Asta 0228

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La più antica ed eloquente attestazione di una produzione in serie di crocifissi di piccole dimensioni nella bottega del Giambologna è contenuta in una lettera indirizzata nel 1583 al duca d’Urbino dal suo agente a Firenze, Simone Fortuna, che, lodate le qualità dello scultore, “mirabile” in questa attività, ricordava – oltre a quattro esemplari “tenuti stupendi”, eseguiti per papa Pio V (dunque prima del 1572), il granduca Francesco I, la consorte granduchessa Giovanna d’Austria (identificabile con quello donato nel 1573 alla Santa Casa di Loreto, ora nel Museo dell’Antico Tesoro), e il re di Spagna (forse da riconoscere nel simile Crocifisso oggi all’Escorial) – di aver visto “modelli” grandi poco meno di due palmi (intorno ai 40 centimetri) da realizzare “d’argento, di bronzo o di rame”. In una precedente missiva del 1581 lo stesso Fortuna aveva descritto le modalità adottate per i lavori in metallo di contenute dimensioni dal Giambologna, che “fatti i modelli di cera o di terra, che si fan presto, di sua mano” dava “nel medesimo tempo a far le forme, il getto (fusione) et a ripulirle poi agli orefici che tiene apposta”, tra i quali a questa data i documenti attestano impegnati in simili mansioni Adrian de Vries e Antonio Susini. La produzione giambolognesca di Crocifissi piccoli, perlopiù di altezza pari a mezzo braccio fiorentino (circa cm 29), in bronzo, bronzo dorato, argento, raffiguranti il ‘Cristo morto’, è raggruppabile in tre principali tipologie che prendono il nome dagli esemplari più rappresentativi. La più antica, di timbro michelangiolesco, è riconducibile all’esemplare in argento donato nel 1573 alla Santa Casa di Loreto. La seconda, nella quale il Giambologna si esprime con maggiore originalità, è quella formulata nel rammentato Crocifisso in bronzo dorato per la cappella Salviati in San Marco. Una terza tipologia, quasi identica alla precedente dalla quale si distingue per il torace più inarcato e un diverso andamento del perizoma, prende nome dal Crocifisso in bronzo patinato al Musée de la Chartreuse di Douai (fig.17). Il Crocifisso qui indagato, notevole nella sensibile finitura delle superfici e nella minuziosa, vibrante rinettatura dei dettagli, è riconducibile alla tipologia San Marco-Angiolini che si qualifica per l’anatomia asciutta e vigorosa del corpo snello, coperto da un teso perizoma annodato sul fianco destro, il capo reclinato sulla spalla, dove una folta chioma di riccioli ondulati ne contorna il nobile volto ricadendo delicatamente sulle spalle, le ginocchia flesse e affiancate, il piede soprammesso. A questo stesso modello appartengono due eccellenti esemplari in argento, uno dei quali, già presso la galleria torinese Antichi Maestri Pittori (fig.19), riferito da Keutner (1999) a Giambologna e identificato con quello pagato nel 1592 dal segretario granducale ad Antonio Susini, l’altro nel Museum of Fine Arts di Boston (fig.20), anch’esso attribuito al maestro fiammingo con una datazione al primo decennio del Seicento. Tra gli altri esemplari di questa tipologia, tutti di analoghe dimensioni, si distinguono inoltre due redazioni in bronzo dorato, una nel Museo Diocesano di Arte Sacra di Volterra (fig.22), probabilmente commissionata dopo il 1581 dall’ammiraglio Jacopo Inghirami, l’altra presentata da Sotheby’s a Londra (9 dicembre 1993) (fig.23), e due in bronzo patinato transitate sul mercato antiquario (Sotheby’s, Londra, 7 luglio 2006 (fig.25), una delle quali attribuita ad Antonio Susini (Sotheby’s, Londra, 8 luglio 2009 (fig.26). Le opere ricordate condividono tutte con quella in esame specifici aspetti esecutivi, riscontrabili nell’accurata cesellatura dei capelli e

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