la via solare

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Franco Giovi

la Via solare

Riflessioni e suggerimenti per la pratica

CambiaMenti


© 2010 Editrice CambiaMenti I edizione ISBN 978-88-96029-08-4

editrice CAMBIAMENTI sas 40125 Bologna - Via Quadri, 9 Tel. 051 522 440 Fax 051 55 38 57 www.cambiamenti.com

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Immagine di copertina: elaborazione grafica di Emanuela Crivellaro


... fedeltà alla propria tradizione interiore, la fedeltà all’essenza della fedeltà. Che è la Vergine Sophia. Massimo Scaligero


Indice

Prefazione

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Via Solare

Quasi un riassunto

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L’illusione del conosciuto spirituale

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Il Tempio

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Una sfida

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Azioni di risveglio

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L’adamantino

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Lo studio

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Elementi del cammino antroposofico

61

Alcuni aspetti della concentrazione - I

69

Alcuni aspetti della concentrazione - II

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Primo interludio: l’incontro

83

Concentrazione: problemi pratici – I

87

Concentrazione: problemi pratici – II

95

Fondamenti iniziatici e autocoscienza

103

Stati di coscienza

109

Avvicinarsi al sonno

113


Esercizi che funzionano

121

Sugli esercizi ausiliari

127

Secondo interludio: una prova severa

133

Meditazione in comune

137

L’anima esoterica e i gruppi

143

Un’aggiunta alla nota precedente

149

Il fascino indiscreto del corpo sensibile

155

Il corpo fisico nella disciplina interiore

161

Retrospezione

167

Stasi e crisi

175

Gli stati d’animo

181

Il silenzio

189

Terzo interludio: il libro della Vita

193

Esoterismo e segretezza

197

Limiti e condizioni

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Verità vere, verità false

209

Il picco

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Postfazione

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Prefazione

Caro lettore, se sei capace di accettare l’idea umiliante – e questa può essere già in pratica una prova tosta – che la tua coscienza desta è limitata al mondo fisico-sensibile, che la tua consapevolezza ordinaria è traballante e zeppa di automatismi (e comunque si spegne e si riaccende senza il tuo intervento dominante), che non è mai capace di volere ma solo di desiderare o bramare, e che nel mondo esoterico potrebbe esserci una differenza assoluta tra il sapere ed il percepire, allora tra te e queste pagine può prospettarsi un rapporto interessante. Questo libro comprende un certo numero di note e articoli scritti in origine dal 2000 al 2008 per la Rivista L’Archetipo. Certo non in fotocopia. Le pagine che troverai, sono selezionate e rivedute. Ma voglio che tu questo lo sappia subito, prima di perdere lo scontrino o di contribuire personalmente al carattere del libro, aggiungendoci una macchia di caffè o tutte le altre cose che rendono impossibile la restituzione. Ti metto dunque subito in guardia: in queste pagine non troverai – come nelle tue librerie preferite, dove quintali di carta stampata discettano sull’occulto e sui misteri esoterici – quelle medesime attrattive, poiché l’occulto non è passivamente manifesto e non fa da cariatide ornamentale nei Gruppi o nelle Logge, e tanto meno in quei quintali di carta stampata. Inoltre ti fornirò assai pochi riferimenti, che considero una sorta di vezzo trafugato dal mondo accademico o da quello scientifico, dove essi sono nel primo doverosi e nel secondo indispensabili. Credo invece che nell’ambito esoterico essi siano per lo più semplici orpelli atti a rendere più appetibile la portata e ad aggiungere stelle di merito al cuoco.


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Prefazione

Inoltre dovrei aggiungere, caro lettore, qualora tu stimassi già di possedere inconfutabili verità sul vero e falso, sul giusto e sbagliato, ma soprattutto se tu credessi che non serva alcuna verifica concreta, allora sarebbe saggio da parte tua interrompere la lettura per ritrovare immediatamente lo scontrino del libro. Vedi, caro amico, la posizione di chi ha scritto queste pagine è in un certo senso la più comoda del mondo: serenamente pessimista per quanto riguarda destità, coraggio e volontà d’azione degli uomini, pronti a gridare nobili ideali ma incapaci a dismettere la brioche e il caffè della prima colazione. L’esperienza di una vita mi offre la certezza che se quanto ho da dire è poco – inoltre mi ripeto di continuo – sono però pochissimi quelli capaci di fare davvero ciò che propongo in queste pagine, che non conducono all’Iniziazione, ma cercano soltanto di indurre la statua di sale che sei, ad imparare a muoversi iniziando dall’unico punto fermo che l’uomo possiede, a fare un primo vero passo su quella strada che alcuni credono di conoscere (dissacrando il senso vero del conoscere) perché hanno letto libri di esoterismo. Testi che nel migliore dei casi aiutano il ricercatore a mantenere vivo l’impulso interiore, mentre più spesso riempiono la sua testa di fantasie e il suo sentimento personale di una impressione di superiorità sugli altri uomini e sul mondo, che non esiste (la sua coscienza essendo sempre la comune coscienza umana) e che fa di lui uno spostato, innocuo o nefasto. Per correttezza dovuta a chi è stato paziente sino alla riga precedente, devo anche avvisare circa l’uso spregiudicato con cui mi servo di molti termini. Posso assicurare il lettore che conosco origini e ortodossie di tantissime parole “importanti”; esse hanno avuto nel passato il loro senso e significato che comunque era e rimane relativissimo, essendo state plasmate in e per questo mondo allo scopo di indicare il sovrasensibile e l’infinito, ossia ciò che nel cosmo è del tutto al di là dei vocaboli umani. Mi sia permessa al paziente lettore una raccomandazione ancora, che da sola vale molto più del prezzo del libro: legga e rilegga con attenzione acuita; spesso ciò che sembra facile e ovvio nasconde, nella pratica, l’impegno più feroce, lo sforzo quasi impossibile.


Prefazione

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Post laborem, scientia. Prima si fatica nell’azione interiore e poi si inizia a comprendere. Valeva un tempo e ancor più ai giorni nostri. Forse devo anche parlare di me e delle fonti alle quali mi ispiro, affinché il nostro incontro sia chiaro e onesto. Ancora bambino, il destino mi ha spinto verso mondi magici di cui intravvedevo, a volte, l’obiettiva, intensissima realtà. Tutta l’adolescenza è stata una ricapitolazione dell’antica spiritualità: dall’Oriente all’Occidente, iniziando dallo yoga della Bhagavad Gita e gli Yogasu¯ tra di Patañjali, passando per la grandiosa visione del Vedanta. Questo mi diede una eccezionale abilità nella ricostruzione del pensiero filosofico occidentale, che trovavo appassionante ma facile e limitato. Però anche il sat-chit-a¯ nanda non risolveva gli interrogativi che mi venivano posti dalla percezione sensibile: avvertivo che questa, in un certo senso, nascondeva un extrasensibile differenziato che la saggezza indiana non contemplava. Allora mi volsi verso Occidente, in quanto mi parve che nella sapienza ermetica (alchemica) si palesasse, o meglio, si nascondesse un tipo di discipline interiori capaci di cogliere il sovrasensibile celato dietro al sensibile, ma non riuscii a trovare in essa una connessione pratica. Mi volsi allo studio dei grandi nomi del tempo: Julius Evola e René Guénon. Le pubblicazioni erano poche; ricordo d’aver tradotto per conto mio due testi di Guénon. Poi, grazie anche a serrate discussioni combattute con amici fedeli a questi due autori, mi si formarono nell’anima non pochi dubbi circa lo spessore spirituale di tali guide. Con Evola, alla luce dell’Uomo come Potenza (I ed. a cura di Atanòr), sorse il sospetto che le discipline prospettate a) non fossero da lui realmente praticate; b) non rispecchiassero fedelmente le dottrine tantriche di cui si faceva affascinante portatore per l’Occidente. Sospetti che trovarono poi conferma con lo studio accurato di Abhinavagupta e la lettura dei fascicoli di UR. In Evola è tutto così: egli spiega e piega, modificando a comodo suo mediante una eccezionale capacità di pensiero dinamico, discipline e insegnamenti tradizionali, esaltando o cancellando arbitrariamente quello che deve o non può adattarsi all’autocratico Individuo Assoluto, che sostanzialmente rimane un suo intenso sentimento personale, rive-


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Prefazione

stito di scintillante intelletto ma estraneo alla realtà spirituale. Rimane per lui la gratitudine per avermi aiutato a cancellare dall’anima il mito monodirezionale del progresso attraverso il duro confronto meditativo con quanto egli sa esprimere nella sua valorosa Rivolta contro il mondo moderno. Verso Guénon fui attratto dall’algido e rarefatto discorso. Poi mi accorsi che in pratica egli rimandava ogni possibile cammino interiore ad organismi tradizionali che lui stesso alla fine squalificava, stizzosamente negando ogni possibilità di un rapporto diretto con lo spirituale, ossia con organismi concretamente presenti nello spirituale (la visione di tali “Maestri” svela una base di sconcertante materialismo!). Inoltre da una posizione di assoluto detentore di verità e implacabile critico di tutto e tutti, la sua condizione di “pura intellettualità” negava stranamente – quasi non esistessero – gli insegnamenti, sovente del tutto opposti al suo, di giganti dello Spirito quali Aurobindo, la Mère, Ramana Maharshi, Maître Philippe e finanche il suo stesso maestro islamico. Anche sorvolando l’oscuro pasticcio dell’Agharta, i limiti dilettanteschi della sua scienza filologica e l’imbarazzante terrore per le “fatture”, poco riferibili ad un Maestro, iniziai a scorgere in René Guénon un serio ostacolatore della ricerca spirituale e un sottile manipolatore della Tradizione, che apparentemente difende (del resto vige una enorme diversità tra la Tradizione ed il tradizionalismo, diversità che i pigri e gli ottusi sembrano non comprendere). A differenza di diversi discepoli di Evola, più desti e capaci di nobili valori, il guénonismo ha generato una sterile moltitudine di dipendenti incantati dai simboli, dalla terminologia e dalla razionalità formale, scambiata per qualificazione metafisica. La mia ricerca divenne il tentativo di trovare qualcuno che insegnasse qualcosa per diretta esperienza, e alla luce di tale presupposto incontrai Giuliano Kremmerz. Operai una personale e bizzarra sintesi che comprendeva i rituali indicati da Kremmerz e la meditazione secondo l’insegnamento di Ramana, che trovavo il più diretto sulla linea della ricerca dell’Io, da me sentito come fondamento essenziale per l’essere umano. Attraverso l’esercizio di tale sintesi ho potuto sperimentare diversi aspetti del sovrasensibile.


Prefazione

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Eppure una certa dovizia di esperienze occulte non soddisfaceva a pieno la mia anima. Dicevo a me stesso: “Mi allargo ma non mi innalzo”. Quello che stavo facendo mi pareva appartenere alla mia natura di yogin e d’occultista, mentre avvertivo che l’essenziale progresso doveva consistere in un sostanziale superamento oltre la forte presenza dei caratteri interiori ereditati da precedenti biografie. Un pomeriggio, curiosando in libreria tra i testi esoterici, trovai un volume intitolato La via della Volontà Solare di Massimo Scaligero. Comperai il libro senza entusiasmo: di Scaligero sapevo solo che era stato discepolo di Evola, che s’era spinto su “posizioni più preoccupanti” e che aveva già scritto qualcosa che era stata definita come “una parodia dell’Iniziazione”. Il giorno dopo iniziai la lettura. Trovando grande difficoltà a capire il senso delle pagine sfogliate, giunsi a righe che mi riportavano a temi taoisti che conoscevo, e lessi con attenzione maggiore quello che l’Autore aveva da dire nel merito. Come un colpo di vento spalanca una porta semichiusa facendoci trasalire o risvegliandoci da una condizione sognante, così balzò evidente alla mia anima che l’Autore conosceva da dentro l’aspetto intimo di tali insegnamenti, avendo simultaneamente l’autorità per possederli. Avevo trovato in Scaligero la strada d’Occidente (la Via del Pensiero Vivente) che non si contrappone all’antica saggezza, all’Oriente, ma la comprende e la supera. Certo che “comprendere ciò che la supera” fu strada tutta in salita: comperai i primi libri di Scaligero all’inizio degli anni ’60 e mi rapportai a Lui direttamente dopo quasi una decina d’anni di studio e di esercizi. Attraverso l’opera di Scaligero mi avvicinai a Rudolf Steiner. In realtà il destino mi portò a incontrare Steiner quand’ero giovanissimo, a 13 anni, con la lettura della Scienza Occulta e del Guardiano della Soglia, che d’istinto avevo preso in prestito in una Biblioteca Pubblica. Compresi poco più di niente, ma i libri suscitarono in me immagini e impressioni fortissime. Poi col passare degli anni e con le critiche allo Steiner espresse da Evola in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, quelle impressioni finirono nel dimenticatoio.


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Prefazione

Scaligero invece si riferiva a Rudolf Steiner con grande rispetto e devozione, e per coerenza conoscitiva presi nuovamente in prestito La Scienza Occulta. Con l’animo più sereno e spregiudicato possibile iniziai la lettura: indisturbata, attenta e consecutiva. Circa dopo una ventina di pagine, durante le quali ogni pensiero precedente si univa senza sforzo al successivo, uscii da questo mondo. Avuta la prova assoluta che “Steiner era molto più di ciò che poteva sembrare”, mi tuffai senza preclusioni nei Suoi Insegnamenti e nella Sua Opera con il rigore, l’autonomia e la sacralità che gli incontri, avuti dapprima con il pittore Giovanni Blason e poi con lo stesso Scaligero, andavano maturando nella mia anima. A quanto narrato vorrei aggiungere per chi mi legge che collegare automaticamente Rudolf Steiner e Massimo Scaligero, il primo alla Società Antroposofica ed il secondo ai gruppi formatisi intorno alla sua Opera, sarebbe un errore. Molto di ciò che queste realtà rappresentano, è sovente quanto di più lontano possa darsi rispetto all’essere del vivente nocciolo dell’Insegnamento. Esistono certamente delle eccezioni positive (individuali), ma in genere la funzione vera di società e gruppi consiste nel paralizzare e ottundere l’anima del ricercatore. I brevi capitoli che seguono sono stati scritti come incitamenti all’azione, ma anche per sgomberare l’anima di chi li legge dal mostruoso peso dei condizionamenti e delle superstizioni che veramente sbarrano la strada a chi vorrebbe fare qualcosa di concreto sulla via della Conoscenza Spirituale. Essa, ai giorni nostri, dovrebbe iniziare dalla concentrazione e dal silenzio interiore assai più che dalle letture, che non mutano lo stato di coscienza comune, invero necessario per il mondo sensibile, ma che riduce i contenuti sapienziali ad un semplice ed inane sapere riflesso. Chi già conosce qualcosa di Scienza dello Spirito troverà in molte pagine allusioni critiche all’attuale situazione in cui versa l’impronta sensibile dell’Antroposofia. Sono righe amare, scritte senza il gusto della polemica: l’esperienza di molti decenni e ripetute esperienze interiori mi danno prova che quanto appartiene alla struttura societaria


Prefazione

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visibile ed al suo corrispondente interiore orbita da molto tempo fuori e lontano dai contenuti spirituali che ne garantivano un positivo significato. Sulla base di una severa legge spirituale, è accaduto ciò che accadde in precedenti e antiche comunità esoteriche, in cui il tradimento respinse lo Spirito fondante. L’inversione non è un problema di ortodossia, essendo state mantenute quasi intatte le fisionomie formali, ma di perdita di livello, ossia del trattare (pensare) come dati razionalizzati i contenuti appartenenti allo Spirito, che quindi vengono mediati dall’opposizione strutturale allo Spirito. La totale eclissi della comprensione per il perduto livello che qualora venisse intuito richiederebbe una sostanziale metànoia della coscienza, non è una posizione di stallo ma di caduta, con la conseguenza di un progressivo deterioramento degli organi animicospirituali capaci di afferrare il Vivente che giustifica la realtà espressa da una Scienza dello Spirito, senza il cui contenuto l’ampia rete di attività promosse è un nulla sostenuto dai mille impulsi ciechi della natura istintiva


Quasi un riassunto

Educarsi all’osservazione del pensiero secondo il canone che si ricava dal suo usuale processo: sperimentare volitivamente la sua obiettivazione, insistere nei momenti continui della sua risorgenza finché alla corrente del pensare non si sostituisca il volere, contemplare la vita di cui il pensare fu solo ombra e malattia. Per pochi uomini questa è la strada regale al risanamento e alla reintegrazione dell’entità umana alla propria realtà e verità, in tutti i mondi. L’insieme della tecnica e dei corrispondenti atti interiori più essenziali a tale via, può venir chiamata, per comune accordo, concentrazione. La concentrazione, pur nella sua semplicità formale, non è un costrutto prodotto dall’uomo per l’uomo in quanto natura: per tale ragione non può essere scoperta o dedotta da un istinto anche profondo o dalla coscienza riflessiva (filosofica). La concentrazione è dono dello Spirito all’anima cosciente, perciò davanti a un simile magistero l’unico sentimento umano ammesso dovrebbe essere la gratitudine silenziosa. Di converso, la concentrazione, quale via diretta del Pensiero e della Libertà, viene reattivamente evitata ed osteggiata anche da molti ineccepibili ricercatori di Scienza Spirituale, incapaci di azione diversa da quanto è solo manifestazione naturale. Normalmente, la tecnica della concentrazione viene appresa attraverso corrette letture e corroborata tramite il sottile obbligo della trasmissione diretta. In ogni caso, durante il lungo periodo d’apprendistato sarà essenziale ricontrollare che cosa si sta veramente facendo, ripercorren-


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done il canone, rileggendo con attenzione rigorosa i testi esplicativi (per es.: Il Trattato del Pensiero Vivente, Il Manuale pratico di Meditazione di M. Scaligero). False memorie, frasi lette e non pensate, indicazioni errate ma già insediate nel subconscio, aprono da subito i sentieri del danno e dell’errore che non tutti meritano di correggere in una vita. Le molte discipline elargite da R. Steiner e M. Scaligero possono certamente essere tentate, sperimentate, in base al principio della libera ricerca e della libera scelta individuale, in qualsiasi momento, se non si è inclini all’autoinganno: poiché tutte le tecniche esoteriche presuppongono nell’operatore il ripristino di una gerarchia nei veicoli (Spirito, anima e corpo) ed una rispondente capacità di destità e di silenzio (solo quando le cose vanno nella giusta direzione) che sono generalmente frutto della pratica della concentrazione. Vi sono persone che, per carattere, non riescono ad ottemperare a quelle minime modalità formali che per i molti non presentano alcuna (troppa) difficoltà. Per alcuni tra i primi, Massimo Scaligero consigliava il seguente esercizio: osservare con tutta l’attenzione possibile, e per un tempo brevissimo, la punta in movimento della lancetta dei secondi di un orologio, arrestando l’esercizio appena una sensazione o un pensiero rompe la continuità d’attenzione. Tale disciplina può venir tentata più volte al giorno, aumentandone quantità e durata secondo semplicità, pazienza ed onestà. Un punto di vista pratico, non menzionato nei testi di grande contenuto, che per l’appunto non confondono l’interiore con le interiora, riguarda l’alimentazione. Vale solo la pena di ricordare, a fronte delle catastrofiche e ricorrenti manie, che se un individuo inserito nella fatica del vivere nel mondo somma a questa una severa disciplina interiore, ha bisogno di energia. Le “iniziazioni intestinali” orientate ai digiuni appartengono alle mode spiritualistiche. L’alcol è l’unico vero nemico dello Spirito. Mangiare troppo poco porta soltanto all’indebolimento del corpo e dell’anima. Come per il giovane che impara a suonare uno strumento musicale affatto sconosciuto, così per l’operatore interiore: vengono tentati


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assetti sconosciuti, anzi innaturali per l’anima: supporre di conoscere in anticipo ciò che nel migliore dei casi si è soltanto capito, è un errore quasi obbligato per l’orgogliosa coscienza moderna: dunque perdonabile e superabile non con sterili “esami di coscienza” ma semplicemente perché non trova posto nello spazio di un corretto esercizio. La concentrazione comincia ogni volta e sempre dal proprio principio. Da un pensiero predeterminatamente voluto dal soggetto: quindi da un atto di Libertà. Propiziare l’atto interiore con “altro” (rilassamento, ritualismi ecc.) è un grosso errore, perché il soggetto affida alla psiche, all’astrale, il comando dell’iniziativa. «Non sono tipi speciali di esercizi che conducono oltre il limite, bensì l’esercizio in cui si sia veramente capaci di tutta la forza. Non ci si accorge dell’inganno di cercare questo “oltre” in un altro esercizio e non nell’esercizio che si fa: parlo in particolare della concentrazione» (M. Scaligero, lettera all’autore del 13 aprile 1970). Va sottolineato che il punto di iniziativa dell’agire interiore nel senso di queste osservazioni non ha bisogno di particolari qualità o stati animici. La ripetuta concentrazione (che diviene un potente strumento di autoconoscenza) inizia ogni volta da ciò che si è e non da ciò che si presume essere o che si rimembra essere stati un tempo (sentimento di potenza), ed i risultati dell’esercizio, spesso dispersi “in un senso di sconfitta e di vuoto”, dovrebbero insegnare qualcosa anche al più testardo o più illuso degli uomini. La mole impressionante degli insuccessi nella disciplina della concentrazione è preziosa per l’operatore che riesca a non abbandonare il percorso intrapreso: per una motivazione analoga al fatto di spingere, con ogni propria fibra per mesi ed anni, un oggetto inamovibile: la posizione dell’oggetto non si modifica, ma lo sforzo esercitato dal soggetto produce in questi un progressivo ed inavvertito aumento di forza. Al pari, forze interiori prima sconosciute e indirettamente sviluppate permettono all’asceta imprevisti e nuovi avanzamenti. «Il corpo non c’entra con la concentrazione, la concentrazione è


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una assoluta Autorità estracorporea a cui deve tendere l’esoterista cosciente: la minima inerenza o tensione, yoghica o subconscia, è il corrispettivo di una debolezza spirituale. L’“Adamantino” è proprio l’assoluto estracorporeo realizzato nel pensiero, che non è certo più pensiero dialettico» (M. Scaligero, lettera all’autore del 26 marzo 1970). Però ci si sforza! Per concentrarsi il discepolo inizia accentuando con vigore le sensazioni, contrae muscoli e nervi, pensa subordinato dal ritmo di un respiro che invade fragorosamente lo spazio interiore: per un certo tratto della via questi ostacoli vanno messi pazientemente in bilancio, coltivando una lucida indifferenza: non esistono soluzioni alternative. Occorre continuare come se il problema riguardasse uno sconosciuto; resta da vedere chi si stanca prima: nervi e muscoli o l’insistente attenzione del soggetto, dedita, per quanto possibile, solo al tema prescelto. I sentimenti personali, i turbamenti, gli stati d’animo più sottili si manifestano per l’asceta come forze che contrastano la logica essenziale dell’opera interiore proposta. «Non si è l’Io se non si supera il limite dell’astrale, altrimenti gli esercizi, persino con possibili ottimi risultati, li fa l’astrale, non l’Io. Vi è una sola attività che giunge da “fuori” ed è il pensiero» (M. Scaligero, lettera all’autore del 9 gennaio 1970). I moti dell’anima (astrale) non impediti durante l’esercizio, sono utili nella misura in cui chiedono all’imperturbato soggetto una ulteriore forza di distinzione del pensiero voluto dagli impulsi interiori non pertinenti a cui non ci si abbandona. La ripetizione giornaliera (più volte al giorno) del rito di dominio sull’ordinario pensiero, diventa per l’asceta di importanza vitale: necessità di attingere, sia pur brevemente, alla retta concentrazione e “rassegnazione per il risultato dei suoi sforzi” divengono, come una cartina tornasole, “il giusto sentimento dell’anima”. La ripetizione (voluta) è il sostitutivo di un impeto straordinario che ancora non si possiede: è l’inesausto tentativo di vittoria sulla potenza attrattiva dell’organo cerebrale che ghermendo intellettualisticamente il pensiero lo traduce e lo riduce al proprio livello. Quando non ci si accontenti di un benefico riassetto della propria struttura e quando non ci si arrenda ad un limite prefissato subco-


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scientemente, la ripetitività e l’insistenza sul tema, dominata l’iniziale ribellione dell’anima, apre le porte a più difficoltose ed ineludibili prove interiori. Gli stati di coscienza non ordinari e le conseguenti esperienze interiori, come Rudolf Steiner ha più volte sottolineato, non presentano carattere di sistematicità e prevedibilità. Diviene ormai indispensabile portare a coscienza e a scioglimento le convinzioni confuse e ingenue: che la dedizione venga automaticamente premiata, che il benessere interiore sia indice di sviluppo, che un’illuminazione improvvisa sia molto di più di un positivo ma sporadico e impermanente episodio, persino che un esercizio fatto bene sia di necessità un esercizio ben fatto. Dunque, gli obiettivi, anche spiritualistici, della brama non devono venir confusi con i severi itinerari allo Spirito, cui l’asceta, seppure liberamente, si conforma con rigore. Da un certo momento ogni residuo intellettualistico viene espulso dall’esercizio della concentrazione: nella coscienza dell’operatore, che ha superato le sabbie mobili degli automatismi nella ricostruzione dell’oggetto interiore, diminuisce la spontaneità naturale a pensare: cresce invece la fatica quando evoca un pensiero. Questa esperienza è per ogni verso rafforzante: pensare diventa “un lavoro da manovale”, per usare le parole di R. Steiner: mettere insieme quattro pensieri non è più immediata sintesi, ma lavoro d’edilizia pesante. Lo sforzo descritto si palesa nella coscienza come uno stato concreto, percepito come intriso di forza e realtà oltre l’immagine contemplata che comunque guadagna anch’essa in chiarezza ed intensità. A fronte di tale fatica interiore la corporeità magicamente impara il riposo o quiete, che nulla ha a che vedere con il cosiddetto rilassamento. Il riposo o quiete cui qui si accenna, è un’esperienza ascetica non collegata ad alcuna particolare positura e persino non subordinata all’immobilità. Sul cammino interiore il discepolo può incontrare una resistenza sottile e potente, che può arrestarlo, poiché su tutta la vita dell’anima si effonde sofferenza. Si deve allora imparare a vivere in questo dolore, si deve accettare che l’essere si colmi di dolore. Non esistono termini per indicarne la natura: si può tentare una caratterizzazione dicendo che la sofferenza di cui stiamo parlando non è acuta o


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localizzata (come per esempio per il mal di testa nel mondo fisico), ma piuttosto totalmente diffusa e insopportabile. Per attraversare tale stato, durante la contemplazione, occorre tempo, affinché maturi, come organo di un essere in via di sviluppo, una qualità che chiameremo decisione estrema, con riferimento al kimé del Budo nipponico, per non confonderla con il coraggio che deve comunque enuclearsi all’opera interiore senza alcun limite personale. Ad un momento imprefissato dell’ascesi, per attimi non convenuti, l’Essere della volontà, remoto all’agonia dell’anima, celato eppur presente all’insistenza dello sperimentatore che contempla l’oggetto di pensiero con attenzione rafforzata perché univoca ed ininterrotta, annulla il legame cerebrale: una corrente di forza e di vita inarrestabile estingue simultaneamente ogni significato umano del tema e l’ordinario senso di sé, lasciando il percepire all’Io reale: il “veggente non veduto” perché mai riflesso. Esperienza di verticalità totale e di semplificazione assoluta: perduto il mondo e noi stessi, rimane il percepire, che ora può contemplare il fondamento: le forze e gli esseri del fondamento, poiché è il fondamento stesso che ora contempla. Il fondamento del contemplare è l’Io, il primo vero sovrasensibile dell’esperienza spirituale possibile all’entità umana contemporanea.


L’illusione del conosciuto spirituale Dedicato ai rappresentanti dell’Edificio

Risulta dall’impressione ricevuta nei più diversi ambiti culturali, dalle sedi mediatiche ai cenacoli filosofici e sapienziali, quanto si sia perduto, nel tempo, circa il significato dei termini nel senso ordinario del linguaggio. Tra questi, un posto di dubbio onore spetta all’uso corrente dato alla parola “conoscenza”. Qui non si allude tanto alla conoscenza di Dio o del segreto ultimo dell’universo quanto al suo più comune uso, e per chiarire inequivocabilmente di cosa si stia parlando vale forse la pena di riportare alcune semplici righe, esenti da occulte interpretazioni. Ecco cosa recita il 1° Articolo dello Statuto del Club Alpino Italiano: «Il Club Alpino Italiano, fondato a Torino nell’anno 1863, per iniziativa di Quintino Sella, libera associazione nazionale, ha per iscopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale». Da quanto sopra dovrebbe apparire evidente che la conoscenza risulta intesa come diretta conseguenza dell’alpinismo, ed in certo qual modo ne specifica la motivazione. Quindi il fattore conoscenza non appare disgiunto dall’attività di base (l’alpinismo), ma proprio in essa trova la sua ragione d’essere. L’Articolo Statutario inoltre, pur affermando per menzione l’importanza dello studio, lo separa dalla conoscenza, nei cui confronti andrebbe utilizzato come valido strumento, non certamente come scopo o fine. Da oltre un secolo nessun alpinista ha sentito il bisogno di modificare l’incipit statutario, perché ha sempre saputo che


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conoscere le montagne significa incontrarle per davvero, esplorarle ed arrampicarvisi: in sintesi un approccio attivo, diretto e concretissimo con la realtà di queste. Al discepolo esoterico viene affidata una missione che, per analogia ad un grado superiore e diverso, non appare granché dissimile. Al ricercatore dello Spirito vengono (generosamente) indicate ampie modalità d’azione o discipline, organiche all’insegnamento quando questo sia veritabilmente fondato nello Spirito, atte a modificare, almeno temporaneamente, il mondo interiore umano in maniera che questo inusitato ordine si trasformi in organo di conoscenza diretta delle realtà che trascendono il vincolo rigido delle categorie sensibili, e che sono le sfere causanti di ciò che sembra limitarsi nell’apparire del manifesto. Tutto questo senza “salti nel buio” ma in continuativa destità di coscienza e progressivo rafforzamento della volontà liberamente determinata dalla scelta dello sperimentatore epperciò dall’unico veridico soggetto. Eppure, quasi a beffa per un tale cammino, certamente severo ma limpidissimo, sono tanti coloro che si presumono ricercatori (e di questo menando eterno vanto), mentre pochissimi seguono l’impeto coraggioso e coerente della sperimentazione. Per il peculiare orientamento di questo lavoro, si considera in particolare quanto avviene nel milieu antroposofico, ma va chiarito che il problema, seppure in diversi termini e forme, si presenta in tutte le correnti di scienza iniziatica domiciliate nel nostro mondo, essendo universale il problema umano di scelta tra verità e menzogna. Sembra che nell’antroposofia (in quanto luogo di anime umane) sia invalsa la paura o un profondo rifiuto alla perturbante idea che vi sia già una Scienza dello Spirito in atto, totalmente indipendente dal nobile ideale di auspicare (soltanto auspicare!) una concezione antroposofica del mondo. Sembra che alle premesse esposte da Rudolf Steiner nelle sue Opere fondamentali sia stato aggiunto un indebito corollario, a guisa di ferale copertura, che mormora: «La Scienza dello Spirito è un ideale al quale è lecito e benemerito aspirare». Da questa sorta di mantra rovesciato discende, quasi mai a livello


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di enunciato ma come un collettivo automatismo morale, una sorta di giudizio che vede pericoloso e deviante qualsiasi atto della coscienza umana che sappia metamorfosare tale aspirazione, realizzandola: ciò in nome della differenza tra potenza e atto in senso aristotelico. A troppi ricercatori appare mistica o mitica o incomprensibile l’essenziale identità tra percepire e pensare, essendo costoro incapaci di distinguere l’esperienza ed il pensare come esperienza superiore nell’esperienza. Se questo primo seme d’identità sfugge, essi si aspettano che la percezione sia qualsiasi cosa, eccetto il pensiero. Infatti percepiscono il mondo (l’esoterismo e le comunicazioni dell’antroposofia sono comprese in tale mondo) ed eruditamente lo pensano: considerando conoscenza il risultato di questo processo, del quale non viene distinta la natura fenomenica. La coscienza dell’essere fenomenico del pensare richiederebbe il decisivo coraggio di smettere di pensare ulteriormente il portacenere o le notizie antroposofiche, per percepire il pensiero quale esso si dà immediatamente. Questa immediatezza, inaccessibile al soggetto antroposofico, buddhistico, magistico o quant’altro, finché riflesso, è l’operazione continuamente proposta nelle Opere di Rudolf Steiner e Massimo Scaligero. Ma se l’operazione proposta viene scambiata per un’ulteriore rappresentazione, essa si aggiunge soltanto a quella nota e inutile accademia di pensati cui possono riferirsi od opporsi risme infinite di ulteriori pensati dettati da un oceano d’istinti. Di solito, al comune ricercatore manca contezza della possibilità di una scienza della natura organica, nella quale la gnoseologia sarebbe il fenomeno primordiale. Nell’itinerario conoscitivo antroposofico il ricercatore continua inerzialmente a utilizzare le categorie di relazione anche dove dovrebbe incontrare la conoscenza stessa come oggetto. Egli applica alla Scienza dello Spirito un primitivo concetto di scienza, tale che soddisfi il fenomeno, cioè la dualità percezione-pensiero, secondo un modello meccanico. Ma un simile concetto, se postulato a priori in una Scienza


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della percezione, sarebbe d’impedimento alla stessa, perché rimanderebbe ad un processo relazionante per nulla discosto dall’ordinario livello del pensiero dialettico. Eppure, persino l’epistemologia contemporanea è giunta ad intuire l’esistenza di un momento in cui percezione, rappresentazione e concetto sono fasi di un’unica dynamis. Perciò il problema non è il dissertare intorno ad un monismo inteso come una Filosofia della Libertà, bensì l’essere in grado di realizzarlo. Purtroppo dove avviene un incontro tra antroposofi, assai raramente si distingue tra scienza e dialettica. Come nella decadenza della Scolastica, si applicano tutti i possibili metodi concettuali a qualsiasi tema, purché ciò che ne risulta non sia altro che un’ulteriore immagine riflessa, a soddisfazione del proprio chaos animico: il volto reale della “cultura” esoterica quando questa non abbia a proprio fondamento vitale la luce flammea dello Spirito nell’anima. Fedeltà, coraggio ma soprattutto un amore inestinguibile. Mancando di queste forze, intelligenza e sapienza non servono a nulla, poiché la loro sostanza celeste è immediatamente ghermita dal possente dio della tenebra: retroscena estrasensibile per l’umano comune ma in particolare per i molti che sanno tutto e di più, eppure non comprendono niente. Una montagna di immagini e deduzioni (impropriamente giustificate come “spirituali”) nutre quelle coscienze sulle quali aleggia, automatica, una illusoria garanzia di miglioramento interiore, poggiante illimitatamente sulle certezze dei testi letti e discussi, sugli elenchi bibliografici, sugli indici ragionati di concetti informativi ecc., che, senza alcun dubbio, garantiscono una ferrea e impenetrabile tutela dai tanti improvvidi e pericolosi cambiamenti e metamorfosi che sono il viatico della vera Scienza dello Spirito.


Il Tempio

Abituarsi a considerare il tempo dedicato alla disciplina interiore (concentrazione e meditazione) un rifugio assolutamente privato, inviolabile: un Tempio. Combinare questo approccio con un intento ferreamente determinato; sarà allora possibile la sintesi dello sforzo con la forma esecutiva perfetta, senza compromessi. Tale sintesi è la condizione necessaria per realizzare uno stato attivo intenso, l’unico che spinga a maturazioni nuove, a concrete capacità interiori. Per portare a buon fine un reale progresso, devono venire soddisfatte le componenti dell’ascesi. Si accenna in questo caso ai provvedimenti etici che educano i moti spontanei rispondenti alle zone estracoscienti del sentire e del volere (per esempio con la pratica dei cinque ausiliari, che tutti sembrano conoscere e che sono per un certo verso la somma dell’intera preparazione al travolgente risveglio cosciente dello Spirito nell’umano), così che nelle successive concentrazioni possa sempre venir tentata una maggiore intensificazione progressiva, senza che risonanze animiche ed esterne arrivino a disfare il delicato tessuto che l’esercizio del pensiero costruisce. Anche se il rinnovarsi delle forze in gioco e la maturazione strutturante di quanto viene coltivato ha luogo fuori, nelle profondità della spontanea immersione nel mondo, il più intenso sforzo cosciente si accende nel Tempio della disciplina. Ogni esercizio di concentrazione non deve essere mai uno dei tanti… ma un’opportunità sacra, irripetibile, per l’interiore attivazione


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della “flamma non urens” che riconduce la debole realtà umana al suo sovrumano Principio. Ciò va ricordato sino nelle membra, prima di ogni esercizio, breve o prolungato o complesso che sia. Cogliere ogni volta l’opportunità di rendere l’esercizio cui ci si accinge, impeccabile, più che perfetto: per forma, sforzo, attenzione. Questo è possibile farlo sempre, fintanto che incentreremo ogni nostro interesse soltanto sull’esercizio che stiamo per fare. Se permettiamo alla mente di scivolare verso altre azioni, altri momenti, o peggio se permettiamo alla memoria di rinnovare il pesantissimo e paralizzante ricordo del già fatto, perderemo l’integrità del tessuto animico, indispensabile per offrire il massimo supporto magico all’esercizio presente. Affrontare dunque un esercizio per volta, di più: un pensiero alla volta come fosse l’ultimo, l’assoluto. Fare di ogni singolo pensiero il veicolo di un ulteriore passo entro il Tempio della disciplina interiore, dove si diviene il Signore dei pensieri. Allora faremo di ogni esercizio svolto un esempio meraviglioso di un mondo interiore disciplinato ed attivo. Facciamolo dunque, e avremo vissuto il momento attuale completamente isolato dal Passato e dal Futuro: dagli errori e dalle ansie. Quando si procede nell’esecuzione dell’esercizio, immergersi soltanto nel momento presente. Si acquisterà così il potere di vivere coscientemente il momento presente anche in molti altri accadimenti della vita: base per una produttività feconda, per l’armonia e la contentezza interiore. Quando si entra nel luogo che si è scelto per il raccoglimento profondo, tutte le questioni non pertinenti all’esercizio interiore vanno abbandonate. Spegnere il cellulare, chiudere porta e finestre, allontanare con accuratezza ogni fonte di disturbo per quanto ciò sia possibile. Isolarsi da tutte le ulteriori distrazioni (oggetti o pensieri) che possono sedurre dove e quando si compie il rito. Se l’invadenza di un impulso “devo assolutamente ricordarmi di


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telefonare a X” è sopraffacente, alzarsi con calma, scrivere su un foglio di carta ciò che sembra improcrastinabile non dimenticare, poi riprendere l’esercizio dall’inizio; non drammatizzare fatti consimili: sono semplici scaramucce. È possibile, giunto il tempo della vera autodisciplina e della maturità, eseguire le operazioni più delicate nei momenti quando i pensieri ed i turbamenti generali sono vicini allo zero, ad esempio nelle ore tributate dagli altri uomini al sonno. Evitare per molto tempo l’approccio sbagliato alle discipline, che si produce inserendole tra due attività assai impegnative. Dedicare a queste il tempo necessario per poter svolgere l’esercizio senza sentire la pressione non necessaria del tempo. Il tempo dedicato all’opera interiore deve essere sentito e voluto come sacro. Quando gravi emergenze costringono all’interruzione del rito, “staccare” con imperturbabilità: ricordarsi, parafrasando i Vangeli, che gli esercizi sono per l’uomo e non viceversa. In fondo l’arte nostra è una sequenza di atti di equilibrio continuamente compromessi e volitivamente ristabiliti. Al contempo gli esercizi devono venir protetti e rispettati: sono momenti in cui ci addestriamo a venire inghiottiti dall’ignoto. Dobbiamo porre un no deciso alle intrusioni della famiglia o del più caro amico. Non farlo mai per adornarsi di originalità o per alienarsi dalla famiglia e dagli amici. Farlo per proteggere ed onorare il sacro, vivente percorso che ci è stato donato, e per l’impegno devoto che ci siamo assunti accogliendolo. Senza una tale convinta applicazione, il nostro fare sarà sempre troppo scarso: cerchiamo di non coltivare illusioni in questa direzione. La vita non è infinita. Se si vuole al meglio, bisogna operare al meglio possibile, su base regolare, per tutto il tempo concesso. Quando si inizia il rito bisogna entrare in un altro mondo: è il Tempio. Farlo su base regolare permette anche al progresso dei nostri sforzi di entrare in un altro mondo.


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