va bene, ci sarò” - tanto, pensavo, probabilmente potrò andare ugualmente alle nozze senza sottopormi a troppi strapazzi e poi chissà quanto dovrò aspettare per un’altra chiamata -. Ma non andò proprio così. Primo obbiettivo: preservare l’utero per un’eventuale - e tanto desiderata - gravidanza. Questo quanto ho ripetuto più volte nel firmare le sette (o forse erano di più) pagine informative e di consenso sull’intervento. Certo, se le leggi tutte fino in fondo, non puoi che spaventarti. Può succederti questo, quell’altro, ecco l’effetto collaterale che arriva, l’asportazione di uno o più parti di organi come se non servissero. Occorreva fare una pulizia profonda per evitare che qualche cellula tumorale, magari ancora “in giro”, si diffondesse a macchia d’olio. Dai tre “buchini” della laparoscopia, mi sono ritrovata un taglio verticale di circa 20 centimetri, l’asportazione di qualche “pezzo” qua e là, un’e104


Non arrendersi. Mai!

morragia interna di assoluto rispetto e un recupero un po’ più lento del previsto. La mia prima fortuna, però, è stato il non dovermi sottoporre ad alcuna seduta di chemioterapia. Tutto negativo. Ho ancora impresso nella mente quel lungo giorno di chiamate ininterrotte in clinica a Milano per conoscere il referto tanto atteso. Una volta il medico non c’era, l’altro non era autorizzato a rispondere telefonicamente, poi stava operando ed io lì, sul divano di casa, impietrita ad attendere quel responso. Ho dovuto passare un’altra notte insonne per riuscire, all’indomani, a conoscere la risposta: “Per lei, signora, nessuna terapia, deve solo guarire dall’intervento”. I mesi successivi sono stati densi di controlli: ogni volta l’ansia, la preghiera, il prepararsi psicologicamente al peggio, il nervosismo dei giorni precedenti, anche un referto un po’ sballato (per poi scoprire che c’era stato un errore, per mia fortuna), ma dopo la tempesta è arrivata la quiete. Faticosa da conquistare ma è arrivata e quindi, forse, ancor più bella e significativa. Definirla quiete, però, non è certamente esatto. Si chiama Valentina ed è nata il 22 ottobre 2012 contro alcuni pronostici negativi dei medici: una bimba vivace, allegra e solare. La ricompensa più grande e più alta dopo un periodo buio, un dono del cielo per il quale, probabilmente, alle volte dimentico di ringraziare Chi, da lassù, mi ha aiutato a concretizzare questo sogno. E così, il tumore, te lo lasci alle spalle. Ora ci sono il presente ed il futuro mio e della mia famiglia. Quanto ha contato l’atteggiamento nell’affrontare la malattia? «Secondo me tantissimo. Il non lasciarsi andare, il guardare gli altri e pensare “c’è chi sta peggio” hanno rappresentato una forte motivazione. Certo, i momenti di sconforto e paura ci sono stati, un pensiero 105


Non arrendersi. Mai!

assillante soprattutto la notte (dato che ho sempre dormito - e dormo tuttora - pochissimo) sul come sarà mi ha accompagnato incessantemente ma, di giorno, il non far pesare la mia situazione ha giovato molto a me e a chi mi stava accanto». Cosa le ha lasciato quest’esperienza? «Tante testimonianze di vicinanza e di affetto inaspettate. Di fronte a una notizia del genere non sai mai come reagiscono le persone. Io ho visto qualche amico parlarmi e venirmi a trovare con estrema difficoltà, centellinando le parole. Non colpevolizzo nessuno: si tratta di carattere, del non riuscire a “guardare oltre” la malattia. Al contrario ho scoperto persone che pensavo “distanti” avvicinarsi a me con delicatezza e sensibilità». Ha qualche consiglio da offrire? «Innanzitutto non associare mai la parola cancro alla morte. E’ vero, muoiono in tanti. Ma altrettanti si salvano e quindi non bisogna trattarli come persone in fin di vita dall’inizio. Fa male allo spirito e fa male alla guarigione. Poi, in molti casi, consiglio di non basarsi solo sul primo referto, non aver paura a contattare altri medici. Non lo dico per scarsa fiducia nei confronti di alcuno ma come quando - lo dico alle donne - per comprare un paio di scarpe ne provi almeno tre, consiglierei di fare lo stesso, se c’è la possibilità».

106


Non arrendersi. Mai!

Per una buona lettura o visione Libri e film che parlano di cancro Il tema della malattia, e del cancro in particolare, è stato spesso al centro di opere letterarie e cinematografiche. Libri e film che raccontano, spesso con la voce di chi l’ha vissuta, a volte di chi ce l’ha fatta e a volte no, un’esperienza drammatica che può essere di riflessione per molti e in qualche caso di conforto a chi la sta affrontando. Di seguito, eccone un elenco: per i libri vi proponiamo alcune indicazioni fornite dagli autori o dalle case editrici, mentre per i film vi rimandiamo ai rispettivi trailers che troverete facilmente su internet. A voi la scelta di leggere o guardare, se ritenete che possa esservi utile.

Libri Vivere: ho avuto il cancro e sono guarita, di Eva-Maria Sanders, TEA, 2001. Una donna felice, sposata, con due bambini e professionalmente realizzata, Eva-Maria Sanders, conduce una vita serena e protetta. Decisa a difendere la sua perfetta vita, ignora i messaggi che il corpo le manda, ma quando le viene diagnosticato un tumore al seno che le lascia poche settimane reagisce con la forza dell’attaccamento alla vita e ai suoi affetti. In queste pagine l’autrice racconta come, a poco a poco, abbia preso le distanze dalla medicina tradizionale che non aveva saputo aiutarla, come abbia trovato la via dell’auto-guarigione, come abbia imparato a vedere nella malattia una grande opportunità. 107


Non arrendersi. Mai!

Perché ho messo il rossetto il giorno della mia mastectomia, di Geralyn Lucas, TEA, 2006. «L’unica cosa a cui riesco a pensare è che in qualche modo devo essere me stessa in questa camera sterile, durante questa operazione che mi è stata imposta. Devo ricordare a tutti che non sono semplicemente un’altra mastectomia, lato destro, sul tavolo operatorio. Devo lasciare una traccia che dica che anche io sono stata qui, non solo la mia tetta. Non sopporto l’idea di passare inosservata in un momento tanto importante della mia vita, di sentirmi trasparente come mi avevano fatto sentire tutti quei medici quando mi era stata diagnosticata la malattia. E’ a questo punto che mi viene in mente il rossetto. Ormai è un’abitudine, lo porto sempre con me. Quando l’infermiera mi chiama, penso a quei condannati a morte che, in marcia verso il patibolo, trovano un gesto di sfida per mostrarsi al di sopra della situazione. Anche sotto anestesia, anche quando il mio seno verrà sistemato con cura nel Tupperware del gabinetto di patologia, potrò comunque sentirmi attraente». Geralyn Lucas, ha appena passato l’esame da giornalista e conquistato il lavoro dei suoi sogni, quando le viene diagnosticato un tumore al seno. Cadere nella disperazione è inevitabile. Anche perché ci sono troppe questioni che nessuno vuole discutere con lei, nemmeno il marito che è medico: come sarà la mia vita dopo la cura? Sarò ancora attraente? Potrò avere dei bambini? Ma la questione più urgente è la sopravvivenza. Ho il cancro e non ho l’abito adatto, di Cristina Piga, Ugo Mursia Editore, 2007. Lei è una donna di quarantacinque anni, portati niente male. Vita normale, marito, due figli, un lavoro nella pubblica amministrazione. Lui 108


Non arrendersi. Mai!

è un “bastardo” carcinoma infiltrante. Al colon. Lei lo scopre un giorno d’estate che sembra uguale a tanti altri e che invece è l’inizio di un viaggio che nessuno vorrebbe mai fare, ma se ti capita allora è meglio affrontarlo come la protagonista di questa storia: con ironia, con uno sguardo dissacrante, con una incrollabile voglia di vivere. Questo è il diario di un’estate insolita e di una malattia raccontata con una capacità decisamente fuori dal comune di coglierne gli aspetti tragici e comici: le crude descrizioni delle terapie e le parole inadatte degli altri, gli imbarazzi dei colleghi e il legame con i medici, le amicizie perse e quelle trovate, la banalità del quotidiano - come i vestiti che non ti vanno più - e le paure. Dolce e amara, commovente e divertente è la storia vera di una donna che ha sconfitto il cancro senza rinunciare a essere sempre, in ogni momento, se stessa. A parte il cancro tutto bene. Io e la mia famiglia contro il male, di Corrado Sannucci, Mondadori, 2008. «C’è un breve silenzio fra noi, il primario è consapevole dell’annuncio che mi ha dato. Sono stordito dalle ondate di uno choc emotivo totale. Un mieloma multiplo. Siamo a dicembre, arriverò fino a marzo? Riuscirò a sistemare le cose di famiglia in questi pochi mesi? Devo avvertire il giornale che questa sera non potrò essere all’Olimpico per Roma - Valencia. Mia moglie deve trovare un lavoro, dovrò aiutarla in questi giorni. Finisce così improvvisamente la vita, senza mai un avvertimento o un segnale di allarme? Finisce quando siamo così giovani?». Corrado Sannucci racconta con questo libro, in modo doloroso e toccante, la sua lunga battaglia contro il mieloma multiplo: la scoperta della malattia, la decisione di affrontarla, quasi come fosse una sfida, 109


Non arrendersi. Mai!

la vita quotidiana stravolta in ogni più piccolo dettaglio, le cure, gli ospedali, i medici. Mani sul mio corpo. Diario di una malata di cancro, di Luciana Coèn, Il Punto d’Incontro, 2008. Il diario di una malattia non “combattuta”, ma vissuta quasi come un viaggio all’interno del corpo, che cambia e fa cambiare l’immagine di sé, come momento della vita in cui riflettere e ricostruire, come un cammino nella consapevolezza, verso l’accettazione della malattia come parte di sé. Alla fine del percorso la propria esistenza ne esce ridefinita, con i limiti che la malattia e la cura impongono, ma con la certezza e il desiderio che la vita continui. Un viaggio all’interno della sanità vista dalla parte dei malati, nello stesso ambiente di lavoro in cui l’autrice opera, osservato con occhio critico, lucido e talvolta impietoso, che rivela quanto sia importante ascoltare e credere al malato, rispettare la sua autonomia decisionale per facilitarne il processo di guarigione. Scrivere diventa un modo di reagire all’evento-malattia che improvvisamente piomba nella propria quotidianità: giorno dopo giorno razionalità ed emotività si alternano, domande e tentativi di risposte prendono forma. Un diario per ricostruire il senso della propria esistenza e un dono per gli altri, per testimoniare che la vita, nonostante la malattia, è ancora vita, e continua. L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore, di Randy Pausch, editrice Rizzoli 2008. Nell’agosto 2007, il professor Randy Pausch ha saputo che il cancro contro il quale combatteva era incurabile e che gli restavano pochi mesi di vita. Ha scelto di lasciare subito il suo lavoro all’università per 110


Non arrendersi. Mai!

stare vicino alla moglie Jai e ai loro bambini. Prima, però, il 18 settembre 2007, ha tenuto davanti a 400 studenti e colleghi la sua “ultima lezione”, intitolata “Realizzare davvero i sogni dell’infanzia”. Con ironia, fermezza e coraggio, ha ripercorso le tappe della sua esperienza, e il suo discorso è una testimonianza toccante e profonda di una vita resa straordinaria dall’intensità con la quale è stata vissuta. Da quel giorno, milioni di persone hanno visto su internet l’ultima lezione di Randy Pausch. Quel testo, ampliato e arricchito, è diventato un libro capace di parlare al cuore di ciascun individuo. Pausch non vuole rivelare il senso della vita; più modestamente, mostra perché vale la pena vivere. La ragazza dalle 9 parrucche, di Van der Stap Sophie, Editore Bompiani 2008. Amsterdam, 2005: Sophie ha 21 anni quando le viene diagnosticato un cancro al polmone, un cancro raro e aggressivo. La cura: un intero anno di chemioterapia e radioterapia. Per affrontare la situazione, Sophie decide di tenere un diario, in cui annota ansie, paure, sofferenze ma anche (o soprattutto) piccole gioie, il calore della famiglia e degli amici... In particolare, però, decide di sfruttare le potenzialità di un supporto essenziale: le parrucche, oggetti che da principio la disgustano e la spaventano, ma che in poco tempo diventano alleati irrinunciabili. Se la caduta dei capelli si è portata via la sua femminilità, la sua personalità, le parrucche gliela restituiscono. Anzi, ogni parrucca ha, a suo modo, una personalità propria. E quindi anche un nome. In base a come si sente o a come ha voglia di sentirsi e di apparire, Sophie sceglie di volta in volta la parrucca da indossare: «Una Sophie insicura e timorosa: Stella». «Una Sophie sensuale: Uma». «Una Sophie sorridente e selvaggia: Sue». E così via... Spesso fantasticando sui fantastici camici 111


Non arrendersi. Mai!

bianchi del reparto... Fino a divertirsi, fino a dimenticare la malattia. Fino a guarire. Ho vinto io - Guarire dal tumore del seno, testimonianze e interventi, di Mauro Boldrini, Sabrina Smerrieri e Francesca Goffi, Giunti Demetra, 2009. Tredici donne e altrettante storie di vita segnate dalla lotta, felicemente vittoriosa, contro il cancro. Testimonianze di profonda umanità e d’impegno, di nuove consapevolezze maturate nel fronteggiare la malattia, l’operazione e i trattamenti che la terapia impone. Ma dell’altro, a volte altrettanto difficile da negoziare, si para davanti a chi vive questa esperienza di confronto a viso aperto con la malattia e la morte. Tutto, letteralmente, viene rimesso in gioco alla comparsa di un tumore che viola la donna nella sua più profonda identità di genere: il rapporto con il partner, la famiglia, i figli, il lavoro, il proprio credo religioso. Casalinga, insegnante, atleta, suora, ballerina classica, manager in carriera, la protagonista in queste pagine veste i più diversi panni e, ogni volta, è un universo a schiudersi per noi, una nuova toccante esperienza, una entusiasmante vittoria sul male. Infine, idealmente, il microfono passa di mano e siamo dall’altra parte del tavolo: cinque qualificate specialiste di oncologia medica raccontano ciascuna di un caso clinico e umano, che portano scolpito nella memoria e che le ha messe in gioco come professioniste e come donne. Vado a farmi la chemio e torno. Combattere il tumore a 14 anni con un sorriso, di Paolo Crespi, Rizzoli, 2009. Paolo ha appena finito la seconda media quando, nell’estate del 2008, mentre è in campeggio con gli amici, si accorge che qualcosa non va, il 112


Non arrendersi. Mai!

suo ginocchio sinistro è gonfio. Una volta a casa gli esami lo mettono di fronte all’ultima cosa che si sarebbe aspettato: ha un osteosarcoma... Cento casi all’anno in Italia. Da quel momento cambia tutto: niente basket, niente computer, niente uscite con gli amici. Paolo capisce di dover mettere in campo una risorsa che non gli manca: un po’ di sfrontatezza; il coraggio di affrontare la “sfiga” tra impegni e distrazioni. Una lotta che decide di raccontare prima in un blog e poi in questo libro. Quattordici cicli di chemioterapia, quattro interventi chirurgici, sfilze di esami e terapie di riabilitazione. La vita d’ospedale, l’antidoto del gioco (le bische clandestine coi compagni di stanza, le sgommate in carrozzina, gli scherzi dei clown). La paura, lo sconforto, e persino il dolore si possono superare grazie all’affetto di chi gli sta vicino e con la caparbia riconquista spazi di normalità. Paolo rientra in classe dopo mesi di lezioni a domicilio, torna sui campi di basket a tifare per la sua squadra, esce coi compagni per una pizza. L’antidoto più potente, però, è la sua incredibile volontà di non lasciarsi sopraffare dalla malattia e non rinunciare mai ai propri sogni: vuole diventare un grande chef e lavorare sulle navi da crociera. Cancro non mi fai paura, di Fabio Salvatore, Aliberti, 2009. Estate 1998. Estate di sogni, di passione e d’amore. Estate d’incontri. Poche settimane. Il tempo passa ineluttabilmente. Andrea, vent’anni, si ritrova in un letto d’ospedale completamente nudo, dentro e fuori, con un essere oscuro, uno “scarafaggio”, che l’osserva e gli cammina dentro. Andrea incontra il cancro. Lo “scarafaggio” lo inganna, lo annienta, vuole spezzargli la vita, ma Andrea respira con coraggio e passione senza permettergli di spegnergli il fiato né l’anima. Andrea sceglie la via del dialogo e della comprensione. Andrea non sfida il cancro, gli 113


Non arrendersi. Mai!

parla, lo guarda fisso negli occhi e gli dice: «Non mi fai paura». Pagine traboccanti di vita, coraggio e passione. Pagine stipate di ricordi. Pagine d’un racconto di speranza. Una vita che si scontra con il cancro trovando, nel dolore, una risposta. Parole al contempo appassionate e appassionanti, dolorose e gioiose, d’amore e odio, di fiducia e d’orgoglio. La paura non esiste, di Fabio Salvatore, Aliberti, 2010. Destini incrociati, vite parallele scandite dalla sofferenza, sia fisica sia psicologica, ma accomunate dal desiderio di rinascita. Sono traumi come la malattia e la dipendenza da alcol e da sostanze psicotrope a decretare la svolta nella travagliata esistenza dei protagonisti di “La paura non esiste”. Giovani uomini “segnati” che, complice il disincanto verso la vita, sono portati a mettersi in discussione, a scontrarsi con una società della quale non condividono più i falsi valori, per poter ritrovare se stessi e la voglia di vivere attraverso un percorso spirituale. Durante l’ennesimo ciclo di terapie, Andrea s’imbatte in Emanuele. Lo incontra in una stanza d’ospedale, in un momento di estrema fragilità. Ex dj di ventisei anni, Emanuele si ritrova, infatti, a fare i conti con un passato torbido. L’abuso di alcol e droga l’ha ridotto a una larva e la malattia che l’ha colpito all’improvviso lo annienta completamente, rendendolo incapace di reagire. In questo caso non sarà il tempo a lenire le ferite, ma la riscoperta dell’amicizia e della fede. Grazie all’affetto fraterno del compagno di stanza, tra i due giovani si stabilisce un’incredibile empatia e germoglia un’amicizia che con il passare degli anni diventa inossidabile. La condivisione del dolore e lo scambio di esperienze drammatiche si rivelano catartici: Emanuele non soltanto riacquisterà fiducia in se stesso, ma riuscirà come Andrea a sconfiggere lo “scarafaggio” e a irradiare di luce il buio dell’anima. 114


Non arrendersi. Mai!

La vita è così, di Jim Beaver, TEA, 2010. «Amo la mia Cecily, con tutto il cuore... Sinceramente, credo di poter sopravvivere a tutte le difficoltà che questa situazione mi mette davanti. Quello che davvero mi getta nello sconforto e nella disperazione è vederla soffrire e sapere che qualunque sia l’esito, non ho il potere di cambiare il suo destino o di renderlo più accettabile». Jim Beaver e Cecily Adams sono attori. Vivono e lavorano a Hollywood. Nell’agosto del 2003 ricevono una notizia che rischia di sconvolgere la loro vita per sempre: la figlia Maddie, di soli due anni, è affetta da una leggera forma di autismo. Appena sei settimane dopo, il mondo crolla loro addosso definitivamente. Cecily ha un tumore incurabile ai polmoni. Dopo essere stato al telefono con famigliari e amici per un’intera giornata, Jim decide che da quel momento in poi ogni notte invierà una e-mail per tenere tutti aggiornati sulla situazione senza sottrarre neanche un minuto dal tempo che vuole dedicare a sua moglie. In breve le e-mail di Jim si trasformano in un appuntamento fisso non soltanto per i suoi cari, ma anche per migliaia di persone sparse per il mondo. “La vita è così” raccoglie i messaggi di un intero anno, parlandoci non soltanto di una perdita, ma anche della gioia nel prendersi cura di un bambino, dello stupore nel sentirsi compreso e sostenuto da persone sconosciute, della forza e del coraggio di ricominciare tutto daccapo. Ho il cancro, vado a comprarmi un rossetto, di Kris Carr, Piemme, 2010. Kris ha 31 anni quando le viene diagnosticato un cancro. Ha imparato su di sé quanto sia importante affrontare la malattia con il giusto spirito, fin dal primo momento. Alcuni dei suoi consigli sono “crazy”, cioè controcorrente, altri ispirati al più sano buon senso, altri ancora perfino “sexy”, tutti servono per vivere nel modo migliore possibile 115


Non arrendersi. Mai!

un momento difficile, travolgente. A volte personale e intenso, a volte scanzonato e addirittura ilare, un mix in forma di diario che raccoglie pensieri e informazioni pratiche, ricordi e suggerimenti. Una storia che riesce a travalicare il caso personale per rivolgersi a tutte quelle donne che stanno vivendo un’esperienza simile, e invitarle a bandire falsi pudori e atteggiamenti deleteri e a continuare invece a essere se stesse, e a essere donne. Perché è il modo migliore di combattere. E di vincere. Come ho sconfitto il cancro senza essere wonder woman, di Meredith Norton, Edizioni Piemme 2010. Meredith ha trentacinque anni ed è nel pieno della vita. Ha un lavoro, un marito e un figlio piccolo. E una salute di ferro, o quasi, visto che la cosa più grave di cui ha mai sofferto prima è un po’ di congiuntivite per uso promiscuo di eyeliner. Ma un giorno, il suo mondo va a pezzi. Quei disturbi che avverte da un po’, e che i medici hanno troppo a lungo sottovalutato, sono dovuti a un tumore al seno. A uno stadio avanzato per di più, tanto che le danno il 40% di probabilità di sopravvivenza. Inizia così la lunga trafila di esami, operazioni, trattamenti sfiancanti. Ma Meredith ce la fa. Stravince sul calcolo di probabilità. Grazie alle cure, e in gran parte al suo senso dell’umorismo, che la aiuta a venire fuori dai momenti più duri. Ho vissuto più di un addio, di David Servan-Schreiber, Ursula Gauthier, Sperling & Kupfer editori, 2011. Medico e ricercatore di fama internazionale, David Servan-Schreiber scoprì a soli trent’anni di avere un tumore al cervello con una prognosi di pochi anni di vita. Decise allora non solo di lottare, ma di raccontare 116


Non arrendersi. Mai!

la sua esperienza e le sue ricerche nel libro “Anticancro”, che in poco tempo diventò un vero metodo di cura e prevenzione per centinaia di migliaia di pazienti. Ma a distanza di diciannove anni il cancro è tornato, e in una forma ancora più aggressiva. In queste pagine Servan-Schreiber si pone domande cruciali, strazianti, e straordinariamente lucide, sulla vita. Non c’è sconfitta, né rassegnazione nelle sue parole. Soltanto la consapevolezza che in momenti simili ogni cosa appare sotto una luce diversa e che occorre prendere in mano le redini della propria esistenza, e con coraggio, senza abbandonare mai la speranza, fare un bilancio. Si pone anche la domanda più dura: il suo metodo anticancro funziona davvero? La risposta è netta ed è sì, perché gli ha concesso molti più anni - anni intensi e gratificanti - rispetto all’infausta prognosi iniziale. In questa riflessione che via via diventa il suo testamento spirituale, Servan-Schreiber mostra come persino la prova estrema della morte possa dare più ricchezza alla vita. Come le stesse risorse naturali che aiutano nella malattia possano aiutare anche ad affrontare serenamente la fine. Come ciò che facciamo, ciò che doniamo, ci farà restare per sempre nel cuore e nel futuro di chi più conta per noi... Perché proprio a me? Come ho vinto la mia battaglia per la vita, di Melania Rizzoli edito da Sperling & Kupfer, 2011. Quando, nel settembre del 2001, scopre di avere un tumore del sangue invasivo, inoperabile, aggressivo e recidivante, Melania Rizzoli ha solo quarantadue anni. Da medico appassionato quale è, nutre una profonda fiducia nei progressi della ricerca ed è anche dotata di un innato ottimismo. Così, dopo il fallimento delle terapie classiche, decide di intraprendere la strada del trapianto di cellule staminali, che oggi dà 117


Non arrendersi. Mai!

risultati impensabili solo vent’anni fa. Ora Melania è guarita e racconta la sua storia a tutti coloro che ancora vivono la terribile esperienza del cancro. Perché la speranza non finisca mai. Un mattino all’improvviso, di Giovanni Bigatello, Marna Casa Editrice, 2011. «Sei ammalato di cancro; guarda che TU sei ammalato di cancro». Beh, messa così è in ogni caso una cannonata nello stomaco. Poi magari rifletti, poi reagisci. Poi, perché al momento l’unica reazione è sentire la vita che sfugge tra le dita e tu dici: «Non è possibile!?». L’autore, medico geriatra, racconta in questo libro la sua esperienza personale come paziente ammalato di cancro. Il suo scritto è la testimonianza di una persona che non si lascia vincere dalla malattia, ma la combatte con tutta la sua voglia di vivere e la guarda con ironia, e, pur con la piena consapevolezza di ciò che gli sta accadendo, riesce a far sorridere il lettore. C’era una volta il cancro. Storie di donne che hanno fatto a pugni con la loro malattia e hanno vinto, di M. Rosaria De Luca, Danila Lostumbo, Armando Editore, 2012. Questo volume contiene quindici ritratti di donne, in bianco e nero, realizzati dal fotografo Claudio Porcarelli. Sono donne che hanno accettato di narrare la storia a quindici giornaliste e che hanno in comune una particolarità: si sono ammalate di cancro e ne sono guarite. Sono donne che hanno rivoluzionato in positivo la loro vita, divenendo oggi esempio, forza e motivo di speranza per tante altre che ancora stanno seguendo un percorso di cura.

118


Non arrendersi. Mai!

Mamma, quando ti ricrescono i capelli? La mia esperienza con il tumore al seno, di Barbara Martinelli Köhler, Cartman, 2012. Come si fa a dire ai tuoi figli di sette e quattro anni che hai il cancro, senza turbarli e senza togliere loro la spensieratezza di quell’età? Cosa puoi dir loro? «Bimbi, sapete una cosa: ho un tumore aggressivo». Come se ti capissero fino in fondo... «Ma di morire non se ne parla, vero mamma?» le ha detto una volta la piccola, semplicemente così, come fosse una domanda come un’altra... Come si fa a spiegare loro che dovrai andare via per un po’ e che quando tornerai dovrai prendere una medicina che ti farà cadere tutti i capelli? Barbara è riuscita in tutto ciò, combattendo contro il “male oscuro”, descrivendo il suo cammino verso la guarigione con schiettezza, senza mezzi termini, a volte anche con umorismo, e con la dignità e l’umiltà di una persona che non può fare a meno di voler continuare a vivere per loro. Aloha, alito di vita! Non solo cancro, di Barbara Mariani, Etimpresa, 2012. “Aloha” è una tra le testimonianze più vere e umane che possiate incontrare. Genuino e avvolgente come l’abbraccio di una madre. Accingetevi alla lettura aspettandovi di essere immersi dalla stessa inebriante, fresca e vivida atmosfera delle giornate di primavera, quando i primi raggi di sole vi scaldano le ossa, seduti su una panchina in un bel parco pieno di bimbi festosi che saltellano tra palloni, scivoli e altalene. Il libro di Barbara è terapeutico. Lo è per tutti. Non solo per chi è “malato”, ma per ciascuno perché risponde alla profonda necessità di riscoprire in sé e nella propria vita l’autenticità dei concetti di salute, benessere e vivere.

119


Non arrendersi. Mai!

Come ho sconfitto il cancro: una storia vera, di Stephanie Butland, Newton Compton, 2012. E’ la storia commovente del percorso attraverso il quale l’autrice è riuscita a vincere il cancro, ricorrendo a qualunque tipo di pratica; dalla meditazione all’atteggiamento reattivo verso le terapie; senza perdere mai la speranza di guarire. Dal momento in cui le è stato diagnosticato un tumore al seno, infatti, Stephanie si è sottoposta a tutte le cure che le sono state proposte: farmaci, chemioterapia, radioterapia, chirurgia. Talvolta quei metodi hanno funzionato, altre invece hanno fallito, ma la Butland ha fatto tesoro di ogni esperienza, ha raccolto come in un diario pensieri, emozioni, suggerimenti e li ha postati in un blog per aiutare altre persone che, come lei, stavano lottando contro lo stesso male. Dalla sua testimonianza nasce “Come ho sconfitto il cancro”, un libro che offre consigli non solo per mantenere un approccio positivo nei confronti della vita, ma per cominciare un percorso di accettazione della malattia e di potenziale guarigione. Se lo riconosci lo eviti, di Melania Rizzoli, Sperling & Kupfer editori, 2012. Il cancro si può prevenire. E di cancro si guarisce con sempre maggiore frequenza. È questo il messaggio del libro di Melania Rizzoli dedicato a tutti coloro che sono interessati ad ascoltare e riconoscere i campanelli di allarme che il nostro corpo ci manda per segnalare un disturbo. Con un linguaggio divulgativo ma preciso, l’autrice ci fornisce, per ogni parte del fisico, organo dopo organo, una descrizione generale della patologia neoplastica che può insorgere, facendo luce sui sintomi, la diagnosi e la terapia da seguire. Dopo essere stata protagonista, come paziente e come medico, di una battaglia vittoriosa contro un tumore 120


Non arrendersi. Mai!

del sangue - vicenda narrata nel suo precedente libro “Perché proprio a me?” - l’autrice condivide altre testimonianze di malattie tumorali vissute, e per la maggior parte superate, da personaggi noti che non hanno esitato a rendere pubblico il loro dramma privato. Perché solo parlandone si stimola la prevenzione medica, una pratica continuamente trascurata e che invece è un antidoto potentissimo a un male che non ha più nessuna ragione di essere definito incurabile. Io... dopo. Io adolescente e la mia vita con il cancro, di Lorenzo Spaggiari, Il Pensiero Scientifico 2013. La ricchezza interiore di un malato è sempre un tesoro, ma se i suoi giovani pazienti, se il malato ha 15 o 20 anni il suo valore è inestimabile. Le storie autografe raccolte da Lorenzo Spaggiari in questo libro non sono solo storie di malattia, ma rappresentano uno spaccato della straordinaria generazione di ragazzi che abbiamo la fortuna di avere accanto a noi in quest’epoca. Sono persone coscienti, che non sfuggono di fronte a una realtà spesso crudele, e la affrontano senza cinismo, ma senza mistificazioni. Ogni dettaglio che raccontano è una lezione di vita che ci offrono senza pontificare. Il fil rouge che unisce Valerio a Luca, a Eugenio, a Michele, a Mario, a Alessandro e agli altri è l’affermazione della vita come valore in sé e dell’amore per gli altri – i genitori, gli amici, gli altri malati – come prima espressione di questo valore. “Io... dopo” è un libro d’amore.

121


Non arrendersi. Mai!

Film Love story (1970), diretto da Arthur Hiller, con Ali MacGraw e Ryan O’Neal, è una storia d’amore con epilogo la morte di lei malata di leucemia. L’ultima neve di primavera (1973), ebbe un grande successo di pubblico e racconta la vicenda di un bambino, orfano di madre, e in contrasto col padre, che si ammala di leucemia e muore tra le braccia del papà. Un medico, un uomo (1991), diretto dal regista Randa Haines con William Hurt, racconta le vicende di un chirurgo di successo, brillante e spregiudicato con scarsa considerazione per gli altri al quale viene diagnosticato un tumore alla laringe. Si trova, così, dall’altra parte della barricata nel ruolo del paziente bisognoso di cure e deve subire analisi fastidiose, supponenza e arroganza dei medici. Il che gli apre gli occhi sui valori dei rapporti umani che lo guideranno, una volta guarito, a rapportarsi in modo diverso con i suoi pazienti. My Life - Questa mia vita (1993), di Bruce Joel Rubin, con Michael Keaton e Nicole Kidman, presenta la storia di un uomo che, alla vigilia della nascita di suo figlio, scopre di avere un cancro in stadio avanzato e comincia a registrare filmati in cui racconta della sua vita perché non resti solo un suo ricordo vago. Nemiche Amiche (1998), di Chris Columbus con Julia Roberts e Susan Sarandon, narra la vicenda di due donne che amano lo stesso uomo, la ex moglie (malata di cancro) e la nuova compagna, ma che mettono da parte i loro contrasti per il bene dei due bambini nati dal primo matrimonio. Per una sola estate (2000), di Mark Piznarski con Leelee Sobieski e 122


Non arrendersi. Mai!

Chris Klein, è un racconto d’amore in cui la protagonista è afflitta da un osteosarcoma. Autumn in New York (2000), diretto da Joan Chen e interpretato da Richard Gere e Winona Ryder, narra del maturo Will Keane (Gere), che si innamora, forse per la prima volta, della giovane e sensibile Charlotte (Ryder), che scopre di essere gravemente malata di neuroblastoma al cuore. Purtroppo, la lotta per salvarla non è sufficiente. Erin Brockovich (2000), di Steven Soderbergh che ha per protagonista Julia Roberts. Impersona, appunto, Erin Brockovich, una segretaria di uno studio legale che indaga su una compagnia sospettata di avere contaminato le falde acquifere di una cittadina americana, provocando tumori ai residenti e fa emergere l’aspetto epidemiologico della malattia e le sue cause ambientali. Sweet November (2001), diretto da Pat O’Connor, con Keanu Reeves e Charlize Theron, nel quale una ragazza malata di cancro, Sara (Theron), cerca di far apprezzare la vita al cinico Nelson (Reeves). L’ultimo sogno (2001), di Irwin Winkler con Kevin Kline e Kristin Scott Thomas racconta la storia di un uomo che scopre di avere un cancro e riesce a ricostruire i rapporti con suo figlio e a farlo socializzare anche con gli altri. La forza della mente (2001), scritto e diretto da Mike Nichols, con Emma Thompson e Christopher Lloyd, approfondisce i sentimenti di Vivian, un’insegnante di letteratura inglese a cui viene diagnosticato un carcinoma ovarico, in particolare rispetto al fatto che i medici limitano la sua cura solo in ambito formale. I passi dell’amore (2002), di Adam Shankman con Mandy Moore e Shane West, parla dell’amore di due giovani, lui scapestrato, lei tranquilla e religiosa. Lei, però, ha il cancro e lui, trasformato dall’amore, 123


Non arrendersi. Mai!

farà di tutto per esaudire i suoi desideri. A time for dancing (2002), di Peter Gilbert, con Larisa Oleynik e Shiri Appleby, presenta la vicenda di una ragazza con una passione sfrenata per la danza che scopre di essere ammalata e che affronta la sua lotta contro il cancro. La mia vita senza me (2003), di Isabel Coixet con Sarah Polley che interpreta una donna a cui vengono diagnosticate poche settimane di vita. E lei decide di non dir niente a nessuno e di trascorrerle facendo quelle cose che aveva sempre sognato di fare e non c’era mai riuscita. Uno su due (2006), di Eugenio Cappuccio, con Fabio Volo, racconta la storia di un avvocato che sviene ed è sottoposto ad esami e del collega di stanza ammalato di cancro al cervello e del rapporto che si instaura tra di loro. Non è mai troppo tardi (2007), di Rob Reiner con Jack Nicholson e Morgan Freeman è la vicenda di due malati terminali che decidono di scappare dall’ospedale per soddisfare gli ultimi desideri e riusciranno a riscoprire se stessi prima della fine. La custode di mia sorella (2009), di Nick Cassavetes, con Cameron Diaz, Abigail Breslin e Sofia Vassilieva, narra la lotta di due genitori con una figlia ammalata di leucemia che fanno di tutto per salvarla, persino mettere al mondo un’altra figlia per far avere alla prima il midollo osseo necessario per continuare a vivere. Funny People (2009), scritto e diretto da Judd Apatow, con Adam Sandler e Seth Rogen, racconta la storia di un comico a cui viene riscontrata una forma di leucemia. Alla fine guarisce, ma è il percorso di amicizia e di rapporti con altri comici a cambiargli nel frattempo la vita. La prima cosa bella (2010), di Paolo Virzì, con Micaela Ramazzotti, Valerio Mastandrea, Stefania Sandrelli, racconta quello che succede, 124


Non arrendersi. Mai!

e cambia, nella storia delle persone durante gli ultimi giorni di vita di una madre, malata terminale. Le ultime 56 ore (2010), di Claudio Fragasso con Gianmarco Tognazzi affronta il tema della cosiddetta “sindrome dei Balcani” e parla, quindi, dei linfomi dei soldati italiani che hanno partecipato alla guerra del Kosovo imputabili all’uranio impoverito. The last song (2010), di Julie Anne Robinson, con Miley Cyrus e Greg Kinnear, presenta il difficile rapporto tra un padre divorziato e sua figlia. Rapporto che cambia completamente quando la ragazza scopre che il padre è malato terminale di cancro. Biutiful (2010), è un film diretto da Alejandro González Iñárritu con protagonista Javier Bardem premiato per la sua interpretazione al Festival di Cannes. Racconta la storia di un uomo che si occupa dei suoi due figli, Ana e Mateo, perché l’ex-moglie Marambra è inaffidabile ed è affetta da disturbo bipolare. Quando gli viene diagnosticato un cancro comincia a temere per il futuro dei suoi figli destinati a crescere da soli. 50/50 (2011), di Jonathan Levine con Joseph Gordon-Levitt e Seth Rogen, è la storia di un uomo che scopre di avere un raro cancro alla spina dorsale con il 50 per cento di possibilità di guarigione. Una vicenda a lieto fine che gli cambia la vita e i rapporti con gli altri. La guerra è dichiarata (2011), della regista e attrice Valérie Donzelli, narra la vicenda reale di due genitori che lottano per salvare il loro bambino da un cancro al cervello e quello che succede nelle famiglie che devono affrontare la malattia. Noi non siamo come James Bond (2012), di Mario Balsamo, con Guido Gabrielli e lo stesso Balsamo, presenta il viaggio di due amici sopravvissuti al tumore alla ricerca della formula dell’immortalità, prerogativa di personaggi come il mitico agente 007. 125


Non arrendersi. Mai!

Falling Overnight (2012), di Conrad Jackson, con Parker Croft ed Emilia Zoryan, descrive l’ultima notte di un uomo ammalato di cancro prima di un pericoloso intervento chirurgico, in cui incontra una giovane fotografa che lo porta in un viaggio straordinario che svanisce quando lei scopre la sua malattia. Mi piace quello alto con le stampelle (2012), è una frase pronunciata da una giovane paziente nel corso delle riprese di questo film. Il regista è Andrea Caccia, gli attori sono nove adolescenti che lottano contro il tumore. Now Is Good (2012), diretto da Ol Parker e basato sul romanzo “Voglio vivere prima di morire” di Jenny Downham, è la storia di Tessa, una sedicenne malata di leucemia che, stanca delle continue terapie, decide di vivere fino in fondo gli ultimi mesi di vita e stila una lista delle dieci cose da fare prima di morire. Allacciate le cinture (2014), diretto da Ferzan Özpetek, vede tra gli interpreti principali Kasia Smutniak, Francesco Arca e Filippo Scicchitano: il tema della malattia viene affrontato da diversi punti di vista all’interno di una storia d’amore che si snoda lungo vari periodi della vita dell’ammalata. Colpa delle stelle (2014), di Josh Boone, tratto dall’omonimo romanzo di John Green, con Shailene Woodley e Ansel Elgort. Racconta la storia d’amore di Hazel e Augustus, che si conoscono a un gruppo di supporto per giovani malati di cancro. Di grande valore anche due serie televisive che hanno avuto un enorme successo: The Big C, una serie televisiva statunitense (2010), di Darlene Hunt, con Laura Linney e Oliver Platt, che racconta la storia di una mamma 126


Non arrendersi. Mai!

di una periferia americana la quale, diagnosticatole un cancro, tenta di trovare dello humor nella malattia. Braccialetti rossi, è una miniserie tv di produzione italiana del 2014, diretta da Giacomo Campiotti, andata in onda su Rai 1. E’ il remake della serie catalana “Polseres vermelles”, ispirata alla storia vera dello scrittore spagnolo Albert Espinosa che, malato di cancro per dieci anni, è riuscito a guarire, raccontando poi la sua esperienza in un libro.

127


Finito di stampare nel mese di novembre 2014 presso Cattaneo Grafiche - Oggiono (LC)

128


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.