Il sannita mancuniano

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Il sannita mancuniano. Affinità e divergenze tra John Bull e noi Giuseppe Guarino Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla Legge sul diritto d'autore. Caffè News declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge. Prima edizione ebook: 2016 by Caffè News www.caffenews.it


Giuseppe Guarino

Il sannita mancuniano AffinitĂ e divergenza tra John Bull e noi


Indice 0. Prefazione 1. Chiesa di Stato o stato di Chiesa 2. Sui limiti al servizio di bevande alcoliche 3. In Inghilterra non piove mai 4. Energia pulita, accessibilità e trasporto gratuito 5. 'A città d'o pallone 6. I treni vanno a ballare nei musei a pagamento 7. I semafori rossi non sono Dio 8. (un)real Italian food 9. L'ospitalità è sacra 10. Gay friendly o ghettizzazione? 11. Affinità e divergenze tra John Bull e noi


a tutti quelli che ho conosciuto a Manchester, a chi nel Sannio ha aspettato il mio ritorno


Prefazione Ho vissuto un pezzo di 2016 a Manchester dove, tra una lezione e una visita alla città, ho scritto una serie di articoli per Caffè News. Una serie nella quale sono per la prima volta uscito dal circolo vizioso di politica e musica nel quale vado spesso ad incartarmi, mettendo su carta (anzi, meglio, su spazio web) quanto di più personale abbia mai avuto il coraggio di rendere pubblico. È venuto fuori un quadretto interessante sulla Gran Bretagna che, grazie alla disponibilità del direttore Paolo Esposito, ho la fortuna di poter condividere ancora con voi lettori di Caffè News. Questo e-book è dunque il riassunto della rubrica Il sannita mancuniano e, prima di annoiarvi ancora con inutili convenevoli, mi conviene spiegarvi un po' meglio quello che andrete a leggere nelle prossime pagine. L'Inghilterra e l'Italia hanno sempre subito un mutuo fascino, derivato da una serie di aspettative e di immagini non sempre veritiere. Nella mia piccola esperienza ho tentato di verificare. Ho visitato chiese anglicane e cattoliche. Ho sorseggiato birre artigianali nei pub più tradizionali. Ho sfidato la pioggia di Rainchester e mi sono addirittura goduto il sole. Ho viaggiato sui mezzi pubblici. Ho studiato la storia del calcio locale. Sono passato col


rosso ai semafori. Ho bevuto il vino italiano (o presunto tale) peggiore della mia vita. Ho tentato di superare barriere d'ogni tipo. Mi sono sentito un ospite ben accetto, al di lĂ della prima incombente e poi travolgente Brexit. Ho vissuto una meravigliosa esperienza che spero di poter regalare un po' anche a chi leggerĂ queste poche pagine digitali.


Chiesa di Stato o Stato di Chiesa Quando si viaggia si è soliti cogliere le differenze tra il proprio paese e altri e, trovandomi a Manchester per studio, non ho potuto non cogliere certe differenze nella gestione religiosa dello Stato, ovvero nel tribolato rapporto tra Cesare e Dio. Il Regno Unito non è uno stato laico, possiede una religione di stato con immensi privilegi, ma garantisce la libertà di culto. Il legame tra la Corona britannica e la Chiesa Anglicana è sfacciatamente spiattellato dalle bandiere in cima agli edifici religiosi. L’Italia è uno stato laico. Non possiede una religione di stato, ma garantisce la libertà di culto: tutte le religioni sono uguali, sebbene le religioni diverse dalla cattolica siano meno uguali di essa. Allo stesso modo, il legame tra la Repubblica Italiana e la Chiesa Cattolica è talmente forte da essere sfacciatamente spiattellato in scuole, tribunali, ospedali, edifici pubblici… Da una parte c’è una Chiesa di Stato, dall’altra uno Stato di Chiesa. Il fatto è che tra i due modelli, sostanzialmente, cambia poco. Ma uno dei due Paesi ha almeno la decenza di non dirsi laico.


Sui limiti al servizio di bevande alcoliche A Telese Terme, provincia di Benevento, un’ordinanza comunale prevede che non possa essere servito alcol dopo le 22. Molto inglese, come cosa. Per chi come me ha sempre praticato orari britannici pur vivendo nel Sannio non è un problema, ma per gli amanti della vita notturna la cosa si fa dura. Alla base del problema c’è il degrado nel quale la vita notturna della Telese “da bere” si crogiuola, rendendo il comune sannita una piccola discarica di bottiglie di vetro, cicche di sigarette e odoraccio di pisciata libera. Ricordo che qualche anno fa su Sannio Press, blog fondato dall’amico Billy Nuzzolillo, se ne parlava con particolare riferimento al capoluogo beneventano e io intervenni nel dibattito con questo messaggio: I “vip” beneventani e i “cafoni dei paesi” Sannio Press – 24 gennaio 2014 Mi piace la birra. Mi è sempre piaciuta. Amo la Guinness, la nera d’Irlanda per eccellenza. Poi mi piacciono le Weiß, la Paulaner e la Franziskaner su tutte. So anche apprezzare il valore d’una Peroni 0.33 in un giorno d’estate. Da qui a chiamarmi beone ne passa, ma amo il gusto amarognolo della nerambrata con l’arpa e quello un po' acido della gialla-opaca alemanna. Non ho motivo per ubriacarmi, nonostante adori bearmi tra le bianche schiume. Ora, però, spiego meglio dove voglio andare a parare. Su SannioPress, negli ultimi giorni, appaiono continuamente articoli


relativi alla movida beneventana, firmati da Domenico Barone prima e da Giancristiano Desiderio poi. Drammatici, questi articoli vanno a filmare la realtà giovanile delle serate beneventane, sottolineando quegli aspetti di bieca piccola borghesia che emergono dal movimento in centro nei week-end. Gli autori, nei loro articoli non utilizzano, sicuramente per amor di buon gusto, un termine che a Roma sarebbe “coatto” e a Bari “cozzalone”. Il termine, s’è già capito, è “tamarro”. L’invasione dei tamarri è quella che ci preoccupa, è quella che, per citare ancora Domenico Barone, “infesta Piazza Piano di Corte e Piazzetta Vari con la pisciata libera ammorbando i residenti”. Non è solo questione di modi di vestire volgarmente sfarzosi o di musica di pessimo gusto\qualità. Si tratta di mentalità, direi quasi di subcultura. Barone parla della Mollicona che dice che “se non sei al Sayo non sei vip”. E io che, da beneventano di nascita, non ci sono mai stato, me ne frego allegramente di essere “vip” o meno. Tutti invece cercano di essere “vip” e di essere “fashion”. L’occhialino alla moda, il profumo di marca e il gel a quintali. Tutti bamboccioni che fanno “la movida con i soldini di papà”. Giancristiano Desiderio riprende il tema familiare, parlando di quei genitori vittime dei figli, che si trovano a dover sganciare per la voglia di sfarzosa allegria dei rampollini di turno. Penso ai miei amici che lavorano da quando avevano 16 anni, per arrotondare, per non gravare sulla famiglia e pagarsi l’assicurazione al motorino o alla macchina, il cellulare e le ricariche, la pizza una volta ogni tanto e talvolta le tasse universitarie. Ci sono quelli della mia età che hanno fatto di tutto: il cameriere, il meccanico, il muratore, il cantante da piano bar, il marmista… Ma noi della provincia non facciamo testo, noi siamo solo i “cafoni dei paesi” per questi “vip” dall’aria superiore.


Ovviamente a Benevento non ci sono soltanto loro, quelli che con la loro immagine kitsch avvelenano l’ambiente. Ma loro danneggiano l’immagine delle nostre ultime generazioni, nonché la millenaria storia di Benevento. L’abito non fa il monaco, si sa, ma i gesti e le azioni sì. E questi tamarrucci che spaventano l’anziano passante con il “tunz-tunz” nella macchina potenziata a volume sparato, queste aspiranti dollgirl dai tacchi altissimi e i vestiti colorati, mi fanno rabbia che talvolta si trasforma in tenerezza. Loro, eterni Peter Pan che vivono alla giornata sperando di sballarsi e divertirsi il più possibile, perché la vita è una e non vogliono sprecarla a sgobbare, a consumarsi con gli impegni. Molti non studiano e non lavorano, ridendosela di fronte alla studentessa stressata dall’esame di chimica inorganica o a quello che a diciott’anni già sfacchina sopra un’impalcatura, a quei poveri fessi che si svegliano presto la mattina. Ritorniamo dove eravamo partiti, al mio amore per la birra, al gustoso attimo in cui le labbra attraversano la schiuma e si tuffano nel bicchiere, pronte a cogliere la nota amarognola o dolce o aspra. In quell’istante entra nel pub una troupe di tizi da movida che alzano la voce per farsi notare, che chiedono al barista perché non prepara gli “angelo azzurro” e prendono doppiomalto per tutti, che guardano la cover band di Bruce Springsteen e concordano che il rock fa proprio schifo. Ora, vaglielo a spiegare a questi tamarretti chi è Bruce Springsteen, ma anche cos’è un pub. Spieghiamoglielo che la doppiomalto non esiste, è solo un invenzione del legislatore italiano. Escono prima di me, tutti brilli con tre o quattro doppiomalto in corpo, si poggiano sulle macchine, fanno casino. Io guardo la mia Guinness, nella campana ce n’è ancora quasi un terzo. E pensare che è solo la prima. Il mio amico mi guarda in faccia senza parlare, immerge i baffi nella schiuma e svuota il suo bicchiere. È meglio che ci avviamo, che domani ho da studiare.


Ora, giusto per dire un paio di cosette, sono certo che non sia giusto colpire così duramente le attività telesine, specie un paio di pub che negli ultimi anni hanno saputo ergersi dalla massa di quisibeve per diventare qualcosa di più particolare, orientandosi verso una degustazione consapevole delle birre. Alcuni di loro rischiano la chiusura e questo mi dispiace. D’altro canto dobbiamo fronteggiare l’usanza del pub, importata da Inghilterra e Irlanda, dove gli orari sono altri (vivendo a Manchester vedo i pub in piena attività alle 17 del pomeriggio più che a tarda sera) e dove l’ubriachezza molesta viene punita in maniera piuttosto severa. Contrariamente a quando succede in terra italica, dove spesso notte fa rima con anarchia e disprezzo delle regole. In ogni caso, non mi sembra giusto che Telese Terme, comune di riferimento per tutta una valle (e che raccoglie molto anche da altre province) faccia la brutta fine della discarica. Quest’ordinanza può significare due cose: la fine di Telese come centro d’aggregazione e il risorgimento di altri comuni della zona come Solopaca ed Amorosi; la cacciata con famosi sassi e pietre del commissario prefettizio dal comune termale. E l’invocazione di un sindaco politico. Che di questi tempi sarebbe cosa assai strana.


In Inghilterra non piove mai Uno dei più noti luoghi comuni sull’Inghilterra è la pioggia. Sono a Manchester da 15 giorni e c’è sempre stato il sole. Sarà un caso, sarà che me lo sono portato dall’Italia (a Caserta c’è un tempaccio in questi giorni, con tanto di strade allagate e disagi d'ogni tipo. Forza, amici casertani!). Qui, finora, non una goccia di pioggia inglese. Sarà che sono stato lontano da una delle campagne elettorali per le amministrative più combattuta di sempre. Sarà che mentre in Italia volavano gufi, mortizombie resuscitati e insulti di ogni genere io mi godevo il sole ai Piccadilly Gardens. Sarà che la prima tintarella dell’anno l’ho presa oltremanica. Sarà che mi sono goduto una domenica nella vicina Liverpool, il cui mare non sarà bello come il Mediterraneo ma ti aspetti di vedere Jack Sparrow spuntare da un veliero così, da un momento all’altro. Sarà che qui tutto va meglio, sarà che qui ci sono tante possibilità. Sarà che qui anche oggi splende il sole.


Energia pulità, accessibilità e trasporto gratuito Manchester non è una città turistica, ma ha parecchie cose a cui località ben più blasonate dovrebbero guardare. E poi magari prendere esempio. Oggi parliamo dei Metroshuttle. Navette gratuite, ben tre diverse linee, che ogni 8/12 minuti fanno una serie di fermate nel centro della città. Esse fanno praticamente da collegamento tra le stazioni ferroviarie (Deansgate, Oxford Road, Piccadilly, Salford e Victoria) e hanno (almeno in centro) una rete decisamente più capillare del servizio tram della Metrolink. Ma offrono anche qualcosa di più. A bordo, wi-fi gratuito. Ottimo per chi viene qui in vacanza o per brevi periodi e non vuole spendere molto in abbonamenti SIM o connessioni dati. E poi vanno ad energia elettrica. Non diesel, non benzina, non gas. Elettrici. A emissioni zero. Cento punti a Grifondoro… ops.. Manchester. Da quello che so, in Inghilterra non esiste nulla del genere in nessun altra città. Non nella magnetica Londra, non a Birmingham (dove però gli over-60 viaggiano gratis). Scozia, Galles e Irlanda del nord nemmeno rispondono all’appello. In Italia, non saprei. Ma credo proprio di no. Anche se molto spesso, da noi, la gente i mezzi li usa come se fossero gratuiti. Sale


senza biglietto, ricicla lo stesso per più corse non obliterandolo, organizza colorite fughe di massa all’arrivo del controllore. Non parliamo poi della qualità del servizio. Quello gratuito di Manchester batte di gran lunga quelli a pagamento che ho avuto l’onore di provare in Italia per pulizia, ordine, tranquillità, puntualità, cortesia. Ah, a proposito, i Metroshuttle di Manchester hanno tutti la pedana idraulica per favorire l’ingresso degli invalidi. Ma da questo punto di vista è un altro mondo. Il servizio tram (non gratuito) Metrolink ha addirittura progettato le piattaforme delle stazioni d’arrivo e partenza in modo che siano sopraelevate rispetto alla strada, facendo corrispondere l’entrata della carrozza a quella del marciapiedi della piattaforma. Il risultato? Senza bisogno della pedana idraulica, le sedie a rotelle non trovano barriere nell’entrare nel mezzo pubblico. Qualcosa si muove anche da noi. Basti pensare alla decisione della regione Campania che mira a far viaggiare gratuitamente il 95% circa della popolazione scolastica e universitaria, concedendo abbonamenti gratuiti agli studenti con reddito lordo familiare inferiore a 100mila euro. Bello. Ma sarebbe tanto difficile fare quel passo in più? Almeno nei centri delle grandi città. Napoli, Milano, Torino, Bari, Palermo, Firenze. Roma è eccessivamente vasta e forse sarebbe troppo complicato, ma chi può dirlo. Volere è potere.


Abbattere le emissioni di CO2, dare nuova linfa al trasporto pubblico, offrire un servizio utile a tutti e con uno sguardo ai disabili? A Manchester tutto ciò è possibile.


'A città d'o pallone Una delle attrazioni maggiori di Manchester è data dal calcio. Qui hanno sede due top club europei e tutto in città ti ricorda loro. Maglie dei due club praticamente ovunque, possibilità di arrivare con facilità assurda ai due stadi (e relativi musei). Si aggiunga il National Football Museum (gratuito), che raccoglie cimeli riguardanti soprattutto la nazionale inglese, ma non solo. In Italia avremmo Milano, dove le due società però condividono lo stadio con conseguenze talvolta scomode. Sostenitori nerazzurri e rossoneri si trovano a fare insieme il tour del Meazza e a visitare lo stesso museo. Situazione duplicata all’Olimpico, dove purtroppo non esiste nemmeno un tour organizzato. Qualcosa cambierà sicuramente una volta andato in porto il progetto per lo Stadio della Roma di Tor di Valle, sempre che a qualcuno non venga qualche grillo per la testa. E poi la Juventus, che con lo stadio di proprietà è attualmente quanto di più vicino all’esperienza dei club inglesi: tour, museo, hall of fame, megastore. Business. Quello che fa strano è che in Inghilterra gran parte delle società offrono un tour del proprio stadio. E non parlo solo delle big, ossia le due di Manchester, il Liverpool, l’Arsenal e il Chelsea. All’appello non mancano i neo campioni della Premier del Leicester, ma anche club “minori” come Leeds United, Everton, Aston Villa e Fulham, tanto per fare qualche esempio.


Ora, il problema può riguardare il fatto che in Italia gran parte degli stadi siano di proprietà pubblica, oppure la mancanza di prospettiva di gran parte dei club italiani. Lascio a voi il dubbio. Fatto sta che toccare con mano l’erba dell’Old Trafford o lo spogliatoio dell’Etihad è una bella esperienza che non può ripetersi all’Olimpico, al Franchi, a Marassi, al Friuli, al Dall’Ara. O al San Paolo. Ho volutamente lasciato Napoli\il Napoli qui alla fine. Una squadra di sei milioni di tifosi che non permette l’ingresso allo stadio se non per le partite o altri eventi. Una squadra che potrebbe costruire un museo intorno ad uno solo dei calciatori della sua storia, per non parlare dei recenti record di Higuain o delle imprese passate come la Coppa Italia 1961-62 vinta dalla serie B. E niente, Napoli un tour + museo lo meriterebbe tutto. Tant’è che De Laurentiis aveva annunciato diversi anni fa l’apertura di una galleria di cimeli, ma al momento la dichiarazione è rimasta lettera morta. E dunque, tifosi azzurri e società del Napoli, perché no? Non sarebbe bello dare a Napoli un’ulteriore possibilità di turismo? Manchester con l’attrattiva calcistica attira buona parte dei suoi visitatori. Una vera e propria Football City. A Napoli basterebbe una Città d’o pallone.


I treni vanno a ballare nei musei a pagamento Quando diversi anni fa ascoltai per la prima volta Vieni a ballare in Puglia di Caparezza, il mio primo pensiero all’udire la frase “I treni vanno a ballare nei musei a pagamento” andò al Museo di Pietrarsa, dove andai in gita scolastica da bambino e dove ovviamente si paga l’ingresso. Quindi, non appena mi è capitato di visitare il Museum of Science and Industry di Manchester (che ospita alcune meravigliose locomotive e carrozze d’epoca) non ho potuto che ricordare. Esattamente. Perché qui a Manchester i musei pubblici sono gratuiti. Gratuito il Museum of Science and Industry, gratuito il National Football Museum, gratuita la hogwartiana biblioteca John Rylands, gratuito il People’s History Museum, gratuita la Cattedrale, gratuita la chiesa cattolica di St. Mary, gratuita la Manchester Art Gallery. Gratuite tante altre cose che sicuramente mi sfuggono. A pagamento, praticamente, soltanto i due stadi, l’acquario e Legoland. Oppure i tour guidati o speciali add-on. A Liverpool, praticamente lo stesso. Un po’ diverso nelle altre città, ma i vantaggi ci sono quasi ovunque, bene o male. E non è che qui si tratti di museuccoli da quattro soldi.


No. Al contrario. Puliti, organizzati, ricchi. E talvolta (è il caso del Museum of Science and Industry) con dimostrazioni e guide completamente free. Chi vuole lascia un’offerta. Se non la lasci, pazienza. Peace & Love. Nelle chiese, sia anglicane che cattoliche, c’è qualcosa distante anni luce dal Bel Paese. Non vedi sacerdoti o comunque persone che ti chiedono offerte, né gente seduta al banco gadget e souvenir. Tutto è esposto su un banchetto, alla portata di tutti. “Per favore inserire l’importo per i souvenir nella cassetta delle offerte”. Prendi una guida di 2 £ o una cartolina da 50 penny, metti le monete nella cassetta e vai via. Semplice, pratico, civile. Un sistema notato in diverse chiese (sia anglicane che cattoliche), senza che si sia mai visto qualche Jack Mano-lesta infilarsi il souvenir sotto la giacca e far finta di niente. Impensabile da noi. Ma, dico io, ho visitato più musei qui a Manchester che in tutta la mia vita in Italia, il paese con il più vasto patrimonio culturale al mondo. La ragione? Erano gratuiti. Tornando in Campania ai luoghi più vicini a casa mia, sono stato solo una volta in vita mia alla Reggia di Caserta, uno dei monumenti più belli d’Italia. Una sola volta (e per partecipare ad un convegno) alla meravigliosa Chiesa di Santa Sofia a Benevento, che – alcuni non lo sanno nemmeno nel capoluogo sannita – è inclusa nella lista del Patrimonio Mondiale UNESCO nel seriale Longobardi in Italia: i luoghi del potere. Una


sola volta ho visitato il nuovo (nel vecchio, molto più povero, ci ho lavorato 9 mesi) Museo Civico della Ceramica del mio paese, Cerreto Sannita, che ha una delle collezioni di maiolica settecentesca più grandi d’Europa. La ragione di queste mie mancanze? Il biglietto. Che se non è una ragione valida e completa è comunque un deterrente. Tanto è vero che i musei italiani fanno i boom nelle giornate gratis istituite dal ministro Franceschini, e non senza problemi di disorganizzazione. Qui in Inghilterra, invece, coi treni si balla tutti i giorni nei musei gratuiti. E tu, dove vai a ballare?


I semafori rossi non sono Dio Stavolta prendo a prestito da Gino Paoli. Sebbene non abbia un feeling particolare con quest’artista, ho sempre amato l’immagine evocata dal titolo di quel suo album del 1974: I semafori rossi non sono Dio. Ebbene, è proprio quello che vedo qui a Manchester. Quando sono arrivato, da Italiano abituato alla noncuranza di certe regole minori, ho cercato di dare il meglio di me e, da pedone, rispettato in maniera ferrea ogni luce rossa che incontravo per strada. Mi sono sentito un pesce fuor d’acqua. Perché qui i pedoni non lo rispettano mica, il rosso. Macché. Ho visto più rispetto per i semafori in diverse città italiane. E non solo nella posh Milano, nella sofisticata Firenze o nell’imponente Roma. Bensì anche nelle meridionalissime Napoli e Bari. Forse è nei piccoli centri che i pedoni danno il peggio di sé, incuranti del traffico e dei pericoli, ma Manchester è la terza città del Regno Unito dopo Londra e Birmingham (la seconda se si tiene conto dell’area metropolitana Greater Manchester). Passando agli automobilisti, anche qui non è raro imbattersi nel furbo imbecille di turno che sgasando passa col rosso fresco, mettendo in pericolo se stesso e gli altri. Ora, non è che voglia stare a far polemiche inutili e


assurde sui semafori rossi, ma tornando al titolo dell’articolo, essi non sono Dio. Dio è altrove. Sentitelo vicino se credete, cercatelo se siete agnostici, ricreatelo in quello che amate se siete atei. E se i semafori rossi non sono Dio, Dio non è un semaforo rosso, comunque la si pensi. Dio è amore, pace e tolleranza. Non certo odio, violenza e vendetta. Poi chiamatelo come volete. Dio, God, Yahweh, Geova, Allah o Madre Natura che dir si voglia.


(un)real Italian food Ci sono certe cose alle quali noi italiani teniamo particolarmente. L’importanza del calcio non si discute. Guai a chi ce lo tocca. Guai agli spagnoli che dicono che il portiere più forte del mondo è Casillas e non Buffon, guai a tutti quelli che osano dire che Materazzi sbagliò a provocare Zidane nella finale di Coppa del Mondo 2006, guai a chi si scorda che il re delle punizioni a giro è Del Piero e non quel posh di Beckham. Ma c’è un altro argomento sul quale siamo bravissimi a lamentarci: il cibo. Nostro uso e costume, quando siamo all’estero, è di mangiare italiano e poi fare storie su quanto sia scotto un piatto di spaghetti o quanto annacquato un caffè. Ebbene, io non faccio eccezione. Ma proviamo a guardare la cosa da un altro punto di vista. Hai voglia a sbracciarti, a comunicare. Per gli stranieri la vera cucina italiana non è quella originale. Credevo che i degradi italo-americani o teutonici non arrivassero qui in Inghilterra. Mi sbagliavo. E di grosso. Capita spesso di vedere gente che si tuffa in un cappuccino (spesso non cremoso) alle due del pomeriggio. Magari bevendolo accompagnandolo a spaghetti con polpettoni (o meatball, che fa più trendy) rigorosamente spacciati per bolognese e messi nel piatto a far da contorno a un ben più britannico fish and chips. Agghiaggiande, direbbe Antonio Conte.


Il delirio italianofilo non si ferma qui. Prosegue nei supermercati, dove capita di veder collocate nel settore italiano cosette come pizza pepperoni dall’impasto più zuccherato di quello d’una pastiera pasquale; barattoli di Originale Carbonara Sauce fatta di besciamella e minuscoli pezzi di bacon; pasta di grano tenero; Parmigiano Reggiano DOP venduto con il nome generico di parmesan, lo stesso dato anche ad una poltiglia gialla che gli sta di fianco; vini made in chissadove dal nome altisonante che termina spesso in -ino, -ello, -ato. Ti butti allora per strada, dove ti imbatti in chioschetti dalle bandiere tricolore che vendono poi paella spagnola o specialità cinesi. Ristoranti italiani everywhere, ma basta dare un occhio al menù per capirne la vera essenza. Con l’occhio strizzato al mercato locale, non è raro trovare pasta alla quale puoi aggiungere pollo o gamberetti. Magari su una bella amatriciana. Io capisco. La prima regola del marketing è orientarsi al target. Il problema è però spacciare il nuovo prodotto come “originale italiano”. Comprendo dunque bene il fatto che il ristoratore voglia assecondare il suo pubblico, ma qui il rischio è tutto a scapito della tradizione italiana, quella vera. Ammazzata da un immaginario collettivo nel quale sono ormai entrati definitivamente accostamenti assolutamente fuori luogo. Con il pericolo che quando lo straniero venga in Italia non capisca poi la cucina che non ha bisogno della scritta “originale italiano” per essere tale. E arrivare


quindi ad un paradosso: “in Italia si mangia male�. Quindi, un piccolo scontato consiglio. Se venite in Inghilterra fatevi un bacon and eggs, un fish and chips, un pie and mash. Se volete mangiare italiano trovate il modo di cucinarvelo da soli.


L'ospitalità è sacra Di tanto in tanto, in giro su Market Street o comunque nel centro città, capita di imbattersi in tanti signori vestiti di bianco, rosso e nero. Sono le welcome people, un servizio di assistenza, accoglienza e benvenuto in 21 città di tutto il Regno Unito. Un servizio essenziale per i visitatori, scaturito da un progetto privato. E proprio qui sta il bello. Quell’integrazione tra pubblico e privato così necessaria in tempo di spending review e che rappresenta una nuova frontiera nell’ambito dei servizi di accessibilità e, forse, anche del nuovo welfare. Ho chiesto a uno di questi signori di farsi fotografare, ché ho bisogno di materiale per Caffè News, dove sto curando una rubrica riguardante Manchester. Mi ha risposto cortesemente che la loro immagine è tutelata dal copyright e che per contratto non possono farsi immortalare, ma che sul loro sito ufficiale avrei trovato tutte le fotografie che mi fossero servite. E poi due chiacchiere più concrete: “Che ne pensi dell’ospitalità a Manchester?” “Meravigliosa – rispondo – spesso molto meglio che in Italia”. Mi ha guardato strabuzzando gli occhi, ma con quel


pizzico di orgoglio che sprizzava dal petto gonfio. “Really?”, mi fa. “Yes, of course – ribatto – in Italia un servizio così capillare di informazione al visitatore non esiste nemmeno a Roma o a Firenze. Abbiamo gli InfoPoint, ma raramente persone che lavorano tutti i giorni per dare assistenza ai turisti così per strada.” Si adombra un po’, poi replica: “Eppure non l’avrei mai detto. Voi avete le città più belle del mondo: Roma, Firenze, Napoli, Venezia…” E questo, che è il più grande vantaggio che abbiamo, potrebbe essere una delle cose che limita la nostra azione. In quanto, accecati dalla bellezza del Golfo e del Vesuvio, del Colosseo e del Foro Italico, degli Uffizi e di Palazzo Vecchio, della Laguna e di Piazza San Marco, ci adagiamo pigri senza alcuna voglia di migliorare quello che abbiamo. Che è già perfetto, ma ancora perfezionabile. E non lo dico per noi italiani, ma per quelli che vengono dall’estero a vedere i nostri musei e le nostre città. Imitando servizi per il visitatore come le welcome people inglesi, potremmo dimostrare a questi turisti che da noi l’ospitalità è sacra. E non solo a parole.


Gay friendly o ghettizzazione? Devo essere franco. Quando ho sentito parlare per la prima volta di Canal Street e, più in generale, del Gay Village di Manchester, non è che fossi proprio entusiasta della cosa. Non certo per qualche sopita tendenza omofobica che tentava di emergere, bensì per quell’idea di quartiere gay che tanto mi sapeva di ghettizzazione. Nulla di più sbagliato. Rassicuro subito i bacchettoni: camminare tra le vie del Gay Village è come camminare per le strade di qualunque città. Non ti accorgeresti nemmeno che lo stai attraversando se non fosse per le bandiere arcobaleno e le decorazioni che si sporgono vivaci dalle finestre dei locali. E proprio i locali sono la vera anima del quartiere. Musica, festa, colori. Senza problemi e senza distinzioni. Siamo tutti adulti e consapevoli e ciascuno fa quello che vuole rispettando le preferenze altrui. Questo mi ha rincuorato. Perché il Gay Village di Manchester tutto è fuori che un ghetto per froci come tante persone vorrebbero crearne un po’ ovunque. Il Gay Village interpreta al meglio la parte gay friendly che si propone, superando i pregiudizi con qualcosa di assolutamente efficace: fare festa. Che poi, in inglese, il termine gay significa pure “allegro”. Leggero Off Topic: Avevo questo piccolo pezzo in testa da parecchio tempo, ma ho voluto far passare un po’ di tempo dalla strage di Orlando in quanto volevo evitare di sfruttare la tragedia


per del meschino clickbaiting. Ma su Orlando una cosa la devo dire. Non so in Italia, ma nella mia unica messa cattolica mancuniana, il parroco della chiesa di St. Mary – The Hidden Gem dedicò qualche minuto a pregare per le vittime dell’attacco al Pulse. E niente, so che nel frattempo qualche intelligentone ultracattolico del Bel Paese ha praticamente inneggiato al killer Omar Mateen, che avrebbe fatto la volontà di Dio sterminando 49 giovani che non stavano facendo male a nessuno.


Affinità e divergenze tra John Bull e noi Termina così Il sannita mancuniano e, dopo più di un mese di articoli legati alla mia breve permanenza a Manchester, da scrivere è rimasto poco. Ho volutamente lasciato fuori la Brexit, il referendum e tutto il dibattito pre, durante e post. Altrimenti avrei snaturato la rubrica e probabilmente fatto più che notte. Fatto sta che in Inghilterra, a parte per qualche stupidaggine culinaria-sociologica e per l’ovvia mancanza dei miei cari, mi sono sempre sentito a casa. Una casa che odora di fritto dalla mattina alla sera, dal bacon and eggs fino al fish and chips. Una casa che ha la fama di essere più elegante e precisa, ma che talvolta lo è solo di facciata e tiene tonnellate di polvere sotto al tappeto. Una casa che ci ha spesso offerto più opportunità della nostra casa vera, quella dove siamo nati. Affinità e divergenze tra noi e loro ce ne sono a morire, anche perché per una non del tutto nota ragione, tutti gli inglesi adorano il nostro paese. Anche quando pensano che la torre di Pisa si trovi a Roma. O che la carbonara sia una besciamella. O che le gondole veneziane si possano vedere a Sorrento. Gli inglesi impazziscono letteralmente s’imbattono nel nostro tricolore.

quando

Tutta la serie di articoli de Il sannita mancuniano (raccolti


in questo e-book) è servita proprio a questo. A fare un po’ di mente locale sulle affinità e divergenze tra John Bull e noi. Non servono ulteriori commenti e, quindi, vado a spiegare chi è John Bull. È l’emblema nazionale britannico, quel signore col panciotto e il dito puntato (una sorte di padre del ben più noto Zio Sam americano), che incarna l’immagina nazionale del Regno Unito. Dai noi qualcosa di simile è l’Italia Turrita, che con la sua bellezza raffigura lo splendore della patria. Ed eccoci alle affinità e divergenze tra John Bull e noi. Il primo incarna il pacato buon senso, la seconda la raggiante speranza. Le due caratteristiche che hanno fatto grande il Regno Unito e l’Italia, in maniera diversa. Perché il buon senso ti fa vivere meglio, ma la speranza è l’ultima a morire.


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